Il nucleare in Italia. Parte III. Speranze e delusioni.


... "Questo misero modo
tegnon l'anime triste di coloro
che visser senza 'infamia e senza lodo" .

Dante


PARTE III
I progetti di sviluppo
Nel giugno 1963 la rivista del CISE, Energia Nucleare, pubblicava un intervento di Mario Silvestri sulla questione della competitività economica dell’energia nucleare: «Senza alcun annuncio di fanfare, senza che alcun importante personaggio avesse l’occasione di pronunciare una frase celebre (un’occasione perduta, dunque) la competitività è arrivata. È uscita dal cantone e si è fatta prendere. Non altrimenti è possibile spiegare il rovesciamento di giudizi, di spirito, che si è prodotto in questi ultimi mesi. L’ingresso dell’energia nucleare sulla scena dell’economicità è stato poco spettacolare anche perché è avvenuto attraverso una porticina che ormai dai più veniva considerata in disuso o per lo meno secondaria. Questa porticina rappresenta lo sviluppo dei reattori di tipo più conservativo: quelli ad acqua e quelli a gas-grafite». Questa previsione registrava un generale cambiamento di clima; ad essa si associava nel marzo 1964 sulla stessa rivista V. Schirone, dell’Agip Nucleare, commentando i risultati del primo semestre di produzione della centrale di Latina, a gas-grafite, e quindi nella linea indicata da Silvestri. In realtà, come ha scritto Carlo Lombardi nel suo contributo alla Storia dell’industria elettrica in Italia, il raggiungimento della competitività economica “avvenne abbastanza improvvisamente nel 1967”. In realtà nel triennio 1963-1965 l’attenzione sul nucleare italiano risentiva di una certa dose di instabilità: da un lato l’avvio delle prime centrali, il loro trasferimento all’Enel, il loro esame da parte del CNEN, la richiesta e il rilascio delle licenze di esercizio; dall’altra la destituzione e il processo a Ippolito, e la ridefinizione delle attività del CNEN ad opera di una commissione tecnica guidata da Mario Silvestri, con la chiusura di una serie di programmi contro i quali lo stesso Silvestri aveva polemizzato negli anni precedenti. La situazione migliorò in seguito, con il “libro bianco” sull’energia nucleare fatto pubblicare dal ministro dell’Industria Giuseppe Medici, e con la nomina di Carlo Salvetti alla vicepresidenza del CNEN. Nel frattempo Angelini e il suo staff avevano dovuto occuparsi dell’organizzazione centrale e territoriale dell’Enel e dell’integrazione al suo interno fra le componenti provenienti dalle società ex Finelettrica e quelle provenienti dai privati; vi erano inoltre problemi molto urgenti da affrontare, come l’unificazione, la standardizzazione e il completamento della rete elettrica nazionale. Per quanto riguarda il nucleare, del resto, l’Enel acquisì insieme alle centrali anche le risorse umane qualificate ed esperte che potevano in una prima fase portare avanti più che bene la gestione dell’esistente. Nella realtà dei fatti con la nazionalizzazione e con gli enormi problemi che essa comportava l’Enel poté dedicare poca attenzione al nucleare in un momento nel quale il mondo industrializzato vi dedicava risorse e ricerca. Nel 1963 io venivo assunto dal CISE per effettuare ricerche nel campo delle reazioni nucleari e dell’individuazione di radioisotopi nell’atmosfera.
