I passi della crisi 2008- 2013. Parte XIX


Le amicizie con gli onesti, con i sinceri, con chi ha esperienza sono vantaggiose. Sono dannose le amicizie con gli adulatori, con gli accomodanti, con le sirene.
Confucio


L’articolo è  il seguito di
Come si è arrivati alla grande crisi del 2008 Parte I,
I passi della grande crisi 2008 - 2009 Parte II,
I passi della grande crisi 2008 - 2009 Parte III,
I passi della grande crisi 2008 - 2009 Parte IV,
I passi della grande crisi 2008 - 2009 Parte V,
I passi della crisi 2008 -2010 - Parte VI
I passi della crisi 2008 - 2010 - Parte VII
I passi della crisi 2008 - 2010 - Parte VIII
I passi della crisi 2008 - 2010 - ParteIX
I passi della crisi 2008 - 2011 - Parte X
I passi della crisi 2008 - 2011 - Parte XI
I passi della crisi 2008 - 2011 - Parte XII
I passi della crisi 2008 - 2011 - Parte XIII
I passi della crisi 2008 - 2012 - Parte XIV
I passi della crisi 2008 - 2012 - Parte XV
I passi della crisi 2008 - 2012 - Parte XVI
I passi della crisi 2008 - 2012 - Parte XVII
I passi della crisi 2008 - 2013 - Parte XVIII

Con riferimento ai succitati articoli, questo prosegue, per il secondo trimestre del 2013,  l’analisi delle performance economico-finanziarie degli stati sovrani e delle più importanti imprese del pianeta. Con particolare attenzione è analizzata la situazione italiana. Sono, inoltre, presi in considerazione tutte le più importanti iniziative degli stati e delle organizzazioni internazionali e nazionali, nonché gli andamenti delle economie di vari paesi. L’articolo viene aggiornato quotidianamente.


I dieci saggi al lavoro (2 aprile 2013).
Prima giornata di lavoro per i due gruppi di saggi scelti dal Quirinale per sbloccare l’impasse politico. Alle 11 si è riunita la task force incaricata di occuparsi delle tematiche economico sociali composta da Enrico Giovannini, Giovanni Pietruzzella, Salvatore Rossi, Enrico Moavero Milanese, Giancarlo Giorgetti e Filippo Bubbico. A seguire, è stata la volta dei quattro che si occupano delle tematiche istituzionali: Valerio Onida, Mario Mauro, Gaetano Quagliariello e Luciano Violante. Intanto si accende il dibattito sulla successione di Napolitano al Colle e in particolare su una possibile candidatura del Pd a favore di Romano Prodi. Per Gasparri «sarebbe un atteggiamento irresponsabile del Pd fare il pieno delle cariche con un solo terzo dei voti». «Saremmo di fronte a uno strappo delle norme della democrazia. Non vogliamo nemmeno prendere in considerazione questa ipotesi obbrobriosa». Dello stesso avviso anche il senatore Altero Matteoli che dichiara: «Bersani ed il Pd stiano molto attenti a non creare rotture politiche traumatiche pericolosissime per la tenuta stessa della democrazia». A cercare di gettare acqua sul fuoco di pensa Andrea Orlando (Pd): «Prodi è uno dei nomi che sicuramente viene in mente, tuttavia abbiamo detto che intendiamo lavorare per una candidatura frutto della condivisione. Questa scelta non la condividerebbe nemmeno Bersani. Sul fronte istituzionale noi siamo per la massima condivisione. Molto dipende da cosa faranno le altre forze politiche. Far partire subito le commissioni parlamentari permanenti: a proporlo, alla Camera, è il capogruppo di Sel Gennaro Migliore che va a sostenere quanto già chiesto dai grillini. Una possibilità che però registra la contrarieretà del Pdl e i dubbi del Pd. «No a balzi in avanti - sottolinea anche Simone Baldelli per il Pdl - le commissioni parlamentari si devono formare una volta che si sia formato il governo». «Ci affidiamo alla presidente ma sono necessari approfondimenti - dice Gianclaudio Bressa parlando a nome dei Democratici - perché siamo di fronte a uno dei pilastri della democrazia, vale a dire il rapporto fiduciario governo-Parlamento». Scelta civica da parte sua ricorda come la questione sia stata affrontata già in conferenza dei capigruppo e come si fosse deciso di avviare la costituzione delle commissioni senza però chiudere l’iter in attesa di un nuovo Esecutivo. Non significa, ha precisato stamani Filippo Bubbico, senatore del Pd e membro della commissione economica, «fare un governissimo o siglare un’alleanza strategica» ma «condividere priorità nell’interesse del Paese». I tempi, assicura un altro “saggio” Mario Mauro, capogruppo di Scelta civica a Palazzo Madama, «saranno molto concentrati», del resto, spiega con una battuta, «il buon Dio in sette giorni ha fatto molto di più». Che il tutto sia assolutamente «concentrato» lo confermano anche le parole del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, 8-10 giorni al massimo. Sono parole amare. Il Capo dello Stato si sente «lasciato solo dai partiti», «dopo sette anni sto finendo il mio mandato in un modo surreale, trovandomi oggetto di assurde reazioni di sospetto e dietrologie incomprensibili, tra il geniale e il demente». Tra i partiti però cresce il malumore. E nuove bordate arrivano anche dai 5 Stelle. Scrive Crimi sul blog: «La scelta di Napolitano non è altro che un’ulteriore conferma della cecità che ha colpito la classe politica: ancora non ha compreso il risultato di queste elezioni. La logica partitica si riscontra oggi nei gruppi ristretti indicati dal Presidente, che di saggio hanno ben poco, e di politico hanno tanto. Altro non sono che la perfetta sintesi della realtà di partito che non vuole saperne di liberarci della sua presenza, ed alla quale gli elettori, con il voto di febbraio, hanno già detto addio».

