Prigionieri dei poteri finanziari, che fanno rigore ma non sviluppo
La società è fragile, isolata e eterodiretta. Ma il passo lento del nostro sviluppo segue una solida traccia: valore dell’economia reale, lunga durata, articolazione socio-economica interna, relazionalità, rappresentanza
Fragili, isolati e eterodiretti. In questi mesi la società italiana si è rivelata fragile, isolata e eterodiretta. Nel picco della crisi 2008-2009 avevamo dimostrato una tenuta superiore a tutti gli altri, guadagnandoci una good reputation internazionale. Ma ora siamo fragili a causa di una crisi che viene dal non governo della finanza globalizzata e che si esprime sul piano interno con un sentimento di stanchezza collettiva e di inerte fatalismo rispetto al problema del debito pubblico. Siamo isolati, perché restiamo fuori dai grandi processi internazionali (rispetto all’Unione europea, alle alleanze occidentali, ai mutamenti in corso nel vicino Nord Africa, ai rampanti free rider dell’economia mondiale). E siamo eterodiretti, vista la propensione degli uffici europei a dettarci l’agenda. I nostri antichi punti di forza (la capacità di adattamento e i processi spontanei di autoregolazione nel welfare, nei consumi, nelle strategie d’impresa) non riescono più a funzionare. «Viviamo esprimendoci con concetti e termini che nulla hanno a che fare con le preoccupazioni della vita collettiva (basti pensare a quanto hanno tenuto banco negli ultimi mesi termini come default, rating, spread, ecc.) e alla fine ci associamo, ma da prigionieri, alle culture e agli interessi che guidano quei concetti e quei termini».
Una dialettica politica prigioniera del primato dei poteri finanziari. Era prevedibile che la verticalizzazione e la personalizzazione del potere coltivate negli ultimi vent’anni avrebbero impoverito nel tempo la nostra forza di governo. Si è così creato un deficit politico che ha favorito una logica di polarizzazione decisionale: in basso vince il primato del mercato, in alto il primato degli organismi apicali del potere finanziario. «Ognuno per sé e Francoforte per tutti» sembra il messaggio corrente. «Ma una società complessa come la nostra non può vivere e crescere relegando milioni di persone a essere una moltitudine egoista affidata a un mercato turbolento e sregolato, e affidando la tenuta dell’ordine minimale a vertici e circuiti finanziari ristretti e non sempre trasparenti». Oggi la dialettica politica sembra prigioniera del primato, anche lessicale, della regolazione finanziaria di vertice, che però può esprimere solo una dimensione di controllo, non di evoluzione e crescita. È illusorio pensare che i poteri finanziari disegnino sviluppo. «Perché lo sviluppo si fa con energie, mobilitazioni, convergenze collettive, quindi soltanto se si è in grado di fare governo politico della realtà».
Per uscire dalla crisi, coltivare la lunga durata della nostra linea evolutiva. Il solido «scheletro contadino», metafora in cui ritroviamo l’origine della nostra cultura di continuo adattamento, resta il riferimento della nostra evoluzione sociale. Siamo ancora una realtà in cui vige il primato dell’economia reale, nonostante l’attuale trionfo dell’economia finanziaria. La nostra crescita dell’ultimo mezzo secolo è stata il frutto di processi di sviluppo della soggettività individuale (iniziativa imprenditoriale di piccola e media dimensione, vitalità delle diverse realtà territoriali, coesione sociale, forza economica e finanziaria delle famiglie, diffusa patrimonializzazione immobiliare, radicamento sul territorio del sistema bancario, responsabile copertura pubblica e privata dei bisogni sociali): fattori ancora essenziali per superare la congiuntura negativa e il declinismo. «Potremo superare la crisi attuale se, accanto all’impegno di difesa dei nostri interessi internazionali, sapremo mettere in campo la nostra vitalità, rispettarne e valorizzarne le radici, capirne le ulteriori direzioni di marcia».
Una forte articolazione socio-economica interna.
«La vitalità è sempre tesa al molteplice e la lunga durata si associa progressivamente ai processi di articolazione». Così, alla crisi non ha corrisposto una reazione omogenea, ma una risposta articolata e differenziata. Ci sono le «minoranze attive» che restano fedeli alla sfida imprenditoriale, ma non riescono a trainare il resto della società; i «borghigiani», che hanno scelto di perseguire una più alta qualità della vita; il «ceto medio», impaurito dalla prospettiva di uscire dalla fascia intermedia della composizione sociale; la parte marginale della società, resa ancora più fragile dalla crisi. Nel prossimo futuro potrebbero essere incubati germi di tensione sociale e di conflitto a causa della tendenza all’aumento delle diseguaglianze e dei processi che creano emarginazione.
Lo sviluppo delle relazioni. Il disinnesco delle tensioni passa attraverso l’arricchimento dei rapporti sociali. La lunga durata porta infatti alla differenziazione dei soggetti e dei loro comportamenti, ma la società è fatta di relazioni fra soggetti. È nel binomio «più articolazione, più relazione» che la società italiana può riprendere respiro. Lo si vede nella ricerca di nuovi format relazionali: l’esplosione dei tanti social network, la diffusione di aggregazioni spirituali, la crescita di forme amicali collettive (le crociere, le movide, le sagre), lo sviluppo di aggregazioni capaci di supplire alle carenze del welfare pubblico (asili nido, mense scolastiche, esperienze mutualistiche), la partecipazione comunitaria a livello di quartiere urbano o di area agricola, i borghi risistemati e le medie città di antico prestigio, la tenuta di tutti i soggetti intermedi portatori di interessi o di istanze civili.
La difesa e valorizzazione della rappresentanza. Un sistema che vive nel quotidiano svolgersi dell’articolazione e delle relazioni esprime il bisogno di sedi e meccanismi di rappresentanza, dove le parti possono contribuire ai processi decisionali ai vari livelli. «Il vuoto lasciato nella fascia intermedia della società dalla polarizzazione fra il mercato (e il soggettivismo etico che esso produce) e la verticalizzazione finanziaria (e i suoi spazi astrali, ma non trasparenti) può essere riempito soltanto dalla rappresentanza». Senza il funzionamento della rappresentanza, sociale e politica, la società sarebbe priva di vitalità dialettica e dinamica sociale, oltre che di un indispensabile tessuto socio-politico intermedio.
Italia in sospensione, ma di fronte all’emergenza c’è una responsabilità collettiva pronta a entrare in gioco
Cede la forza della famiglia, risparmio in pericolo, formazione fuori centro, crollo della produttività. Ripartire dall’economia reale, sfruttare l’eccellenza territoriale, allargare l’influenza geoeconomica
Identità plurime e interessi: gli italiani in recupero di serietà. In tempi difficili come quelli attuali, c’è una responsabilità collettiva pronta a entrare in gioco che, come spesso è accaduto nei passaggi chiave della storia nazionale, può essere decisiva nel fronteggiare le difficoltà. Il 57,3% degli italiani è disponibile a sacrificare il proprio tornaconto personale per l’interesse generale del Paese (anche se, di questi, il 45,7% limita la propria disponibilità ai soli casi eccezionali). L’identità italiana è per sua natura molteplice: il 46% dei cittadini si dichiara «italiano»; i «localisti» sono il 31,3% e si riconoscono nei Comuni, nelle regioni o nelle aree territoriali di appartenenza; i «cittadini del mondo», che si identificano nell’Europa o nel globale, sono il 15,4%; i «solipsisti», che si riconoscono solo in se stessi, sono il 7,3%. Ancora oggi i pilastri del nostro stare insieme fanno perno sul senso della famiglia, indicata dal 65,4% come elemento che accomuna gli italiani. Seguono il gusto per la qualità della vita (25%), la tradizione religiosa (21,5%), l’amore per il bello (20%). Cosa dovrebbe essere messo subito al centro dell’attenzione collettiva per costruire un’Italia più forte? Per più del 50% la riduzione delle diseguaglianze economiche. Moralità e onestà (55,5%) e rispetto per gli altri (53,5%) sono i valori guida indicati dalla maggioranza degli italiani. Ed emerge la stanchezza per le tante furbizie e violazioni delle regole. L’81% condanna duramente l’evasione fiscale: il 43% la reputa moralmente inaccettabile perché le tasse vanno pagate tutte e per intero, per il 38% chi non le paga arreca un danno ai cittadini onesti.
