Iri tra conservazione e privatizzazioni

E' giunto al punto più alto chi conosce perfettamente ciò che dovrebbe procurargli gioia, chi non ha affidato la propria felicità al potere altrui.

Seneca Lettere morali a Lucilio


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Nel corso degli anni sono apparsi molti saggi che hanno descritto la storia dell'Iri, il più gigantesco dei dinosauri di stato, non per nulla chiamato dagli addetti ai lavori Apatosauro (1). Indubbiamente, però, il periodo che appare più oscuro e interessante insieme è quello che va dalla prima gestione Prodi, fino alle privatizzazioni.
Molti saggi, chiaramente agiografici, tendono a mostrarci la gestione di Prodi come efficace per le sorti dell'istituto, altri dimostrano invece una gestione disinvolta e orientata alla furbizia nel nascondere perdite e debiti, giocando tra l'istituto, le finanziarie e le controllate dalle finanziarie.
Interessanti sono le rivelazioni di Massimo Pini, membro del comitato di presidenza dell'Iri dal 1986 al 1992.

La prima gestione Prodi

Prodi, uomo di De Mita e dalle giuste frequentazioni, nel 1980 fonda un istituto di studi e ricerche economiche, Nomisma, finanziata quasi completamente dalla Bnl, all'epoca presieduta dal socialista di sinistra Mario Nesi. Nominato presidente dell'Iri, Prodi resta presidente del comitato scientifico dell'istituto. Dal 1983 si trova, però, ad essere indagato per commesse stipulate da Nomisma con aziende del gruppo Iri e assolto, nel 1988, in quanto «l'idea che le commesse siano state affidate perché a richiederle erano il presidente dell'Iri, e il suo assistente (Ponzellini, segretario del comitato scientifico di Nomisma nda), alle società collegate, è verosimile, ma non assume gli estremi di reato». Sempre nel 1983, Nomisma firma un'importante commessa con il dipartimento della cooperazione del ministero degli esteri. Anche in questo caso si arriva ad un procedimento penale contro Nomisma; sono rinviati a giudizio due esponenti del ministero, mentre Prodi e il fido Ponzellini sono assolti in istruttoria. Il giudice istruttore afferma, però, «Nomisma non vanta alcuna competenza specifica nel settore di ricerche affidatole, anzi ha formulato una duplicazione di strutture per consentirsi una duplicazione di introiti». Secondo il giudice Casavola, Nomisma «è una società che permette l'affermarsi di studiosi provenienti, prevalentemente, dall'ambiente universitario, e non è infrequente costatare il loro passaggio, dopo un'esperienza in Nomisma, all'Iri o alle società collegate, allo scopo di ricoprire cariche di presidenti o di amministratori delegati». Non per nulla nell'ambiente delle partecipazioni statali Nomisma era chiamata "Nomine".

Secondo i padri della programmazione, l'ufficio studi e strategie dell'Iri sarebbe diventata la fucina dei cervelli, la «centrale di management a disposizione dello stato», secondo la definizione di Saraceno, una delle ragion d'essere dell'Iri in quanto i privati non sarebbero stati in grado di creare una classe manageriale moderna. Come mai, allora, Prodi svuota di importanza quest'ufficio cooptando dall'esterno, specie da Nomisma, consulenti con incarichi a carattere continuativo?.
Insediatosi ai vertici dell'Iri, nel novembre 1982, Prodi annuncia propositi di riforma: nomine professionali, accordi internazionali, sviluppo dei settori avanzati, dismissioni, quotazioni in borsa.
Secondo i calcoli di Franco Bechis su Milano Finanza, «Prodi, all'Iri, lottizzò come un democristiano». Nel suo periodo di presidenza fa approvare 170 nomine delle quali, 93 riguardano democristiani di sinistra, 23 socialisti, e 20 di aria laica. Le 34 nomine di natura tecnica riguardano le banche per le quali valevano criteri diversi di cooptazione. D'altra parte, Prodi deve dare conto delle proprie decisioni ai boiardi dell'Iri, che sono più potenti dello stesso presidente (Ettore Bernabei, Fabiano Fabiani, Umberto Nordio, i grandi banchieri pubblici), a Misasi, plenipotenziario di De Mita, a Fracanzani ministro delle ppss, a Cirino Pomicino, potente presidente della commissione bilancio della Camera.

Ettore Bernabei

Ettore Bernabei, in particolare, già direttore generale della Rai, dal '61 al '74, e quindi amministratore delegato di Italstat, dal '74 al '98, era una specie di superministro occulto della repubblica; quando c'era da compiere una missione delicata, spesso, i capi della Dc ricorrevano a lui e anche i rappresentanti degli altri partiti non disdegnavano il suo aiuto. In Rai la sua azione era stata fondamentale per consegnare la gestione dell'ente alle sinistre (Dc in particolare). In Italstat il suo potere era aumentato; il mandato politico era quello di fare di Italstat, attraverso le controllate, il volano di nuovi investimenti per le grandi costruzioni infrastrutturali, in collaborazione con i costruttori privati.  L'Italstat era la controllante di una decina di società, tra le quali, le più importanti erano Italstrade (che costruiva strade) e Condotte (che costruiva porti, dighe, grandi infrastrutture); entrambe era state fonti di finanziamento per partiti o correnti di partito. Italstrade era l'impresa che aveva salvato il partito socialista di Nenni dalla bancarotta, finanziandolo fino al '64, quando, entrati al governo, i socialisti avevano trovato altre pingui fonti di finanziamento. Dopo il '74 (2) Bernabei impone agli amministratori delle imprese controllate da Italstat il rispetto della legge sul finanziamento. Ma Bernabei trova una situazione particolarmente grave: il doroteo Corbi, amministratore delegato di Condotte, è presidente di Italstat, il socialista Orlandi, amministratore di Italstrade, è vicepresidente di Italstat, i due figurano quindi nella duplice veste di controllori e controllati. Tra i tre boiradi s'instaura un clima di forti attriti; Corbi, che ha vinto la commessa del porto di Bander Abbas (grazie alla mediazione di Vittorio Emanuele di Savoia presso lo scià di Persia), è definito dall'Espresso "uomo dell'anno" e lo stesso settimanale attacca Bernabei. In quegli anni, negli ambienti finanziari, la Persia è considerata Paese ad alto rischio e quella commessa è un'enorme imprudenza; infatti, di lì a poco, trionfa la rivoluzione khomeinista, scoppia la guerra tra Iran e Irak, e il colpo dell'anno del grande manager di stato si trasforma in una debacle (alla fine le perdite ammonteranno a circa 1.000 miliardi). Nello stesso periodo, Italstat individua altre perdite per 400 miliardi della controllata Condotte e Bernabei scopre un finanziamento illecito a politici per 30 miliardi. Intanto il nome di Corbi figura nella lista degli appartenenti alla P2, cosicché Bernabei coglie l'occasione per sbarazzarsi dello scomodo amministratore di Condotte. Nel suo diario, Bernabei racconta che nel 1983, il senatore Petrilli, ex presidente dell'Iri, lo informa di avere la disponibilità di un fondo di circa 200 miliardi, sotto forma di certificati del tesoro, messi a suo tempo a disposizione da Italstrade per operazioni di "lubrificazione" e per il finanziamento dei partiti e del quale Petrilli vuole sbarazzarsi. Bernabei riesce a far rientrare i 200 miliardi; la magistratura farà una serie di indagini su questi fondi neri, ma tutto finirà in una bolla di sapone.

