Iri tra conservazione e privatizzazioniE' giunto al punto più alto chi conosce perfettamente ciò che dovrebbe procurargli gioia, chi non ha affidato la propria felicità al potere altrui. Seneca Lettere morali a Lucilio Nel corso degli anni sono apparsi molti saggi che hanno descritto la storia dell'Iri, il più gigantesco dei dinosauri di stato, non per nulla chiamato dagli addetti ai lavori Apatosauro (1). Indubbiamente, però, il periodo che appare più oscuro e interessante insieme è quello che va dalla prima gestione Prodi, fino alle privatizzazioni. La prima gestione ProdiProdi, uomo di De Mita e dalle giuste frequentazioni, nel 1980 fonda un istituto di studi e ricerche economiche, Nomisma, finanziata quasi completamente dalla Bnl, all'epoca presieduta dal socialista di sinistra Mario Nesi. Nominato presidente dell'Iri, Prodi resta presidente del comitato scientifico dell'istituto. Dal 1983 si trova, però, ad essere indagato per commesse stipulate da Nomisma con aziende del gruppo Iri e assolto, nel 1988, in quanto «l'idea che le commesse siano state affidate perché a richiederle erano il presidente dell'Iri, e il suo assistente (Ponzellini, segretario del comitato scientifico di Nomisma nda), alle società collegate, è verosimile, ma non assume gli estremi di reato». Sempre nel 1983, Nomisma firma un'importante commessa con il dipartimento della cooperazione del ministero degli esteri. Anche in questo caso si arriva ad un procedimento penale contro Nomisma; sono rinviati a giudizio due esponenti del ministero, mentre Prodi e il fido Ponzellini sono assolti in istruttoria. Il giudice istruttore afferma, però, «Nomisma non vanta alcuna competenza specifica nel settore di ricerche affidatole, anzi ha formulato una duplicazione di strutture per consentirsi una duplicazione di introiti». Secondo il giudice Casavola, Nomisma «è una società che permette l'affermarsi di studiosi provenienti, prevalentemente, dall'ambiente universitario, e non è infrequente costatare il loro passaggio, dopo un'esperienza in Nomisma, all'Iri o alle società collegate, allo scopo di ricoprire cariche di presidenti o di amministratori delegati». Non per nulla nell'ambiente delle partecipazioni statali Nomisma era chiamata "Nomine". Secondo i padri della programmazione, l'ufficio studi e strategie dell'Iri sarebbe diventata la fucina dei cervelli, la «centrale di management a disposizione dello stato», secondo la definizione di Saraceno, una delle ragion d'essere dell'Iri in quanto i privati non sarebbero stati in grado di creare una classe manageriale moderna. Come mai, allora, Prodi svuota di importanza quest'ufficio cooptando dall'esterno, specie da Nomisma, consulenti con incarichi a carattere continuativo?. Ettore Bernabei Ettore Bernabei, in particolare, già direttore generale della Rai, dal '61 al '74, e quindi amministratore delegato di Italstat, dal '74 al '98, era una specie di superministro occulto della repubblica; quando c'era da compiere una missione delicata, spesso, i capi della Dc ricorrevano a lui e anche i rappresentanti degli altri partiti non disdegnavano il suo aiuto. In Rai la sua azione era stata fondamentale per consegnare la gestione dell'ente alle sinistre (Dc in particolare). In Italstat il suo potere era aumentato; il mandato politico era quello di fare di Italstat, attraverso le controllate, il volano di nuovi investimenti per le grandi costruzioni infrastrutturali, in collaborazione con i costruttori privati. L'Italstat era la controllante di una decina di società, tra le quali, le più importanti erano Italstrade (che costruiva strade) e Condotte (che costruiva porti, dighe, grandi infrastrutture); entrambe era state