L’erosione del modello di sviluppo fondato sulla famiglia. Il modello italiano della famiglia polifunzionale inizia a mostrare segni di debolezza, con riferimento alla patrimonializzazione e alla solidarietà intergenerazionale. È vero che all’82% di famiglie italiane proprietarie della loro abitazione corrispondono percentuali molto più basse negli altri Paesi europei: nel Regno Unito si raggiunge il 70% circa, quasi il 60% in Francia e il 45% in Germania. L’attivo finanziario delle famiglie, al netto dei debiti, ammonta al 175% del Pil, quota maggiore che in Francia (131,5%), Germania (125,2%), Spagna (77,5%). Ma in valore assoluto c’è stata una erosione significativa di questo patrimonio, passato dai 3.042 miliardi di euro del 2006 a 2.722 miliardi (-10,5% in valori correnti, -16,3% in valori reali). Se all’inizio degli anni ’80 il reddito da lavoro, soprattutto dipendente, era il 70% del reddito familiare complessivo, nel 2010 tale quota si è ridotta fino al 53,6%.
La reputation all’estero meglio dell’autostima italiana. Siamo uno dei Paesi al mondo dove è più forte lo scarto tra quello che all’estero si pensa di noi e la reputazione che noi stessi attribuiamo all’Italia. Nella classifica della percezione internazionale ci collochiamo in 14ª posizione, prima di Regno Unito, Spagna, Francia e Stati Uniti. Perdiamo 2 posizioni rispetto al 2009, nulla di paragonabile al downgrading di Spagna, Irlanda e Grecia, che hanno perso rispettivamente 5, 6 e 7 posizioni. L’Italia si colloca in alto per lo stile di vita, l’ambiente, la relazionalità, mentre non primeggia per il livello avanzato dell’economia o per i fattori di sostegno allo sviluppo. Ma nella classifica della reputazione interna del proprio Paese, il nostro posizionamento è decisamente peggiore: eravamo al 26° posto su 33 Paesi esaminati nel 2009, scivoliamo fino al terz’ultimo posto su 37 Paesi nel 2011.
La rivincita della razionalità sull’emozione. Da una recente ricerca del Censis sulla popolazione con più di 50 anni emergono le basi profonde dell’identità: al primo posto l’esperienza del singolo (44,6%), seguita dall’eredità culturale familiare (43,2%) e dal carattere (42,3%), mentre raccolgono percentuali irrisorie categorie come la classe socio-economica (4,5%), l’appartenenza religiosa (3,7%), politica (1,1%), etnica (0,2%). Dopo anni di emotività confusa, il primato della ragione e dell’esperienza si traduce anche in un nuovo atteggiamento verso la politica. Gli eccessi del passato danno meno presa all’adesione per simpatia, fascinazione e carisma. Si chiede una classe dirigente di specchiata onestà sia in pubblico che in privato (59%), che i leader siano preparati (43%), illuminati da saggezza e consapevolezza (42,5%).
Il deficit di classi dirigenti. Nel nostro Paese i vertici decisionali si sono ridotti di oltre 100.000 unità tra il 2007 e il 2010, passando da 553.000 a 450.000, cioè dal 2,4% al 2% del totale degli occupati. Sono una fascia sociale fortemente maschilizzata: le donne sono solo un quinto del totale e la loro incidenza tende a diminuire (dal 21,4% al 20,1%). Gli under 45 rappresentano meno del 40% (mentre sono quasi il 60% degli occupati totali). La quota dei laureati (36,4%) è poco più del doppio di quella riferita all’occupazione totale, ma decisamente inferiore a quella delle professioni specializzate. Poche donne, età media elevata, qualificazione formativa non eclatante: tre caratteristiche che, insieme alla contrazione della dimensione complessiva, indicano che la debolezza delle classi dirigenti è un fenomeno attribuibile non esclusivamente ai comportamenti dei vertici più elevati, ma che si estende all’intero strato sociale di riferimento, il cui isterilimento è più grave dell’inadeguatezza delle leadership apicali, perché riduce le stesse possibilità di ricambio.
La parabola declinante della produttività. Mentre nell’ultimo decennio gli occupati sono aumentati del 7,5%, il Pil è cresciuto in termini reali solo del 4%. Germania e Francia hanno registrato una crescita del Pil rispettivamente del 9,7% e dell’11,9%, che si è accompagnata a incrementi occupazionali rispettivamente del 3% e 5,1%. Anche un Paese come la Spagna, che nel decennio è stato protagonista di un boom occupazionale senza precedenti (+14,5%), ha visto aumentare il Pil in misura più sostenuta dell’Italia (+22,7%). Si è ridotta la nostra capacità di generare valore. La produttività oraria è andata progressivamente calando. Nel 2000, fatto 100 il livello di produttività medio europeo, l’Italia presentava un valore pari a 117, sceso nel 2010 a 101, molto lontano da quello dei nostri principali competitor: 133 la Francia, 124 la Germania, 108 la Spagna, 107 il Regno Unito. Tale dinamica è stata condizionata dalla qualità della crescita occupazionale degli ultimi anni, con un aumento dei lavori a bassa o nulla qualificazione a scapito di quelli più qualificati. Dei 309.000 nuovi posti di lavoro nell’ultimo quinquennio (saldo tra posti persi e creati), 297.000 hanno riguardato figure professionali addette alle vendite e 226.000 lavori non qualificati. Ai vertici della piramide sono diminuiti dell’11,5% gli imprenditori e le figure dirigenziali, mentre sono aumentati solo debolmente i liberi professionisti (+2,7%), le figure tecniche intermedie (+3,8%) e quelle amministrative (+0,4%). Nell’ultimo quinquennio il valore della produzione industriale si è ridotto in modo omogeneo (-10% circa) in tutti i principali Paesi europei (ad eccezione della Germania), ma è cresciuto quello dei servizi (+7,8% nella media Ue). A trainare è stata la crescita delle attività di intermediazione finanziaria e creditizia e dei servizi alle imprese: +10,5%. Ma in Italia il valore aggiunto dei servizi è invece aumentato pochissimo (+1,3%), con una flessione nel commercio e turismo (-2,4%) e una crescita inadeguata nel terziario avanzato, settore chiave dell’economia globale: +3,5% contro +6,4% in Francia, +10,9% nel Regno Unito, +11,2% in Spagna, +12,2% in Germania.
Un sistema formativo fuori centro. L’iscrizione alla scuola superiore è un fenomeno generalizzato, ma il tasso di diploma non riesce a superare la soglia del 75% dei 19enni. Se poi circa il 65% dei diplomati tenta ogni anno la carriera universitaria, tra il primo e il secondo anno di corso quasi il 20% abbandona gli studi. Il tasso di occupazione per i laureati è del 76,6%, all’ultimo posto tra i Paesi europei (media Ue 27: 82,3%). Con la crisi, l’appetibilità e la richiesta di laureati nel mercato del lavoro è addirittura diminuita. E difficilmente i giovani sono chiamati a coprire ruoli di responsabilità in tempi brevi, iniziando i percorsi professionali, nella maggioranza dei casi, al di sotto delle loro competenze: il 49,2% dei laureati 15-34enni e il 46,5% dei diplomati al primo impiego risultano sottoinquadrati.
Segnali di deterioramento nei servizi. I cittadini e le imprese si trovano a fare i conti con un sistema dei servizi che mostra evidenti segnali di criticità. Il trasporto pubblico locale soffriva già di una grave inadeguatezza dell’offerta. Tra il 2007 e il 2010 i passeggeri trasportati dai bus urbani sono aumentati dell’1,8%, mentre i posti/km offerti sono diminuiti del 2,5%; nelle ferrovie regionali e metropolitane +10,2% di passeggeri e -0,8% di posti. Ma nel 2011 il trasporto pubblico ha subito mancati trasferimenti in attuazione dell’accordo Stato-Regioni, con queste ultime costrette ad aumentare le tariffe e a ridurre i servizi. Nel triennio 2008-2011 la scuola ha subito una riduzione di circa 57.000 docenti, a fronte di 76.000 alunni in più. E le risorse per l’attuazione dei Piani di offerta formativa si sono ridotte dai 48 milioni di euro del 2010-2011 ai 12 milioni dell’anno scolastico in corso. Nel comparto sicurezza si risente del taglio ai fondi per la manutenzione dei veicoli della polizia e per il carburante, scesi da 80 a 40 milioni di euro. Nelle politiche sociali si assiste alla riduzione tra il 2009 e il 2011 del 65,6% del Fondo nazionale per le politiche sociali e all’azzeramento del Fondo nazionale per la non autosufficienza.