Quando Prodi annuncia trionfalmente che l'Iri, nel 1985, è in utile di 12,4 miliardi si riferisce solo al conto economico, ma la corte dei conti mette in chiaro che la realtà è ben diversa. «Il complessivo risultato di gestione dell'Istituto, per il 1985, cui concorrono … sia il saldo del conto profitti e perdite sia gli utili e le perdite di natura patrimoniale, corrisponde a una perdita di 980,2 miliardi, che si raffronta a quella di 2.347 miliardi del 1984». Lo statuto dell'Iri prevede, infatti, che utili e perdite di natura patrimoniale non vadano inserite nel conto economico; uno dei trucchetti che consentono ai presidenti dell'Istituto di giocare alle tre tavolette con i conti e gettare fumo negli occhi agli inesperti. Nota, inoltre, la corte dei conti che le perdite nette del bilancio consolidato sono di 1.203 miliardi nel 1985 e di 2.737 miliardi nel 1984.

Il caso SME

A fine aprile '95, Prodi, tenta di vendere, con trattativa privata, la finanziaria Sme, nella quale erano confluite, Motta, Alemagna, Star, Cirio e altre società alimentari, alla Buitoni di Carlo De Benedetti. L'Iri, per il 64% del pacchetto azionario, avrebbe incassato poco più di 497 miliardi, da pagarsi a rate. All'annuncio della trattativa si solleva un putiferio di contestazioni, in particolare da parte di Craxi, che promuove, da parte sua, una cordata per la Sme  e l'operazione viene bloccata (3).
Nel 2003, Andreotti in un'intervista affermerà: «… ancora oggi non capisco perché Bettino Craxi, anzicchè limitarsi a bocciare il contratto Iri-De Benedetti, , avesse brigato per far entrare in lizza Sivio Berlusconi e Pietro Barilla».
Tra il 1993 e il 1996 le aziende del gruppo Sme saranno vendute a diversi acquirenti, per un incasso complessivo di circa 2.400 miliardi; pur considerando l'inflazione, il valore attribuito dal mercato alla Sme è stato ben superiore al prezzo concordato tra Prodi e De Benedetti (4). Tra l'altro la Sme, lungi dall'essere solo un peso finanziario per l'Iri, come affermava Prodi, era in grado di produrre utili tra i 70 e i 120 miliardi l'anno. Qualcuno pensò che si era trattato di un favore del professore di Bologna all'amico che con le corazzate Repubblica ed Espresso lo aveva sempre appoggiato. Un'indagine istruttoria, condotta sull'episodio dall'allora ministro di grazia e giustizia, Mino Martinazzoli, afferma «Gli accertamenti hanno evidenziato gravi e profonde perplessità di ordine economico e giuridico …. È evidente una notevole e ingiustificata sottovalutazione del pacchetto azionario della Sme». La condotta di Prodi viene censurata per «l'assoluta mancanza di consultazioni con il comitato direttivo dell'Iri o con possibili acquirenti qualificati». Il sottosegretario alla Presidenza del consiglio, Giuliano Amato, dichiara all'Economist «Craxi ha espresso il suo dissenso sulla correttezza dell'intesa … chiedendo che le privatizzazioni avvengano sul mercato aperto e non a porte chiuse».

Il caso Alfa Romeo

Quando il 29 aprile 1968, Aldo Moro pone la prima pietra dello stabilimento Alfa Sud a Pomigliano d'Arco, il commento di Gianni Agnelli, che interpreta quell'operazione come un atto di ostilità nei confronti della Fiat, è il seguente «Una pazzia … Un'operazione clientelare in grande stile, nient'altro». La storia confermerà la correttezza dei giudizi di Agnelli. Nel 1985, le perdite consolidate del gruppo Alfa Romeo sono pari a 1.685 miliardi e mettono in crisi la stessa controllante, la finanziaria dell'Iri, Finmeccanica, che, tra il 1979 ed il 1986, ha iniettato nell'Alfa Romeo ben 1.281 miliardi e, di questi, ben 615 nel biennio '85-'86. Nel 1986, la Ford fa un'offerta per l'acquisto del gruppo automobilistico, ma il "partito" della Fiat riesce a contrastare l'operazione; il gruppo torinese offre 8.000 miliardi, tra prezzo d'acquisto, assunzione dei debiti e grossi investimenti per il rilancio. Il presidente di Finmeccanica, Franco Viezzoli, afferma che una comparazione tra l'offerta Ford e quella Fiat è difficilmente attuabile, cosicché la Fiat s'impossessa dell'Alfa Romeo. Nella realtà l'Iri si trova nell'impossibilità di usare l'arma della concorrenza tra due contendenti, e la Fiat, pagando 1.750 miliardi a rate (meno 700 miliardi di debiti finanziari che si accolla l'Iri), si impossessa dell'ultimo marchio automobilistico italiano non ancora nelle sue mani. Nel 1995, secondo il ministro dell'industria Clò, la Fiat deve ancora pagare 470 miliardi di quel debito; i grandi investimenti per il rilancio del marchio non ci sono mai stati e la storica fabbrica di Arese, è, praticamente, chiusa.


(1) Creatura gigantesca, dal cervello minuscolo, che poteva raggiungere i 23 metri di lunghezza. Vegetariano, trascorreva la maggior parte della sua vita mangiando, per poter immagazzinare le risorse necessarie per mantenere in vita il suo enorme corpo.

(2) In quell'anno il governo aveva promulgato una legge che vietava alle aziende pubbliche la prassi dei trasferimenti ai partiti.

(3) De Benedetti farà causa all'Iri per inadempinza contrattuale, ma la perderà, in tutti i gradi di giudizio. Anni dopo, verrà intentato un processo al fine di stabilire se gli avvocati di Berlusconi abbiano corrotto alcuni giudici per "far perdere" il nemico storico, De Benedetti.