fonti di finanziamento per partiti o correnti di partito. Italstrade era l'impresa che aveva salvato il partito socialista di Nenni dalla bancarotta, finanziandolo fino al '64, quando, entrati al governo, i socialisti avevano trovato altre pingui fonti di finanziamento. Dopo il '74 (2) Bernabei impone agli amministratori delle imprese controllate da Italstat il rispetto della legge sul finanziamento. Ma Bernabei trova una situazione particolarmente grave: il doroteo Corbi, amministratore delegato di Condotte, è presidente di Italstat, il socialista Orlandi, amministratore di Italstrade, è vicepresidente di Italstat, i due figurano quindi nella duplice veste di controllori e controllati. Tra i tre boiradi s'instaura un clima di forti attriti; Corbi, che ha vinto la commessa del porto di Bander Abbas (grazie alla mediazione di Vittorio Emanuele di Savoia presso lo scià di Persia), è definito dall'Espresso "uomo dell'anno" e lo stesso settimanale attacca Bernabei. In quegli anni, negli ambienti finanziari, la Persia è considerata Paese ad alto rischio e quella commessa è un'enorme imprudenza; infatti, di lì a poco, trionfa la rivoluzione khomeinista, scoppia la guerra tra Iran e Irak, e il colpo dell'anno del grande manager di stato si trasforma in una debacle (alla fine le perdite ammonteranno a circa 1.000 miliardi). Nello stesso periodo, Italstat individua altre perdite per 400 miliardi della controllata Condotte e Bernabei scopre un finanziamento illecito a politici per 30 miliardi. Intanto il nome di Corbi figura nella lista degli appartenenti alla P2, cosicché Bernabei coglie l'occasione per sbarazzarsi dello scomodo amministratore di Condotte. Nel suo diario, Bernabei racconta che nel 1983, il senatore Petrilli, ex presidente dell'Iri, lo informa di avere la disponibilità di un fondo di circa 200 miliardi, sotto forma di certificati del tesoro, messi a suo tempo a disposizione da Italstrade per operazioni di "lubrificazione" e per il finanziamento dei partiti e del quale Petrilli vuole sbarazzarsi. Bernabei riesce a far rientrare i 200 miliardi; la magistratura farà una serie di indagini su questi fondi neri, ma tutto finirà in una bolla di sapone. Quando Prodi annuncia trionfalmente che l'Iri, nel 1985, è in utile di 12,4 miliardi si riferisce solo al conto economico, ma la corte dei conti mette in chiaro che la realtà è ben diversa. «Il complessivo risultato di gestione dell'Istituto, per il 1985, cui concorrono … sia il saldo del conto profitti e perdite sia gli utili e le perdite di natura patrimoniale, corrisponde a una perdita di 980,2 miliardi, che si raffronta a quella di 2.347 miliardi del 1984». Lo statuto dell'Iri prevede, infatti, che utili e perdite di natura patrimoniale non vadano inserite nel conto economico; uno dei trucchetti che consentono ai presidenti dell'Istituto di giocare alle tre tavolette con i conti e gettare fumo negli occhi agli inesperti. Nota, inoltre, la corte dei conti che le perdite nette del bilancio consolidato sono di 1.203 miliardi nel 1985 e di 2.737 miliardi nel 1984. Il caso SME A fine aprile '95, Prodi, tenta di vendere, con trattativa privata, la finanziaria Sme, nella quale erano confluite, Motta, Alemagna, Star, Cirio e altre società alimentari, alla Buitoni di Carlo De Benedetti. L'Iri, per il 64% del pacchetto azionario, avrebbe incassato poco più di 497 miliardi, da pagarsi a rate. All'annuncio della trattativa si solleva un putiferio di contestazioni, in particolare da parte di Craxi, che promuove, da parte sua, una cordata per la Sme e l'operazione viene bloccata (3). Il caso Alfa Romeo Quando il 29 aprile 1968, Aldo Moro pone la prima pietra dello stabilimento