Mettere a frutto la ricchezza familiare. Il rapporto tra la ricchezza netta delle famiglie e il reddito disponibile è elevato e in crescita: era pari a 7,4 volte nel 1999 ed è salito a 8,8 volte. Ma l’afflusso di nuove risorse è in forte restringimento, perché nell’ultimo quinquennio la propensione al risparmio delle famiglie si è ridotta. Nel 2010 il valore dei servizi resi alle famiglie dalle abitazioni di proprietà direttamente abitate ha raggiunto i 125 miliardi di euro, corrispondenti al 12,3% del reddito disponibile e all’8,1% del Pil. Cresce il valore dello stock di abitazioni possedute, stimato in oltre 4.800 miliardi di euro, con un incremento che sfiora il raddoppio (+93% nominale) nell’arco di un decennio. Una quota di questo incremento è attribuibile all’effetto dei prezzi, ma una quota rilevante è il risultato della scelta delle famiglie di destinare all’investimento in abitazioni una parte consistente dei propri risparmi. Ulteriori 1.000 miliardi di euro sono rappresentati dalle altre attività reali (oggetti di valore, terreni, fabbricati non residenziali e beni produttivi). Le attività finanziarie si aggirano intorno ai 3.600 miliardi di euro. La ricchezza netta complessivamente posseduta dalle famiglie è così cresciuta del 22% in termini reali nel decennio 1999-2009.
La forza dell’export per la ripresa industriale. In un quadro economico stagnante, le esportazioni sono una delle poche variabili in crescita: +15% nel 2010 e +16% nel primo semestre del 2011. Il saldo della bilancia commerciale nel manifatturiero è in attivo a metà del 2011 per oltre 10 miliardi di euro. A gennaio del 2011 l’indice del fatturato industriale è cresciuto in termini tendenziali del 5% in Italia e del 14% sull’estero, a luglio del 6% in Italia e del 10% sull’estero. Gli stessi distretti industriali registrano dalla metà del 2010 un incremento delle esportazioni: +16,3% tendenziale nel primo trimestre del 2011 e +12,9% nel secondo trimestre.
Allargare l’influenza geoeconomica italiana. La ripresa dalle pesanti conseguenze della crisi finanziaria può avvenire anche attraverso una progressiva riconfigurazione della mappa della presenza italiana all’estero. Oggi l’interscambio dell’Italia con i Paesi del Mediterraneo, dei Balcani e del Golfo ha una dimensione di 55 miliardi di euro, di cui le esportazioni sono pari a 30 miliardi. Ma anche Paesi come il Messico, il Perù, la Corea del Sud e la Malesia, la cui accessibilità è valutata in 10-16 ore di aereo, segnalano ulteriori opportunità che finora sono state sottostimate, viste le attese di crescita e il peso relativamente ridotto del nostro export in quelle zone.
L’eccellenza dell’economia di territorio: food e buon vivere. Sull’agricoltura la crisi ha avuto un impatto minore rispetto al resto del sistema economico. Tra il primo semestre del 2008 e il primo semestre del 2011 la flessione del valore aggiunto agricolo è limitata allo 0,9%, a fronte del -13,8% dell’industria e del -1,5% dei servizi. Tra il 2000 e il 2010 la dimensione media delle aziende è aumentata del 44,4% (da 5,5 a 7,9 ettari di superficie agricola utilizzata). C’è stata una forte contrazione nel numero delle microimprese (508.000 in meno quelle con una superficie inferiore a un ettaro: -50,2%), mentre è cresciuto il segmento delle imprese con più di 20 ettari (13.000 aziende in più: +10,7%). Ed è migliorata la produttività: le giornate di lavoro per azienda sono aumentate del 16,7% (da 141 a 165) e le giornate di lavoro per persona del 10,9% (da 64 a 71). L’Italia è il Paese europeo con il maggior numero di prodotti agroalimentari di qualità con denominazione protetta: 219, il 22,1% di tutti quelli riconosciuti in ambito comunitario. Ai marchi Dop e Igp associati a prodotti ortofrutticoli, formaggi, oli e preparazioni di carni, si affiancano le 518 denominazioni in ambito vinicolo (56 Docg e 339 Doc, per un totale di 215.000 ettari di vigne e 158.000 produttori, e 123 Igt, per 147.000 ettari e 159.000 produttori).
Valorizzare il contributo degli immigrati. Sono oltre 4,5 milioni gli stranieri che vivono in Italia, e le previsioni dicono che nei prossimi 10 anni arriveranno a 7 milioni. Quelli che lavorano regolarmente sono più di 2 milioni, impiegati prevalentemente nei servizi (59,4%), nell’industria (19,5%), nelle costruzioni (16,7%), in agricoltura (4,3%). I titolari di impresa nati all’estero mostrano, anche in questi anni di crisi, una vitalità sconosciuta ai nostri connazionali: dal 2009 al 2011 sono aumentati del 10,7%. Attualmente rappresentano il 10,7% dei piccoli imprenditori, ma a Prato sono il 38,9%, a Firenze il 21,5%, a Milano il 20%, a Trieste il 18,6%, a Roma il 16,9%. Particolarmente presenti in alcuni settori: le costruzioni (il 20,2% degli imprenditori attivi) e il commercio al dettaglio (18,1%). E le donne sono protagoniste: oltre 77.000 imprenditrici straniere (il 21,8% del totale).
Nuovi format relazionali. Oggi sono profondamente cambiate le tipologie familiari. Nell’ultimo decennio l’Italia ha perso 739.000 coppie coniugate con figli (-8%), sono aumentare di 274.000 unità le coppie non coniugate con figli, le famiglie monogenitoriali (345.000 in più: quasi +19%) e i single (quasi 2 milioni in più: +39%) Una pluralità di reti relazionali tiene insieme la società italiana. Le reti di prossimità: il 43,4% degli italiani definisce il vicinato una comunità in cui tutti si conoscono, si frequentano e si aiutano. Le reti dell’aiuto: svolge attività di volontariato oltre il 26% degli italiani (più di 13 milioni di persone, per oltre 351 milioni di ore mensili), di cui il 76% con regolarità, e più del 32% degli italiani (15 milioni) dichiara di aver fatto donazioni a organizzazioni. Le reti che creano servizi suppletivi rispetto al welfare tradizionale: quasi 6 milioni di persone sono coinvolte in forme di mutualità in sanità, con circa 10 milioni di beneficiari. Le reti di relazionalità di tipo conviviale: sono circa 11.700 le iniziative locali come sagre, feste, manifestazioni di vario tipo che si svolgono annualmente nel nostro Paese, e 7,1 milioni di persone tra 18 e 44 anni frequentano locali almeno un paio di volte la settimana. Le reti basate su piattaforme tecnologiche: i social network coinvolgono il 31% degli italiani, sono 16 milioni gli utenti di Facebook, 6 milioni utilizzano Skype (di cui 1,6 milioni tutti i giorni), 1,1 milioni Twitter.
«Processi formativi»
Giovani e dispersione scolastica: meno abbandoni, più differenziazioni territoriali, più scoraggiamento. Ancora lontani dall’obiettivo europeo di giungere nel 2020 a una media del 10% di early school leavers, in Italia tale fenomeno si sta però lentamente riducendo. Nel 2010 la quota di giovani 18-24enni in possesso della sola licenza media e non più inseriti in percorsi formativi è scesa dal 19,2% al 18,8%, con varia intensità in tutte le aree del Paese, ad eccezione del Centro che rimane l’area dove tale indicatore è più contenuto (14,8%). Per il fenomeno dei giovani Neet, ovvero dei giovani che non studiano e non lavorano, l’Italia detiene un ben triste primato a livello europeo. La quota di Neet 15-29enni ha ripreso a crescere con l’inizio della crisi economica, attestandosi nel 2010 al 22,1% rispetto al 20,5% dell’anno precedente.
La debolezza strutturale della filiera professionalizzante. L’ultima riforma del sistema scolastico ha dato un nuovo slancio agli istituti tecnici che, supportati anche da un attivo interessamento da parte della rappresentanza imprenditoriale, registrano nel corrente anno scolastico un incremento dello 0,4% di iscrizioni al primo anno rispetto al 2010-2011 (dati riferiti alla sola scuola statale). Il rinnovato appeal non si estende agli istituti professionali, che nello stesso periodo hanno perso il 3,4% di neoiscritti. Nel 2011 le richieste di personale con la sola qualifica professionale sono aumentate, passando dall’11,7% del totale nel 2010 al 13,5%. Ma i giovani che si rivolgono ai percorsi triennali di istruzione e formazione professionale costituiscono solo il 6,7% del totale degli iscritti al secondo ciclo di istruzione, pari a circa 38.000 studenti.
Quale futuro per l’educazione degli adulti? La partecipazione all’apprendimento permanente della fascia di popolazione italiana compresa tra 25 e 64 anni sembra aver interrotto il trend di sia pur moderata crescita, attestandosi nel 2009 al 6% e risalendo debolmente l’anno successivo al 6,2%, a fronte di una media europea del 9,1% nel 2010 e della soglia del 15% posta dalla strategia Europa 2020. Tra il 2009 e il 2011 la quota di risorse assegnate della legge 440 del 1997 si è ridotta del 43,9%. L’istruzione degli adulti sembra essere stata relegata a un ruolo sempre più marginale: la relativa voce di spesa è diminuita di ben 72 punti percentuali, passando dai 16 milioni di euro del 2009 ai 4,4 milioni del 2011.
