Estrema giustizia, estrema ingiustizia.
Cicerone - Dei doveri
Da alcuni anni nei corsi di formazione per manager viene studiata la Regola di San Benedetto poiché le indicazioni che vi sono elencate per la gestione delle abazie sono considerate valide anche per la gestione delle imprese (Salvatore Pricoco, La Regola di San Benedetto, Edizione CDE, 1995).
Inoltre, sono stati pubblicati anche alcuni libri di Gestione d’impresa, che fanno riferimento alla Regola di San Benedetto e alla sua vita. Leggere le pagine della Regola vuol dire tentare di elaborare concetti antichi come disciplina, impegno, valori personali, realizzazione dell’individuo, rapporti sociali, emancipazione e dignità del lavoro e trovare di conseguenza uscite nuove alle problematiche dell’impresa moderna.
Prendo in considerazione il seguente libro
“L’organizzazione perfetta – La Regola di san Benedetto, una saggezza antica al servizio dell’impresa moderna” di Massimo Folador – Editore Guerini e Associati -19,50 euro", libro che ho trovato stimolante e ben organizzato.
San Benedetto (Norcia, 480 circa – Montecassino, 21 marzo 547. I dati storici riguardanti Benedetto vanno presi con molta prudenza.), era fratello di colei che diverrà santa Scolastica. Il padre Eutropio, figlio di Giustiniano Probo della gens Anicia, era Console e Capitano Generale dei Romani nella regione di Norcia, mentre la madre era Abbondanza Claudia de' Reguardati di Norcia; quando ella morì, secondo la tradizione, i due fratelli furono affidati alla nutrice Cirilla. A 12 anni, Benedetto, fu mandato con la sorella a Roma a compiere i suoi studi, ma come racconta san Gregorio Magno nel II Libro dei Dialoghi, Benedetto, sconvolto dalla vita dissoluta della città «ritrasse il piede che aveva appena posto sulla soglia del mondo per non precipitare anche lui nell'immane precipizio. Disprezzò quindi gli studi letterari, abbandonò la casa e i beni paterni e cercò l'abito della vita monastica perché desiderava di piacere soltanto a Dio». All'età di 17 anni, insieme con la nutrice Cirilla, si ritirò nella valle dell'Aniene presso Eufide (l'attuale comune di Affile a circa 80 km da Roma). Successivamente lasciò la nutrice e si avviò verso la valle di Subiaco, qui incontrò Romano, monaco di un vicino monastero retto dall’abate Adeodato. Vestiti gli abiti monastici si ritirò in una grotta del Monte Taleo (attualmente contenuta all'interno del Monastero del Sacro Speco), dove Benedetto visse da eremita per circa tre anni, fino alla Pasqua dell'anno 500. Conclusa l'esperienza eremitica, accettò di fare da guida ad altri monaci in un ritiro cenobitico presso Vicovaro, ma, dopo che alcuni monaci tentarono di avvelenarlo, tornò a Subiaco. Qui rimase per quasi trent’anni, predicando la "Parola del Signore" ed accogliendo discepoli sempre più numerosi, fino a creare una comunità di tredici monasteri, ognuno con dodici monaci e un proprio abate, tutti sotto la sua guida spirituale. Negli anni tra il 525 ed il 529, a seguito di un altro tentativo di avvelenamento, Benedetto decise di abbandonare Subiaco, anche per salvare i monaci fedeli. Si diresse verso Cassino dove, sopra un'altura, fondò il monastero di Montecassino, edificato sopra i resti di templi pagani e con oratori in onore di san Giovanni Battista (da sempre ritenuto un modello di pratica ascetica) e di san Martino di Tours, che era stato iniziatore in Gallia della vita monastica. A Montecassino Benedetto compose la sua Regola verso il 540.
La Regola, nella quale si organizza nei minimi particolari la vita dei monaci all'interno di una "corale" celebrazione dell'uffizio, diede nuova ed autorevole sistemazione alla complessa, ma spesso vaga e imprecisa, precettistica monastica precedente. I due cardini della vita comunitaria sono il concetto di stabilitas loci (l'obbligo di risiedere nel monastero contro il vagabondaggio allora piuttosto diffuso tra i monaci) e la conversatio, cioè la buona condotta morale, la pietà reciproca e l'obbedienza all'abate, il "padre amoroso" (il nome deriva proprio dal siriaco abba, "padre"), e cardine di una famiglia ben ordinata che scandisce il tempo nelle varie occupazioni della giornata durante la quale la preghiera e il lavoro si alternano nel segno del motto ora et labora .