Sul fronte dello sviluppo industriale, in questi stessi anni si verificarono negli USA novità importanti: innanzitutto l’evoluzione tecnologica e un forte aumento delle potenze unitarie dei reattori, senza un sostanziale incremento del pur notevole onere di capitale, realizzarono un effetto di scala che fu particolarmente rilevante nel caso dei reattori ad acqua, e che fece fare un importante passo verso la competitività economica; inoltre l’offerta di centrali nucleari a prezzi molto contenuti da parte dell’industria americana diffuse la sensazione di un prodotto ormai maturo e migliorò l’atteggiamento del mercato verso la nuova tecnologia; infine il boom delle ordinazioni di centrali elettriche negli Stati Uniti seguito al black-out di New York del 1966, portò nel 1967 all’ordinazione di ben trenta centrali nucleari. Questa situazione “si riverberò in modo amplificato sulla situazione italiana – scrive ancora Lombardi – che, allora caratterizzata da forti crescite dei consumi energetici, diventava sempre più dipendente dalle importazioni di petrolio. Ciò avveniva anche per i consumi elettrici, non più soddisfatti come per il passato dalla fonte idroelettrica”. Fu così che già nel 1966 sia Salvetti che Angelini confermarono, in sedi diverse e in varie occasioni, l’intenzione di dare vita a un importante programma di costruzione di centrali nucleari. Al di là dei gravi errori sulle valutazioni del fabbisogno energetico del Paese di cui parlerò in seguito le previsioni sul nucleare non si avverarono. Interessa piuttosto ripercorrere, in questa sede, ciò che fu effettivamente fatto, e quali problemi impedirono la realizzazione di progetti che erano assai più ambiziosi di quanto realizzato. Nel 1967 l’Enel decise dunque di passare alla fase operativa per la costruzione di una quarta centrale nucleare, e in agosto inviò ad alcuni costruttori italiani e stranieri le specifiche tecniche per la nuova centrale; la gara era articolata in due fasi, la prima delle quali, chiusa il 31 gennaio 1968, prevedeva l’offerta delle prestazioni e dei dati tecnici generali. L’ente ricevette tre offerte, ciascuna delle quali presentata congiuntamente da imprese italiane e straniere, che sostanzialmente proponevano modelli più avanzati e di maggior potenza nell’ambito delle tre filiere già sperimentate, vale a dire a gas, ad acqua bollente e ad acqua in pressione. Dopo un esame delle proposte ricevute la gara portò nel 1969 all’ordinazione di una centrale da 850 MW, ad acqua bollente; il costruttore prescelto era l’Ansaldo Meccanico Nucleare (Amn) e la statunitense Getsco (General Electric). Per la localizzazione della centrale fu scelta Caorso, sul Po, nei pressi di Piacenza. Il contratto con le imprese costruttrici fu firmato nel marzo 1970, e i lavori presero avvio a ottobre. La consegna dell’impianto era prevista dopo 65 mesi dall’avvio dei lavori. La costruzione fu ultimata nel giugno 1976, quando la centrale fu consegnata al gruppo di caricamento del combustibile. Il primo carico di combustibile arrivò in centrale nell’ottobre 1976, ma le prove tecniche dell’impianto prima di procedere al caricamento effettivo durarono fino al novembre 1977. La centrale raggiunse la prima criticità un mese dopo, e nel maggio 1978 effettuò il primo parallelo con la rete; la piena potenza fu raggiunta nel marzo 1980, e in aprile, dopo le prove di garanzia fu avviata la produzione commerciale. La centrale di Caorso fu alla fine l’unica costruita dall’Enel prima del referendum del 1987. Mentre procedeva la costruzione della centrale di Caorso, comunque, l’ente aveva provveduto a metterne in cantiere una quinta, le cui procedure furono predisposte nel 1968, rispettando grosso modo il ritmo di ordinazioni indicato due anni prima. Già nel settembre 1969, però, nella relazione programmatica inviata al Parlamento dal Ministro dell’Industria si leggeva: «Per quanto riguarda il futuro più lontano, data la rapidità dell’evoluzione in corso nel settore nucleare, l’Enel ritiene che l’impostazione di un programma definito avrebbe scarso significato; prevede però che nel periodo 1970-1980 non si avrà un regresso nel ritmo di costruzione degli impianti nucleari, ma che anzi è possibile un suo acceleramento, considerato che allora sarà maturata ulteriore esperienza al riguardo e che i fabbisogni di energia elettrica saranno aumentati». D’altra parte nel 1969 si era avuto negli Stati Uniti un inasprimento delle norme di sicurezza relative alla costruzione e all’esercizio di nuove centrali. Questo evento aveva avuto delle ricadute su tutto il