Dati e fatti, poco noti, dell’università italiana. Le risorse intercettate dai dipartimenti e dai centri di ricerca italiani nel triennio 2008-2010 evidenziano un buon dinamismo: sono state raccolte risorse complessive superiori ai 550 milioni di euro. L’86,6% delle risorse proviene dalla partecipazione a bandi di gara europei (VI e VII Programma Quadro), mentre il restante da finanziamenti di organismi internazionali o dal mondo privato. Sugli oltre 3.000 dipartimenti esistenti, circa un terzo in ciascuno degli anni considerati ha generato opportunità di fund raising in partenariato per i grandi bandi europei o lavorando direttamente sul mercato. Quasi il 20% delle risorse acquisite nel triennio 2008-2010 afferiscono all’area delle scienze mediche (18,7%), al secondo si posiziona l’area ingegneristica e architettura con il 17,3%, al terzo i saperi delle scienze di base (matematica, fisica, ecc.: 15,9%) e al quarto l’area dell’ingegneria industriale e dell’informazione (15,6%). All’ultimo posto, con oltre 4 milioni di euro, si collocano le scienze giuridiche (0,8%).
Luci e ombre della mobilità. La partecipazione italiana alla mobilità transnazionale necessita di essere ulteriormente spinta e agevolata. Il 12,1% dei giovani di età compresa tra 15 e 35 anni che dichiarano di aver soggiornato o di essere all’estero per istruzione e formazione è al di sotto della media europea (15,4%) di oltre 3 punti percentuali, posizionandosi al quart’ultimo posto della graduatoria europea. Il valore è ben lontano dal 27,8% e dal 23,6% di austriaci e svedesi. Se mediamente il 65,7% dei giovani europei e delle loro famiglie ha finanziato la propria mobilità con fondi privati o con risparmi personali, ciò è avvenuto nel 68,7% dei casi in Italia e addirittura in misura superiore al 70% negli altri principali Paesi presi a confronto: Regno Unito (71,1%), Germania (72,3%) e Francia (72,4%).
Lavoro, professionalità, rappresentanze
Il futuro incerto della ripresa occupazionale. La frenata della crisi nel 2010 (bruciati 153.000 posti di lavoro, contro i 380.000 del 2009) e i dati positivi per il 2011 (+0,4% gli occupati nel primo semestre) fanno sperare in una chiusura d’anno con segno positivo. Viene meno la capacità di tenuta dell’occupazione a tempo indeterminato. Dopo due anni di tendenziale stabilità, si riduce dell’1,3% nel 2010 e dello 0,1% nel primo semestre del 2011. Si segnala però una crescita significativa del lavoro a termine (+1,4% nel 2010 e +5,5% nei primi sei mesi del 2011) e del lavoro autonomo (dopo cinque anni di contrazione, nel 2010 c’è una prima tiepida crescita: +0,2%). La crisi ha colpito il mercato del lavoro in modo molto differenziato. Tra il 2007 e il 2010 è aumentata l’occupazione straniera (quasi 580.000 lavoratori in più, di cui circa 200.000 nell’ultimo anno, con un incremento complessivo del 38,5%), mentre quella italiana ha registrato la perdita di 928.000 posti di lavoro (-4,3%), di cui 335.000 nell’ultimo anno. I più colpiti sono stati i giovani. Tra il 2007 e il 2010 il numero degli occupati è diminuito di 980.000 unità, e tra i soli italiani le perdite sono state oltre 1.160.000. Di contro, nelle generazioni più mature i livelli occupazionali non solo sono stati salvaguardati, ma sono addirittura aumentati: +7,2% l’occupazione tra i 45-54enni e +12,9% tra i 55-64enni.
Il doppio binario della sostituzione nel lavoro manuale.
Mentre il mercato è sempre più incapace di garantire sbocchi professionali, i mestieri manuali sembrano non conoscere crisi. Terreno d’occupazione per 8.383.000 lavoratori (il 36% del totale degli occupati), anche nel 2011 sono stati i più richiesti. A fronte di quasi 600.000 assunzioni previste dalle aziende, ben 264.000 (il 44,4%) hanno interessato lavori di tipo manuale: artigiani e operai specializzati (20,3%), operai conduttori di macchine e impianti (11,7%), mestieri non specializzati (12,4%). Lavoratori in campo edile (per il 2011 sono previste circa 57.000 assunzioni, il 9,6% del totale), addetti alle pulizie (44.000), meccanici e montatori (17.000), magazzinieri (11.000): sono queste le professioni più ricercate dalle aziende, per le quali tuttavia le imprese lamentano difficoltà di reperimento, visto che sarebbero circa 50.000 (il 19% del totale) le posizioni di lavoro considerate di difficile copertura. È così che negli anni è avvenuto un vero e proprio processo di sostituzione tra italiani e stranieri in molte professioni manuali. Tra il 2005 e il 2010, a fronte di un crollo dei lavoratori italiani occupati in professioni manuali (-842.000, -11%), si registra un aumento praticamente identico dei lavoratori stranieri (+725.000, +83,8%), la cui incidenza passa dal 10,2% al 19% del totale.
Giovani al centro della crisi. In Italia l’11,2% dei giovani di 15-24 anni, e addirittura il 16,7% di quelli tra 25 e 29 anni, non è interessato né a lavorare né a studiare, mentre la media europea è pari rispettivamente al 3,4% e all’8,5%. Di contro, da noi risulta decisamente più bassa la percentuale di quanti lavorano: il 20,5% tra i 15-24enni (la media Ue è del 34,1%) e il 58,8% tra i 25-29enni (la media Ue è del 72,2%). A ciò si aggiunga che tra le nuove generazioni sta progressivamente perdendo appeal una delle figure centrali del nostro tessuto economico, quella dell’imprenditore. Solo il 32,5% dei giovani di 15-35 anni dichiara di voler mettere su un’attività in proprio, meno che in Spagna (56,3%), Francia (48,4%), Regno Unito (46,5%) e Germania (35,2%).
Il ciclo inverso del sommerso. A partire dal 2008, a fronte di un calo generalizzato dell’occupazione regolare (-4,1%), quella informale è aumentata dello 0,6%, portando il lavoro sommerso al 12,3% del totale nel 2010 (era l’11,6% nel 2003). Tra il 2008 e il 2010 nell’industria (settore che ha registrato le maggiori perdite occupazionali) c’è stata una contrazione del 10,5% del lavoro regolare e una crescita di quello sommerso del 5,5%. Il livello di irregolarità è passato dal 17,9% al 18,7% nel settore del commercio, delle riparazioni e del turismo, e dall’8,8% al 9,6% nei servizi immobiliari e avanzati alle imprese.
La mobilità che non c’è, questione di cultura e non di regole. I giovani sono oggi i lavoratori su cui grava di più il costo della mobilità in uscita. Nel 2010, su 100 licenziamenti che hanno determinato una condizione di inoccupazione, 38 hanno riguardato giovani con meno di 35 anni e 30 soggetti con 35-44 anni. Solo in 32 casi si è trattato di persone con 45 anni o più. L’Italia presenta un tasso di anzianità aziendale ben superiore a quello dei principali Paesi europei. Lavora nella stessa azienda da più di dieci anni il 50,7% dei lavoratori italiani, il 44,6% dei tedeschi, il 43,3% dei francesi, il 34,5% degli spagnoli e il 32,3% degli inglesi. Tuttavia, solo il 23,4% dei giovani risulta disponibile a trasferirsi in altre regioni o all’estero per trovare lavoro.
Orari e clima di lavoro in tempo di crisi. Nell’ultimo triennio i tempi di lavoro si sono sempre più ridotti, passando dalle 40 ore settimanali del 2007 alle 39 del 2010. È cresciuto significativamente anche il ricorso al part time, aumentato nello stesso arco di tempo dell’8,7%, portando l’incidenza di questa formula occupazionale dal 13,6% del 2007 al 15% del 2010. A crescere è stata soprattutto la quota di part time involontario: la maggioranza (il 49,3%) è costretta a lavorare part time perché non trova un lavoro full time, mentre solo per il 40,2% si tratta di una scelta volontaria.