Primi pagamenti da parte della PA (3 aprile 2013).
È slittato ai prossimi giorni il decreto legge per lo sblocco di circa 40 miliardi (su un totale di 91) di debiti della Pa nei confronti delle imprese. Una nota di palazzo Chigi segnala che il ministro dell'Economia, Vittorio Grilli, in accordo con quello allo Sviluppo economico, Corrado Passera, «anche a seguito delle articolate risoluzioni approvate ieri da Camera e Senato, ha fatto presente al Presidente del Consiglio l'opportunità di proseguire gli approfondimenti necessari per definire il testo del decreto sui pagamenti dei debiti commerciali della Pa. Pertanto il Consiglio dei Ministri previsto per oggi si terrà nei prossimi giorni». Il governo, sottolinea il presidente dell'Anci Graziano Delrio al termine di un incontro alla presidenza del Consiglio, ha comunque garantito il varo del provvedimento «entro lunedì» e che metterà a disposizione subito per Comuni e Province risorse per «7 miliardi». Dalla bozza che era stata preparata per il Consiglio dei ministri è uscita l'ipotesi di intervento sull'Irpef. Il ministro dell'Economia Vittorio Grilli conferma infatti che il prospettato anticipo al 2013 dell'aumento dell'addizionale Irpef, nelle Regioni che utilizzeranno l'anticipo di cassa per onorare i debiti con le imprese, sarà tolto dalla versione definitiva del decreto. Il problema, però, resta perché le stesse Regioni allo stato attuale potrebbero trovarsi in difficoltà in assenza di una leva che faciliti la restituzione dell'anticipo di cassa. Allo stato, i tecnici di Palazzo Chigi e dell'Economia starebbero studiando altre soluzioni e si valuta anche la possibilità di inserire nello stesso provvedimento il rinvio della Tares. Stando alle ultime bozze, il piano si presenta abbastanza complesso e vincolato all'emanazione di più di un decreto attuativo. Per anticipare cassa, si punta in larga misura sulla concessione di prestiti di lunga durata (30 anni) a Regioni ed enti locali e non sul meccanismo del fondo perduto. Inoltre enti locali e Regioni che godranno delle anticipazioni di cassa saranno sottoposti a vincoli molto stretti per il prossimo quinquennio, sia per la spesa corrente sia per gli investimenti (anche se il Mef studia un ammorbidimento per gli enti virtuosi). Quanto alla copertura finanziaria dell'intero pacchetto, il governo conta di reperire le risorse per assicurare la liquidità necessaria mediante emissioni di titoli di Stato, fino a un massimo di 25 miliardi per ciascuno degli anni 2013 e 2014 con una "clausola" amara per i ministeri, che saranno chiamati a coprire con nuovi tagli lineari i maggiori interessi del debito pubblico. I pagamenti di debiti di parte capitale, compresi quelli delle Province in favore dei Comuni, maturati al 31 dicembre 2012, e sostenuti nel 2013, vengono esclusi dai vincoli del patto di stabilità interno per un importo totale di 5 miliardi. Comuni e Province dovranno comunicare online, entro il 30 aprile, il loro fabbisogno e a determinare il riparto sarà poi un decreto del ministero dell'Economia (entro il 15 maggio). Sono inoltre previste sanzioni per i responsabili degli enti locali inadempienti. Ad ogni modo, nelle more della ripartizione del Tesoro attesa per il 15 maggio, e per consentire l'immediato pagamento almeno di una prima tranche, ciascun ente può effettuare pagamenti entro il 50% delle necessità finanziarie comunicate ed entro un determinato tetto dei residui passivi in conto capitale. Per quanto riguarda invece gli enti locali che non possono far fronte ai pagamenti dei debiti per mancanza di liquidità, potranno scattare prestiti a valere su un Fondo con dotazione pari a 2 miliardi sia per il 2013 sia per il 2014. I prestiti saranno di durata trentennale e in caso di mancato pagamento della rata di ammortamento entro i termini, potranno esserci corrispondenti tagli relativi alla quota Imu riservata ai Comuni oppure, nel caso delle Province, relativi all'imposta sull'Rc auto. Non basta, perché per gli enti locali interessati scatteranno vincoli finanziari molto stringenti nel prossimo quinquennio: non potranno impegnare spese correnti in misura superiore all'importo annuale minimo dei corrispondenti impegni effettuati nell'ultimo triennio e non potranno ricorrere all'indebitamento per gli investimenti (o prestare garanzie per prestiti sottoscritti da società controllate o partecipate) a meno che non sia presentata un'attestazione del conseguimento degli obiettivi del patto di stabilità interno. Anche per le anticipazioni di cassa relative a debiti non sanitari di Regioni e province autonome viene creato un Fondo per assicurare liquidità: dotazione di 3 miliardi per il 2013 e di 5 miliardi per il 2014. Anche in questo caso il prestito è trentennale e sono stabiliti vincoli finanziari per il prossimo quinquennio relativi alla spesa e alla sottoscrizione di nuovi prestiti o mutui da parte delle Regioni e di società controllate o partecipate. Viene inoltre stabilito che la Regione Siciliana e la Regione Piemonte adottino un piano di rientro relativo al trasporto pubblico locale, con la possibilità contestuale di attingere a risorse del Fondo per lo sviluppo e coesione (ex Fas). Il capitolo Regioni conferma l'incremento della deroga alle spese per cofinanziamenti nazionali dei fondi comunitari. Per quanto riguarda invece i debiti sanitari, lo Stato può anticipare liquidità alle Regioni nei limiti di un ammontare di 14 miliardi, di cui 5 miliardi per il 2013 e 9 miliardi per il 2014. Entro 15 giorni dalla data di entrata in vigore del decreto, l'Economia provvede al riparto tra le Regioni fino a 5 miliardi per il 2013. Tuttavia, ed è un'altra incognita del decreto, le anticipazioni di cassa, oltre che a saldare gli arretrati, potranno essere finalizzate anche ad altri due obiettivi finanziari (si veda articolo in basso).

Debiti della PA; varato il ddl (6 aprile 2013).
Dopo oltre 3 ore di confronto, il Consiglio dei ministri riunito questa mattina a palazzo Chigi ha varato l'atteso decreto legge che disciplina il pagamento dei debiti arretrati della PA - inclusi gli enti del Servizio sanitario nazionale - nei confronti delle imprese: in tutto, circa 40 miliardi di euro nel biennio 2013-2014. Parlando in conferenza stampa, il premier dimissionario Mario Monti ha confermato che «nei prossimi 12 mesi per le imprese arriveranno 40 miliardi con meccanismi chiari, semplici e veloci, senza oneri o complicazioni inutili». «Oggi - ha spiegato il premier - il tempo medio dei pagamenti é 180 giorni, con un ritardo medio di 90 giorni sulle scadenze contrattuali: dato che colloca l'Italia su posizioni peggiori rispetto a Portogallo, Spagna e Grecia». Grazie al decreto, «questo malcostume», che comporta «costi per imprese, collettività e Stato», è destinato a finire. Quella dei ritardati pagamenti da parte dell'amministrazione statale «È una situazione inaccettabile ma a lungo accettata. È molto difficile avere dati precisi sul fenomeno, ci sono condizioni di opacità in cui il fenomeno si genera e cresce, un fenomeno che si é formato nel corso del decennio scorso. È arrivato il momento di voltare pagina». Ai giornalisti, Monti ha poi espresso «sorpresa e indignazione» per le severe critiche che negli ultimi tempi hanno bersagliato il governo per aver «impiegato due-tre giorni in più del previsto a fare questo provvedimento». Critiche, ha aggiunto il Professore, «giunte da forze politiche che negli ultimi venti anni» non hanno posto rimedio al problema. In quella che potrebbe essere «l'ultima volta» in cui si presenta alla stampa «con i ministri Grilli e Passera» Monti sottolinea l'importanza del loro lavoro, pur «con le difficoltà inevitabili tra chi deve gestire il rigore e chi lo sviluppo». Quando «molta polvere si sarà depositata e si potrà valutare a mente sgombra l'attività di questo governo che - ha ribadito ancora Monti - ha fatto la pista per lo sviluppo sulla quale l'Italia salirà nei prossimi mesi, é a loro due che dovrete dire grazie». Il ministro dell'Economia, Vittorio Grilli, ha invece spiegato la scelta di individuare «un percorso indispensabile tra le due esigenze di aiutare concretamente l'economia a riprendersi, con il rafforzamento del ciclo economico, e quella di disciplinare i conti. Un percorso stretto ma percorribile, con rigore e velocità». In concreto, le amministrazioni «potranno cominciare a pagare i debiti subito dopo la pubblicazione del decreto, che immagino sarà lunedì», ha aggiunto il ministro, spiegando che entro il 30 aprile saranno resi noti «gli spazi finanziari» e entro il 15 maggio avverrà «la ripartizione delle risorse rispetto alle richieste».