mercato, e anche sull’Italia. Dal 24 febbraio al 6 marzo 1970 due dirigenti dell’Enel, l’ingegner Franco Velonà e l’ingegner Achille Terzano furono inviati negli Usa per verificare le nuove norme e la loro ricaduta su impianti con caratteristiche simili a quelli in esercizio o in previsione d’ordine in Italia. L’adozione delle nuove norme di sicurezza aveva dei riflessi di non poco conto sui costi. Inoltre, proprio sul fronte finanziario l’Enel era in affanno, stretto fra le tariffe elettriche ferme da un decennio e l’allarme della Corte dei Conti sui livelli di indebitamento, che non potevano essere ulteriormente ampliati, secondo il giudizio della magistratura contabile riportato nella relazione inviata al Parlamento nel dicembre 1969. In buona sostanza, l’intenzione programmatica di ordinare una centrale nucleare all’anno, ribadita anche nelle relazioni annuali Enel del 1971 e del 1972, non poteva trovare pratica attuazione per un problema di soldi: l’Enel doveva infatti pagare ogni anno il rateo degli indennizzi elettrici e fare fronte alle necessità immediate di aumento della produzione e di completamento del sistema elettrico nazionale; le risorse disponibili non permettevano quindi di ordinare gli impianti nucleari che sarebbero stati necessari. E infatti della quinta centrale di cui si era parlato nel 1968 non si fece più cenno. Iniziava ad essere evidente che la nazionalizzazione era stato un evento inutile e realizzato male. Alla fine degli anni Sessanta si poteva toccare con mano che aver caricato l’ente degli indennizzi elettrici aveva come prezzo la rinuncia a sviluppare adeguatamente quella che in tutti i paesi industrializzati era ormai considerata la fonte energetica del futuro e che gli elettroproduttori privati avevano capito prima dei grandi “manager” di stato. L’Enel, dopo aver ordinato la quarta centrale, poté fare solo “rivendicazioni” nei confronti dell’autorità politica per una sua presenza nel settore dell’energia nucleare. In questa chiave va letto il continuo rilancio del programma nucleare come unica soluzione possibile al problema dei consumi energetici ed elettrici del Paese: una battaglia nella quale Angelini si impegnò in prima persona finché fu ai vertici dell’Enel. Su tale rilancio, divenuto a un certo punto non realistico in termini di fattibilità, benché pienamente giustificato in termini di necessità, è stato espresso un giudizio critico sia da parte dei commentatori dell’epoca, sia da parte di moti studiosi, con pareri contrastanti.

Caorso

La Centrale di Caorso

Le politiche economiche degli anni sessanta
Appena varato il governo di centro-sinistra, i socialisti chiedono una politica di investimenti e di maggiori interventi dello stato nelle grandi imprese. Quando il ministro socialista del bilancio, Antonio Giolitti (uscito dal Pci dopo i fatti d'Ungheria), mette mano a un progetto impostato su questi orientamenti si apre lo scontro con il ministro del tesoro Emilio Colombo. Questi, infatti, vagliate le proiezioni economiche dello stato, informa il governo che non è possibile dare il via, insieme, alle riforme di struttura e al risanamento dei conti. A fianco di Colombo si schiera Guido Carli, governatore della Banca d'Italia. Lo scontro tra Dc e Psi si fa duro, la riforma urbanistica per la promozione dell'edilizia popolare finisce sulle secche della battaglia per l'espropriazione dei suoli e i socialisti ricambiano la Dc bloccando la legge sul finanziamento della scuola privata.
D’altra parte negli anni sessanta-settanta l'impresa pubblica conosce il massimo sviluppo in termini quantitativi.
L'Iri, che già svolgeva un ruolo da protagonista nella siderurgia, nei trasporti (linee aeree e autostrade), nella telefonia, nel settore bancario, espande la propria attività nei settori minerario, della metallurgia primaria, del cemento, dell'elettronica.
L'Eni, superata la crisi conseguente alla morte di Mattei, impone al Paese un modello di sviluppo basato sugli idrocarburi. Nel periodo '53-'54 avviene un episodio che dà l'avvio ad una nuova missione all'Eni; la Snia Viscosa mette in licenziamento un migliaio di lavoratori del Pignone, ne nasce un caso nazionale, si muove il governo, si muove il sindacato e si muove il sindaco di Firenze, La Pira, che convince Mattei a comprare il Pignone. Da quel momento inizia l'era degli interventi dell'Eni, nel salvataggio di aziende private in crisi, compito, che, eventualmente, avrebbe dovuto assolvere l'Iri. Nel 1962 toccherà alla Lanerossi, poi, al Mineralmetallurgico, al Meccano tessile, alla Savio, alla Samin.