Per i primi dottori occidentali della vita cenobitica, essere monaci significa vivere in convento sub unius disciplina patris, sub abbatis imperio, e i testi biblici ne sono la guida; questo principio prende le mosse dalla legislazione monastica orientale che non prevede la presenza di una regola. Per il Maestro prima e per Benedetto, poi, invece, l'obbedienza deve essere duplice, alla regola e all'abate. genus coenobitarum ...militans sub regula uel abbate. E' una formula nuova, che fa della regola una realtà distinta dall'autorità abaziale e la colloca al primo posto.
I monasteri che seguono la Regola di san Benedetto sono detti benedettini. Anche se ogni monastero è autonomo sotto l'autorità di un abate, si organizzano normalmente in confederazioni monastiche, delle quali le più importanti sono la congregazione cassinense (nata dalla riforma introdotta dall'abate Ludovico Barbo nel monastero di Santa Giustina in Padova nel 1408) e la congregazione sublacense (nata per iniziativa di Pier Francesco Casaretto, nel 1843, sacerdote e monaco benedettino nell'abbazia di Santa Maria del Monte, presso Cesena).
A Montecassino Benedetto visse fino alla morte, ricevendo l'omaggio dei fedeli in pellegrinaggio e di alcune personalità come Totila re degli Ostrogoti, san Gregorio Magno e l'abate Servando.
Le diverse comunità benedettine ricordano la ricorrenza della morte del loro fondatore il 21 marzo, mentre la Chiesa cattolica ne celebra ufficialmente la festa l'11 luglio, da quando papa Paolo VI ha proclamato san Benedetto da Norcia patrono d'Europa il 24 ottobre 1964 in onore della consacrazione della Basilica di Montecassino.
San Benedetto è stato capace di dare un’impronta ai secoli successivi come pochi altri personaggi del passato hanno saputo fare. Una storia fatta di discrezione e di silenzio, di cultura e di preghiera, ma anche di migliaia di monasteri sparsi in tutta Europa che hanno saputo mantenere viva, per millenni, la cultura. Secondo un calcolo approssimativo, infatti, sono circa 75.000 i monasteri nati nella sola Europa e in questi luoghi di culto migliaia di monaci amanuensi, con pazienza e dedizione, hanno saputo trasmettere al mondo i testi della tradizione greca e romana. Ed è sempre nelle abbazie benedettine che, in virtù di un principio che vedeva nel lavoro un momento fondamentale per la crescita dell’individuo, hanno visto la luce innovazioni che hanno dato il via a processi di razionalizzazione, sia delle attività produttive, sia di quelle agricole.
Ne sono un esempio la creazione dei primi oleifici, delle prime vetrerie e cartiere, la nascita dell’orologeria e della moderna enologia, l’installazione sistematica dei mulini ad acqua, momento fondamentale per il passaggio da un’attività artigianale ad una semi-industriale. Le prime grandi bonifiche furono realizzate da monaci benedettini, abilissimi architetti e progettisti.
Gloria Cuccato nel suo San Benedetto un uomo che desidera la vita, riassume con queste parole i motivi dell’intraprendenza benedettina.
«Diverse sono le ragioni di questo sviluppo. In primo luogo i monaci erano, in generale, più istruiti rispetto al resto della popolazione: inoltre, la dinamicità che caratterizzava l’esperienza monastica medioevale, come le continue fondazioni di nuovi monasteri e le peregrinazioni dei monaci, favoriva il confronto e lo scambio di esperienze». E’ a questi monasteri benedettini che gli storici dell’economia riconoscono, oggi, piuttosto che ai mercanti avventurieri e viaggiatori, un ruolo primario nella ripresa commerciale ed economica che si verificò a cavallo dell’anno mille. Come è accaduto tutto questo? Come è stato possibile attraverso l’adesione a un progetto e ai principi espressi dalla Regola la creazione di un movimento capace di influenzare l’intera realtà europea? Perché vi sono sottesi messaggi, stimoli, obiettivi che sono tuttora validi.