Il sistema di welfare
La sanità e il rischio di una sostenibilità solo finanziaria. Nel periodo 2001-2010 le Regioni con Piano di rientro hanno registrato un incremento della spesa del 19% contro il +26,9% del resto delle Regioni. Nel 2006-2011 hanno subito una riduzione della spesa in termini reali dello 0,6%, mentre le altre Regioni hanno avuto un aumento di oltre il 9%. Spicca il contenimento della spesa in Sicilia (-10% nel periodo 2006-2010), Abruzzo (-4,4%), Lazio (-3%) e Campania (-1,9%), che hanno siglato i rispettivi Piani di rientro nel 2007. Ma la cura a cui è sottoposto il Servizio sanitario non sta generando effetti positivi secondo i cittadini. Nell’ultimo biennio i dati dell’indagine Forum per la Ricerca Biomedica-Censis indicano che è solo l’11% a ritenere migliorato il servizio sanitario della propria regione, quasi il 29% ha registrato un peggioramento e circa il 60% una sostanziale stabilità. Il futuro della sanità per i cittadini è segnato da alcune paure: un’accentuazione delle differenze di qualità tra le sanità regionali (35,2%), che l’interferenza della politica danneggi la qualità della sanità (35%), che i disavanzi rendano indispensabili robusti tagli all’offerta (21,8%), che non si sviluppino le tipologie di strutture e servizi necessarie, come l’assistenza domiciliare territoriale (18%), che l’invecchiamento della popolazione e la diffusione delle patologie croniche producano un intasamento delle strutture e dei servizi (16,3%).
Salute, il genere conta. Le donne dichiarano condizioni di salute buone in quote sistematicamente inferiori ai maschi, mentre più spesso affermano di soffrire di due o più malattie croniche. La maggiore consuetudine tra donne e malattia ha a che vedere anche con l’impegno nel lavoro di cura, visto che i caregiver sono soprattutto donne. Nel caso dell’ictus si arriva al 75,7% dei casi, con importanti differenze di età, laddove i pazienti maschi hanno più spesso caregiver mogli (54,3%), mediamente più anziane, mentre le pazienti donne sono assistite per lo più dai figli (55,9%). Le caregiver mogli tendono a sobbarcarsi il carico assistenziale da sole, e ne pagano spesso il prezzo in termini di problemi psicologici e di salute, mentre le figlie trovano con maggiore frequenza sollievo e aiuto da una badante.
Comuni sull’orlo del default sociale. 6,7 miliardi di euro è il valore degli interventi e servizi sociali comunali, ai quali si aggiunge la compartecipazione degli utenti (circa 1 miliardo l’anno) e la quota a carico del Servizio sanitario (circa 1,1 miliardi l’anno), per un totale di spesa pari a poco più di 8,7 miliardi di euro, pari a circa il 10% del totale della spesa per tutte le politiche socio-assistenziali. Ma in tre anni i fondi sociali nazionali sono stati tagliati in misura consistente: il Fondo nazionale per le politiche sociali è passato dal 2008 al 2011 da 929,3 milioni di euro a meno di 220 milioni, il Fondo per la non autosufficienza nel 2011 non è stato finanziato, con un taglio netto di 400 milioni di euro. Chi subirà gli impatti dei tagli? In primo luogo l’utenza: oltre il 40% delle risorse per il sociale dei Comuni è impiegato per famiglie e minori, il 21,2% per gli anziani, una quota simile per i disabili e il 7% circa per la lotta alla povertà. Ma anche gli occupati nel sociale, perché il 48,5% della spesa comunale per i servizi sociali è impiegato per affidare i servizi all’esterno, a cooperative sociali e altri soggetti del terzo settore. Va ricordato che nel periodo 2006-2010 si è avuto un aumento di oltre 505.000 famiglie in condizione di deprivazione (+14,6%), che ora sono 4 milioni; è aumentato di oltre 1 milione (sono 4,1 milioni in totale) il numero di famiglie che hanno intaccato il patrimonio o contratto debiti; le coppie con figli in povertà assoluta sono aumentate di 115.000 nuclei (+37%) e sono ormai oltre 424.000; le monogenitoriali in povertà assoluta sono aumentate di 65.000 nuclei (+72,3%) e sono salite a 154.000; le famiglie numerose in povertà assoluta con 5 e più componenti sono aumentate di 43.000 unità (+41,6%) e sono ora 147.000.
I bisogni dei migranti e l’innovazione del welfare. È di quasi 3 miliardi di euro la spesa pubblica per la sanità ascrivibile a prestazioni erogate agli immigrati, pari a circa il 2,8% del totale della spesa sanitaria pubblica nel 2010. Tra il 2009 e il 2010 i migranti richiedenti sono cresciuti del 22%, più del doppio rispetto agli italiani (+9,7%). Sono gli asili nido e la scuola le prestazioni che i migranti (44,8%) chiedono in misura maggiore rispetto agli italiani (30,3%). L’Emilia Romagna è la regione in cui è più alta la quota di migranti che nel 2010 hanno fatto richiesta di prestazioni del welfare (il 18,6% del totale della popolazione Isee). Tra le province spiccano Bolzano (quasi il 41%), Mantova (35,6%), Modena (34,8%), Brescia (31,5%), Piacenza (30,7%), Arezzo (30,7%) e Parma (30,3%).
Dall’esclusione al disincanto: il disinvestimento dei giovani. Le donne italiane sono tra quelle che fanno figli più tardi (l’età media al parto di 31,1 anni rilevata in Italia rappresenta una delle età più avanzate in Europa al 2008), mentre il tasso di fertilità totale pone il Paese vicina al fondo (20ª posizione su 27) della graduatoria Ue. Non accennano ad arrestarsi la diminuzione dei matrimoni (-6,5% nel 2009 rispetto all’anno precedente) e l’aumento dell’età media in cui gli italiani lo contraggono per la prima volta (33 anni gli uomini e 29,9 le donne, circa 2 anni in più rispetto al 2000). L’indagine del Censis del 2011 sulla sregolazione delle pulsioni rileva un diffuso consenso tra i giovani per modelli di successo e di riuscita sociale avulsi dal merito e dalla cultura del lavoro. Ed è il 38,2% dei 15-30enni italiani a ritenere che l’università rappresenti un’opzione non attraente (il dato più alto in Europa). Tra giovani destinati a vivere un perpetuo presente, ad andare in crisi è lo stesso concetto di investimento sociale, se la società non è in grado di garantire ritorni a fronte di scelte e percorsi proiettati al futuro.
Perché non decolla la previdenza integrativa. Circa l’80% delle famiglie italiane manifesta l’intenzione di non aderire a schemi previdenziali integrativi in futuro, e in circa un caso su dieci non sanno proprio di cosa si tratti. Tra i capofamiglia occupati, una delle ragioni che viene indicata con maggiore frequenza (31,6%) è il costo in relazione allo stipendio disponibile, mentre la necessità di integrare la propria contribuzione previdenziale viene rifiutata dal momento che si pagano già i contributi obbligatori dal 30,4%. La rimozione del problema, o la dilazione a un futuro indefinito del momento in cui bisognerà affrontare la questione, rappresenta la motivazione citata con maggiore frequenza dai capofamiglia under 40 (il 39,7% contro la media del 20,4%).
Territorio e reti
La perdurante crisi dell’economia delle costruzioni. Nel 2011 l’economia delle costruzioni e dell’immobiliare ha visto peggiorare gran parte degli indicatori fondamentali. Per il 2011 si evidenzia una ulteriore contrazione degli investimenti complessivi in costruzioni (-4%), dopo un 2010 anch’esso in netto calo (-6,4%). Sono in crisi le nuove costruzioni residenziali (-5,9% in termini reali su base annua), per le quali si prevede un andamento negativo anche nel 2012, con un ulteriore calo del 5,3%. Gli investimenti in manutenzione straordinaria nel settore residenziale sono gli unici a registrare una crescita, anche se modesta (+0,5% nel 2011), per un aumento complessivo negli ultimi quattro anni dello 0,4%. Complessivamente, per gli investimenti in abitazioni (nuovo e recupero) si segnala una flessione cumulata, nell’arco del quinquennio 2008-2012, del 18,2% in termini reali. Il settore soffre per la crisi della finanza pubblica, che riduce il mercato delle infrastrutture, e per la stretta creditizia. Anche in relazione a prezzi che rimangono abbastanza stabili, neanche il settore immobiliare offre segnali di ripresa: in calo anche il secondo trimestre del 2011 (il quarto consecutivo con segno negativo). Considerando il solo settore residenziale, negli ultimi 12 mesi (luglio 2010-giugno 2011) il numero complessivo degli scambi si attesta sulle 595mila unità. Si tratta di un lieve decremento (-4%) rispetto all’analogo periodo dell’anno precedente, ma di una differenza considerevole (-21%) rispetto al periodo luglio 2007-giugno 2008, quando furono scambiate circa 755mila abitazioni.
Dalla retorica ai fatti: trasformare la città esistente. La quota di edifici con più di 40 anni, soglia temporale oltre la quale si rendono indispensabili interventi di manutenzione consistenti, sta crescendo progressivamente. Oggi il 55% delle famiglie occupa un alloggio realizzato prima del 1971 e poco meno del 40% risiede in un’abitazione costruita nel periodo della ricostruzione e del primo boom edilizio (1946-1971). È un patrimonio (circa 10 milioni di alloggi) che non rispetta le qualità tecnologiche oggi richieste a un immobile (fino alla metà degli anni ’70 in Italia non è stata varata nessuna norma sul risparmio energetico) e che, in ragione della sua avanzata obsolescenza, rischia di perdere parte del suo valore.