Alfa Sud a Pomigliano d'Arco, il commento di Gianni Agnelli, che interpreta quell'operazione come un atto di ostilità nei confronti della Fiat, è il seguente «Una pazzia … Un'operazione clientelare in grande stile, nient'altro». La storia confermerà la correttezza dei giudizi di Agnelli. Nel 1985, le perdite consolidate del gruppo Alfa Romeo sono pari a 1.685 miliardi e mettono in crisi la stessa controllante, la finanziaria dell'Iri, Finmeccanica, che, tra il 1979 ed il 1986, ha iniettato nell'Alfa Romeo ben 1.281 miliardi e, di questi, ben 615 nel biennio '85-'86. Nel 1986, la Ford fa un'offerta per l'acquisto del gruppo automobilistico, ma il "partito" della Fiat riesce a contrastare l'operazione; il gruppo torinese offre 8.000 miliardi, tra prezzo d'acquisto, assunzione dei debiti e grossi investimenti per il rilancio. Il presidente di Finmeccanica, Franco Viezzoli, afferma che una comparazione tra l'offerta Ford e quella Fiat è difficilmente attuabile, cosicché la Fiat s'impossessa dell'Alfa Romeo. Nella realtà l'Iri si trova nell'impossibilità di usare l'arma della concorrenza tra due contendenti, e la Fiat, pagando 1.750 miliardi a rate (meno 700 miliardi di debiti finanziari che si accolla l'Iri), si impossessa dell'ultimo marchio automobilistico italiano non ancora nelle sue mani. Nel 1995, secondo il ministro dell'industria Clò, la Fiat deve ancora pagare 470 miliardi di quel debito; i grandi investimenti per il rilancio del marchio non ci sono mai stati e la storica fabbrica di Arese, è, praticamente, chiusa. (1) Creatura gigantesca, dal cervello minuscolo, che poteva raggiungere i 23 metri di lunghezza. Vegetariano, trascorreva la maggior parte della sua vita mangiando, per poter immagazzinare le risorse necessarie per mantenere in vita il suo enorme corpo. (2) In quell'anno il governo aveva promulgato una legge che vietava alle aziende pubbliche la prassi dei trasferimenti ai partiti. (3) De Benedetti farà causa all'Iri per inadempinza contrattuale, ma la perderà, in tutti i gradi di giudizio. Anni dopo, verrà intentato un processo al fine di stabilire se gli avvocati di Berlusconi abbiano corrotto alcuni giudici per "far perdere" il nemico storico, De Benedetti. (4) Nel maggio 2003, nel corso della causa SME, Clelio Darida, ministro delle partecipazioni statali nel 1985, dichiarerà al Corriere della Sera «Sull'affare SME ho sbagliato. Nonostante Prodi mi dicesse che non c'erano altre offerte oltre a quella di Carlo De Benedetti, avrei dovuto indire un'asta pubblica. … Difesi la scelta di Prodi finchè fu possibile, ma quando cominciarono a piovere offerte più alte capii che non potevo più giustificare una vendita a quel prezzo» Il passaggio della storica fabbrica dell'ing. Romeo dallo stato ai privati avrebbe dovuto segnare il rilancio di un marchio che negli anni sessanta e settanta era stato il sogno dei giovani di tutta europa, e non solo. Ma Fiat era una società privata solo di fatto, nella realtà, mantenuta perennemente sotto tutela dello stato (5) e di Mediobanca, non sarà mai in grado di realizzare una politica industriale di ampio respiro. Il marchio Alfa Romeo, come quello altrettanto glorioso di Lancia, finirà per essere assorbito dal grigiore dei modelli Fiat e non verrà sfruttato come strumento di vantaggio competitivo e di rilancio di tutto il gruppo automobilistico (6). La siderurgia targata Iri Un altro incubo per i bilanci dell'Iri è rappresentato dalla siderurgia. Sinigaglia, dal 1945 al 1953 presidente di Finsider (la solita finanziaria che controlla le società operative), si era posto l'obiettivo di fornire alle imprese italiane l'acciaio di cui avevano bisogno, a bassi prezzi, anche nella