(4) Nel maggio 2003, nel corso della causa SME, Clelio Darida, ministro delle partecipazioni statali nel 1985, dichiarerà al Corriere della Sera «Sull'affare SME ho sbagliato. Nonostante Prodi mi dicesse che non c'erano altre offerte oltre a quella di Carlo De Benedetti, avrei dovuto indire un'asta pubblica.  … Difesi la scelta di Prodi finchè fu possibile, ma quando cominciarono a piovere offerte più alte capii che non potevo più giustificare una vendita a quel prezzo»


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Il passaggio della storica fabbrica dell'ing. Romeo dallo stato ai privati avrebbe dovuto segnare il rilancio di un marchio che negli anni sessanta e settanta era stato il sogno dei giovani di tutta europa, e non solo. Ma Fiat era una società privata solo di fatto, nella realtà, mantenuta perennemente sotto tutela dello stato (5) e di Mediobanca, non sarà mai in grado di realizzare una politica industriale di ampio respiro. Il marchio Alfa Romeo, come quello altrettanto glorioso di Lancia, finirà per essere assorbito dal grigiore dei modelli Fiat e non verrà sfruttato come strumento di vantaggio competitivo e di rilancio di tutto il gruppo automobilistico (6).

La siderurgia targata Iri

Un altro incubo per i bilanci dell'Iri è rappresentato dalla siderurgia. Sinigaglia, dal 1945 al 1953 presidente di Finsider (la solita finanziaria che controlla le società operative), si era posto l'obiettivo di fornire alle imprese italiane l'acciaio di cui avevano bisogno, a bassi prezzi, anche nella convinzione che i privati non ne fossero in grado.
Il Paese diventa uno dei massimi produttori di acciaio nel mondo, ma i faraonici progetti dell'Iri hanno fragili basi finanziarie e poggiano su un sistema produttivo antieconomico nel suo complesso. La principale società operativa, l'Italsider, nel 1970, ha debiti pari al doppio dei ricavi; nel 1981 viene ricostituito il capitale sociale bruciato dai debiti, con una rivalutazione dei cespiti pari a 2.500 miliardi.
Nel 1983, Prodi fa approvare un piano di risanamento che prevede un'iniezione di liquidità che, sommandosi a quella del 1981, porta, entro il 1985, al gruppo siderurgico la bella somma di 13.159 miliardi. Eppure, nel 1987, il gruppo perde ancora 100 miliardi al mese; tutti i paesi europei stanno, nel frattempo, riducendo la produzione siderurgica. L'assemblea dell'Iri, nel 1987, approva, sia il bilancio di Finsider, che chiude con 835 miliardi di perdite, sia la nomina di Lupo e Gambardella a presidente e amministratore delegato di Finsider. Il lavoro di Gambardella porta, in un anno, alla messa in liquidazione volontaria della Finsider, alla nascita dell'Ilva, all'emersione di migliaia di miliardi di perdite e alla polemica sulla sparizione delle stesse dai conti dell'Iri; nel corso della sua vita travagliata Finsider ha bruciato più di 25.000 miliardi di lire. Ma il risanamento della siderurgia è scritto solo sulla carta, cosicché, come afferma Pini «le conseguenze sia degli errori che dei rimedi escogitati da Prodi andarono a ricadere sul suo successore, Franco Nobili».
Il bubbone della siderurgia esploderà ancora nel 1993, con un duro scontro tra il governo italiano e l'unione europea. In quell'epoca, tutti i governi dell'Ue hanno accettato, in cambio di cospicui aiuti al settore, tagli nella produzione, mentre l'Italia si oppone al processo di ristrutturazione.
Le decisioni del governo italiano sono ostacolate, infatti, dalla grave crisi dell'Ilva che, dopo cinque anni dalla sua costituzione, si trova già gravata da novemila miliardi di debiti finanziari.

Il settore delle telecomunicazioni

La Stet è la più ricca delle finanziarie dell'Iri, non solo perché controlla la Sip, l'impresa statale dei telefoni, ma, secondo la peggiore delle prassi monopolistiche, anche le imprese fornitrici della Sip, come l'Italtel e la Sirti.
Nel 1985, la Fiat, che vuole rafforzare la propria presenza nel settore delle telecomunicazioni, propone la costituzione di Telit, dalla fusione tra la Telettra (Fiat) e l'Italtel (Iri). L'operazione non riesce perché l'Iri propone come amministratore delegato la Bellisario (a.d. dell'Italtel), sostenuta dallo Psi, e la Fiat ne vuole uno estraneo all'influenza dei partiti; nella realtà lo scontro verte su chi, Stet o Fiat, debba controllare la nuova società.
Nel 1989 l'Italtel è venduta alla AT&T americana; nel quadro dell'accordo complessivo la Stet rileva dall'Iri il 26% del pacchetto azionario di Italtel per 440 miliardi. Nel progetto elaborato da Prodi e Fiat, l'Iri ne avrebbe incassati solo 210.