La crisi dello spazio pubblico accentua il malessere urbano. Il diffuso malessere dei cittadini delle principali metropoli trova ragione in due elementi principali: il senso di insicurezza e la difficile gestione della vita quotidiana. Dipende dalla frammentazione del tessuto relazionale, dal degrado territoriale, dallo scadimento dell’etica civica e dalla debolezza dell’azione pubblica di contrasto. Gran parte delle criticità sono riconducibili al modello di mobilità, oneroso in sé e in grado di produrre un impatto profondo sugli altri fattori urbani. Le condizioni delle strade comunali sembrano peggiorare ulteriormente: ne lamentava il problema il 43,2% dei cittadini nel 2001, il 50,9% nel 2009.
Il nuovo interesse per gli spazi collettivi. Nel panorama degli spazi collettivi, la piazza (o il giardino pubblico) rimane il luogo dove gli anziani si incontrano con maggiore frequenza (27,5%). Al secondo posto si colloca il bar (27,1%). Il mercato e il supermercato o la parrocchia vengono dopo, utilizzati soprattutto dalla componente femminile. Dopo anni di disattenzione, si osserva un ritorno di interesse per lo spazio pubblico che trova le sue radici in un recupero di alcuni aspetti della tradizionale vita comunitaria. Ad esempio, si stima che in Italia si organizzino ogni anno circa 15mila sagre con circa 4,5 milioni di partecipanti.
Le infrastrutture tra ritardi, penuria di risorse e contrasti locali. Il ritardo infrastrutturale e la debolezza istituzionale nel farvi fronte sono elementi che non consentono all’economia nazionale una crescita della propria capacità competitiva. Gli investimenti fissi lordi delle amministrazioni pubbliche italiane sono scesi dal 2,5% del Pil nel 2009 al 2,1% nel 2010. In futuro diminuiranno ancora: l’1,5% nel 2012 e l’1,4% nel 2013, secondo il Def del 2011. Le infrastrutture «strategiche» della legge obiettivo sono 390, per un costo complessivo di 367 miliardi di euro. Dal 2004 a oggi sono passate da 228 a 390 e il loro costo complessivo è cresciuto del 57,4%. Le risorse a copertura dei progetti sono però pari a circa 150 miliardi di euro a fronte di un fabbisogno di 367,4 miliardi. Le opere portate a compimento rappresentano, in termini di valore, solo il 9,3% dell’intero programma. Le opere in corso sono il 9,9% e quelle contrattualizzate il 10,2%.
L’immobilità urbana: patologia incurabile o terreno di scelte coraggiose? L’arretratezza dei nostri sistemi urbani in tema di mobilità è l’aspetto più emblematico della sfida attuale che comporta la sostenibilità urbana. Le città italiane, quelle grandi ma in parte anche quelle medie, sono gravemente malate di traffico. Paghiamo lo scotto di investimenti mancati nella fase di crescita delle nostre città, che si sono sviluppate sulla base di una spinta alla proliferazione edilizia priva di un progetto a medio-lungo termine. La dotazione di reti di trasporto collettivo su ferro è sottodimensionata rispetto alla domanda, e i mezzi di cui disponiamo viaggiano in condizioni di frequente sovraffollamento, scoraggiando così l’ampliamento dell’utenza. Rispetto alle principali città europee, le nostre città si caratterizzano negativamente in termini di estensione e volume di utenza della rete metropolitana: Londra 402 km, Madrid 293 km, Parigi 1,5 miliardi di passeggeri l’anno, a fronte degli 83 km di Milano e i 39 di Roma, per 331 milioni di passeggeri l’anno a Roma e 328 milioni a Milano. E gli autobus nelle città italiane viaggiano a una velocità commerciale di 12-13 km/h, ben più bassa della media europea (20 km/h).
La mobilità ciclabile: una fenomenologia in crescita trainata dalla domanda. Nel nostro Paese la bicicletta copre non più del 4% della domanda complessiva di mobilità. Nonostante ciò, nell’ultimo decennio si è registrato un aumento significativo delle persone che raggiungono almeno la loro destinazione abituale in sella a una bicicletta almeno 3 o 4 volte la settimana. Erano il 6,8% della popolazione nel 2002, hanno raggiunto il 13,5% nel 2007, oggi si attestano sul 18,7%. Si tratta di percentuali ancora molto basse se confrontate con quelle del Nord Europa, dove la media si aggira intorno al 30%. Circa 10,5 milioni di italiani dichiarano di usare occasionalmente la bicicletta e la quota sul totale della popolazione è passata in cinque anni dal 16,9% al 23,5%. La ridestinazione di parti della viabilità oggi dedicate esclusivamente al traffico motorizzato, la realizzazione di «dorsali ciclabili» di attraversamento e di ciclostazioni in prossimità delle aree ferroviarie centrali favorirebbero lo sviluppo ulteriore della mobilità ciclabile.
I soggetti economici dello sviluppo
Economia in bilico tra creazione e distruzione di valore. Le forti tensioni sul mercato del debito sovrano pongono ormai da mesi il Paese lungo un sentiero tortuoso caratterizzato non solo dalla mancata crescita dei fondamentali, ma anche da uno scontro tra finanza ed economia reale. Le performance a sei mesi (maggio-ottobre 2011) dei titoli azionari alla Borsa di Milano indicano una perdita complessiva di valore del 24%. Eppure l’economia reale dà segnali diversi. Nel primo semestre del 2011 le esportazioni italiane sono aumentate del 16%. Il saldo con l’estero del manifatturiero è in attivo per più di 34 miliardi di euro, mostrando una discreta capacità competitiva. Sebbene la quota italiana del commercio mondiale sia scesa nell’ultimo anno dal 3% al 2,9%, nei primi due trimestri del 2011 l’indice del fatturato dell’industria è aumentato del 7% trainato soprattutto dalle vendite all’estero. E anche il risultato di gestione delle principali banche italiane è cresciuto del 6,3% su base annua e l’utile netto dell’8,5%.
Il fenomeno reti d’impresa: modello aperto e polifunzionale. Il 2011 si chiude con quasi 150 Contratti di rete attivi. Si tratta di uno dei pochi strumenti di innovazione nel campo delle politiche a sostegno del tessuto produttivo. Tra la fine del 2010 e il settembre del 2011 sono stati stipulanti, in media, 12 contratti al mese. Complessivamente, la parte più consistente (il 48%) riguarda aziende localizzate al Nord, ma anche al Sud esistono casi interessanti di collaborazione. L’elemento di maggiore rilievo è il carattere polifunzionale degli accordi e la molteplicità dei settori produttivi coinvolti. La maggior parte delle aziende opera nel manifatturiero (il 46%), ma le imprese dei servizi sono comunque più di un quarto, seguite dall’edilizia (il 14% delle imprese partecipanti). Si configura così un modello aperto di rete, non solo per la varietà dei comparti, ma anche per i molti casi di «meticciato», ovvero di incontro fra imprese con specializzazioni e competenze diverse.
Il nuovo ciclo espansivo dei distretti produttivi. Nel primo semestre del 2010 e nel primo del 2011 l’incremento tendenziale dell’export dei 140 principali distretti industriali è stato rispettivamente del 6,2% e del 14,5%. Nei primi sei mesi dell’anno hanno registrato i maggiori incrementi dell’export: le macchine tessili di Brescia (+54%), la meccanica strumentale di Vicenza (+42%), i metalli di Brescia (+37%), la metalmeccanica di Lecco, le macchine per imballaggio di Bologna e le macchine per la ceramica di Modena e Reggio Emilia, tutte con variazioni superiori al 25%. Pur restando il territorio europeo (in particolare Germania e Francia) l’area in cui i distretti registrano le maggiori quote di mercato, è nelle economie emergenti che la crescita dell’export distrettuale cresce a ritmi molto sostenuti: +35,8% in Cina nel primo semestre del 2011, +21% in Russia.
Il valore del mare nel sistema economico italiano. Il cluster marittimo contribuisce alla formazione del Pil con una quota del 2,6% (pari a 39,5 miliardi di euro) e assorbe il 2% dell’occupazione. Il valore delle esportazioni è di 9,7 miliardi di euro (il 3,3% dell’export nazionale). Grazie al carattere complesso e multiforme, il cluster marittimo ha attraversato la fase di crisi iniziata nel 2008 attivando strategie di riposizionamento dinamico, che consentono oggi di riprendere la marcia. Ma è necessario un piano organico, fattibile e con finanziamenti certi, di interventi sulle infrastrutture materiali e di collegamento terra-mare.