Più di un milione di licenziamenti nel 2012 (7 aprile 2013).
Nell'arco del 2012 i licenziamenti hanno superato quota un milione (1.027.462), con un aumento del 13,9% rispetto al 2011 (quando sono stati 901.796). È quanto si evince dal sistema delle comunicazioni obbligatorie del ministero del Lavoro. Nel solo ultimo trimestre sono stati 329.259 in aumento del 15,1% sullo stesso periodo 2011. Nell'intero 2012 sono stati attivati circa 10,2 milioni di rapporti di lavoro a fronte di quasi 10,4 milioni cessati, nel complesso, tra dimissioni, pensionamenti, scadenze di contratti e licenziamenti. I licenziamenti registrati nel periodo riguardano sia quelli collettivi, sia quelli individuali (per giusta causa, per giustificato motivo oggettivo o soggettivo). Tornando al quarto trimestre del 2012, le nuove assunzioni (in termini di rapporti di lavoro attivati, dipendenti o parasubordinati) sono state oltre 2,2 milioni (2.269.764), con un calo del 5,8% rispetto allo stesso trimestre del 2011. Assunzioni che corrispondono a poco più di 1,6 milioni (1.610.779) di lavoratori interessati, in ampio decremento: l'8,2% in meno rispetto al quarto trimestre del 2011, con valori negativi maggiori tra i giovani (-13,9% e -10,9% rispettivamente tra i 15-24enni e i 25-34enni). I lavoratori over-55, tra i 55 e i 64 anni registrano un leggero incremento (+0,4%), mentre più sostenuto è l'aumento, sempre rispetto allo stesso periodo dell'anno prima, degli ultrasessantacinquenni interessati da un nuovo rapporto di lavoro (+7,6%). Infine, sempre nel quarto trimestre del 2012, in totale i rapporti di lavoro cessati sono stati poco più di 3,2 milioni (3.205.753), con una leggera diminuzione (-0,2%) rispetto al quarto trimestre 2011.

Crolla il potere di acqisto delle famiglie (8 aprile 2013).
Crolla il potere d'acquisto delle famiglie consumatrici: tenuto conto dell'inflazione, nel 2012, rispetto al 2011, si è ridotto del 4,8%, un calo annuale che non si era verificato dal 1995, inizio delle serie storiche. Lo rileva l'Istat aggiungendo che nel quarto trimestre del 2012 il calo è stato ancora più accentuato, pari al 5,4% su base annua. E anche la propensione al risparmio delle famiglie consumatrici è risultata pari all'8,2% nel 2012, con una diminuzione di 0,5 punti percentuali rispetto all'anno precedente. L'Istat sottolinea che nel quarto trimestre del 2012, al netto della stagionalità, la propensione al risparmio è pari all'8,3%, con una diminuzione di 0,2 punti percentuali rispetto al trimestre precedente e di 0,9 punti rispetto al corrispondente trimestre del 2011. La riduzione del tasso di risparmio delle famiglie consumatrici è spiegata da una riduzione del reddito disponibile (-2,1%) più intensa della flessione della spesa per consumi finali (-1,6%).

I tedeschi sono tra i più poveri d'Europa (10 aprile 2013).
A prima vista i dati pubblicati dalla Banca centrale europea sulla ricchezza delle famiglie europee sono davvero scioccanti. Si capisce che sia difficile da accettare per i tedeschi che il loro livello medio di ricchezza sia il più basso dell'area euro. Nel grafico, tratto dalla pubblicazione statistica della Bce del 9 aprile scorso, emerge che i ciprioti, i greci e gli spagnoli, sono più ricchi dei tedeschi. Da un punto di vista politico la questione diventa: perché il contribuente tedesco dovrebbe aiutare quello cipriota che dispone di una ricchezza superiore? La Bundesbank insiste da anni su questo punto. Nel 2011, il presidente Jens Weidmann osservò che gli italiani erano molto ricchi e che quindi non c'era ragione di affannarsi per aiutarli. Dai dati della Bce emerge infatti che l'italiano è in media sensibilmente più ricco del tedesco. In Germania appare più povero del resto d'Europa soprattutto il livello mediano, quello che riflette la ricchezza di quel 10% della popolazione rispetto alla quale il resto dei concittadini si dividono tra un 45% più povero e l'altro 45% più ricco. Lo studio della Bce spiega piuttosto estesamente che le statistiche rozze non rappresentano la realtà con sufficiente fedeltà. Le statistiche sulla ricchezza finanziaria per esempio contemplano le pensioni private, ma non quelle pubbliche (l'effetto di impoverimento statistico sarebbe enorme per gli olandesi per esempio). Inoltre il peso della proprietà immobiliare, spesso ereditaria e quindi dotata di una sua dinamica non correlata al reddito annuo degli individui, è esorbitante. Non solo abitare a Dortmund o Hannover non è la stessa cosa di abitare a Firenze, ma la Germania ha completamente mancato la crescita dei prezzi immobiliari degli altri paesi a cavallo del 2000 e anni seguenti, avendo concentrato in precedenza la propria speciale "bolla immobiliare" nei Nuovi Laender orientali dopo l'unificazione. Già prima di allora comunque l'offerta di immobili pubblici in gran parte della Germania era talmente vasta da schiacciare i prezzi degli immobili sul mercato privato. Dove tale offerta non c'è, località turistiche o di prestigio, i prezzi sono molto alti anche in Germania. Se si guarda ai valori immobiliari del 2002, il tedesco mediano è in effetti leggermente più ricco degli italiani. D'altronde bisognerebbe considerare, pur con le cautele necessarie, l'edilizia pubblica come una forma di ricchezza privata. Tuttavia oggi la Germania appare fuori linea quando si mettono in relazione due grandezze che dovrebbero essere coerenti: reddito e ricchezza. I tedeschi hanno un elevato livello di reddito ma una bassa ricchezza privata. Credo dunque che il tema politico sul perché i tedeschi debbano aiutare i greci non sia aggirabile. E non lo è di certo, infatti abbiamo già cominciato a scaricare sui depositanti ciprioti l'onere di sistemare le loro banche che altrimenti avrebbero ingrossato il debito pubblico cipriota rendendolo insostenibile e alla fine avrebbero motivato aiuti finanziari dai partner, compresi dai poveri tedeschi. Tuttavia, prima di cedere alla penosa retorica usata anche in questa occasione dalla stampa di Francoforte, dobbiamo allo stesso modo considerare non aggirabili almeno altri due interrogativi che hanno rilevanza politica e che interpellano proprio la Germania:
– Il primo: per quale ragione consideriamo la fragilità di un paese basandoci solo sul livello del loro debito pubblico? Non è questa ossessione fiscale un problema enfatizzato proprio dalla retorica tedesca dell'unione monetaria?
– Il secondo è forse ancora più intrigante: Come è possibile che il paese a cui si riconosce tanta capacità competitiva da accumulare un enorme surplus commerciale con l'estero, non è in grado di rendere benestanti i propri cittadini? Non è cioè una denuncia di errori tedeschi nel modello di gestione dell'economia?
Forse i tassi d'interesse che i tedeschi ricevono dai loro investimenti privati sono semplicemente troppo bassi. L'importanza assegnata alla stabilità fa accettare agli investitori tedeschi rendimenti così bassi da schiacciare il valore del patrimonio. Così come in fondo la totale avversione al rischio deprime il rendimento degli investimenti in generale. E' un interessante paradosso che non sembra studiato nella teoria economica in modo esplicito, ma a quanto pare nel lungo termine l'obiettivo della stabilità finanziaria a ogni costo sembra ridurre il risparmio accumulato, anziché aumentarlo. In effetti il rapporto tra debiti e assets è alto nei paesi dove i rendimenti sono più bassi, una famiglia tedesca va volentieri in banca a farsi prestare denaro a basso costo, ma poi dalle sue attività finanziarie e dagli altri crediti ricava ben poco. Così alla fine i debiti aumentano e la ricchezza diminuisce. Ma l'Italia non naviga nell'oro. La ricchezza netta pro-capite degli italiani, pari a 108.700 euro, supera di poco quella dei francesi (104.100 euro) e dei tedeschi( 95.500 euro). Invece, se si fa il confronto internazionale in termini di reddito, l'Italia si colloca nella parte bassa della classifica di Eurolandia (nono posto su 15) e si trovava già nel 2010 con una percentuale di poveri elevata (16,5%) e nettamente superiore a quella degli altri grandi paesi dell'eurozona, dove le persone in condizione di povertà relativa oscillano fra l'8,9 per cento della Francia e il 13,4 per cento della Germania. I dati sono quelli, armonizzati, della prima indagine sui bilanci delle famiglie realizzata in ambito Bce e messi a punto da Bankitalia per quel che riguarda il nostro Paese. Via Nazionale, come si sa, è stata la prima banca centrale in Europa a realizzare una metodologia adatta a ottenere la verità dagli intervistati su tematiche "sfuggenti" come l'esatta entità del reddito e della ricchezza di cui si dispone e quindi anche in questo caso sono stati utilizzati i risultati dell'indagine sulla ricchezza delle famiglie italiane datata 2010 e ottenuta intervistando un campione di 8.000 famiglie. Ma insomma noi italiani, nel confronto con i nostri vicini di casa, siamo ricchi o siamo poveri? Qualche tempo fa la Bundesbank aveva diffuso delle anticipazioni su questa indagine che, per quel che riguarda noi italiani, evidenziavano (forse in modo un po' interessato) solo la parte mezzo piena del bicchiere. In particolare, con un riferimento ai valori mediani della ricchezza si evidenziava il fatto che la famiglia tipo italiana ha una ricchezza netta più alta della famiglia tipo tedesca. Senonchè per fare un confronto che tenga conto al meglio delle differenze tra popolazioni (nel caso italiano la famiglia tipo è più numerosa e più vecchia e vive aggrappata alla sua fonte principale di ricchezza accumulata nel tempo, che è il mattone) l'indicatore migliore è la ricchezza pro-capite. E se si va a guardare di quale gruzzolo ogni italiano dispone "a testa" si vede che la ricchezza c'è ancora, nonostante le erosioni di valore causate dalla crisi, ma non ha un valore esorbitante. Per contro, usando il reddito e non il livello dei consumi per identificare l'area della povertà relativa, come fanno in questa ricerca Banca d'Italia e Bce, si scopre che la percentuale di popolazione che nel 2010 viveva al di sotto della soglia di povertà era del 16,5 per cento, contro una media di Eurolandia pari al 13 per cento. Non basta. Quando si confrontano correttamente i livelli di reddito pro-capite (e il modo migliore per farlo è utilizzare il reddito equivalente, che armonizza la diversa composizione dei nuclei familiari) si vede che il reddito lordo annuo pro-capite della famiglia italiana non arriva a 20 mila euro, è nettamente al di sotto della media europea indicata a circa 23.500 euro ed è molto distante dai 28.230 euro pro-capite della famiglia tedesca. I dati, come si diceva, sono al 2010. Se poi, per avere un'idea di come sono andate le cose negli ultimi due anni, si dà anche un'occhiata alle cifre diffuse dall'Istat sulla caduta del reddito disponibile e su quella della propensione al risparmio in Italia, l'immagine degli italiani-ricchi a paragone dei tedeschi poveri sembra ancor più fuorviante.

