L'opinione di Oscar Giannino sulla banda larga


Cos'è rapinare una banca a paragone di fondare una banca?
Bertolt Brecht


Le nomine all’Agcom e Privacy fatte dai partiti in Parlamento sono di vecchio, vecchissimo stampo. Purtroppo Agcom è l’Autorità il cui criterio di nomina è il più lottizzatorio, fatto apposta pr “fotografare” gli equilibri parlamentari, non certo per scegliere professionalità e competenze. Perché Agcom per la politica italiana significa da sempre “questione televisiva”, RAI versus Mediaset e viceversa. Ed è ovvio che per tenere le trincee contrapposte occorrono servi fedeli, non esperti del settore. Che schifo. E che pena che i partiti neanche adesso, capiscano che è ora di cambiare se non vogliono essere travolti. E’ anche un peccato per un’altra ragione. In reltà, non è lo scontro televisivo la questione più delicata che toccherà assai presto sbrogliare all’Agcom. Sulla cosiddetta “banda larga”, nelle ultime settimane si è infatti improvvisamente messo in moto ciò che per anni era rimasto bloccato. L’intuizione che avemmo nello scorso ottobre, a Capri con François De Brabant e gli amici di Between, si è rivelata fondata, si è improvvisamente animata e ha preso a sprigionare conseguenze. L’intuizione era quella di tentare di uscire dall’impasse pluriennale tra Telecom Italia e gli OLO (Other Licensed Operators), con la prima protesa alla difesa della propria rete in rame ADSL come ultimo passaggio comunque obbligato tra armadietto e cliente finale, e OLO fermi nell’investimento su rete fissa dopo lo stop di Fastweb un decennio fa. Il tutto animando continui scontri regolatori sulle tariffe di unbundling (spacchettamento) che in Italia sono cresciute negli anni – unico caso tra i Paesi avanzati – prestandosi all’accusa di un’Agcom captive dell’incumbent (schiava dell'azienda dominante). L’asta con oltre 4 miliardi d’incasso per le frequenze su cui sviluppare LTE (long term evolution) per la banda larga mobile ha distratto l’attenzione, nello scorso autunno. Poi è subentrata la tensione politica per il freezing deciso da Passera e dal governo sulle frequenze gratis a Mediaset per i Multiplex del digitale terrestre. Infine l’attesa per la decisione di Telecomitalia di separare e avviare la vendita di TIMedia e de La7. Ma se ai media generalisti interessa innanzitutto lo scontro televisivo, per i suoi evidenti addentellati politici pro-contro-Berlusconi, dobbiamo sperare che non sia lo stesso alla nuova Agcom. Perché lo sblocco della banda larga su rete fissa, e una credibile serie di scelte sull’architettura regolatoria e tariffaria per avviarla, costituiscono a nostro giudizio la vera priorità per lo sviluppo dell’ICT nel nostro Paese, e per colmare quel gap di produttività complessivo che viene dall’avere centinaia di migliaia di imprese prive di un’ampiezza di banda tale da consentire davvero loro di utilizzare la rivoluzione digitale in ogni ambito delle proprie filiere, e strategie commerciali e di fornitura. L’intuizione caprese fu quella di identificare in F2i guidata da Gamberale (e nel suo intervento in Metroweb da Milano aperta potenzialmente a tutti i players di settore con logica cooperativa) il player-ombrello che avrebbe potuto fungere da acceleratore della banda larga su fibra. Un acceleratore dotato insieme della caratteristica di rappresentare un ombrello-compensatore “terzo”, rispetto alla classica contrapposizione tra l’incumbent Telecom e i suoi concorrenti Vodafone, Wind e Fastweb. Di fatto, sin qui l’intuizione si è rivelata quasi sorprendentemente giusta, dopo anni di barricate contrapposte. Dopo qualche mese di surplace Cassa Depositi e Prestiti – ergo il governo controllante e le fondazioni bancarie che ne costituiscono l’anima privata al 30% – ha scelto con forza il progetto delle reti internet