convinzione che i privati non ne fossero in grado. Il settore delle telecomunicazioni La Stet è la più ricca delle finanziarie dell'Iri, non solo perché controlla la Sip, l'impresa statale dei telefoni, ma, secondo la peggiore delle prassi monopolistiche, anche le imprese fornitrici della Sip, come l'Italtel e la Sirti. Mediobanca Nel 1946, nasce Mediobanca, per le pressioni di Raffaele Mattioli, presidente della Comit; affermerà Antonio Maccanico «si trattava di far nascere un istituto speciale con il compito di aiutare la ricostruzione del sistema industriale del Paese, compito che la legge bancaria del 1936 precludeva agli istituti di credito ordinario». Il 21 aprile 1988, il ministro delle partecipazioni statali, Fracanzani, invita i dirigenti delle imprese pubbliche a presentare le loro proposte per gli stanziamenti, da parte del tesoro, dei fondi di dotazione per il triennio '89-'91; le richieste sono di 3.000 miliardi dall'Eni e di 11.500 miliardi dall'Iri (senza contare gli oneri della reindustrializzazione delle aree ex siderurgiche, valutate 1.600 miliardi). Fracanzani si chiede come si concili la forte richiesta di fondi da parte dell'Iri, con i comunicati trionfalistici di Prodi e dei suoi amici che parlano di una gestione risanata; cosicché invia al presidente dell'Iri una nota nella quale chiede di essere informato preventivamente su tutte le iniziative di una certa importanza. Prodi risponde rivendicando l'autonomia di gestione dell'Istituto e il ministro, con una nota durissima, afferma che il ministro delle ppss è il solo responsabile nei confronti di governo e Parlamento «per tutto quanto attiene alla attività e alla gestione degli enti». Nel 1989, al termine del prima presidenza Prodi, con le cautele suggerite dalla corte dei conti che afferma «l'attuale sistema contabile dell'Iri rende di non facile comprensione all'esterno l'interpretazione dei risultati economici», il bilancio dell'Iri segna un meno 2.416 miliardi (considerando anche le perdite transitate solo nel conto patrimoniale), il netto patrimoniale dell'Iri passa da 3.959 miliardi del 1982, a 2.102 miliardi, l'indebitamento dell'Istituto da 7.349 del 1982, a 20.873 miliardi (+184%); dei 28.500 miliardi, erogati dallo stato a titolo di fondo di dotazione dalla nascita dell'Iri, Prodi ne ottiene ben 17.500. Ma quali sono, allora, i tanto decantati successi di Prodi all'Iri? E come mai «La stampa di informazione economica non si risparmiò nel diffondere urbi et orbi i trionfalistici comunicati dell'Istituto sul bilancio del 1988», che chiudeva con una perdita di 1.403 miliardi? Solo Milano Finanza riporta le analisi di Mediobanca che mostrano come gli utili siano invece perdite. La gestione Nobili Al termine del suo secondo mandato, Prodi lascia al suo successore, l'andreottiano Franco Nobili, una serie di gatte da pelare: dai nuovi fondi di dotazione solo promessi dal governo ma già impegnati, al problema della siderurgia, dai grossi crediti inesigibili di Fincantieri, Italstat e Italimpianti, ai grandi programmi di investimento già approvati senza nessuna copertura finanziaria. Quando Nobili tira le somme del bilancio del 1989 l'indebitamento del gruppo si rivela superiore al previsto e pari a 47.500 miliardi, nonostante che dal 1982 siano affluiti nelle sue casse fondi freschi per oltre 17.000 miliardi. Nel febbraio 1989, Leon Brittan viene nominato commissario alla concorrenza nella Cee; egli cerca di imporre le sue idee, di stampo thatcheriano, e, nel suo mirino, mette in primo luogo le imprese pubbliche. Nel consiglio Cee del 15 ottobre 1990, Brittan contesta, alla radice, ogni forma di sovvenzione degli stati alle imprese, pubbliche o