La disoccupazione in Europa (12 aprile 2013).
L'occupazione nella zona dell'euro continuerà a registrare un andamento al ribasso. Lo rileva la Bce nel consueto bollettino mensile, precisando che «la crisi economica e finanziaria continua a gravare sul mercato del lavoro nell'area dell'euro. Nel quarto trimestre del 2012 l'occupazione è diminuita ancora, mentre il tasso di disoccupazione ha continuato a crescere, raggiungendo livelli senza precedenti». Secondo varie stime, spiega l'istituto centrale, «sia il tasso di disoccupazione strutturale sia l'unemployment gap sono aumentati sensibilmente negli ultimi anni. I dati delle indagini segnalano un ulteriore calo dei posti di lavoro nel primo trimestre del 2013». Il tasso di disoccupazione aggregato per l'area dell'euro é aumentato da una media annuale del 7,6% nel 2007 , all'11,4% nel 2012. Secondo le stime della Commissione europea, circa la metà di questi 3,8 punti percentuali di aumento é ascrivibile a un incremento della disoccupazione strutturale. Per la Bce diversi fattori possono essere all'origine del recente incremento stimato della disoccupazione strutturale. In primo luogo, la quota della disoccupazione di lungo periodo é aumentata in molti paesi, oltre che nell'insieme dell'area dell'euro. Quanto più a lungo i disoccupati restano senza lavoro, più é probabile che le loro competenze diminuiscano e che il loro capitale umano si deprezzi. Gli individui che accumulano periodi di disoccupazione più lunghi possono essere considerati meno favorevolmente dai potenziali datori di lavoro, rendendo più difficile per loro trovare un nuovo impiego. Nel bollettino la Bce ha poi inserito un riquadro di analisi sull'inutilizzo di forza lavoro nell'area euro. «Nel complesso, i paesi dell'area dell'euro hanno registrato un rilevante incremento dei tassi di disoccupazione. La percezione diffusa è che tale aumento non sia soltanto ciclico, ma anche in parte strutturale». Per il 2014 le stime della Commissione europea, del Fmi e dellOcse sulla disoccupazione strutturale «oscillano tra il 9 e l'11 per cento, con livelli particolarmente elevati per paesi come Spagna, Grecia, Portogallo e Irlanda».

