Sergio Rizzo
Razza stracciona
Uomini e storie di un’Italia che ha perso la rotta
Rizzoli, 2012
E’ una sorta di seconda parte del best seller La casta scritto con Gianantonio Stella. Qui, però, si parla del fasullo re delle cliniche romane, del finanziere che fa crac dopo aver distratto dalla sua impresa quotata in borsa milioni di euro, dell’imprenditore turistico che ricicla i soldi della mafia, del faccendiere iscritto alla P2 che fa affari con un assessore di Cl, del costruttore, che protetto dai partiti, si arricchisce facendo scempio del territorio, del banchiere che nega un piccolo prestito, con la scusa della crisi, e che intasca bonus stratosferici in barba alla crisi. «Vogliamo massimizzare il valore per tutti gli azionisti», dice al Financial Times Roberto Colaninno, dopo aver scalato Telecom Italia con i debiti accollati alla stessa Telecom Italia. «Creeremo valore anche per i piccoli azionisti» assicura il suo successore, Tronchetti Provera, che ha fatto esattamente la stessa operazione.
In parole povere la Razza padrona (E. Scalfari, G. Turani, Feltrrinelli, 1974) degli anni settanta si è trasformata nella razza stracciona di oggi.
Intrecci al limite del codice penale tra banche, fondazioni, assicurazioni e potentati locali e nazionali, connivenze tra controllori e controllati, meccanismi di selezione che premiano familiari e amici, indipendentemente da meriti e capacità, una concezione distorta dell’impresa, drogata dagli incentivi pubblici (ben trenta miliardi nel 2012), incompatibile con i modelli di capitalismo moderno ed evoluto.
Rizzo se la prende con quegli imprenditori che puntano il dito contro lo stato inefficiente e sprecone, senza rendersi conto che sono essi stessi inefficienti e spreconi e condannati dalla stessa malattia dello stato l’incapacità di guardare avanti, oltre la “prossima relazione semestrale”.
Lungo tutto il corso della storia economica del Paese abbiamo fato la conoscenza di un gran numero di “carrozzoni, tutti pubblici: l’Aima, l’Eni, l’Enel, l’Iri, l’Efim, la Gepi, l’Alitalia, Sviluppo Italia, eppure, il 14 agosto 2012 un imprenditore veneto ha comprato tre pagine del Corriere della Sera riempiendole di spiegazioni, dati e fatti che mostrano che il santuario degli industriali La Confindustria non è altro che un pachidermico, inutile carrozzone, fatto acclarato anche dall’uscita della Fiat di Marchionne.
Nel suo primo discorso da Presidente, Squinzi afferma «Il punto centrale del mio programma sarà lottare fino in fondo per battere la burocrazia»; al termine della sua riorganizzazione i collaboratori stretti di Squinzi saranno ben 21 lo stesso numero di stretti collaboratori del presidente usa Barack Obama. Le associazioni federate saranno ben 265 contro le 38 della Confindustria tedesca.
L’entusiastica adesione di due ex come Emma Marcegaglia e Luca di Montezemolo ai centristi di Monti e Casini pone grossi dubbi sul fatto che entrambi come Presidenti di Confindustria criticassero ferocemente i politici.
Ma come sistema datoriale non c’è solo Confindustria. “In Italia le organizzazioni datoriali sono una marea. Tante che risulta difficile perfino contarle, e hanno tutte più o meno gli stessi difetti. Tante che quando ci sono le trattative con il governo, nella famosa sala verde della Presidenza del consiglio, si devono predisporre quattro file di sedie. Il sistema delle rappresentanze si è modellato sullo schema dei rapporti politici. Le cooperative rosse, quelle bianche e quelle verdi. Gli artigiani rossi e quelli di altri colori. I commercianti bianchi e quelli rossastri. Gli agricoltori bianchissimi, bianchi, rosé e rossi. … Le sigle sono 36. Senza che mai si sia riusciti a mettere un vero ordine in questa follia. La ragione è sempre la stessa: la difficoltà di smantellare apparati che non hanno niente da invidiare a certi grumi di burocrazia pubblica”. Naturalmente in queste organizzazioni gli interessi sindacali dei dipendenti, vengono prima degli interessi delle imprese che vi sono rappresentate.
Nel libro ono descritti un po’ tutti gli scandali che hanno caratterizzato questo decennio. Una carrellata di nomi più o meno illustri; ma perché il titolo di Razza Stracciona? Perché si tratta, per lo più, di personaggi che vivono da nababbi sfruttando i soldi dello stato, oppure che sono contigui alla mafia o a banche compiacenti. Non si trovano veri imprenditori che forti di un’idea forzano l’impossibile per imporre un proprio progetto.
Eugenio Caruso - 13 febbraio 2013