superveloci di Metroweb, disposta a scommettere almeno mezzo miliardo dei 4,5 che Gamberale punta sulla cablatura di altre 29 grandi e medie città italiane, oltra al compimento di quella milanese conferita da Fastweb. Nel frattempo Vodafone e Wind hanno già raggiunto un accordo commerciale per la migrazione dei propri clienti “fissi” sulla rete attuale e futura di F2i tlc, in tutte e 30 le città. Con Teletu e Infostrada che già tra un paio d’anni potrebbe richiedere l’unbundling non più al loro fornitore storico e “naturale” – Telecom Italia – ma a Metroweb. Telecom Italia ha reagito duramente. L’avvisaglia era già venuta con lo scontro sugli emendamenti parlamentari che TI ha avversato – perdendo – su questioni attinenti, nel decreto legge liberalizzazioni. Ma ora che Cdp ha formalizzato la sua scelta, per TI si tratta di combattere non più gli OLO, ma contro il governo. Bernabè ha forti supporter. Sia a Repubblica, dove Giovanni Pons ha scritto che il governo improvvisamente con Cdp sulla banda larga vuol fare un favore a Mediaset, confondendo lucciole con lanterne e lanciando la classica accusa da riflesso condizionato debenedettiano. Sia sul Corriere, dove assai singolarmente proprio Massimo Mucchetti, che per mesi e mesi ha invocato la mano pubblica sulla banda larga, “alla giapponese”, ora che la cosa potrebbe concretizzarsi ha invece offerto il megafono a Bernabè, che ha sparato a zero contro Cdp in F21 tlc. Cerchiamo di capire nel merito che cosa pensarne, dal nostro punto di vista che non è né statalista rinazionalizzatore di ritorno, né viziato dal molto mediaticamente esteso riflesso condizionato storico verso l’incumbent, il peso del suo debito, e le esigenze dei suoi azionisti banco-assicurativi in Telco (a propria volta alle prese con vere e e proprie esplosioni di mancata tenuta nel proprio perimetro, vedi Mediobanca-Generali). Il nocciolo duro del no frontale di TI all’offerta Metroweb-F21 è l’obiezione che l’intervento di CdP configurerebbe aiuti di Stato, e che la Commissione europea metterebbe il veto perché l’assetto regolatorio comunitario consente gli interventi pubblici nelle aree a insuccesso di mercato – in cui stendere fibra non conviene ai privati per l’attuale bassa domanda, che allontana di decenni il rientro dell’investimento – o in quelle “grigie”, ma al solo patto che l’investimento avvenga alle medesime condizioni di costo del capitale che gravano sul privato. Fosse così sul serio, per noi mercatisti l’obiezione di Bernabè sarebbe giusta, da condividere, insuperabile. Ma non è così. Per criteri e norme condivise a livello europeo, CDP non rientra nel perimetro della spesa, del deficit e del debito pubblico: tanto è vero che la sorella tedesca KFW e la francese Caisse des Depot nella crisi sono intervenute senza batter ciglio con pacchi di miliardi non solo a garanzia, ma anche direttamente nel capitale delle piccole e medie imprese franco-tedesche. In più, a differenza delle sue sorelle continentali, la CdP ha nel 30% di fondazioni bancarie presenti nel suo capitale – e decisive per la scelta dei manager e delle linee operative della Cassa – il saldo presidio privato che gli statalisti hanno sempre vantato, quando eravamo noi a obiettare che magari bisognava farne un uso diverso del “parcheggio commutato” di quote Eni ieri, o Snam RG oggi. Dunque, l’argomento Bernabè su questo non regge: o meglio, regge solo se s’intende che ciò che fino a ieri si diceva a favore di CdP, or si dice contro perché Cdp non regge il gioco a TI. O meglio ancora, serve a richiamare all’ordine alcuni azionisti bancari come Intesa, che si trova a essere in Telco esposta alle sue pesanti minusvalenze, e contemporaneamente azionista di F2i (nonché di Swisscom Italia idest Fastweb, e di A2a anch’essi in Metroweb). Il direttore