L'Italia perde la telefonia (12 aprile 2013)
Se Li Ka Shing entrerà in Telecom Italia, assumendone il controllo, nell'arco di quindici anni l'Italia avrà definitivamente perso tutte le sue aziende di tlc. Tutto è iniziato con la Omnitel finita agli inglesi di Vodafone, poi è stata la volta della 3 Italia, venduta ai cinesi; e Wind, passata dall'Enel all'egiziano Naguib Sawiris e da Sawiris all'oligarca russo Mikhail Fridman. Senza dimenticare Fastweb, regina della new economy ora nelle mani degli svizzeri di Swisscom. Da fine anni 90, quando partì l'epoca delle liberalizzazioni e fu un fiorire di compagnie telefoniche, alla fine dell' "indipendenza", in un tempo record. L'ex monopolista telefonico è rimasto l'unica azienda nazionale. E ora, nel vuoto della politica, con un paese che – seppur in recessione rimane l'ottavo paese industrializzato al mondo – è senza un governo da un mese e mezzo, anche l'ex colosso pubblico potrebbe fare passaporto estero (cinese per l'appunto). Ovvio che il libero mercato non ha e non può avere bandiere nazionali, ma l'eventuale epilogo delle tlc in Italia è anche figlio della mancanza di una politica industriale. Che non ha mai definito gli interessi nazionali e creato dei poli di riferimento. Il magnate di Hong Kong ha risorse apparentemente illimitate, ma 3 Italia, nata dalle ceneri di Andala (fondata da Renato Soru e Franco Bernabè) non si presenta con una dote propriamente invidiabile a un eventuale matrimonio con Telecom Italia, guidata da quello stesso Bernabè: circa 8 miliardi di perdite cumulate nel corso degli anni. Un solo bilancio in utile (quello del 2010, per appena 150 milioni) in undici anni (anche se la società non brucia più cassa da qualche anno ormai e ha un Mol in nero). Su 3 Italia pesa da sempre il peccato originale delle fatidiche licenze Umts, messe in vendita dallo stato a peso d'oro, strapagate dagli operatori e rivelatesi un flop. Il gruppo fa solo telefonia mobile e dopo aver tentato, senza troppo successo, la via delle video-chiamate, ha trovato un business model di successo con le chiavette internet. Ma il conto economico ancora arranca. E il magnate cinese da anni versa senza sosta soldi nell'azienda. L'ultimo assegno è stato staccato a inizio 2012: un maxi-prestito da un miliardo. Liquidità che si va ad aggiungere ai 4,4 miliardi versati nei soli ultimi cinque anni e che dovrà servire per ripianare le perdite e continuare a sostenere gli investimenti. 3 Italia conta 9,6 milioni di clienti (soprattutto in banda larga mobile, oggi il segmento di mercato più ricco): un portafoglio abbonati che proietterebbe Telecom a sfondare la soglia dei 40 milioni (dai 33 milioni), superando di slancio Vodafone (oggi quasi appaiata a quota 29 milioni). Il nodo è che ciascun di quei clienti ha una spesa media in continuo calo (18,44 euro l'Arpu totale del 2012 contro i quasi 20 dell'anno prima). Il paese che ha inventato la telefonia mobile rischia di trovarsi nella paradossale situazione di non avere una compagnia telefonica nazionale (ci sarebbe Tiscali ma il gruppo di Soru è assolutamente troppo piccolo). A fine anni '90 l'Italia era all'avanguardia nelle tlc: la Tim guidata da Vito Gamberale lanciò, prima al mondo, le carte sim. Fu l'allora giovane manager Roberto Colaninno a dare il via al valzer: la Olivetti vendette la Omnitel alla tedesca Mannesmann (e con il ricavato la Olivetti fece la provvista per la scalata alla Telecom Italia del "nocciolino duro" post-privatizzazione) che a sua volta fu comprata dalla Vodafone. Il famoso logo verde di Omnitel rimase in vita qualche anno per poi essere sostituito dal rosso Vodafone. Poi fu la volta di Wind quando l'Enel della gestione di Paolo Scaroni decise di abbandonare la strategia della multiutility. Spuntò Sawiris che ha tenuto Wind per sei anni e poi l'ha venduta ai russi di Vimpelcom (attuali proprietari). Nel frattempo anche Fastweb, la creatura di Silvio Scaglia e Francesco Michel, ha preso la via dell'estero: la svizzera Swisscom. La stessa sorte toccherà anche a Telecom?

DRAGHI: le banche non fanno crediti (12 aprile 2013).
Draghi è stato costretto a ripeterlo ancora. Questa volta in termini chiarissimi: non ha fatto più riferimento a un'«avversione al rischio», un po' astratta, almeno in apparenza. Le banche «hanno paura di non vedersi restituire i fondi», ha detto senza mezzi termini ieri in conferenza stampa. E questo - la novità è forse qui - è un problema su cui la Bce «sta riflettendo». Non è la prima volta che Draghi affronta il tema della cinghia di trasmissione della politica monetaria: i tassi sono bassissimi, la liquidità abbondante (e i rubinetti aperti), ma le banche non fanno prestiti. C'era un problema di finanziamento, e questo la Bce è riuscita a risolverlo con le sue operazioni straordinarie; c'è ancora un problema di capitali societari non adeguati e la soluzione dipende dagli azionisti o dai governi; e c'è questo tema cruciale del rischio-controparte. Finora la Bce ha spiegato - ripetendolo in ogni occasione - che i due problemi finora non risolti non toccano a lei, anche per i vincoli a lei posti dal Trattato. Ieri ha fatto una piccola aggiunta: «Alla Bce - ha detto - continuiamo a riflettere sul come far superare alle banche queste paure: siamo chiaramente determinati a fare in modo che i fondi iniettati trovino la strada verso l'economia reale». Durante la conferenza stampa di inizio mese aveva solo detto che la Bce sta studiando cosa non funzioni e che si sta valutando la situazione a 360 gradi. In ogni caso anche ieri Draghi ha ripetuto che «per essere efficaci serve la partecipazione di altri attori». I governi, ma non solo; dopo la riunione del board del 4 aprile, aveva fatto riferimento anche ad «agenzie speciali come la Banca europea degli investimenti», e alle «banche centrali nazionali». Segno che - come confermano alcune indiscrezioni - a Francoforte si sta cercando una strada per risolvere il problema. Non è irrilevante notare infine che, nella conferenza stampa di inizio mese, è stato proprio in risposta a una domanda sulle piccole e medie imprese e sulle loro difficoltà di finanziamento, che il presidente della Bce ha spiegato che il rimborso dei crediti pregressi da parte dei governi «è la più potente misura di stimolo» che possa essere presa.