Il ciclo evanescente dei risparmi. La propensione al risparmio delle famiglie italiane, che a metà degli anni ’90 era superiore al 20% del reddito disponibile e a metà dello scorso decennio oscillava ancora tra il 15% e il 17%, ha subito una progressiva contrazione, attestandosi oggi su un ben più modesto 11,3%. Per ogni famiglia i risparmi accumulati su base trimestrale sono passati dai 1.860 euro di fine 2005 a poco più di 1.200 euro alla metà del 2011: una flessione complessiva del 34,5% in cinque anni e mezzo. Nella prima parte dell’anno, soltanto il 28,2% delle famiglie italiane è stato in grado di mettere da parte una quota del proprio reddito mensile, il 53% è andato in pari tra quanto speso e quanto guadagnato, il 18,8% non è riuscito a coprire per intero le necessità di consumo.
Comunicazione e media»
Palinsesti «fai da te» nell’era della personalizzazione dei media. Nel 2011 l’utenza complessiva della televisione – che resta sempre il mezzo più diffuso nel panorama mediatico italiano – rimane sostanzialmente invariata: il 97,4% della popolazione. Ma è avvenuto un ampio rimescolamento al suo interno, dipendente in larga misura dalla progressiva diffusione sul territorio nazionale del segnale digitale terrestre, responsabile di un nuovo impulso impresso ai canali e ai programmi tv. L’utenza della tv digitale terrestre è aumentata di oltre 48 punti percentuali tra il 2009 e il 2011 arrivando al 76,4% della popolazione, ovviamente a scapito della tv analogica (-27,1%). La tv satellitare mantiene costante la quota dei suoi telespettatori (il 35,2% degli italiani), dopo il significativo incremento registrato tra il 2007 e il 2009. La web tv aumenta la sua utenza di ulteriori 2,6 punti percentuali nell’ultimo biennio (l’utenza complessiva sale al 17,8%), mentre la mobile tv rimane a livelli bassi, relegata a un pubblico saltuario e di nicchia (0,9%). Soprattutto i giovani (14-29 anni) diversificano ampiamente le possibilità attraverso le quali seguire le trasmissioni televisive: il 95% utilizza la televisione tradizionale (analogica o digitale terrestre), il 40,7% la web tv, il 39,6% la tv satellitare, il 2,8% l’iptv, l’1,7% la mobile tv. Anche l’ascolto della radio in generale rimane complessivamente stabile, sempre a livelli molto alti di utenza (otto italiani su dieci). Si rafforza l’autoradio, con il 65,2% di ascoltatori, incrementando nell’ultimo biennio di 1,4 punti percentuali la sua utenza. Rimane costante l’ascolto della radio via Internet (8,4%) o tramite il cellulare (7,8%), ed è in lieve flessione l’uso del lettore mp3 come radio (14,8%), soppiantato in molti casi dall’utilizzo degli smartphone. Si conferma il periodo di grave crisi attraversato dalla carta stampata. I quotidiani a pagamento (47,8% di utenza) perdono il 7% di lettori tra il 2009 e il 2011 (complessivamente -19,2% rispetto al 2007). La free press cresce di poco (+1,8%, salendo al 37,5% di utenza). I periodici resistono, specie i settimanali (28,5% di utenza), grazie agli sforzi di innovazione e di marketing, a cominciare dagli allegati venduti unitamente ai rotocalchi. Si tratta di media soprattutto per donne: più di una su tre legge i settimanali, mentre solo un uomo su cinque fa altrettanto. Tengono anche i libri, con il 56,2% di utenza, ma il dato si spacca tra il 69,5% dei soggetti più istruiti (diplomati e laureati) che hanno letto almeno un libro nel corso dell’ultimo anno, contro il 45,4% delle persone meno scolarizzate. Gli e-book ancora non decollano: 1,7% di utenza. Stabile la lettura delle testate giornalistiche on line (+0,5%, con un’utenza del 18,2%), che però non si possono più considerare le versioni esclusive del giornalismo sul web, perché i diversi portali d’informazione on line contano oggi un’utenza pari al 36,6% degli italiani. Per l’uso del telefono cellulare si rileva in generale una flessione (-5,5% complessivamente tra il 2009 e il 2011), complici gli effetti della crisi. Ed è in atto una migrazione dell’utenza dagli apparecchi basic (-8%), con funzioni limitate alle sole telefonate e all’invio e ricezione degli sms, agli apparecchi smartphone (+3,3%, con un’utenza che sale complessivamente al 17,6% e al 39,5% tra i giovani). È bene qui rimarcare che questi dati non rilevano il possesso dell’apparecchio, bensì ne misurano l’utilizzo effettivo. Infine, va sottolineato il dato di crescita proprio dell’utenza del web, che nel 2011 supera finalmente la fatidica soglia del 50% della popolazione italiana, attestandosi per l’esattezza al 53,1% (+6,1% rispetto al 2009). Il dato complessivo si fraziona tra l’87,4% dei giovani e il 15,1% degli anziani (65-80 anni), tra il 72,2% dei soggetti più istruiti e il 37,7% di quelli meno scolarizzati. Tutti i dati confermano l’affermazione progressiva di percorsi individuali di fruizione dei contenuti e di acquisizione delle informazioni da parte dei singoli, con processi orizzontali di utilizzo dei media in base a palinsesti multimediali personali e autogestiti, basati sulla integrazione di vecchi e nuovi media. È l’utente a spostarsi all’interno dell’ampio e variegato sistema dei mezzi di comunicazione per scegliere il contenuto che più gli interessa secondo le modalità e i tempi che più gli sono consoni: ognuno si costruisce una nicchia di consumi mediatici e palinsesti «fatti su misura».
Internet contro la marginalità informativa. Nel mondo dell’informazione la centralità dei telegiornali è ancora fuori discussione, visto che l’80,9% degli italiani li utilizza come fonte principale. Tra i giovani, però, il dato scende al 69,2%, avvicinandosi molto al 65,7% riferito ai motori di ricerca su Internet e al 61,5% di Facebook. Per la popolazione complessiva, al secondo posto si collocano i giornali radio (56,4%), poi la carta stampata con i quotidiani (47,7%) e i periodici (46,5%). Dopo ci sono il televideo (45%), i motori di ricerca come Google (41,4%), i siti web d’informazione (29,5%), Facebook (26,8%), i quotidiani on line (21,8%). Nel caso delle tv all news (16,3% complessivamente) risultano discriminanti l’età (il dato sale al 20,1% tra gli adulti) e il titolo di studio (il 21,7% tra i diplomati e laureati). Le app per smartphone o tablet arrivano al 7,3% di utenza e Twitter al 2,5%. A fronte della parte di popolazione che usa molte fonti informative, ci sono poi quelli che non si informano affatto (il 10,2% dell’intera popolazione), oppure ricorrono solo ai telegiornali o a un mix di media tutto affidato alla ricezione audiovisiva passiva (telegiornale, giornale radio, televideo) (10,1%). La situazione complessiva del nostro Paese può essere riassunta in questo modo: ogni dieci italiani, ce n’è uno che non si informa, uno che accede solo a tg e gr, tre che hanno un ventaglio più ampio di fonti da cui sono escluse però quelle che hanno a che fare con Internet, infine cinque che usano più o meno tutte le fonti intrecciandole in vari modi.
La politica, star della tv. Quando va in onda un talk show politico, davanti alla televisione si siede il 49,8% degli italiani. L’altra metà (esattamente il 50,2%) cambia canale o spegne il televisore. L’utente tipo dei talk show politici è di sesso maschile (52,9%), ultrasessantacinquenne (56,7%), residente in un Comune di medio-grandi dimensioni (57,1%), del Centro Italia (60,2%). Il livello d’istruzione non sembra una discriminante fortemente significativa, in questo caso: tra i meno scolarizzati prevalgono i no con il 51,5% delle risposte, mentre tra i più istruiti s’impongono i sì con il 51,3%. Quasi il 70% dei giovani tra i 14 e i 29 anni non li segue affatto.
I ritardi della rivoluzione digitale. L’Italia continua a rimanere indietro rispetto a molti Paesi dell’Unione europea, sia per quel che riguarda la diffusione dell’accesso a Internet, sia per la qualità della connessione. Il nostro Paese si colloca al ventunesimo posto in entrambi i casi: per quanto riguarda l’accesso a Internet da casa, tra le famiglie che hanno almeno un componente tra i 16 e i 64 anni si raggiunge il 59% (rispetto alla media europea del 70%). L’accesso mediante banda larga registra invece un tasso di penetrazione del 49% rispetto alla media europea del 61%.