L’aspetto più interessante della vita nelle abazie benedettine è che a distanza di quindici secoli la Regola di San Benedetto può riservare ancora molte sorprese e creare sollecitazioni che possono essere di grande utilità nella gestione della più moderna e innovativa delle imprese. Nella cultura benedettina esiste, infatti, una parte importante che si potrebbe definire laica, squisitamente legata all’uomo, a ogni uomo, qualunque sia la sua origine, il suo credo e le sue convinzioni. A quest’uomo Benedetto ha parlato per secoli. E’ fondamentale comprendere che quando Benedetto si rivolge ai monaci lo fa senza escludere nessuno, conscio del fatto che ciascuno è parte integrante della comunità e a essa contribuisce in modo personale e determinante, così come in ogni impresa ciascuno contribuisce alla realizzazione della mission in maniera personale e determinante.
Scrive Anselmo Grun, monaco benedettino (Anselmo Grun, Guidare le persone, risvegliare la vita, Gribaudi, 2003) «Per me è interessante osservare che il modello di gestione benedettino, già vecchio di oltre 1.500 anni, oggi è nuovamente moderno e in grado di aiutare a trovare risposte a importanti interrogativi del nostro tempo».
E aggiunge il monaco trappista Thomas Merton (Thomas Merton, L’esperienza interiore, Edizioni San Paolo, 2005) «Sicuramente la vita monastica ha il suo posto e la sua parte da giocare nel nostro mondo. La Regola di san Benedetto è un codice spirituale di un’efficacia perenne, che si presta a sempre nuove applicazioni nella stessa opera della liturgia, del lavoro, dello studio, della vita sociale, della contemplazione».
La vita di oggi, così densa di contraddizioni, difficoltà, insicurezza, confusione, relativismo, scetticismo, crisi economiche, povertà, spinge l’umanità verso scelte importanti e rivoluzionarie e si ha la sensazione che la situazione sfugga al nostro controllo; stiamo vivendo un momento delicato e di notevoli cambiamenti. Ebbene, nelle ovvie diversità, questa è una situazione simile a quella vissuta da Benedetto nel momento in cui decide di abbandonare Subiaco e lo strascico di esperienze negative che aveva dovuto patire da parte degli stessi monaci. L’Italia era attraversata da orde di invasori che portavano morte, distruzioni, saccheggi, pestilenze e carestie, Roma era poco più di un grosso villaggio, gran parte delle popolazioni vivevano mendicando e trascinandosi di villa in villa. I monaci si ritiravano in eremitaggi e clausure improduttive, vivendo di elemosine e contribuendo a peggiorare la situazione economica dei territori. Eppure Benedetto decide di dare vita, a Montecassino, a un grande monastero, a una grande idea, a un grande cambiamento allo scopo di dare una risposta forte e definitiva ai problemi sociali, economici e religiosi nei quali si dibatteva il paese.
Per avere un’idea dell’Italia dei tempi di Benedetto cito questo brano di Luigi Salvatorelli (Luigi Salvatorelli, San Benedetto e l’Italia del suo tempo, Laterza, 1983) «Si è soliti considerare il secolo decimo come l’età più triste della storia italiana. Ma è un errore; in quel tempo i germi della nuova vita esistevano già e si preparavano a rompere le zolle indurite da un gelo di secoli. L’età più triste della storia italiana è quella dei secoli sesto e settimo, dalla guerra gotica alla rivolta contro la dominazione bizantina. L’Italia è una provincia del Basso impero, e grazie a questo resta attaccata ai cadaveri della Roma imperiale … Nelle città gli istituti municipali periscono, ma continua la divisione in caste raggelate e infeconde: curiali che non hanno più curie da amministrare, corporazioni artigiane prive di attività produttive e, al di sotto, una plebe cenciosa e parassita. Nelle campagne la grande nobiltà possiede e sfrutta i latifondi in una cultura estensiva priva di ogni tipo di lavorazione; i coloni inchiodati alla gleba sono alla mercé dei proprietari, che li spremono…..».