L'Efim si lancia in progetti industriali sempre più rischiosi, mentre viene istituito un quarto ente l'Egam (Ente autonomo di gestione per le aziende minerarie), che si rivelerà un pozzo di perdite senza fondo, per non parlare degli enti per la gestione delle acque termali e per il cinema. Nel 1971 viene costituita, la Gepi (Gestione esercizio partecipazioni industriali) allo scopo di razionalizzare le azioni di salvataggio di aziende destinate al fallimento; l'ente interviene con fondi provenienti dal bilancio dello stato, ma, formalmente, è solo un altro carrozzone, essendo, infatti, di proprietà dei soci Iri, Eni ed Imi. Nella gestione delle imprese pubbliche la logica imprenditoriale viene accantonata per privilegiare la logica spartitoria; gli enti di stato sono vere e proprie sinecure dei partiti che vi traggono i finanziamenti necessari per mantenere strutture ridondanti e costose. Le imprese pubbliche si trovano ad essere gravate da "oneri impropri" e a dover dipendere in maniera consistente dai trasferimenti pubblici.
Le politiche economiche condotte negli anni settanta innescano, per di più, una vertiginosa spirale inflazionistica; il deficit pubblico, di fatto, finanzia i consumi, mantenendo artificiosamente alta la domanda interna, cosicché l'inflazione passa dal minimo storico dell'1,8%, del 1968, al massimo storico del 21,1%, del 1980.
Se, negli anni '50, l'impresa pubblica aveva conseguito buoni risultati, il quadro cambia negli anni '60. Priva di strategie, nel decennio '63-'72, l'impresa pubblica perde, di fatto, la capacità di produrre profitti: i bilanci dell'Iri iniziano a segnare rosso nel '63, quelli dell'Eni nel '69. La siderurgia dell'Iri è fonte di perdite vertiginose; in un periodo in cui altri paesi industrializzati giudicano prudente contrarre le attività siderurgiche da lasciare ai paesi in via di sviluppo, l'Italia diventa uno dei maggiori produttori d'acciaio (con le relative perdite). Negli anni sessanta viene costruito a Taranto un gigantesco stabilimento, partendo dalla falsa supposizione che esso sarebbe stato il punto di cristallizzazione della crescita economica del Sud-Est del Paese. Dieci anni dopo, un altro imponente complesso siderurgico viene progettato per lo sviluppo del Sud-Ovest, a Gioia Tauro. Viene costruito il porto che frutta immensi profitti alle famiglie mafiose della zona e ad alcuni uomini politici calabresi, e che porta alla devastazione di una ricca e splendida area agricola. Fortunatamente il progetto dello stabilimento siderurgico non verrà mai attuato, sostituito da un progetto di centrale termoelettrica, anch'esso, successivamente, abbandonato. La necessità di coprire quelli che surrettiziamente furono chiamati “i costi della democrazia” è la causa principale della condotta irresponsabile avviata dalle imprese pubbliche negli anni settanta con i relativi scandali finanziari e fallimento delle strategie industriali che ne seguiranno. Il legame di stretta interdipendenza tra la "borghesia di stato" e il potere politico ha avuto come effetto quello di far perdere competitività ed efficienza all'impresa di stato. I dirigenti dei ministeri che dovrebbero operare come cinghia di trasmissione tra lo stato azionista e i manager delle imprese pubbliche si trovano in una posizione molto disagevole. Dall’alto sono stimolati dalle forze politiche, dai partiti o da notabili locali a perseguire scopi diversi da quelli cui le analisi economiche li orienterebbero, dall’altra sono contestati dai manager delle società pubbliche i quali o cercano di opporre le competenze che hanno acquisito in decenni di attività nel settore, oppure devono seguire le indicazioni del partito o del notabile che ha facilitato la loro carriera. Il risultato è la mancanza di una linea programmatoria e la fuga dalle responsabilità Le gravi crisi degli anni novanta trovano evidenti prodromi proprio negli anni settanta.