private; è il trionfo di una visione liberista che toglie agli stati il potere di politiche industriali difensive e anticoncorrenziali. Nello stesso periodo, Andreotti tenta un attacco insidioso contro Cuccia; per mettere lo gnomo di via Filodrammatici con le spalle al muro sarebbe stato sufficiente non rinnovare l'accordo che impegnava le tre Bin dell'Iri a vendere alla propria clientela certificati Mediobanca. La questione del rinnovo viene affidata al presidente del Banco di Roma, che fa slittare nel tempo la convenzione; ma Cuccia, nonostante gli ottantatré anni e pur essendo reduce da un'operazione chirurgica, affila le armi. La maggioranza del consiglio dell'Iri è favorevole al rinnovo, i repubblicani premono e Craxi si muove per crearsi un rapporto privilegiato con l'alta finanza; Nobili preferisce evitare uno scontro, che è diventato prevalentemente politico, e, sia pure in extremis, la convenzione viene rinnovata. (5) Ad esempio grazie ai cospicui finanziamenti per gli investimenti nel sud e ai molteplici provvedimenti a favore della rottamazione. (6) Con l'introduzione della moneta unica e con l'assottigliamento degli aiuti statali la Fiat non sarà in grado di affrontare una concorrenza sempre più agguerrita, perdendo quote di mercato sempre maggiori. (7) Banche di interesse nazionale Il 12 settembre 1991, Michele Tedeschi rivela che gli apporti dello stato all'Iri, ammontano (a moneta 1990) a 41.776 miliardi, dei quali 32.837 sono affluiti tra il 1980 e il 1985; tra il 1986 e il 1990 gli apporti dello stato sono stati di soli 2.147 miliardi, ma l'indebitamento dell'Istituto è aumentato di 20.000 miliardi. Giovanni Goria, infatti, ministro del tesoro di Craxi e grande amico di Prodi, aveva inventato un altro trucchetto: lo stato in sostituzione dei fondi di dotazione concede all'Iri, per legge, di emettere obbligazioni a tasso agevolato con rimborso a carico dello stato. Ma l'epoca dei soldi facili è oramai agli sgoccioli, il 15 ottobre 1991, la corte dei conti dichiara illegittima la legge 42/91 che legittima la concessione dei fondi di dotazione, poiché, l'articolo 81 della costituzione, cita «Ogni altra legge che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte». Andreotti cerca di dare una mano a Nobili, ma le elezioni incombenti non consentono di tradurre in legge una modifica della 42/91, che avrebbe permesso di aggirare l'ostacolo posto dalla corte dei conti. I fondi arriveranno, nel 1993, con Prodi nuovamente alla presidenza; afferma Pini «… a conferma che gli uomini della sinistra democristiana mantenevano un tocco magico ineguagliabile con le casse dello stato». Il 1 ottobre 1991, Guido Carli, ministro del tesoro del governo Andreotti, illustrando la legge finanziaria per il 1992, indica tre indirizzi programmatici, contenere la spesa per il personale pubblico, contenere la spesa previdenziale e sanitaria, avviare la vendita di aziende pubbliche; lo stato si ripromette di incassare, nel 1992, da questa voce circa 15.000 miliardi. Con l'annuncio di un decreto legge per la trasformazione in spa degli enti pubblici economici e di un disegno di legge per l'abolizione del ministero delle ppss, Andreotti, secondo Eugenio Scalfari, «arrivato il momento di guadare il fiume, ha abbandonato Cirino Pomicino ed è salito a cavalcioni sulle spalle di Carli», in nome di «una politica del rigore che è stata l'ultima piroetta di questo espertissimo giocoliere». Avvio della privatizzazione con il governo Amato Amato, salito al governo il 28 giugno 1992, mette i partiti (in quel momento più impegnati a seguire faccende giudiziarie che problemi economici) davanti al fatto compiuto del decreto legge 333 dell'11 