Crolllo del valore dell'oro (15 aprile 2013).
In questa lunga crisi economica iniziata nel 2008 non c'è oramai più nulla di sicuro; prima è crollato il mattone ora crolla l'oro che precipita sotto i 1.400 dollari l'oncia. Il metallo prezioso cede il 5,7% a 1.398,85 dollari l'oncia, segnando la quotazione più bassa da marzo 2011. In due sedute ha perso più del 10%, come non accadeva da 30 anni. Il crollo sta già sortendo i primi effetti, mettendo in crisi alcuni hedge funds, come quello del guru John Paulson, che, a causa della flessione delle quotazioni dell'oro, avrebbe già dilapidato una ricchezza personale di 300 milioni di dollari. Ma perché la quotazione dell'oro, che a inizio anno valeva 1.600 dollari e che la settimana scorsa viaggiava a 1.550, ha perso in pochi giorni oltre 150 dollari e ormai viaggia lontanissimo dal picco storico di 1.921 dollari toccato il 6 settembre 2011?. Per il finanziere George Soros è finita l'era in cui l'oro può essere considerato un bene rifugio. Secondo gli operatori le cause sono molteplici. Per alcuni sono legate agli annunci delle banche centrali che vendono le riserve, e alle aspettative di una riduzione dei loro stimoli. Secondo altri esperti alla nuova ondata di vendite ha dato "una mano" il calo del Pil cinese, cresciuto nel primo trimestre del 2012 del 7,7%, contro l'8% atteso. E poi c'è il quadro tecnico, spiegano gli analisti di Ig: «La rottura del supporto a 1.525 dollari, ha aperto lo spazio per un'accelerazione sino ai 1.430 dollari. Probabilmente il forte e repentino calo ha innescato un movimento a catena che poi non si è arrestato a quel livello. Il livello ora da monitorare rimane a 1.380, minimo da marzo 2011, al di sotto del quale si avrebbe un altro allungo in direzione 1.300 dollari. Positività, improbabile nel breve, si avrebbe solo al di sopra dei 1.500 dollari». Alla violenta discesa potrebbe anche aver contribuito il "consiglio" di Goldman Sachs agli investitori di vendere l'oro, dopo che ha messo a segno il rally più lungo negli ultimi 90 anni. Secondo la Banca d'affari l'oro - complice prospettive calanti dell'inflazione e di rivalutazione del dollaro (nel caso la Fed stoppasse i piani di allentamento monetario) - è direzionato verso quota 1.270 dollari entro il 2014. Altri guardano alle vendite da parte degli Etf (Exchange traded fund) specializzati nel settore e dei maggiori hedge fund, sui timori per la ripresa americana e dopo la notizia che Cipro potrebbe vendere un pezzo delle riserve d'oro per finanziare parte del suo pacchetto di salvataggio. Da rilevare, infatti, la cessione di 400 milioni di euro di oro detenuto nelle casseforti della Banca centrale cipriota per far fronte alle necessita del Paese. Alcuni notano che se la Commissione europea sta spingendo in questa direzione, potrebbe chiedere lo stesso ad altri Paesi in crisi, come l'Italia, che di lingotti ne possiede ben di più. L'interpretazione tuttavia appare poco probabile. Ma chi ha più oro? Secondo l'ultima classifica sulle riserve di oro del World Official Gold (aggiornata ad aprile 2013) gli Stati Uniti sono al primo posto con riserve pari a 8.133,5 tonnellate. Seguono la Germania (3.391) e il Fondo monetario internazionale (2.814). Subito dietro c'è l'Italia (2.451,8) che precede di poco la Francia (2.435,4). Nettamente staccata la Cina (1.054,1) che precede la Svizzera (1.040,1). «Tutti temi questi però che non sono in grado di giustificare un simile tonfo - concludono gli analisti di Ig -. In realtà stanno circolando dei rumors in questo momento secondo cui qualche operatore, banca probabilmente, sta cedendo oro in misura massiccia, circa 6 miliardi di dollari di controvalore».

DRAGHI: grave che le banche non facciano credito alle PMI (16 aprile 2013).
«Se le banche in alcuni Paesi non prestano a tassi ragionevoli, le conseguenze per l'Eurozona sono gravi». Lo dice Mario Draghi, presidente della Bce, durante un intervento ad Amsterdam. Secondo Draghi «è particolarmente sconcertante che le pmi soffrano più delle grandi aziende, dato che fanno i tre quarti dell'occupazione. La maggior parte delle misure non convenzionali adottate dalle banche centrali in giro per il mondo sono molto simili» ha aggiunto Draghi sottolineando che solo «l'approccio è diverso» e che la Bce «opera in un contesto particolare», con 17 Paesi. Per Draghi «La soluzione per la crisi è ritornare alla competitività». E «operando in un contesto di unione monetaria, l'unico modo per ritrovare competitività è perseguire in modo determinato e ambizioso un'agenda di riforme strutturali». Questa agenda deve prevedere «una serie di misure a livello nazionale con le quali si assicuri che i mercati del lavoro e dei beni siano pienamente compatibili con l'unione monetaria». Un aspetto specifico è, inoltre, «la lotta agli interessi di parte che ostacolano la concorrenza, alle debolezze strutturali della produttività, permettendo, quando è necessario, degli aggiustamenti nominali». La maggior parte delle economie dell'Eurozona che si trovano sotto stress, ha ricordato Draghi, «e sicuramente tutte quelle che ora stanno avendo le maggiori difficoltà all'aggiustamento, hanno registrato una cronica perdita di competitività dopo essere entrati a far parte dell'unione monetaria». L'erosione della competitività «ha comportato l'emergere di ampi deficit delle partite correnti e, per alcune, l'accumulo di consistenti posisizioni debitorie con l'estero». In alcuni casi, ha continuato Draghi, «l'aumento del debito estero é stato trainato dal maggior indebitamento del settore pubblico». Inoltre, con politiche di bilancio «imprudenti si nascondeva la mancanza di competitività del settore privato nel tentativo di garantire o, addirittura, migliorare, le condizioni di vita» del Paese in questione. In altri Paesi, invece, «ad aumentare in modo veloce è stato l'indebitamento del settore bancario» dovuto «al forte aumento degli impieghi a società e famiglie all'interno del Paese. In questo caso, la mancanza di competitività »ha portato a uno spostamento del peso dell'economia verso il consumo interno e attività al riparo dalla concorrenza internazionale, come il settore immobiliare». Infine, le autorità di supervisione e di regolamentazione, secondo Draghi, «spesso non sono riuscite nella loro opera di alleggerimento di queste tendenze destabilizzanti».

