Da principio, ascoltavo le parole degli uomini e mi fidavo della loro condotta. Oggi, ascolto le parole degli uomini e osservo la loro condotta.
Confucio
All'inizio del nuovo millennio la Germania dovette affrontare una crisi economica di grandi dimensioni. Il valore del PIL, nel 2002 era al -0,1%, mentre nel 2003 fu del -2% (in piena recessione economica). A quel punto il governo tedesco decise che era il momento di dare un'accelerazione alle riforme, già avviate a metà degli anni novanta, che fossero in grado di far ripartire l'economia, e le riforme riguardavano il mercato del lavoro. La considerevole forza contrattuale del lavoro nell’economia tedesca era stata accettata lungamente dalle imprese come un dato di fatto, con i sindacati che avevano dimostrato di saper rappresentare gli interessi dei propri iscritti pur prestando attenzione alle esigenze di efficienza delle imprese. Con la crescita della pressione competitiva, la percezione delle imprese tedesche cambiò radicalmente. I perduranti tassi di disoccupazione furono attribuiti alla rigidità del mercato del lavoro e agli alti livelli salariali. La contrattazione collettiva, fino a quel momento posta a fondamento del sistema, venne messa in discussione e si fece forte la richiesta, da parte delle imprese, di una decentralizzazione degli accordi. Clausole che consentivano alle imprese in difficoltà di derogare rispetto agli accordi collettivi, in concreto pagando salari più bassi, vennero consentite nella Germania orientale e in breve si diffusero a tutto il sistema industriale. Altre deroghe agli accordi collettivi furono consentite attraverso i Betriebliche Bündnisse (accordi a livello di impresa), che venivano negoziati tra management e consigli del lavoro. Il sistema di contrattazione ne risultò più decentralizzato e flessibile. Si ricorda l'accordo sindacati-volkswagen in base al quale l'impresa non procedeva a riduzioni di organico e i lavoratori accettavano una riduzione dello stipendio. Gli istituti della codeterminazione non sono stati seriamente modificati a livello legislativo, ma la nuova centralità dei consigli del lavoro aveva spostato il centro focale della partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa dal consiglio di sorveglianza all’interno dei singoli stabilimenti. Le misure di riforma più complessive del mercato del lavoro, del sistema di tassazione e del welfare state furono messe in campo dal secondo governo Schröder. Fu la Commissione Hartz a presentare un progetto radicale di riforma del mercato del lavoro, poi approvato in diverse fasi. Le prime misure della “Riforma Hartz” furono varate nel corso del 2003. Con esse il governo decentralizzò e snellì il collocamento; creò agenzie per il lavoro interinale; istituì nuovi posti di lavoro con sgravi fiscali (Mini-jobs); cercò di favorire il lavoro autonomo tra i disoccupati; semplificò e alleggerì le regolazioni del lavoro temporaneo e del part-time. L’ultima fase della riforma del mercato del lavoro fu inserita nel programma “Agenda 2010”, che doveva integrare e completare la riforma modificando tassazione, sanità, welfare e sistema pensionistico con lo scopo di ridurre i costi del lavoro e la pressione fiscale esplicita e implicita sui produttori, nonché di velocizzare il riassorbimento della disoccupazione. L'ultima parte della riforma del lavoro (“Hartz IV”) fu la più controversa e divenne oggetto di dure battaglie sindacali che minarono la popolarità del governo. Approvata nell’estate del 2004 ed entrata in vigore dell’anno successivo, prevedeva una radicale riforma del sistema degli ammortizzatori sociali, specie dei sussidi di disoccupazione. In particolare, fu ridotta la durata massima di erogazione e venne prevista una riduzione graduale dell’entità mensile del sostegno, legando l’erogazione dell’aiuto alla sottoscrizione da parte del disoccupato di un contratto vincolante nel quale erano elencati gli obblighi dell’individuo verso lo Stato – primo fra tutti quello di accettare qualunque lavoro legale gli venisse offerto – e dello Stato nei suoi confronti. Gerard Schröder concluse la sua esperienza di governo con le elezioni anticipate del 2005, che riportarono al governo la Cdu nella Grosse Koalition guidata da Angela Merkel. Nonostante il giudizio dei sindacati e dei partiti a sinistra della Spd, le prestazioni dell’economia tedesca hanno dato ragione ai governi che hanno messo mano in modo incisivo alle rigidità di un sistema economico caratterizzato da perduranti incrostazioni corporative. La liberalizzazione dell’economia sociale di mercato ha aperto la Germania ai mercati finanziari globali, permesso la ristrutturazione delle imprese, impendendo così la deindustrializzazione del Paese – che all’inizio degli anni Duemila era una possibilità concreta – e preservando un know-how industriale e tecnologico che è alla base delle prestazioni economiche di cui oggi siamo testimoni. Ora la Germania è la prima potenza industriale dell'Europa e il suo successo poggia su quel periodo di "lacrime e sangue"; nello stesso periodo l'Italia non si curava gran ché della crisi economica che covava sotto la cenere. Nel 2011 l'Ufficio studi di Confartigianato ha messo in fila tutti gli spread tra Italia e Germania. Lo Stato tedesco paga i suoi fornitori privati in 35 giorni, da noi in sei mesi. La pressione fiscale è in Germania tre punti inferiore alla nostra. Il reddito medio tedesco è del 22% superiore al nostro. Dal 2001 al 2011 la nostra spesa pubblica corrente è aumentata di tre volte la loro. I dipendenti pubblici italiani costano l'11,1% del Pil contro il 7,9% di quello tedesco. Per mantenere la burocrazia dobbiamo impegnare il 18,4% della spesa pubblica a fronte del 12% tedesco (cioé 50 miliardi l'anno in più). In Italia l'energia elettrica è più cara del 23%. Il costo dei servizi finanziari è salito nel 2010 del 2,6% da loro è sceso del 3,4%. Le tariffe assicurative sono salite del 5,3% contro un calo dell'1,5% da loro. Tra il 2008 e il 2011 il numero dei posti di lavoro in Italia si è ridotto del 2%, in Germania è cresciuto del 3,7%. Il 62,5% dei tedeschi di età tra i 55 e i 64 anni ha un'occupazione, contro il 38% degli italiani, il che spiega perché la nostra spesa pensionistica tocchi il 16% del Pil e la loro il 13%. Il tasso di occupazione tra i 15 e i 24 anni è del 20,5% in Italia, mentre è del 46,2% in Germania. Lavoratori meno che trentenni impegnati in percorsi di formazione sono da noi il 7,5%, contro il 38,3%, gli apprendisti sono 502.029, contro 1.571.327, le donne occupate sono il 46,1% contro il 66,1%, adulti con grado di istruzione fermo alle medie inferiori è il 44,8%, contro il 14,2%. Sequestro di prodotti contraffatti, nel 2010, 262 ogni mille abitanti, contro 29. Giorni necessari per una licenza di costruzione 258, contro 97. Tempo medio per le procedure di import-export 38 giorni, contro 14. Durata media di una contestazione commerciale 1210 giorni, contro 394. Il 17% degli italiani dialoga via web con la pubblica amministrazione, contro il 37% dei tedeschi. La nostra rete ferroviaria è del 40% meno sviluppata di quella tedesca. Sulla rete viaggia solo il 9% delle merci, contro il 20,9%. In dieci anni la rete autostradale tedesca è cresciuta cinque volte più della nostra. Questi confronti non dànno adito a false interpretazioni; siamo un paese malato, ma l'unico spread di cui politici e media parlano è quello tra Btp e Bund.
31 gennaio 2013
Eugenio Caruso