Mediobanca

Nel 1946, nasce Mediobanca, per le pressioni di Raffaele Mattioli, presidente della Comit; affermerà Antonio Maccanico «si trattava di far nascere un istituto speciale con il compito di aiutare la ricostruzione del sistema industriale del Paese, compito che la legge bancaria del 1936 precludeva agli istituti di credito ordinario».
L'ambiente finanziario italiano vede con ostilità la nascita della banca di credito, quattordici banche interpellate si defilano, cosicché viene siglato un accordo solo con le tre banche in possesso dell'Iri (Comit, Credit e Banco di Roma), che diventano i soci di controllo della nuova banca. Mediobanca si procura, attraverso le tre Bin (7), i mezzi per la raccolta finanziaria necessaria per operare come banca d'affari. Essa rappresenta un'anomalia del sistema bancario in quanto, è un'istituzione con una maggioranza di controllo in mano allo stato, al servizio degli interessi dei grandi industriali del Nord, grazie ai depositi delle banche Iri, ma operante in assoluta autonomia, come se fosse un soggetto privato, grazie alla sorveglianza del dominus della banca, Enrico Cuccia, che riesce a tenere i partiti lontani da Mediobanca. Cuccia, come molti personaggi cresciuti all'ombra dei padri del partito d'azione, aveva un gran disprezzo per la politica vissuta come professione esclusiva.
Nel 1958, viene costituito un sindacato di controllo nel quale i privati, pur controllando solo il 6,25% delle azioni, hanno un diritto di veto sulle decisioni della maggioranza costituita dalle tre Bin. Nel 1984 Cuccia cerca di forzare la mano verso una maggiore privatizzazione di Mediobanca, cercando di vendere il 20% di azioni alla Banque Lazard; Prodi reagisce duramente, impedisce che Cuccia venga rieletto nel consiglio di amministrazione tra i consiglieri espressi dall'Iri, sostiene che mai l'Iri avrebbe rinunciato al controllo di Mediobanca, concede di vendere solo il 6% di azioni e fa scadere il patto di sindacato stipulato nel 1958. Seguono furiose lotte di palazzo, nei partiti e nei vari centri di potere; usando le parole di Massimo Pini «Era necessario a quel punto rivolgersi a un mediatore per sciogliere il nodo gordiano senza usare la spada di Gordio: in quell'ottica, il 16 marzo 1987, viene eletto presidente di Mediobanca Antonio Maccanico, nipote di Adolfo Tino» che ne era stato per trent'anni presidente.
Maccanico, anche lui cresciuto alla scuola dell'azionismo, porta Mediobanca alla privatizzazione entro un anno. Il 13 ottobre 1987, Maccanico presenta un piano, che dopo veti, interferenze politiche e relative modifiche, consente alle tre Bin con il 25% e al gruppo privato con un altro 25%, di costituire il sindacato di controllo, con il restante 50% delle azioni posto sul mercato. Nel novembre 1988, le plusvalenze realizzate dalle tre Bin assommeranno a 1.235 miliardi; dall'iniziale "provocazione" di Cuccia, che aveva tanto irritato Prodi, ne nasce quindi un'operazione che porta liquidità nelle casse dell'Iri.

Il 21 aprile 1988, il ministro delle partecipazioni statali, Fracanzani, invita i dirigenti delle imprese pubbliche a presentare le loro proposte per gli stanziamenti, da parte del tesoro, dei fondi di dotazione per il triennio '89-'91; le richieste sono di 3.000 miliardi dall'Eni e di 11.500 miliardi dall'Iri (senza contare gli oneri della reindustrializzazione delle aree ex siderurgiche, valutate 1.600 miliardi). Fracanzani si chiede come si concili la forte richiesta di fondi da parte dell'Iri, con i comunicati trionfalistici di Prodi e dei suoi amici che parlano di una gestione risanata; cosicché invia al presidente dell'Iri una nota nella quale chiede di essere informato preventivamente su tutte le iniziative di una certa importanza. Prodi risponde rivendicando l'autonomia di gestione dell'Istituto e il ministro, con una nota durissima, afferma che il ministro delle ppss è il solo responsabile nei confronti di governo e Parlamento «per tutto quanto attiene alla attività e alla gestione degli enti».

Nel 1989, al termine del prima presidenza Prodi, con le cautele suggerite dalla corte dei conti che afferma «l'attuale sistema contabile dell'Iri rende di non facile comprensione all'esterno l'interpretazione dei risultati economici», il bilancio dell'Iri segna un meno 2.416 miliardi (considerando anche le perdite transitate solo nel conto patrimoniale), il netto patrimoniale dell'Iri passa da 3.959 miliardi del 1982, a 2.102 miliardi, l'indebitamento dell'Istituto da 7.349 del 1982, a 20.873 miliardi (+184%); dei 28.500 miliardi, erogati dallo stato a titolo di fondo di dotazione dalla nascita dell'Iri, Prodi ne ottiene ben 17.500. Ma quali sono, allora, i tanto decantati successi di Prodi all'Iri? E come mai «La stampa di informazione economica non si risparmiò nel diffondere urbi et orbi i trionfalistici comunicati dell'Istituto sul bilancio del 1988», che chiudeva con una perdita di 1.403 miliardi? Solo Milano Finanza riporta le analisi di Mediobanca che mostrano come gli utili siano invece perdite.

La gestione Nobili

Al termine del suo secondo mandato, Prodi lascia al suo successore, l'andreottiano Franco Nobili, una serie di gatte da pelare: dai nuovi fondi di dotazione solo promessi dal governo ma già impegnati, al problema della siderurgia, dai grossi crediti inesigibili di Fincantieri, Italstat e Italimpianti, ai grandi programmi di investimento già approvati senza nessuna copertura finanziaria. Quando Nobili tira le somme del bilancio del 1989 l'indebitamento del gruppo si rivela superiore al previsto e pari a 47.500 miliardi, nonostante che dal 1982 siano affluiti nelle sue casse fondi freschi per oltre 17.000 miliardi.
Tra l'altro i tempi sono cambiati anche per le imprese di stato; Prodi aveva goduto del periodo d'oro della ripresa economica della seconda metà degli anni ottanta, senza essere stato capace di attuare i bellicosi propositi enunciati al suo insediamento. Ma, ora, il debito pubblico, dal quale avevano attinto a piene mani i manager delle imprese pubbliche, ha superato il 100% del pil e Andreotti annuncia tagli alla spesa. Arrivano all'Iri i fondi di dotazione, ma essi sono insufficienti per coprire la voragine di debiti, l'unica soluzione è mettere in borsa partecipazioni di minoranza di alcune imprese.

Nel febbraio 1989, Leon Brittan viene nominato commissario alla concorrenza nella Cee; egli cerca di imporre le sue idee, di stampo thatcheriano, e, nel suo mirino, mette in primo luogo le imprese pubbliche. Nel consiglio Cee del 15 ottobre 1990, Brittan contesta, alla radice, ogni forma di sovvenzione degli stati alle imprese, pubbliche o private; è il trionfo di una visione liberista che toglie agli stati il potere di politiche industriali difensive e anticoncorrenziali.
Per dare un segnale che, da quel momento, l'Iri si sarebbe finanziata con i propri cespiti, alla fine del 1991, Nobili decide di mettere in vendita la Cementir; l'asta viene vinta dal gruppo Caltagirone, per 480 miliardi e ciò significa una plusvalenza di 193 miliardi per l'Istituto.
Nel 1989, il Banco di Roma, da tre anni non distribuisce dividendi ed è un altro elemento di preoccupazione per Nobili: Andreotti diventa, pertanto, l'ispiratore della costituzione del grande polo bancario capitolino con la concentrazione della Cassa di risparmio di Roma, del Banco di Santo Spirito e del Banco di Roma e con la nascita di quella che verrà chiamata Banca di Roma.