Nella scelta di Montecassino, posizione strategica tra Roma e Napoli, luogo appartato e difficile da raggiungere, ma aperto alle grandi vie di comunicazione, si condensa il progetto di Benedetto. Per ospitare i suoi monaci egli non vuole più capanne povere e fatiscenti, ma un edificio possente che salvaguardi la comunità. E in essa non vi deve essere spazio solo per ascetismo e spiritualità, ma anche per il lavoro quotidiano che dovrà creare i beni necessari per l’autosufficienza economica della comunità e per l’arricchimento del territorio.
La grandezza della storia e del pensiero di Benedetto sta nell’ideale di Montecassino. E’ su questo pilastro fatto di spiritualità e concretezza, di umanità e rigore, che è stato edificato e sviluppato nei secoli il movimento benedettino. E’ dall’idea della forza insita in una comunità unita e coesa e del lavoro inteso come stimolo di edificazione dell’uomo, che si può partire per comprendere quale messaggio il pensiero di Benedetto e la sua opera possono trasmettere anche oggi alle nostre imprese. Non solo concetti e principi, ma fatti e azioni concrete, così come è accaduto per secoli nei monasteri sorti in tutt’Europa.
All’inizio dell’articolo si è detto che la Regola è innanzitutto la risposta di Benedetto alla necessità di dare una linea guida condivisa e attuabile alla nuova realtà sorta a Montecassino. Gli spunti, sia quelli rivolti alla comunità, sia quelli dedicati al singolo monaco sono molteplici e molti offrono opportunità di riflessione anche oggi all’interno di quelle realtà spesso intricate e contraddittorie che sono le imprese. Tentare un elenco dei punti più interessanti è riduttivo poiché ciascuno di noi potrebbe essere portato a riflettere in modo diverso e personale su ciascuno spunto della Regola. Io l’ho fatto e ritengo di averne ricavato momenti di riflessione assai istruttivi, formativi, razionali, emozionali e creativi; spesso sono rimasto colpito dalla tagliente semplicità di alcune affermazioni cariche, invece, di profondi stimoli di meditazione.
Trovo ad esempio interessante questa parte della Regola che potrebbe, mutatis mutandis, riverberare le caratteristiche di un leader d'impresa.
«Quando, dunque, qualcuno assume il titolo di Abate, deve dirigere i suoi discepoli con duplice insegnamento, indichi, cioè, con i fatti, più che con le parole, tutto ciò che è buono e santo … e tutte le cose che egli ha insegnato essere dannose indichi con la propria condotta che non si devono fare, perché egli stesso non venga trovato colpevole mentre predica agli altri … L’abate non faccia distinzione tra le persone nel monastero, non ami uno più di un altro, tranne chi abbia trovato migliore nelle buone opere. … Dunque l’abate abbia uguale affetto per tutti e il trattamento sia unico per tutti, secondo i meriti. … L’abate deve mantenere sempre la norma nella quale è detto “Riprendi, esorta, minaccia”, mostri, cioè, ora la dura severità del maestro, ora l’amorevolezza del padre. Non finga di ignorare le colpe dei trasgressori, ma le tagli alle radici, come può, appena cominciano a manifestarsi. … L’abate deve sempre ricordarsi quello che rappresenta, deve ricordare come viene chiamato, deve sapere che colui al quale più viene affidato, più viene richiesto. E sappia quale compito difficile e gravoso gli è stato assegnato: governare le anime e porsi al servizio di indoli diverse, prendendo uno con la dolcezza, un altro con il rimprovero, un altro ancora con la persuasione; e secondo il carattere di ciascuno e la sua intelligenza, egli si conformi e si adatti a tutti, in modo che non solo il gruppo a lui affidato non abbia a subire danni, ma, al contrario egli possa vedere, con gioia, crescere il suo gregge. … E così, l’abate, sempre attento all’esame che in futuro subirà riguardo alle persone a lui affidate, nel contempo si preoccupi di sé e mentre aiuta gli altri a correggersi, egli stesso si corregga dei propri difetti.»
Eugenio Caruso - 15 marzo 2013.