Il 17 marzo una festività che si poteva e si doveva evitare

Sono completamente d'accordo con questo articolo pubblicato da Oscar Giannino sul Portale dell'Istituto Bruno Leoni, articolo che sottoscrivo in ogni sua parola e che, peraltro, non tocca il tema oramai ineludibile delle falsificazioni storiche del risorgimento.

"Francamente, non sono per nulla antiunitario e secessionista. Ma questa grande insistenza del Quirinale per la festività del 17 marzo non l’ho proprio capita. Non la capisco per almeno tre ordini di ragioni, che vado pianamente a spiegare nella piena consapevolezza di attirarmi facili critiche.
La prima è di ordine storico. Sarà perché la mia cultura di formazione è quella del repubblicanesimo storico, ma dico io dovevamo scegliere proprio la data in cui viene approvato l’articolo unico “Vittorio Emanuele II assume per sé e per i suoi successori il titolo di Re D’Italia”? Un Parlamento che non era nazionale affatto, visto che a quella data all’ex Stato Sardo mancava ancora Mantova in Lombardia e tutto il Veneto, tutto il Friuli e tutto il Lazio? Per tacere poi dell’attuale Trentino Alto Adige, che arriverà sconfitto e annesso 60 anni dopo, al termine della prima guerra mondiale e c’incazziamo pure che la SVP dica di non avere niente da festeggiare? E non abbiamo proprio niente da ridire sul fatto che il Re di Sardegna preferì per non scontentare la sua aristocrazia continuare a chiamarsi Vittorio Emanuele “secondo”, a differenza di quel che aveva fatto Enrico III di Navarra che divenuto Re di Francia divenne Enrico IV perché quella era l’ordinale nazionale, esattamente come fece Giacomo VI di Scozia allorché si chiamò Giacomo I d’Inghilterra? Fate voi, ma a me questa data dice poco, l’Italia era disunita ancora e quel giorno contò innanzitutto per i Savoia, pace all’anima loro e un ballo pieno di simpatia per il loro attuale erede televisivo. Oltretutto, dei 170 mila che votarono per quel Parlamento di duchi e principi su 26 milioni di italiani dell’epoca, 70 mila erano dipendenti statali: sai che festa da ricordare.
La seconda ragione è di ordine culturale. Mi ha molto colpito l’improvvisa levata di scudi verificatasi su media, cultura e accademia, a favore del 17 marzo. Una pressoché unanime e stentorea riprovazione indignata, rispetto a chi obiettava. Un coro di sepolcri imbiancati, tutti intenti a sbandierare unità e tricolore contro i presunti nemici della patria. Che sarebbero, naturalmente, i criptosecessionisti leghisti. Polemica “ignobile”, è arrivato a dire Pierferdinando Casini, che di solito usa termini moderati. In questa trasversalità politicamente sospetta, hanno anche fatto capolino elementi singolari, estremamente significativi della mistificazione in corso. Per dire: nel festival nazionalpopolare per definizione, Sanremo coi suoi 12 milioni di spettatori, la serata dedicata al festeggiamento unitario è stata sparata a tutto schermo l’icona di Antonio Gramsci. Ora dico io se abbiamo avuto nella storia italiana del Novecento un critico tagliente e senza sconti dei limiti e dei fallimenti del processo unitario risorgimentale – in quanto moto al servizio della Corona di ristrette élites borghesi, totalmente fallimentare quanto a soluzione del problema sociale delle campagne e dei bassi ceti – quello è stato proprio lui, Gramsci, che ne ha imbevuto la storiografia egemone e nazionalmarxista successiva all’avvento della Repubblica! Che cos’è successo, d’un tratto l’intera storiografia italiana di sinistra verrà riscritta ed emendata a favore dei Savoia, in nome del “meglio il Re Vittorio che Umberto”?
La terza ragione è che, oltretutto, pur di festeggiare e accontentare il Quirinale e il trasversalismo neopatrio, ci siamo inventato un ponte lungo che ci abbasserà reddito e produttività. Un messaggio assolutamente sbagliato, almeno per me. Tanto che ho brindato, quando Confindustria e tutte le altre associazioni d’impresa l’hanno fatto presente. Respinte tra gli improperi. E il ridicolo è che ho dovuto leggere, sul Corriere della sera, un fondo di Gianantonio Stella in cui si diceva ma quante storie, ci sono Paesi al mondo che lavorano meno di noi e con più feste ma sono più avanti. E questo sarebbe il commento del primo giornalone borghese e produttivo d’Italia? Non so perché, ma mi pare che questa, più che dell’Unità d’Italia, sia l’ennesima festa fatta al buon senso. Come il gatto fa la festa al topo, però."

Tratto da Istituto Bruno Leoni

21 febbraio 2011

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