Nello stesso periodo, Andreotti tenta un attacco insidioso contro Cuccia; per mettere lo gnomo di via Filodrammatici con le spalle al muro sarebbe stato sufficiente non rinnovare l'accordo che impegnava le tre Bin dell'Iri a vendere alla propria clientela certificati Mediobanca. La questione del rinnovo viene affidata al presidente del Banco di Roma, che fa slittare nel tempo la convenzione; ma Cuccia, nonostante gli ottantatré anni e pur essendo reduce da un'operazione chirurgica, affila le armi. La maggioranza del consiglio dell'Iri è favorevole al rinnovo, i repubblicani premono e Craxi si muove per crearsi un rapporto privilegiato con l'alta finanza; Nobili preferisce evitare uno scontro, che è diventato prevalentemente politico, e, sia pure in extremis, la convenzione viene rinnovata.


(5) Ad esempio grazie ai cospicui finanziamenti per gli investimenti nel sud e ai molteplici provvedimenti a favore della rottamazione.

(6) Con l'introduzione della moneta unica e con l'assottigliamento degli aiuti statali la Fiat non sarà in grado di affrontare una concorrenza sempre più agguerrita, perdendo quote di mercato sempre maggiori.

(7) Banche di interesse nazionale


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Il 12 settembre 1991, Michele Tedeschi rivela che gli apporti dello stato all'Iri, ammontano (a moneta 1990) a 41.776 miliardi, dei quali 32.837 sono affluiti tra il 1980 e il 1985; tra il 1986 e il 1990 gli apporti dello stato sono stati di soli 2.147 miliardi, ma l'indebitamento dell'Istituto è aumentato di 20.000 miliardi. Giovanni Goria, infatti, ministro del tesoro di Craxi e grande amico di Prodi, aveva inventato un altro trucchetto: lo stato in sostituzione dei fondi di dotazione concede all'Iri, per legge, di emettere obbligazioni a tasso agevolato con rimborso a carico dello stato.

Ma l'epoca dei soldi facili è oramai agli sgoccioli, il 15 ottobre 1991, la corte dei conti dichiara illegittima la legge 42/91 che legittima la concessione dei fondi di dotazione, poiché, l'articolo 81 della costituzione, cita «Ogni altra legge che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte». Andreotti cerca di dare una mano a Nobili, ma le elezioni incombenti non consentono di tradurre in legge una modifica della 42/91, che avrebbe permesso di aggirare l'ostacolo posto dalla corte dei conti. I fondi arriveranno, nel 1993, con Prodi nuovamente alla presidenza; afferma Pini «… a conferma che gli uomini della sinistra democristiana mantenevano un tocco magico ineguagliabile con le casse dello stato».
Nel 1991, Nobili, provenendo dal settore dei grandi lavori, elabora il progetto di fusione tra Italstat e Italimpianti, entrambe in situazioni desolanti, pensando di produrre delle sinergie; la nuova società Iritecna eredita, però, 382 miliardi di perdite da Italstat e 303 miliardi da Italimpianti. La fusione, invece di creare i vantaggi dello scaling up, crea gli svantaggi delle sovrapposizioni, i due amministratori delegati decidono, infatti, autonomamente senza alcun coordinamento. Nel giugno 1992, a causa di ben 1800 miliardi di crediti a rischio delle passate gestioni, l'indebitamento di Iritecna è aumentato di altri 500 miliardi.
Ma proprio da Iritecna arrivano le frecce avvelenate contro la gestione Nobili Tutto parte da un'interrogazione parlamentare di Castagnetti, braccio destro di De Mita in Emilia Romagna, su Italsanità, una piccola società di Italstat, che si occupa di residenze per anziani. La stampa economica parla di lotte di potere all'interno della Dc tra sottocorrenti del gruppo degli andreottiani. La successiva inchiesta della magistratura mette, invece, in luce lo scandalo dei "vecchietti d'oro", che porta a molti arresti e tra questi anche a quello di Nobili (successivamente dichiarato estraneo alla losca vicenda) e alla rimozione di Nobili stesso dalla presidenza dell'Iri. Il processo di Roma mette in evidenza il livello di degrado delle ppss, con un intreccio di complicità tra partiti, magistrati, finanzieri senza scrupoli, capaci di attingere a piene mani nei fondi dello stato, e dirigenti delle ppss in combutta con loro.

Il 1 ottobre 1991, Guido Carli, ministro del tesoro del governo Andreotti, illustrando la legge finanziaria per il 1992, indica tre indirizzi programmatici, contenere la spesa per il personale pubblico, contenere la spesa previdenziale e sanitaria, avviare la vendita di aziende pubbliche; lo stato si ripromette di incassare, nel 1992, da questa voce circa 15.000 miliardi.

Con l'annuncio di un decreto legge per la trasformazione in spa degli enti pubblici economici e di un disegno di legge per l'abolizione del ministero delle ppss, Andreotti, secondo Eugenio Scalfari, «arrivato il momento di guadare il fiume, ha abbandonato Cirino Pomicino ed è salito a cavalcioni sulle spalle di Carli», in nome di «una politica del rigore che è stata l'ultima piroetta di questo espertissimo giocoliere».
Chi non ha voglia di scherzare, guarda ai calcoli del professor Scognamiglio: risulta che i fondi versati dallo stato alle ppss, a tassi di interesse corrente e a moneta 1990, assommano a lire 245.000 miliardi (un quarto del debito complessivo dello stato), dei quali 100.000 erogati negli ultimi dieci anni.

Avvio della privatizzazione con il governo Amato

Amato, salito al governo il 28 giugno 1992, mette i partiti (in quel momento più impegnati a seguire faccende giudiziarie che problemi economici) davanti al fatto compiuto del decreto legge 333 dell'11 luglio 1992, che prevede la trasformazione di Iri, Eni, Enel e Ina in spa e la liquidazione dell'Egam. I consigli di amministrazione vengono azzerati e composti da tre sole persone, il presidente uscente, un dirigente ministeriale di nomina del tesoro e un amministratore delegato scelto tra i direttori generali; una sorta di gestione commissariale diretta dal ministero del tesoro. All'Eni, presidente rimane Gabriele Cagliari e alla poltrona di amministratore delegato approda Bernabè, all'Iri, il presidente Franco Nobili viene affiancato da Michele Tedeschi, all'Enel, il presidente Franco Viezzoli lavorerà in tandem con Alfonso Limbruno e all'Ina, Lorenzo Pallesi lavorerà con Mario Fornari.
I media parlano di privatizzazioni, della fine dei finanziamenti alle imprese pubbliche, di colpo di mano, ma in realtà, al momento, si tratta del passaggio degli enti pubblici, dalla forma giuridica pubblica a quella privata, con l'unico immediato risultato che lo stato non potrà più servirsi delle ppss per finalità sociali.
Il 18 luglio, con decreto legge 340, il governo mette in liquidazione l'Efim, le cui controllate passano all'Iri; inoltre il governo congela, per due anni, i debiti del gruppo, compresi quelli esteri, sollevando lo sdegno del mondo economico internazionale e facendo declassare il debitore Italia da AA1 ad AA3 da parte dell'agenzia di rating Moody's. Lo stesso Amato ammetterà, nel 1993, «È stato grave, da parte mia, prendere quella decisione che ha sconquassato la credibilità internazionale dell'Italia e della lira».
La trasformazione degli enti da diritto pubblico a diritto privato non significa, automaticamente, che lo stato non potrà più intervenire a sostegno delle imprese; infatti, anche i privati hanno sempre beneficiato di finanziamenti pubblici. A titolo di esempio, durante la permanenza di Cirino Pomicino alla commissione bilancio, le imprese private hanno beneficiato di almeno 10.000 miliardi di finanziamenti e di questi 3.000 sono andati alla Fiat per lo stabilimento di Melfi.