Di converso, gli anni sessanta vedono un forte incremento della ricchezza prodotta dal settore produttivo privato, specie della piccola e media impresa, che, grazie agli elevati profitti e alla ridotta tassazione, dispone di mezzi propri per l'autofinanziamento; ne conseguono sensibili aumenti dei redditi. Alla fine degli anni sessanta l'economia ha compiuto numerosi e duraturi progressi, nonostante permangano alcune isole di povertà. In vent'anni il reddito è cresciuto più che in tutti i precedenti cento, a Milano c'è la stessa densità di telefoni di Londra, la lira è una delle monete più forti del mondo, la bilancia commerciale registra un consistente avanzo, il numero di lavoratori agricoli è sceso a meno di quattro milioni. Zanussi, Ignis e Indesit primeggiano, in Europa, nel settore degli elettrodomestici, Olivetti è leader europeo per la fornitura di macchine d'ufficio, il settore turistico ha, probabilmente, il maggior giro d'affari del mondo, l'industria automobilistica produce, nel 1967, un milione e mezzo di autovetture, l'Urss, nel 1966, affida alla Fiat la costruzione della prima fabbrica di automobili per una produzione di massa, la Montedison è una delle maggiori imprese chimiche d'Europa e, nel 1969, l'Italia dispone della maggior industria di raffinazione a livello europeo ed è uno dei maggiori produttori di energia elettrica da fonte nucleare. Anche nel Mezzogiorno le condizioni di vita sono migliorate sensibilmente, anche se il divario con il Nord rimane immutato. Nel Sud si concentra l'offerta di lavoro pubblico e questa situazione crea fenomeni paradossali: la posta imbucata a Milano e indirizzata a Milano viene mandata in aereo a Palermo, dove una pletora di impiegati la suddivide in tanti pacchetti che ritornano a Milano in aereo.
La fine del miracolo economico
La storiografia economica fissa al 1964 la fine del miracolo economico. Esso, peraltro, non si esaurisce per morte naturale, ma alla sua conclusione contribuisce, in modo determinante, la stretta messa in atto, proprio nel 1964, per allentare la tensione sui prezzi manifestatasi tra la fine del '62 e il '64. Nella realtà il pericolo dell'inflazione viene drammatizzato per ragioni politiche; Guido Carli, infatti, ha posto in essere adeguate restrizioni al credito, ma Moro, timoroso che l'inflazione possa allarmare i ceti moderati e rafforzare il Pli, vuole dimostrare che centro sinistra e lotta all'inflazione sono compatibili, cosicché, lacci e lacciuoli al credito vengono inaspriti e la dinamica salariale bloccata. L'inflazione è stroncata, ma la "cura da cavallo" cui è stata sottoposta l'economia del Paese interrompe bruscamente un'espansione che ha avvicinato l'Italia alle economie dell'Europa occidentale. Una concausa della fine del grande periodo espansivo è stata la nazionalizzazione dell'energia elettrica; questa, infatti, si abbatte come un ciclone su un'economia ancora debole e in fase di strutturazione. Di converso, tra il '62 e il '74, l'incidenza delle esportazioni sul prodotto interno lordo passa dal 12 al 20%. Le imprese italiane, che devono fronteggiare il rallentamento della domanda interna, per il colpo d'arresto della dinamica salariale del '64 e per la diminuzione dell'occupazione, riescono ad aumentare le esportazioni sfruttando la competitività, assicurata da livelli salariali inferiori di quelli dei concorrenti. Questo periodo sarà il più lungo in cui il saldo delle partite correnti con l'estero resta positivo; sarà la crisi petrolifera del '73 ad invertire la tendenza. È degno di nota che questo balzo delle esportazioni non è realizzato dalle grandi imprese ma dalle piccole e medie, che hanno avviato la politica della flessibilizzazione degli impianti e della specializzazione in nicchie di mercato, e che sanno sfruttare una congiuntura mondiale che continua a essere sostenuta. Dopo gli aumenti salariali degli anni '69 - '70, va maturando una crisi economica che il primo shock petrolifero del '73 rende manifesta. Tra l'autunno caldo e il 1973 il sistema di protezione sociale consente di alimentare la domanda interna e sostenere l'occupazione attraverso il trasferimento di reddito da parte dello stato; la produzione riesce a seguire l'andamento della domanda e si evitano strappi inflazionistici. Ma, gradualmente, si evidenziano le prime incrinature; con il rallentamento della domanda di alcuni beni, la rigidità delle grandi imprese rivela di non poter ridurre i costi di produzione in modo da rilanciare, in modo significativo, la domanda. Con la riduzione delle entrate fiscali aumentano i trasferimenti dello stato per coprire il disavanzo di bilancio e l'inflazione inizia a radicarsi. In questo quadro, la crisi petrolifera è particolarmente dura e colpisce maggiormente l'Italia, per l'acerbità del sistema produttivo e il Regno Unito per la sua obsolescenza.