luglio 1992, che prevede la trasformazione di Iri, Eni, Enel e Ina in spa e la liquidazione dell'Egam. I consigli di amministrazione vengono azzerati e composti da tre sole persone, il presidente uscente, un dirigente ministeriale di nomina del tesoro e un amministratore delegato scelto tra i direttori generali; una sorta di gestione commissariale diretta dal ministero del tesoro. All'Eni, presidente rimane Gabriele Cagliari e alla poltrona di amministratore delegato approda Bernabè, all'Iri, il presidente Franco Nobili viene affiancato da Michele Tedeschi, all'Enel, il presidente Franco Viezzoli lavorerà in tandem con Alfonso Limbruno e all'Ina, Lorenzo Pallesi lavorerà con Mario Fornari. Nel rapporto del ministro Barucci ad Amato, il programma di riordino di Iri, Eni, Enel, Imi e Ina privilegia l'ipotesi della costituzione di nuclei stabili di controllo delle imprese pubbliche da privatizzare contro l'ipotesi della public company sostenuta da tutta la sinistra e dai sindacati. Il primo obiettivo del tesoro è la privatizzazione delle banche, «esse possono essere cedute senza provocare crisi occupazionali»; le camere chiedono un aggiornamento al marzo del 1993 del programma proposto dal tesoro e si limitano a notare la mancanza di un progetto di politica industriale che sottenda il processo delle privatizzazioni nel loro complesso. Le privatizzazioni con il governo Ciampi Nell'aprile '93, si insedia al governo Carlo Azeglio Ciampi, che, al convegno I Nobel a Milano, afferma che i mali d'Italia si identificano in tre rigidità: quella del sistema economico finanziario, basato su grandi imprese in gran parte di proprietà pubblica incapaci di sviluppare un vero mercato del capitale di rischio; la rigidità del mercato del lavoro e del sistema fiscale; la rigidità della pubblica amministrazione. Il Ciampi governatore della Banca d'Italia aveva inviato frequenti messaggi ai politici circa la sua contrarietà che le banche entrassero nel processo di privatizzazione degli enti pubblici, ma ora il Ciampi capo del governo può essere di avviso contrario. D'altra parte, a fine 1992, le sofferenze bancarie ammontano a circa 38.000 miliardi, ciò significa che le industrie debitrici non sono in grado di restituire i crediti ricevuti; l'unica via d'uscita è quella di trasformare i crediti inesigibili in azioni. Il 30 giugno, Ciampi nomina un comitato di consulenza per le privatizzazioni, presieduto da Mario Draghi. Per Enel, Ina, Imi, Stet, Agip, Comit e Credit si dovrebbe procedere subito alla privatizzazione, previa la costituzione di nuclei stabili; ai primi di agosto, la commissione arriva alla conclusione che le banche debbano avere la precedenza. Intanto si prepara uno scontro tra il ministro dell'industria, Paolo Savona e Romano Prodi, tornato alla testa dell'Iri. Il primo è favorevole alla costituzione dei "noccioli duri" alla francese, mentre Prodi è favorevole alla public company. Le dimissioni di Ciampi, il 13 gennaio 1994, pongono fine alla querelle. Il ritorno di Prodi Con il ritorno di Prodi all'Iri, riprende anche il flusso monetario: 2.100 miliardi di crediti di imposta, vanamente sollecitati da Nobili, 3.000 miliardi per la siderurgia, che Prodi aveva già impegnati nel lontano '87, e infine la possibilità, concessa all'Iri, di sostituire i debiti verso le banche con un importo, presso la cassa depositi e prestiti, fino a 10.000 miliardi di obbligazioni emesse dal tesoro e sottoscritte dall'Iri, che avrebbe restituito capitale e interessi con i proventi delle privatizzazioni. Intanto Prodi prosegue l'azione di Nobili volta alla vendita della Sme, che era stata smembrata; deve essere venduta la Cbd (Cirio-Bertolli-De Rica), gruppo