Nel rapporto del ministro Barucci ad Amato, il programma di riordino di Iri, Eni, Enel, Imi e Ina privilegia l'ipotesi della costituzione di nuclei stabili di controllo delle imprese pubbliche da privatizzare contro l'ipotesi della public company sostenuta da tutta la sinistra e dai sindacati. Il primo obiettivo del tesoro è la privatizzazione delle banche, «esse possono essere cedute senza provocare crisi occupazionali»; le camere chiedono un aggiornamento al marzo del 1993 del programma proposto dal tesoro e si limitano a notare la mancanza di un progetto di politica industriale che sottenda il processo delle privatizzazioni nel loro complesso.

Le privatizzazioni con il governo Ciampi

Nell'aprile '93, si insedia al governo Carlo Azeglio Ciampi, che, al convegno I Nobel a Milano, afferma che i mali d'Italia si identificano in tre rigidità: quella del sistema economico finanziario, basato su grandi imprese in gran parte di proprietà pubblica incapaci di sviluppare un vero mercato del capitale di rischio; la rigidità del mercato del lavoro e del sistema fiscale; la rigidità della pubblica amministrazione.
«Assieme, queste tre rigidità - afferma Ciampi - hanno disegnato un volto del sistema economico italiano in cui la propensione naturale per il mercato è stata svilita, in cui lo stato è stato troppo presente dove non avrebbe dovuto essere - favorendo in tal modo l'inquinamento da corruzione - e non abbastanza presente dove avrebbe dovuto: nell'azione in difesa della concorrenza, nello sradicamento dell'economia criminale, nella promozione dei mercati finanziari al servizio di tutti». I politici nostrani mostrano sempre una grande capacità nell'individuazione delle cause delle anomalie della nostra economia, come se tali anomalie siano da attribuirsi, solo, ad altri e non in parte anche a se stessi.

Il Ciampi governatore della Banca d'Italia aveva inviato frequenti messaggi ai politici circa la sua contrarietà che le banche entrassero nel processo di privatizzazione degli enti pubblici, ma ora il Ciampi capo del governo può essere di avviso contrario. D'altra parte, a fine 1992, le sofferenze bancarie ammontano a circa 38.000 miliardi, ciò significa che le industrie debitrici non sono in grado di restituire i crediti ricevuti; l'unica via d'uscita è quella di trasformare i crediti inesigibili in azioni.
Ciampi, l'11 giugno 1993, abolisce il divieto della legge bancaria del 1936, cosicché le banche, ora, possono controllare fino al 15% del capitale di ogni impresa. Ma le stesse banche sono perplesse perché si trovano davanti ad un panorama disastrato di grandi debitori, cosicché, per stabilizzare la situazione, il 10 giugno, la Banca d'Italia invia a tutto il sistema creditizio una circolare in base alla quale i prestiti a Iri, Ina, Eni ed Enel vengono definiti a rischio zero essendo garantiti dallo stato.

Il 30 giugno, Ciampi nomina un comitato di consulenza per le privatizzazioni, presieduto da Mario Draghi. Per Enel, Ina, Imi, Stet, Agip, Comit e Credit si dovrebbe procedere subito alla privatizzazione, previa la costituzione di nuclei stabili; ai primi di agosto, la commissione arriva alla conclusione che le banche debbano avere la precedenza. Intanto si prepara uno scontro tra il ministro dell'industria, Paolo Savona e Romano Prodi, tornato alla testa dell'Iri. Il primo è favorevole alla costituzione dei "noccioli duri" alla francese, mentre Prodi è favorevole alla public company. Le dimissioni di Ciampi, il 13 gennaio 1994, pongono fine alla querelle.

Il ritorno di Prodi

Con il ritorno di Prodi all'Iri, riprende anche il flusso monetario: 2.100 miliardi di crediti di imposta, vanamente sollecitati da Nobili, 3.000 miliardi per la siderurgia, che Prodi aveva già impegnati nel lontano '87, e infine la possibilità, concessa all'Iri, di sostituire i debiti verso le banche con un importo, presso la cassa depositi e prestiti, fino a 10.000 miliardi di obbligazioni emesse dal tesoro e sottoscritte dall'Iri, che avrebbe restituito capitale e interessi con i proventi delle privatizzazioni.
Data la necessità di produrre liquidità, nel settembre 1993, l'Iri affida a Lehman Brothers l'incarico del collocamento in borsa delle azioni della Comit e alla Goldman Sachs (della quale Prodi era consulente prima di far ritorno all'Iri) delle azioni del Credit. Sotto le acque limacciose degli intrecci tra politica ed economia si svolgono le grandi manovre tra chi opta per il nocciolo duro e chi per la public company; degno di nota un intervento di Giorgio La Malfa che afferma «Al professor Prodi non riconosco alcun titolo di privatizzatore di aziende, e tantomeno, di risanatore dell'Iri. Quel che gli riconosco è invece un preciso ruolo politico: il presidente dell'Iri non è un tecnico, ma un fior di democristiano. La spartizione continua».
Ciampi impone, per la vendita delle banche, al fine di evitare la costituzione di un nucleo di controllo, il limite del 3% al possesso azionario per ogni soggetto.

Intanto Prodi prosegue l'azione di Nobili volta alla vendita della Sme, che era stata smembrata; deve essere venduta la Cbd (Cirio-Bertolli-De Rica), gruppo valutato, nel marzo '93, dal Credito Italiano tra i 900 e i 1.350 miliardi. Prodi convince il consiglio di amministrazione di abbandonare la strada dell'asta competitiva, sulla quale si stava muovendo Nobili, e di procedere per trattativa privata.