Governo pubblico
Il recupero dell’e-government. L’Italia è tra i Paesi europei con le migliori performance relativamente alla disponibilità on line di alcuni servizi pubblici fondamentali, come il registro automobilistico e la dichiarazione dei redditi. Abbiamo toccato il vertice della classifica con una performance del 100% di fronte a una media europea che si ferma all’82%. L’incremento rispetto all’anno precedente è di 31 punti percentuali. Ma solamente il 17% dei cittadini italiani ha fruito di servizi on line della Pubblica Amministrazione negli ultimi tre mesi. Siamo penultimi in Europa, davanti alla Grecia, e lontanissimi dalla Norvegia (quasi il 70% della popolazione). La situazione migliora nel caso delle imprese: l’84% utilizza Internet per interagire con la Pa, meno del 96% della Norvegia, ma più del 67% di Spagna e Inghilterra.
La riduzione del carico amministrativo sulle imprese. Il ritardo nei pagamenti della Pubblica Amministrazione è stimato per l’Italia in 100 giorni, contro una media europea di 25. Il costo di start up di un’impresa è pari al 18,5% del reddito pro-capite in Italia, il 5,5% in Europa. E le imprese italiane sopportano un carico di costi amministrativi pari a 70 miliardi di euro l’anno, quasi 5 punti percentuali di Pil. Gli interventi di semplificazione amministrativa avviati di recente dal Ministero per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione dovranno portare a una riduzione per un importo superiore a 11 miliardi di euro in aree di competenza statale come il lavoro, la previdenza (ad esempio, la tenuta dei libri paga e le denunce contributive mensili), il fisco (dichiarazioni annuali e comunicazione Iva, dichiarazioni dei sostituti d’imposta). Un’ulteriore riduzione di costi potrebbe poi derivare da interventi in aree di competenza delle Regioni e degli enti locali. Su questo versante il risparmio per il sistema produttivo sarebbe pari a 5,3 miliardi di euro, portando il contenimento del carico amministrativo per le imprese a circa 16 miliardi di euro.
Parlamenti in crisi d’identità. Delle 197 leggi approvate nel corso dell’attuale Legislatura, ben 163 sono state proposte dal Governo e solamente 34 dal Parlamento. Siamo passati dal 77% di leggi approvate su iniziativa governativa nella XIII Legislatura al 78,4% nella XIV, fino al picco dell’88,4% nella XV Legislatura. La capacità propositiva delle Camere appare in affanno. Delle 6.567 proposte di legge presentate nel corso dell’attuale Legislatura, ben 6.018 (il 91,6%) erano di iniziativa parlamentare, ma poi solamente 34 sono state trasformate in leggi dello Stato, con una percentuale di successo che si ferma allo 0,56%: vale a dire una legge ogni 200 proposte legislative. E l’attività di controllo del Parlamento sul Governo è esercitata con sempre maggiore difficoltà: solo il 37% delle interrogazioni parlamentari ha ricevuto una risposta. La retorica antipolitica ha buon gioco e molte carte da giocare: degli attuali 24 ministri in carica, 22 sono parlamentari, così come 4 viceministri, 33 sottosegretari, 11 presidenti di Provincia, 3 assessori provinciali, 17 consiglieri provinciali, 22 sindaci, 11 assessori comunali e 41 consiglieri comunali.
Democrazia partecipativa: antidoto alla logica Nimby. L’Italia è un Paese sempre più in stallo sul fronte delle grandi opere. Nel 2010 i progetti contestati ammontavano a 320, raddoppiati in cinque anni: erano 104 nel 2005, 171 nel 2006, 193 nel 2007, 264 nel 2008, 283 nel 2009. Le cause sono molteplici, ma tutte si possono riassumere in una carenza di informazione e di dialogo con le comunità interessate. Se ne può uscire con un cambiamento di approccio da parte di tutte le parti in causa, all’insegna del dialogo, di un’informazione chiara e corretta, della partecipazione.
Sicurezza e cittadinanza
La criminalità oltre l’emotività. Negli ultimi tre anni la criminalità in Italia è in calo: si è passati dai 2.933.146 reati denunciati nel 2007 ai 2.621.019 del 2010. L’Italia presenta un quoziente di 45,1 reati denunciati per mille abitanti, inferiore alla media europea di 57,1 per mille e alla gran parte dei Paesi europei. Resta però alto il sentimento di paura nei contesti urbani di dimensioni maggiori. In una classifica guidata da Stoccolma, Roma si trova al 21° posto, con il 78,9% della popolazione che si sente tranquilla nella zona in cui vive (tre anni fa la quota era più alta: l’86%). Migliori di quelli di Roma, i dati di Berlino (98,5%), Parigi (93,3%), Londra (91%) e Madrid (90,5%).
Le tante forme della violenza quotidiana. Una indagine del Censis fotografa bene un clima sociale in cui si afferma con forza la primazia dell’io e la convinzione che le regole abbiano un peso relativo. L’85,5% degli italiani si arroga il diritto di essere il giudice unico dei propri comportamenti, affermando il primato della coscienza individuale. Il 67,6% ritiene che le regole non devono soffocare la libertà personale. Una libertà che può arrivare anche all’utilizzo delle cattive maniere per difendersi da quello che si considera un sopruso (la pensa così il 51,4%). Anche perché, se non ci si fa rispettare, non si riuscirà mai a ottenere il rispetto altrui (secondo il 70,7%). Aumenta così il conflitto. Tra il luglio 2010 e il giugno 2011 si sono svolte 241 manifestazioni di piazza con disordini, il 53,5% in più rispetto all’anno precedente, con un totale di 556 persone ferite, 1.486 denunciati e 100 arrestati.
Evoluzione della contraffazione e misure di contrasto. Degli oltre 56.000 sequestri effettuati da Guardia di Finanza e Agenzia delle Dogane negli ultimi tre anni (quasi 175 milioni di pezzi sequestrati), il 57,6% ha riguardato accessori (il 36,7% dei sequestri, oltre 43 milioni di pezzi) e capi di abbigliamento (il 20,9%, oltre 37 milioni di pezzi). Seguono i sequestri di calzature (il 14,5%, oltre 11 milioni di pezzi), occhiali (il 6,2%, 2,5 milioni di pezzi), orologi e gioielli (il 5,9%, oltre 2 milioni di pezzi) e apparecchiature elettriche (il 4,2%, 3,5 milioni di pezzi). I sequestri di giochi e giocattoli sono stati l’1,7% del totale, per un numero però molto elevato di pezzi (oltre 23 milioni). Cosmetici e profumi rappresentano appena lo 0,3% dei sequestri, con il ritiro però di oltre 5 milioni di pezzi. La domanda di prodotti falsi si mantiene elevata nel tempo. Anche se tra gli italiani prevale chi ritiene che comprare oggetti falsi sia un reato (40%) o una fregatura (35%), circa un quarto dei consumatori non condanna l’acquisto di prodotti contraffatti, il 16% ritiene che sia un diritto del consumatore poter scegliere, così come avere prodotti «di marca» a costi contenuti (9%). E sono prodotti nei quali ci si imbatte quotidianamente, basta anche solo uscire di casa: per la maggior parte vengono acquistati infatti sulle bancarelle (65,2%), in spiaggia (16,8%) o nei negozi (15,3%).
Le prospettive di mobilità economica e sociale degli immigrati. Da una recente indagine del Censis emerge che per gli immigrati vivere in Italia è una scelta di vita solida e soddisfacente. Il 54% ritiene che il nostro sia uno dei Paesi al mondo in cui si vive meglio e il 72,4% pensa che da qui a dieci anni non lascerà l’Italia. Anzi, il 45,8% prevede di acquistare una casa e il 16,4% di ristrutturare quella in cui vive. Lo studio viene visto come lo strumento più importante per garantire un percorso di crescita ai giovani. Il 98,4% degli immigrati farà studiare i propri figli. Solo il 19,9% pensa che studieranno il minimo indispensabile (la quota è del 29,5% tra gli italiani), mentre il 75,8% vorrebbe che prendessero una laurea (il 64,5% tra gli italiani).
L’Italia vista dai nuovi italiani. A dispetto della crisi economica, per i nuovi italiani nel 2020 il nostro sarà sicuramente un Paese più benestante: ne è convinto il 65% degli immigrati. Secondo il 53,6% le industrie manifatturiere diminuiranno, ma l’Italia rappresenterà sempre di più un polo di attrazione per i turisti (79,2%) e si servirà sempre di più di energie alternative (83,8%). L’82,6% pensa che il numero degli stranieri continuerà ad aumentare e il 73,8% che la società italiana sarà sempre più aperta al mondo. Per il 68,2% saremo più solidali, più giusti secondo il 64,6%, e si costruiranno più reti di relazioni personali, di vicinato, di amicizia, che avranno per protagonisti anche gli immigrati (62,7%).
2 dicembre 2011