valutato, nel marzo '93, dal Credito Italiano tra i 900 e i 1.350 miliardi. Prodi convince il consiglio di amministrazione di abbandonare la strada dell'asta competitiva, sulla quale si stava muovendo Nobili, e di procedere per trattativa privata. La finanziaria lucana di Saverio Lamiranda, la Fisvi, infatti, si è fatta avanti offrendo 310 miliardi per il 62,12% delle azioni possedute dall'Iri. Nonostante il basso prezzo, sembra difficile che la Fisvi possieda i 310 miliardi offerti, più i 200 miliardi per l'opa sul resto delle azioni. Secondo il Corriere della sera del 13 ottobre 1993, «La voce insistente è che la Fisvi abbia l'appoggio di potentati politici, più esattamente della sinistra democristiana campana». In realtà la Fisvi, prima di fare l'offerta per tutto il gruppo Cdb, aveva organizzato la vendita, della Bertolli alla Unilit, con il consenso del consiglio di amministrazione dell'Iri, per la somma di 253 miliardi. Il contratto di vendita della Cdb impegnava la Fisvi ad assicurare la continuità produttiva del gruppo, nel suo insieme, ma di fatto l'Iri aveva acconsentito che la Fisvi smembrasse il gruppo prima ancora di averlo pagato; Cirio e De Rica finiscono, successivamente, nelle mani del finanziere Sergio Cragnotti (8). L'operazione, che presenta molti lati oscuri, è anche inquinata dal fatto che Prodi, dal 1990 al 1993, è stato membro dello staff dirigenziale che decide le strategie di acquisizioni della Unilever. Secondo il perito del sostituto procuratore Geremia, che aveva aperto un procedimento penale nei confronti dei componenti del consiglio di amministrazione dell'Iri, «È innegabile, e documentato, che la Unilever e la Unilit (la filiale italiana) hanno inviato offerte, condotto trattative dirette e indirette con l'Iri e gestito l'acquisto del settore olio (la Bertolli) in epoca precedente alla stipula del contratto definitivo fra Fisvi e Iri». Secondo il perito, se l'Iri avesse fatto da sola l'operazione concessa alla Fisvi, vendere cioè separatamente le tre società del gruppo, avrebbe potuto incassare 700 miliardi. Il 18 aprile 1993, gli italiani sono chiamati alle urne per decidere, con voto referendario, delle sorti del ministero delle partecipazioni statali e ne decretano la fine; non molti, probabilmente, al di là della voglia generalizzata di cambiamento, hanno capito che quel voto segna una data storica per l'economia del Paese. La vendita di Credit e Comit Nel dicembre 1993, si procede alla vendita del Credito Italiano, che, nelle intenzioni di Prodi, dovrà diventare una public company. Il prezzo di vendita per azione viene stabilito dalla Goldman Sachs a 2.075 lire per una valutazione della banca pari a 2.700 miliardi, contro la valutazione di 8/9.000 miliardi fatta da Merrill Lynch, all'epoca di Nobili. Per Cuccia è un gioco da ragazzi mettere insieme un gruppo di investitori, che, sommando il 3% delle azioni di ciascuno, acquisiscono il controllo della banca. Si realizza pertanto il tanto deprecato nocciolo duro che non è costretto, però, a pagare il premio di maggioranza e non è tenuto all'obbligo dell'opa. Le presidenze Tedeschi, Gross Pietro e Gnudi. Nonostante l'ottimismo che Prodi riversava quotidianamente attraverso i media, al 31 dicembre 1993, la massa dei debiti del gruppo raggiunge la cifra di 75.000 miliardi, contro un patrimonio netto di 20.000 miliardi; all'endemica crisi finanziaria si somma, inoltre, il peggioramento del conto economico, a causa della vendita delle aziende che producevano utili. Dopo la vittoria del centro destra, il 27 luglio 1994, Prodi viene sostituito da Michele Tedeschi, un dirigente con 35 anni di anzianità nell'Istituto. Nei confronti di