La finanziaria lucana di Saverio Lamiranda, la Fisvi, infatti, si è fatta avanti offrendo 310 miliardi per il 62,12% delle azioni possedute dall'Iri. Nonostante il basso prezzo, sembra difficile che la Fisvi possieda i 310 miliardi offerti, più i 200 miliardi per l'opa sul resto delle azioni. Secondo il Corriere della sera del 13 ottobre 1993, «La voce insistente è che la Fisvi abbia l'appoggio di potentati politici, più esattamente della sinistra democristiana campana». In realtà la Fisvi, prima di fare l'offerta per tutto il gruppo Cdb, aveva organizzato la vendita, della Bertolli alla Unilit, con il consenso del consiglio di amministrazione dell'Iri, per la somma di 253 miliardi. Il contratto di vendita della Cdb impegnava la Fisvi ad assicurare la continuità produttiva del gruppo, nel suo insieme, ma di fatto l'Iri aveva acconsentito che la Fisvi smembrasse il gruppo prima ancora di averlo pagato; Cirio e De Rica finiscono, successivamente, nelle mani del finanziere Sergio Cragnotti (8). L'operazione, che presenta molti lati oscuri, è anche inquinata dal fatto che Prodi, dal 1990 al 1993, è stato membro dello staff dirigenziale che decide le strategie di acquisizioni della Unilever. Secondo il perito del sostituto procuratore Geremia, che aveva aperto un procedimento penale nei confronti dei componenti del consiglio di amministrazione dell'Iri, «È innegabile, e documentato, che la Unilever e la Unilit (la filiale italiana) hanno inviato offerte, condotto trattative dirette e indirette con l'Iri e gestito l'acquisto del settore olio (la Bertolli) in epoca precedente alla stipula del contratto definitivo fra Fisvi e Iri». Secondo il perito, se l'Iri avesse fatto da sola l'operazione concessa alla Fisvi, vendere cioè separatamente le tre società del gruppo, avrebbe potuto incassare 700 miliardi.
Il 22 dicembre 1997, il gip Eduardo Landi non concede il rinvio a giudizio di Prodi, che è diventato, nel frattempo, presidente del consiglio.
 Prodi è sempre stato molto vicino ai poteri finanziari mondiali Goldman Sachs, Unilever, George Soros, il grande speculatore sulla lira, ma Prodi è un uomo d'onore e antepone sempre gli interessi del Paese a quelli dei potentati finanziari.

Il 18 aprile 1993, gli italiani sono chiamati alle urne per decidere, con voto referendario, delle sorti del ministero delle partecipazioni statali e ne decretano la fine; non molti, probabilmente, al di là della voglia generalizzata di cambiamento, hanno capito che quel voto segna una data storica per l'economia del Paese.

La vendita di Credit e Comit

Nel dicembre 1993, si procede alla vendita del Credito Italiano, che, nelle intenzioni di Prodi, dovrà diventare una public company. Il prezzo di vendita per azione viene stabilito dalla Goldman Sachs a 2.075 lire per una valutazione della banca pari a 2.700 miliardi, contro la valutazione di 8/9.000 miliardi fatta da Merrill Lynch, all'epoca di Nobili. Per Cuccia è un gioco da ragazzi mettere insieme un gruppo di investitori, che, sommando il 3% delle azioni di ciascuno, acquisiscono il controllo della banca. Si realizza pertanto il tanto deprecato nocciolo duro che non è costretto, però, a pagare il premio di maggioranza e non è tenuto all'obbligo dell'opa.
Per la Comit, Prodi e il presidente della banca, Siglienti, escogitano il collocamento delle azioni a Wall Street, per cercare di realizzare, questa volta, una vera public company e aggirare l'ostacolo Cuccia. Ma Ciampi spinge per accelerare i tempi e vendere la banca prima delle elezioni del 27 marzo '94. Le azioni vengono cedute sul solo mercato nazionale e, come il Credito, anche Comit risulta, alla fine, controllata da azionisti amici di Mediobanca. Successivamente, Siglienti commenterà «Due sono le versioni sempre circolate: il presidente dell'Iri era d'accordo con Cuccia; Prodi era ingenuo o qualcosa di più … Io propendo per la seconda interpretazione».
Indubbiamente fu un fatto positivo che le banche vedessero la costituzione di un nucleo di azionisti di riferimento coordinati da Mediobanca, quello che il cittadino non può accettare è che due gioielli del sistema bancario italiano siano stati ceduti per poco più di 1.000 miliardi, con una perdita secca di diverse migliaia di miliardi per le casse dello stato. Tra l'altro, in seguito, sia Credit che Comit si mostreranno poco acquiescenti ai voleri di Mediobanca e seguiranno ciascuna un destino diverso, la prima dando luogo a Unicredito e la seconda entrando nel gruppo Intesa.

Le presidenze Tedeschi, Gross Pietro e Gnudi.

Nonostante l'ottimismo che Prodi riversava quotidianamente attraverso i media, al 31 dicembre 1993, la massa dei debiti del gruppo raggiunge la cifra di 75.000 miliardi, contro un patrimonio netto di 20.000 miliardi; all'endemica crisi finanziaria si somma, inoltre, il peggioramento del conto economico, a causa della vendita delle aziende che producevano utili. Dopo la vittoria del centro destra, il 27 luglio 1994, Prodi viene sostituito da Michele Tedeschi, un dirigente con 35 anni di anzianità nell'Istituto. Nei confronti di Berlusconi peserà il sospetto di un'eccessiva acquiescenza verso le posizioni di Alleanza nazionale, nella quale Pietro Armani, ex vice presidente dell'Iri, il sottosegretario al bilancio Antonio Parlato e il vice-presidente del consiglio Tatarella non erano certamente fautori delle privatizzazioni. Il comportamento "anomalo" del liberista Berlusconi è anche evidenziato dal mantenimento, nel decreto legge 31 maggio 1994, della golden share, l'azione che consente al tesoro di disporre di poteri speciali nelle aziende operanti nei settori della difesa, dei trasporti, delle telecomunicazioni, dell'energia, e dei servizi pubblici
Tedeschi resta, comunque, fedele al suo azionista, il ministro del tesoro Lamberto Dini, ma soprattutto a Mario Draghi che vuole proseguire la politica di privatizzazioni iniziata dal suo mentore, Guido Carli. Tedeschi, durante i governi Dini e Prodi, avvia la vendita di centinaia di piccole imprese, smantella la siderurgia, vende al tesoro la partecipazione Iri nella Stet per 14.530 miliardi e manda a casa Fabiano Fabiani (9), padre-padrone di Finmeccanica. La finanziaria, nonostante controlli aziende ad alta tecnologia, come Alenia, Agusta, Ansaldo, Hartman & Braun, Mannesmann, Elsag Bailey, continua ad accumulare debiti.
Il 24 gennaio 1997, il tesoro licenzia Biagio Agnes ed Ernesto Pascale e mette a capo di Telecom Italia, Guido Rossi. Nell'ottobre del '97, il tesoro decide la privatizzazione del colosso telefonico con un'offerta pubblica e con la costituzione di un nucleo stabile di controllo (Ifil, Credit, Imi e Generali), che detiene l'8% delle azioni; i media insinuano che la Fiat voglia impossessarsi di Telecom, detenendo solo lo 0,6% del capitale. 