FMI: preoccupazione per le pmi (17 aprile 2013).
Allarme credito per l'Italia: si sta contraendo velocemente, soprattutto per le piccole e medie imprese. Questo mentre l'Azienda Italia fatica anche sotto il peso di un indebitamento accumulato prima della crisi e che può costringere a dismissioni. E' questa la fotografia dei problemi del Paese scattata dal Global Financial Stability Report pubblicato dal Fondo Monetario Internazionale. Il Fondo ha anche parole di apprezzamento per i passi avanti compiuti: "Abbiamo un'analisi in corso sull'Italia, ma possiamo dire che il sistema bancario italiano ha un livello di capitalizzazione adeguato, ha detto Jose Vinals, nel presentare il GSFR. Vinals ha sottolineato che "quando effettuiamo stress test per giudicare come le banche si comportano davanti a condizioni particolarmente avverse, nell'insieme gli istituti italiani hanno capitali sufficienti per sopportare severe bufere". Il financial counsellor aggiune che tuttavia "è molto importante, in considerazione del fatto che il rischio cruciale per l'Italia è lo stato dell'economia, per le autorità italiane continuare la spinta a favore delle riforme", in modo di generare "fiducia economica". L'Italia "ha fatto un buon lavoro e deve continuare". Il GSFR accende tuttavia i riflettori anzitutto sui rischi di stabilita' finanziaria nell'Eurozona, come gia' aveva fatto il World Economic Outlook dell'Fmi per quanto riguarda la crescita mondiale. Nell'Eurozona - afferma il rapporto intitolato Old Risk, New Challanges, vecchi rischi, nuove sfide - la situazione resta "fragile", come dimostrato dalla recente volatilità sui mercati in seguito alla crisi di Cipro e anche alle elezioni italiane. "I vecchi rischi sono soprattutto quelli dell'area Euro, che devono ancora essere risolti - dice Vinals - Il credito ancora non scorre verso l'economia reale, soprattutto nella periferia. Il settore Corporate ha inoltre un eccesso di debito creato prima delle crisi". La periferia comprende esplicitamente l'Italia. "La concessione di prestiti al settore delle piccole e medie imprese in Italia e Spagna si sta contraendo rapidamente", denuncia il Fondo. Il rapporto continua affermando che nei paesi della zona Euro "mentre la domanda e' limitata dall'aumento dell'incertezza sulle prospettive macroeconomiche e dal peso dell'indebitamento, ogni limite al finanziamento alle piccole e medie imprese dovrebbe essere trattato come una priorita' al fine di assicurarsi che il sistema finanziario sia in grado di giocare il suo ruolo nel facilitare la ripresa economica". Nell'immediato tale ruolo potrebbe essere sostenuto dall'alleggerimento dei costi dei prestiti bancari per le Pmi dell'area euro attraverso un ampliamento delle garanzie possibili per ottenere i prestiti della Bce. Questo potrebbe "essere facilitato attraverso le banche centrali nazionali, facendo piu' ampio uso della loro capacita' di valutare la qualita' del credito dei prestiti delle Pmi. Puo' inoltre essere utlizzata l'assistenza della Banca europea per gli investimenti o di istituti per lo sviluppo con l'obiettivo dar vita a incentivi alla concessione di finanziamenti. Per quanto riguarda il peso attuale dell'indebitemento sulle imprese, il Fondo stima che fino al 20% del debito accumulato dalle societa' non bancarie nei paesi considerati piu' deboli, Italia, Spagna e Portogallo, appare insostenibile e potrebbe costringere le aziende a tagliare dividendi e a cedere asset, uno sviluppo che minaccia di erodere la fiducia. Parlando dei nuovi rischi Vinals ha indicato che sono legati alla liquidita' iniettata dalle autorita' gobali proprio per sostenere l'economia. "Le politiche monetarie accomodanti sono state e restano essenziali, ma il loro utilzzo nel tempo genera effetti collaterali, indebitamento e bolle nei prezzi di asset. Stiamo vedendo segni di questo negli Stati Uniti e nei mercati emergenti". Negli Stati Uniti, in particolare, nel clima di continui bassi tassi d'interesse "aziende e fondi stanno aumentando il rischio". Nei mercati emergenti esistono a loro volta rischi valutari e di volatilita' flussi di capitale. "Siamo in territorio inesplorato - ha detto Vinals - Potrebbero emergere vulnerabilita' e destabilizzazione dei mercati del credito". Queste vulnerabilita' vanno tenute sotto osservazione e affrontate. "Il messaggio chiave e' quello di affrontare i vecchi rischi ma di esaminare anche la necessita' di continuare le politiche accomodanti per evitare che i nuovi rischi diventino sistemici", ha affermato Vinals. In questo contesto nell'area Euro occorrono azioniche che la mettano a posto "una volta per tutte", che risolvano cioe' la "frammentazione finanziaria, sblocchino il credito anzitutto a piccole e medie aziende e aumentino la solidita', che completino il risanamento del settore bancario e la pulizia dei suoi bilanci, muovendosi con decisione verso un'unione bancaria". Azioni servono anche a livello internazionale. Gli Stati Uniti Uniti devono mantenere "sicure la banche" e monitorare attentamente i ritorni al rischio anche nel settore non-finanziario. Occorrono inoltre passi avanti nella realizzazione degli accordi di riforma della regolametazione globale, per evitare "i pericoli di arbitrage e frammentazione". Il rapporto, in generale, sostiene che la stabilita' finanziaria globale "e' migliorata" dal precedente rapporto dell'ottobre del 2012. Ma avverte che "se progressi nell'affrontare le sfide di medio termine verranno meno, il rally nei mercati finanziari potrebbe rivelarsi insostenibile, i rischi potrebbero ricomparire e la crisi finanziaria globale potrebbe trasformarsi in un problema cronico".

OCSE: Italia restrizioni per il credito alle pmi (21 aprile2013).
Nell'area Ocse nel 2011 l'Italia è stata uno dei pochi paesi dove si è registrato un calo dei prestiti alle Pmi, scesi dell'1,9% rispetto all'anno precedente. Ma non solo: nel nostro paese - dove pure le Pmi, con meno di 250 addetti rappresentano il 99,9% del totale e coprono l'80% della forza lavoro - la quota di finanziamenti che queste imprese riescono a raccogliere è solo il 18,3% del totale alle aziende, una quota lontanissima dal 79% raccolto dalle Pmi svizzere o dal 77,7% di quelle sudcoreane. Sono solo alcuni dei dati che emergono dal rapporto Financing SMEs and Entrepreneurs 2013 appena diffuso dall'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, un'analisi condotta su 25 paesi e che evidenzia - come spiega il segretario generale Angel Gurria - come le Pmi «possono sfruttare il loro questo potenziale solo se ottengono i finanziamenti necessari per avviare e far crescere il loro business». Le restrizioni che hanno colpito i prestiti alle Pmi - scrive l'Ocse - sono legate, soprattutto nell'Eurozona, alla crisi del debito sovrano con il peggioramento dell'attività di finanziamento delle banche. Nel nostro paese, peraltro, l'esposizione delle banche nazionali al debito sovrano è a livelli elevatissimi, ben il 161% del rapporto di capitale core Tier 1. A complicare la situazione anche i nuovi requisiti di Basilea 3 «che si prevede avranno un impatto significativo sui prestiti e sulle condizioni del credito alle Pmi». L'Ocse ricorda come dopo la «nuova recessione che ha colpito l'economia italiana nell'estate del 2011, la stretta sul credito è stata più forte per le Pmi che per le grandi imprese, provocando una crescita negativa per la prima volta dall'inizio della crisi» (infatti nel 2009 i prestiti erano cresciuti dell'1,2% annuo e nel 2010 del 6,6%). Inoltre, «a differenza della prima recessione il calo dei prestiti alle Pmi ha riguardato sia le piccole che le grandi banche» con un incremento del tasso di richieste respinte salito dall'8% del totale nella seconda metà del 2010 al 19% a fine 2011. Altro elemento penalizzante, per le Pmi italiane, i tassi di interesse pagati che a fine 2011 erano in media del 5%, ovvero 1,7 punti percentuali in più rispetto a quelli applicati alle grandi aziende. L'analisi dell'Ocse evidenzia poi come, con il protrarsi della crisi, la percentuale di prestiti in sofferenza delle piccole imprese italiane - che nel 2005 in precedenza erano al 2% del totale, quasi il doppio dei bad loans di medie e grandi aziende - è cresciuto, fino a toccare quasi il 3%, piu' o meno lo stesso livello raggiunto dalle imprese di dimensione superiore. Ultimo accenno infine al ritardo nei pagamenti ai fornitori, che a meta' 2012 si attestava per le Pmi a 25 giorni, contro i 14 delle aziende più grandi che, osserva l'organizzazione, «possono sfruttare il loro maggiore potere contrattuale».