Berlusconi peserà il sospetto di un'eccessiva acquiescenza verso le posizioni di Alleanza nazionale, nella quale Pietro Armani, ex vice presidente dell'Iri, il sottosegretario al bilancio Antonio Parlato e il vice-presidente del consiglio Tatarella non erano certamente fautori delle privatizzazioni. Il comportamento "anomalo" del liberista Berlusconi è anche evidenziato dal mantenimento, nel decreto legge 31 maggio 1994, della golden share, l'azione che consente al tesoro di disporre di poteri speciali nelle aziende operanti nei settori della difesa, dei trasporti, delle telecomunicazioni, dell'energia, e dei servizi pubblici Nel giugno 1997, Prodi, da primo ministro, sostituisce, alla testa dell'Iri, Tedeschi con Gian Maria Gros-Pietro (dal 1995 vice presidente del comitato scientifico di Nomisma), al quale Prodi affida il non facile incarico di liquidare l'Iri in un triennio e di rimodellare, attraverso le privatizzazioni, un capitalismo nazionale; la tentazione di pianificare e programmare è un virus che non abbandona mai i democristiani di sinistra. Alla fine del '99, Gros-Pietro viene trasferito al vertice dell'Eni e Gnudi lo sostituisce, portando alla definitiva liquidazione dello storico Istituto. Con la scomparsa dell'Iri si sono alzate molte voci a difesa dell'Istituto, non solo e in quanto ente che si era sobbarcato oneri sociali impropri, ma proprio per la sua validità economica. Nella realtà, quando sono state messe sul mercato aziende ex ppss, delle quali l'investitore aveva la garanzia che fossero del tutto uscite dal controllo statale, allora i risparmiatori hanno fatto la fila alle banche; nei casi in cui la realtà ha mostrato il contrario, il mercato le ha penalizzate. Il conto economico finale dell'Iri è tornato in equilibrio quando si è creata la condizione virtuosa della vendita delle sue aziende al tesoro, in attesa del collocamento sul mercato, e quindi della completa privatizzazione. Se i risparmiatori non avessero visto questo passaggio il valore delle aziende vendute dall'Iri non sarebbe stato quello di mercato, ma quello risultante da gestioni perennemente inefficienti e inefficaci. Le privatizzazioni hanno, di fatto, dato una nuova vitalità ad aziende decotte, hanno permesso una risveglio della borsa e tolta la spina dal cuore economico del Paese, i debiti dalle partecipazioni statali. È ovvio che coloro, e furono tanti, che, dall'esistenza delle partecipazioni statali, traevano benefici economici ingiustificati, sviluppavano carriere impensabili nel libero mercato, senza dover dar conto degli errori, potevano esercitare impunemente lo sciacallaggio economico, bene, costoro e alcuni, pochi, idealisti, saranno sempre tenaci difensori del valore dell'impresa di stato. Il 30 giugno 2000, segna la data dell'ultima assemblea dell'Iri; ma altri precedenti di liquidazione dovrebbero mettere in stato di allerta. Per approndire l'argomento vai al successo editoriale L'estinzione dei dinosauri di stato di Eugenio Caruso. (8) Nel 2003 le banche chiuderanno i rubinetti del credito e il finanziere/faccendiere romano sarà costretto ad abbandonare la Cirio oberata da 500 milioni di euro di debiti. (9) Il grande boiardo non scompare, diventa amministratore delegato di Cinecittà, un altro carrozzone pubblico. (10) Nel luglio del 2002, l'Iri muore definitivamente, ma, attraverso una fusione per incorporazione rinasce sotto il nome di Fintecna. (11) Di converso, alcune centinaia di aziende minori sono state privatizzate. (12) Nel 2002, il tesoro si configura, ancora, come una delle maggiori conglomerate del mondo. Il portale IMPRESA OGGI vi offre un servizio? |
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