La crisi si abbatte sulle aziende pubbliche con effetti catastrofici. La flessione della domanda provoca perdite nei bilanci che diventano strutturali quando il management di stato e i politici che li proteggono teorizzano che è possibile produrre in perdita purché vengano coperti i costi fissi (in gran parte oneri finanziari); l'aumento dei tassi di interesse non fa che peggiorare la situazione. Proseguire nella politica di espansione della produzione attraverso l'indebitamento, con il miraggio di una riduzione dei costi che stimoli la domanda, diventa un suicidio per gran parte dell'industria pubblica italiana. La crisi non colpisce solo l'impresa pubblica ma anche quella privata; i capitalisti italiani, senza capitali, e i capitali che non amano il rischio, si affidano alle cure di Mediobanca che, con l'abilità che le è propria nel costruire impalcature finanziarie, si pone l'obiettivo della salvaguardia della grande impresa: Fiat, Pirelli, Snia, Montedison.
La crisi petrolifera e il rilancio del programma nucleare
Nella primavera del 1973, dopo dieci anni dalla nazionalizzazione, il presidente Di Cagno viene sostituito al vertice dell’Enel da Angelini. Era l’anno della guerra del Kippur: in autunno per la prima volta i paesi dell’Occidente industrializzato poterono toccare con mano il peso politico ed economico della dipendenza dal petrolio, e questo contribuì in genere ad accelerare i programmi di sviluppo dell’energia nucleare nel Mondo. Per quanto riguarda l’Italia la crisi del 1973 viene spesso ricordata per le drastiche misure di contenimento dei consumi petroliferi nell’autunno-inverno: domeniche a piedi, interruzione dei programmi Tv alle 10,45, illuminazioni stradali e commerciali ridotte. Tuttavia fra gli eventi notevoli dell’anno si devono annoverare anche il primo tasso di inflazione a due cifre (12%) del dopoguerra, l’aumento del tasso di sconto al 6,5% e di quello sulle anticipazioni al 9%, nonché l’imposizione di un massimale sugli impieghi bancari per limitare il ricorso al credito da parte delle imprese; il tutto dopo un 1972 che era stato di ripresa per tutte le economie occidentali salvo quella italiana. Per l’Enel, invece, il 1973 è l’anno in cui viene concesso (legge 253) un fondo di dotazione di 250 miliardi in cinque anni, la riforma delle tariffe finalizzata “a permettere all’Ente di realizzare programmi a lungo termine di sviluppo del settore energetico, con particolare riguardo per il settore nucleare” (art. 6), e la garanzia dello Stato sulle obbligazioni emesse. Queste misure, e in particolare il fondo di dotazione, secondo i programmatori del tempo arrivarono in ritardo e insufficienti già quando furono adottate, sia per l’entità degli investimenti richiesti dal programma nucleare, sia a causa dell’inflazione e dell’aumento del costo del denaro: «Nel corso del 1973 – è scritto in un documento interno del marzo 1974 – è stato concesso all’Enel un fondo di dotazione di 50 miliardi all’anno per cinque anni, per un totale di 250 miliardi. Se si confronta quest’ultima cifra con il maggior costo di due unità nucleari da 1 milione di kW rispetto a due centrali tradizionali di pari potenza, che è di 300 miliardi, si vede come tale fondo di dotazione nel suo complesso non è neppure sufficiente a coprire i maggiori investimenti richiesti ogni anno per la costruzione delle nuove centrali nucleari e come le difficoltà richiamate non solo permangono, ma si accentuano di molto nel decorso del tempo». La crisi petrolifera, però, convinse il governo a rilanciare il programma nucleare, e a dare all’Enel il mandato per ordinare altre centrali. «È in base agli affidamenti connessi con le recenti decisioni del Cipe – è scritto ancora nel documento già citato – che l’Enel dà corso alla ordinazione di due unità da un milione di kW decise nel 1973 e confida di riprendere il ritmo di due unità all’anno sino al 1976». Come già detto i vergognosi utili degli elettroproduttori privati e dell’Iri (ante nazionalizzazione) in dieci anni sono diventati necessari e sostanziosi incentivi statali all’ente elettrico. Solo in anni successivi ci si rese conto che l’Italia aveva perso il treno per restare accodata ai paesi più industrializzati nel campo dell’energia nucleare. Una colpa fu anche aver estromesso l’Eni dal settore, facendone da un potente alleato un accanito avversario. Per l’Eni e i socialisti sarà un gioco da ragazzi manipolare l’esito del referendum del 1987.
Per consultare la Parte II clicca QUI.

Eugenio Caruso
11 dicembre 2012


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