generale della Cassa depositi e prestiti, Giovanni Gorno Tempini, ha invitato TI a considerare l’iniziativa in chiave «complementare e sinergica», non di scontro. Ieri, il presidente di Metroweb e di Cdp, Franco Bassanini, è tornato a ribadire che l’aproccio di Cdp non è alternativo ma complementare. Di fatto, però, il piano presentato da Telecom – primo lotto delle 20 città cablate con 600 milioni fino all’armadietto da cui resta poi il rame sul cliente finale, con tecnologia vectoring e dunque unbundling obbligato su propria rete per i concorrenti che non avessero rete propria, e con un grave e irrisolto problema di ampiezza di banda in caso di assieparsi della domanda – è oggettivamente incompatibile con la fibra end to end perseguita in Metroweb da F2i e dagli OLO. Che poi il piano TI si estenda davvero successivamente alle cabine di 100 città con un quarto della popolazione italiana, e poi a 200 entro il 2020, alla luce del suo debito e dell’andamento di un titolo che in borsa è piombato verso quota 65 cents, resta molto ma molto difficile crederlo. La differenza di fondo è che per difendere il rame e il collo di bottiglia sui concorrenti TI, quand’anche avesse i denari visto che a investimenti oggi parte assai più bassa di Metroweb, offre 30-50 mega che si abbassano nell’upload assiepato. Certo, contenendo i costi dell’investimento per cliente a circa 200 euro o poco più. Mentre i 100 mega “veri” offerti da Metroweb, passando la fibra subito fino al cliente, non dilazionano alle calende greche il balzo in avanti di ampiezza trasmissiva, e per questo moltiplicano per tre l’investimento-cliente, diluendo la sua redditività nel tempo. Ma la scelta avrà sempre una caratteristica di questo tipo, se si punta a disintermediare il rame. E se non si crede, come è giusto non credere, che alla banda larga bastino il rame vectoring nel fisso, più il mobile LTE di quarta generazione. In base a queste considerazioni, ci sarebbe da augurarsi dunque che F2i e Metroweb vadano avanti per la loro strada. Ma dando per scontata, a quel punto, una conflittualità elevata e temibile da parte di TI, nella nuova Agcom che bisognerà vedere e giudicare quanto sensibile alle ragioni dell’incumbent, come a livello comunitario, dove TI vanta ottimi rapporti e non infrequenti energici sostegni da parte della commissaria Neelie Kroes. A meno che….. e qui parte un retropensiero. A meno che la battaglia attuale e i toni surriscaldati non celino qualcos’altro. Solo tre mesi fa, Bernabè e TI avevano essi stessi allungato alla stampa come “voce dal sen fuggita” un progetto di piena separazione della propria rete fissa, perché il regolatore fissasse con formula RAB (Regulatory Asset Base - Valore del capitale investito netto come riconosciuto dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas alle società di trasporto e distribuzione al fine della determinazione delle tariffe applicabili) come per elettricità e gas una volta per tutte condizioni per l’unbundling non conflittuale e investimenti compatibili con un adeguato rendimento del capitale. Oppure anche per cederne una parte al pubblico, pur mantenendone il 51% al fine di non far franare la parte patrimoniale del bilancio di TI, ma al contempo con un mega assegno capace di abbattere consistentemente il debito dell’incumbent, e consentire a Bernabè di chiudere con successo la sua partita nell’azienda e agli azionisti di Telco di pensare a un futuro meno gramo. Se questa è la vera ipotesi che resta sullo sfondo, allora la battaglia attuale serve solo a far abbassare a TI la pretesa di prezzo da farsi pagare. Vedremo che cosa ci riserva il futuro. In ogni caso, un bel tappo è comunque saltato, e sarà difficile per tutti rimetterlo al suo posto.

da CICAGO-BLOG



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