Nel suo blog sul New York Times, l’economista Paul Krugman porta avanti la sua crociata contro la linea europea che lui considera tutta sacrifici e niente crescita. Sotto il titolo “Bleeding Europe”, il premio Nobel parla di un’Europa sanguinante, salassata inutilmente come i malati nel Medioevo, curati con salassi che li facevano ammalare ancora di più. L’Europa “mi ha sorpreso” con la sua resilienza politica, esordisce Krugman, ricordando le “pene apparentemente senza fine “ che i Paesi debitori sono disposti a sopportare e “l’abilità della Bce a fare appena quanto basta, all’ultimissimo minuto”, per calmare i mercati quando la situazione finanziaria sembra sul punto di esplodere.
Ma l’economia dell’austerità ha seguito “il copione Keynesiano”: “Ripetutamente i tecnocrati ‘responsabili” inducono le loro nazioni ad accettare l’amara medicina dell’austerità; e ripetutamente non riescono a ottenere risultati”, osserva Krugman. Il premio Nobel per l’Economia cita il caso dell’Italia, dove Mario Monti “un brav’uomo, profondamente sincero”, se ne va in anticipo, “sostanzialmente perché le sue politiche stanno consegnando l’Italia alla depressione”. Questo significa, aggiunge l’economista, che l’Italia non avrà tutto quanto Monti (ovvero il “full Monti”, gioco di parole con l’espressione inglese “full monty” o "tutto ciò che è necessario"). La risposta degli eurocrati - continua Krugman – è di mantenere la rotta. “Prima o poi funzionerà – la fatina della fiducia arriverà”, ironizza. “L’Europa sta diventando il continente dove i tempi felici sono sempre dietro l’angolo”. La conclusione è davvero poco lusinghiera per i policymaker europei: “E’ proprio come la medicina medievale: salassavano i pazienti per curare i loro malanni, e quando il sanguinamento li faceva star peggio, li salassavano ancora di più”. «È come la medicina del Medioevo: salassavano i pazienti per curarli e, quando il sanguinamento li faceva star peggio, li salassavano ancora di più».
Krugman ha ragione da vendere nel sollecitare l'Italia e l'Europa a politiche per la crescita. Rigore e crescita vanno tenuti insieme, oggi più che mai, ma se non ci sarà una svolta "rivoluzionaria" sulle politiche per lo sviluppo, l'Italia si avviterà in una recessione sempre meno sostenibile per gli stessi conti pubblici, prima ancora che per le famiglie e per le imprese. Una svolta che dovrà riguardare il prossimo governo, ma anche i partiti, i sindacati, le imprese, la burocrazia, la giustizia amministrativa. E dovrà soprattutto essere il sentire comune del nuovo Parlamento. Le Camere uscenti, purtroppo, quella sensibilità per le ragioni della crescita non l'hanno dimostrata. E ancora di più non la stanno dimostrando in questo finale convulso di legislatura. L'ultima sorpresa di ieri è il taglio di 742 milioni al Fondo per la decontribuzione dei salari di produttività, per finanziare le ricongiunzioni previdenziali. Sempre le imprese - e la crescita economica - rischiano di pagare, attraverso i fondi per la formazione professionale, la dote aggiuntiva di quasi un miliardo per gli ammortizzatori sociali. E per finire c'è la minaccia di una retromarcia su una delle poche norme fiscali introdotte a favore delle aziende nel corso di quest'anno: quella che prevede la deducibilità delle perdite sui crediti. Tutto questo mentre il disegno di legge sulle semplificazioni è rimasto inesorabilmente al palo, insieme a quella delega fiscale che poteva finalmente migliorare il rapporto tra il contribuente e il Fisco. Solo la controriforma forense, che svuota le innovazioni positive introdotte nei mesi scorsi da Monti, sembra interessare, in una surreale inversione delle priorità, un Parlamento a maggioranza di avvocati. Niente male per una politica che nelle parole rivendica l'assoluta urgenza delle politiche per la crescita. Niente male e, cosa peggiore, niente di nuovo. Perché le performance negative del Pil italiano di oggi sono il frutto di riforme non fatte per anni.
Come è stato evidenziato dalla Banca d'Italia e dal Centro studi Confindustria il Paese ha alle spalle almeno un decennio di crescita perduta. Anni in cui i tassi di interesse bassi e una favorevole congiuntura internazionale avevano creato le condizioni per quelle riforme strutturali che potevano e dovevano rendere più competitiva l'economia italiana. Proprio mentre la Germania, che all'inizio del nuovo millenio era considerata la malata d'Europa, ristrutturava invece la propria economia preparando il miracolo di oggi. Chiudere al meglio la legislatura sul tema dell'economia reale, evitando ulteriori offese al senso comune delle priorità, diventa allora un obbligo morale verso il Paese. Ma altrettanto obbligatorio è dar vita a una campagna elettorale centrata sulle cose concrete da fare per rilanciare la capacità di crescita del Paese, per difendere la forza competitiva delle sue aziende, per creare opportunità di lavoro. Perché questo è il tema della prossima legislatura. E chiunque si troverà a governare è su questo che si giocherà la propria credibilità.
............ Eugenio Caruso - 13 dicembre 2012