L'opinione di Oscar Giannino sulla crisi greca


Dunque non dobbiamo ricambiare le ingiustizie, né far del male a nessuno, qualsiasi cosa gli altri facciano a noi.

Platone


"""Non sono un fanatico dell’Europa a tutti i costi. Ho sempre condiviso l’ammonimento che veniva da Chicago all’illusione europea di darsi una moneta unica senza unificare i mercati sottostanti e senza politica comune. Le asimmetrie di costi e produttività sarebbero esplose alla prima crisi seria: è successo da un anno e mezzo. E l’Europa politica sta facendo una brutta figura, altro che europeismo come virtù. A parole, sembra la vittoria della linea rigorista nella quale io credo fermamente, in Italia come per tutti. In realtà, non è affatto così. Dopo le balle raccontate agli elettori greci anni fa, oggi paghiamo il prezzo alla volontà di Berlino e Parigi di non voler dire la verità agli elettori tedeschi e francesi. La nuova esplosione della protesta di piazza ad Atene coincide con la fine del governo socialista Papandreou. A 18 mesi dall’esplosione della crisi dell’eurodebito innescata da un deficit pubblico greco occultato per 15 punti di Pil dal precedente governo conservatore, la colpa della politica e dei cittadini greci ormai non è ormai la più grave. E’ l’Europa politica ad avere una gravissima responsabilità, perché la dilazione e diluizione del problema greco, irlandese e portoghese (con quello spagnolo dietro l’angolo) si deve a una radicale divisione in sede di Eurogruppo, Ecofin e Consiglio Europeo. E la responsabilità di questa divisione è innanzitutto del Paese leader dell’Europa attuale, di quella Germania che per produttività privata e rigore pubblico ha costruito nel precrisi la solida posizione di un’economia che cresce oltre il 4% annuo ed è avviata all’azzeramento del deficit. Tuttavia, ciò non significa affatto che la Germania abbia sempre ragione. Anzi, nella crisi dell’eurodebito la posizione dei tedeschi, e dei francesi che la condividono, ha seminato vento e ora raccoglie tempesta. La Merkel e Sarkozy, all’esplosione della crisi greca, si trovavano con le maggiori banche tedesche e francesi piene di titoli greci, ad alto rendimento e dunque a guadagno facile. I due terzi dell’esposizione pubblica greca era nei loro confronti, mentre le banche italiane erano state giustamente assai più prudenti. Tra novembre 2009 e febbraio 2010, sarebbe stato possibile e anzi necessario avviare la Grecia, d’intesa con il Fondo Monetario, a una ristrutturazione del proprio debito, delle sue scadenze e anche delle sue rate, con una perdita di capitale per le banche prestatrici nell’ordine del 15-20%. Berlino e Parigi hanno rifiutato. In cambio di 105 miliardi di euro prestati dagli euromembri e dal FMI, la Grecia è stata obbligata a una manovra durissima di rigore che l’ha spinta a perdere quasi 6 punti di Pil. Il tasso d’interesse degli aiuti avrebbe dovuto essere compatibile col tasso di crescita del Pil greco, ma per non rimetterci un euro né dei titoli precedenti acquistati da francesi e tedeschi né delle somme prestate, il suo rendimento reale è invece del 5% in più rispetto ai tassi europei. Anche un bambino capisce che, in queste condizioni, comunque la Grecia in recessione non avrebbe potuto onorare né il nuovo debito in scadenza – sono circa altri 145 miliardi di euro entro il 2014 – il cui prezzo sarebbe schizzato alle stelle, né tanto meno gli interessi sugli aiuti ricevuti. E’ puntualmente avvenuto. La Grecia ha subito in questi mesi ben tredici abbassamenti successivi del suo rating, e ormai i suoi titoli decennali pagano il 15% in più rispetto ai Bund tedeschi. Alla Grecia servono oggi altri 110 miliardi, di cui 25-30 da una nuova manovra di rigore che ha fatto saltare il governo Papandreou, e il resto suddiviso tra Europa e Fmi. La crisi ha fatto rischizzare verso l’alto anche i rendimenti pubblici dei titoli irlandesi e portoghesi. Perché il mercato scommette che in nessun modo possa funzionare la strategia franco-tedesca, non rimetterci un euro consentendo alle banche rispettive di disintermediare i titoli greci e rinviare la soluzione finale al 2013, cioè dopo le elezioni tedesche alle quali raccontare che Berlino non paga per gli errori degli altri, e quando finalmente nascerà il nuovo veicolo europeo Esm per fronteggiare con capitali comuni crisi simili. L’ostinazione franco-tedesca è ammantata di rigore, per il quale ogni Paese deve imparare a proprie spese l’equilibrio dei conti. Ma di fatto ha quattro vizi di fondo. Nasce da avidità, mette a serio rischio l’euro – la BCE anche ieri ha giustamente ammonito sui rischi terribili aperti davanti a noi tutti – e ha inoltre scatenato in mezza Europa una più che prevedibile ondata popolare di protesta contro Bruxelles e Francoforte, in nome dell’autarchia e del protezionismo contro stangate fiscali e disoccupazione a vagonate per tutelare quelle grandi banche che in Germania e Francia sono state salvate coi soldi dei contribuenti. In più, il costo del salvataggio greco, portoghese e irlandese dopo un anno e mezzo e le rispettive economie piegate alla recessione è così diventato enormemente più oneroso. E’ stata compiuta una lunga catena di gravi errori, e lo dico pour essendo straconvinto che l’azzeramento del deficit con meno spesa pubblica e meno tasse sia la strada obbligata. Ma non è una strada che si può imporre da un momento all’altro a Paesi affetti da gravi squilibri, mettendoli ancor più in ginocchio al solo fine di tutelare i propri crediti. Si è accentuata la divisione tra un’Europa rigorosa nordica che cresce esportando, e una fascia eurodebole a crescita negativa o stentatissima. Con un euro giunto quasi a un dollaro e mezzo (idem dicasi sullo yuan cinese) che per i tedeschi è ancora sottovalutato ma che per il nostro export è una penalizzazione. L’Italia, proprio per aver evitato col suo basso deficit in questi terribili anni di finire nel mirino dei mercati, ha tutto l’interesse a porsi alla testa in Europa di una soluzione che eviti traumi all’euro ed esplosioni di piazza. Aver previsto che solo dal 2013 chi compra titoli di Paesi a rischio debba comparteciparne ai rischi, è stato come dire al mercato che entro il 2013 gli eurodeboli sarebbero saltati. Per Mario Draghi, alla BCE, non sarà una bella eredità da raccogliere. La soluzione più gusta, sin dall’inizio, era dare ascolto alla richiesta italiana. Se l’Europa vuole diventare politica, questa era l’occasione per coprire almeno parte del vecchio debito pubblico nazionale con emissioni di eurobonds. Altrimenti, se l’euroarea è solo una convenzione monetaria, è giusto che il mercato creda che piuttosto che finire in pezzi alcuni Paesi escano dall’euro, e svalutino tornando alle vecchie monete nazionali. La svalutazione monetaria è un’illusione, come sa bene l’Italia dei tempi della liretta, ma per diventare rigorosi nella finanza pubblica e produttivi nell’economia privata occorrono per Paesi lontani dall’obiettivo riforme talora lunghe nel tempo, non cure da cavallo che lo uccidono."""

18 giugno 2011


Per un approfondimento su come l'Italia sia arrivata al limite del baratro si rimanda al successo editoriale
E. Caruso, L'estinzione dei dinosauri di stato.

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