Nel giugno 1997, Prodi, da primo ministro, sostituisce, alla testa dell'Iri, Tedeschi con Gian Maria Gros-Pietro (dal 1995 vice presidente del comitato scientifico di Nomisma), al quale Prodi affida il non facile incarico di liquidare l'Iri in un triennio e di rimodellare, attraverso le privatizzazioni, un capitalismo nazionale; la tentazione di pianificare e programmare è un virus che non abbandona mai i democristiani di sinistra.

Alla fine del '99, Gros-Pietro viene trasferito al vertice dell'Eni e Gnudi lo sostituisce, portando alla definitiva liquidazione dello storico Istituto.

Con la scomparsa dell'Iri si sono alzate molte voci a difesa dell'Istituto, non solo e in quanto ente che si era sobbarcato oneri sociali impropri, ma proprio per la sua validità economica. Nella realtà, quando sono state messe sul mercato aziende ex ppss, delle quali l'investitore aveva la garanzia che fossero del tutto uscite dal controllo statale, allora i risparmiatori hanno fatto la fila alle banche; nei casi in cui la realtà ha mostrato il contrario, il mercato le ha penalizzate. Il conto economico finale dell'Iri è tornato in equilibrio quando si è creata la condizione virtuosa della vendita delle sue aziende al tesoro, in attesa del collocamento sul mercato, e quindi della completa privatizzazione. Se i risparmiatori non avessero visto questo passaggio il valore delle aziende vendute dall'Iri non sarebbe stato quello di mercato, ma quello risultante da gestioni perennemente inefficienti e inefficaci. Le privatizzazioni hanno, di fatto, dato una nuova vitalità ad aziende decotte, hanno permesso una risveglio della borsa e tolta la spina dal cuore economico del Paese, i debiti dalle partecipazioni statali.

È ovvio che coloro, e furono tanti, che, dall'esistenza delle partecipazioni statali, traevano benefici economici ingiustificati, sviluppavano carriere impensabili nel libero mercato, senza dover dar conto degli errori, potevano esercitare impunemente lo sciacallaggio economico, bene, costoro e alcuni, pochi, idealisti, saranno sempre tenaci difensori del valore dell'impresa di stato.
Come quasi sempre accade, esiste sempre un'eccezione che conferma la regola; la Sgs Ates è un'azienda dell'Iri che produce microchip e debiti. La Stet, che controlla la Sgs, affida a un "cacciatore di teste" l'incarico di trovare un nuovo numero uno per l'azienda. Viene individuato in Pasquale Pistorio, un siciliano responsabile delle attività internazionali della Motorola; ancora una volta quel serbatoio di competenze che sarebbe dovuta essere l'Iri, non è in grado di sfornare un manager di buone qualità. Pistorio, in quasi vent'anni, senza clamori e senza farsi condizionare dai partiti, conclude una fusione con la francese Thompson, un'altra azienda pubblica in cattive acque e crea la St-microelectronics, una multinazionale che scala i vertici delle classifiche mondiali dell'altra tecnologia: Pistorio afferma di aver puntato su tre semplici principi, realizzare prodotti competitivi, fare profitti e creare uno spirito di gruppo. I risultati sono sotto gli occhi di tutti la St alle borse di Milano, Parigi e New York, nel 2000, capitalizza più di 100.000 miliardi di lire (nel 2000).

Il 30 giugno 2000, segna la data dell'ultima assemblea dell'Iri; ma altri precedenti di liquidazione dovrebbero mettere in stato di allerta.
A otto anni dalla sua liquidazione, l'Efim è ancora vivo e vegeto, così come sopravvivono più di quattrocento enti inutili "dichiarati" liquidati, tanto che è stato creato il più inutile degli enti inutili l'ispettorato generale per la liquidazione degli enti disciolti (più di trecento impiegati e trenta miliardi di costi).
L'Iri non interromperà la tradizione e sarà ancora in vita tra venti o trent'anni. Afferma Paolo Glisenti (10); «Quella del commissario liquidatore è diventata una delle professioni più stabili e meglio remunerate».
D'altra parte, la vitalità degli enti inutili posti in liquidazione è impressionante se si pensa, ad esempio, che l'Unione edilizia nazionale, messa in liquidazione nel 1923 da re Vittorio Emanuele, è ancora in vita. Gli enormi costi legati alla liquidazione di enti dichiarati disciolti sono, ovviamente, a carico del contribuente, che, rallegrato dalla notizia della liquidazione di questo o quel soggetto pubblico, non sa che, proprio da quel momento, quel soggetto pubblico inizia una nuova vita da vero parassita economico.
Se il contenitore Iri è stato posto in liquidazione, il tesoro ha ereditato, tra le più importanti, la proprietà della Rai, il controllo della Finmeccanica, la Finmare, la Fincantieri, la Tirrenia, l'Alitalia (11).
Queste nuove società si aggiungono alle già controllate Enel, Eni, Ferrovie, Poste, Azienda tabacchi, Poligrafico e ad una grande quantità di altre partecipazioni (12).

Eugenio Caruso


Per approndire l'argomento vai al successo editoriale L'estinzione dei dinosauri di stato di Eugenio Caruso.


(8) Nel 2003 le banche chiuderanno i rubinetti del credito e il finanziere/faccendiere romano sarà costretto ad abbandonare la Cirio oberata da 500 milioni di euro di debiti.

(9) Il grande boiardo non scompare, diventa amministratore delegato di Cinecittà, un altro carrozzone pubblico.

(10) Nel luglio del 2002, l'Iri muore definitivamente, ma, attraverso una fusione per incorporazione rinasce sotto il nome di Fintecna.

(11) Di converso, alcune centinaia di aziende minori sono state privatizzate.

(12) Nel 2002, il tesoro si configura, ancora, come una delle maggiori conglomerate del mondo.


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