L'Italia e la cementificazione dei suoli (22 aprile 2013).
Ogni giorno in Italia scompaiono 288 ettari di terra agricola. La cementificazione e l'abbandono dei campi ha fatto perdere in vent'anni al nostro Paese il 15% della terra coltivata, mettendo la parola fine all'attività di 1,2 milioni di aziende. Sono i numeri su cui si fonda l'allarme della Coldiretti in occasione della 33esima edizione dell'Earth Day, la Giornata della Terra che le Nazioni Unite celebrano in tutto il mondo il oggi, un mese e due giorni dopo l'equinozio di primavera. La prima ricaduta di queste dinamiche è naturalmente sul cibo: «Il rischio - spiega la Coldiretti - è quello di un aumento costante delle importazioni, perché nel 2012 la produzione nazionale è stata in grado di garantire appena il 75% del fabbisogno alimentare degli italiani»; un'evoluzione di questo tipo influisce «sull'ambiente per l'impatto climatico dei trasporti ma anche sulla salute dei cittadini con l'arrivo di alimenti di diversa qualità spesso spacciati come Made in Italy». Il problema è però anche di sicurezza, perché il 9,8% del territorio nazionale è a rischio di frane e alluvioni, un pericolo che riguarda 5 milioni di italiani. Ambientalisti e organizzazioni agricole tornano per questo motivo a chiedere interventi concreti per invertire la rotta: «L'agricoltura - ricorda la Confederazione italiana degli agricoltori - è un settore strategico anche per l'energia. Se verranno rispettati gli obiettivi europei, infatti, entro il 2020 il 45% delle rinnovabili verrà dalle campagne, cioè dalla rivalutazione energetica degli scarti di campi e stalle».

Richard Ginori e Pomellato. Persi altri due brand (23 aprile 2013).
Nessun altro pretendente si è fatto avanti (il termine per la presentazione delle offerte scadeva oggi alle 12), e dunque l'asta per la Richard Ginori non ci sarà: la storica manifattura di porcellane, nata nel 1735 e fallita nel gennaio 2013, si prepara a passare sotto le insegne dell'unico offerente, la maison della moda Gucci che, dopo essersi fatta avanti nei giorni scorsi, ieri ha formalizzato la proposta da 13 milioni di euro al Tribunale di Firenze. L'aggiudicazione provvisoria è fissata per le ore 15 di oggi, quella definitiva avverrà dopo la firma dell'accordo sindacale che dovrà prevedere il riassorbimento di 230 dipendenti su 305, condizione sospensiva posta dal gruppo della moda, che fa capo al colosso francese del lusso Kering (nuovo nome di Ppr), per perfezionare l'acquisto. I sindacati confederali e Cobas non appaiono concordi nella valutazione di questa condizione, con i Cobas che hanno già annunciato di voler proporre contratti di solidarietà per il riassorbimento di tutti i dipendenti. Tutti aspettano comunque di conoscere meglio il piano industriale che, secondo quanto annunciato da Gucci, farà leva sulle competenze, il know how e le sinergie esistenti tra i due marchi, con lo sviluppo, nel breve-medio periodo, di articoli per la tavola nel segmento lusso, e la costruzione di un'attività sostenibile nel lungo periodo. L'investimento di Gucci, che mette insieme due simboli del made in Italy di qualità, comprende il marchio Richard Ginori e la fabbrica di Sesto Fiorentino (Firenze), ma non la proprietà immobiliare della maxi area industriale da 130mila metri quadrati (l'affitto scadrà nel dicembre 2016). Su quella – di proprietà della società Ginori Real Estate in liquidazione, che fa capo al 50% al Fallimento Richard Ginori e al 50% a un gruppo di immobiliaristi pratesi - si aprirà presto una nuova partita, visto che Gucci ha posto tra le condizioni dell'acquisto anche la concessione di un diritto di prelazione sulla partecipazione del 50% in Ginori Real Estate. E a proposito delle denominazioni sociali, Gucci ha già guardato al marketing, impegnando il Fallimento Richard Ginori a cambiare nome a Ginori Real Estate e a Richard Ginori Turkey, le due società che non fanno parte del 'pacchetto' acquisito e che dovranno eliminare le parole Ginori e Richard Ginori: meglio evitare fraintendimenti sul mercato, quando si deve partire nel rilancio di un'azienda che ha i forni fermi dall'estate scorsa. Nel giro di 24 ore anche un'icona della gioielleria giovanile Pomellato prende la strada di Pinault-Ppr che controlla Gucci e Bottega Veneta.

Disoccupazione record in Spagna (26 aprile 2013).
Nuovo record della disoccupazione in Spagna: nel primo trimestre il tasso di disoccupazione è salito al 27,2% più del 26,5% atteso dal mercato (dopo il 26,02% del trimestre precedente). Il numero dei senza lavoro ha superato per la prima volta i sei milioni di persone. Sono i dati diffusi dall'Istituto nazionale di statistica. 1.400 i poliziotti sono stati mobilitati a Madrid per presidiare il Parlamento spagnolo in vista di una manifestazione contro la crisi. Il Parlamento è stato circondato da un cordone di forze dell'ordine in vista della manifestazione. Prima del corteo la polizia ha arrestato quattro persone e confiscato materiale utile per appiccare incendi. Lo ha reso noto il ministero dell'Interno, secondo il quale dietro la manifestazione in programma ci sarebbero gruppi violenti. Scontri giovedì sera nel centro di Madrid nei dintorni del Parlamento tra forze dell'ordine e manifestanti convocati dalla piattaforma «En Pie!» (in piedi), che ha convocato la manifestazione «Occupiamo il Congresso». Manifestanti hanno lanciato oggetti contro la polizia, che ha caricato a più riprese. Poco dopo le 20:30, i manifestanti hanno iniziato a lasciare la Placa de Neptuno, il fulcro della dimostrazione. La tensione, anche a sera inoltrata, è rimasta molto alta: in tutto, a fine giornata, sono stati fermati 15 dimostranti e 14 agenti sono rimasti feriti. In particolare alla fine di marzo, la Spagna, sottoposta a misure di austerità senza precedenti, ha registrato 6.202.700 i disoccupati, 237.400 in più rispetto al trimestre precedente. I dati sono «drammatici» ha riconosciuto la segretaria di Stato per il Lavoro, Engracia Hidalgo. In dichiarazioni ai media, la Hidalgo ha sostenuto che il governo presieduto da Mariano Rajoy «lavora senza sosta» perchè«la Spagna torni a essere un Paese di opportunità per tutti» e «si creino quanto prima le condizioni economiche che consentano la crescita e la creazione di impiego». Bruxelles è tornata a chiedere a Rajoy «nuove misure di politica attiva di impiego e di sostegno all'occupazione». Il vicepresidente della Commissione europea e responsabile degli affari economici, Olli Rehen chiede al governo spagnolo di presentare venerdì al consiglio dei ministri, «misure ampie e concrete» per correggere gli squilibri «eccessivi», soprattutto l'aumento della disoccupazione. Anche la Francia sotto la morsa della disoccupazione (3.200.000 disoccupati) chiede iniziative volte a rilanciare la ripresa; solo la Germania resta legata alla politica di austerità.

Il governo Letta (28 aprile 2013).
Nasce il governo di Enrico Letta. Il premier è salito sabato pomeriggio al Quirinale e dopo l'incontro con il presidente Giorgio Napolitano ha sciolto la riserva e presentato la lista dei ministri: 21, di cui 7 donne, un record per l'Italia, e molti quarantenni. Nove ministri sono del Pd, 5 del Pdl, 3 di Scelta civica e 4 tecnici. L'età media è di 53 anni, contro i 63 del governo Monti. Oggi alle 11.30 al Quirinale il giuramento. Hanno dichiarato di dare la fiducia: Pd, Pdl, Scelta Civica.
Dunque Letta ce l’ha fatta. Come scritto nelle stelle. La scelta era obbligata: governissimo doveva essere e governissimo è stato. Per mancanza di alternative e perchè conviene ai tre partiti che lo sostengono. A Berlusconi, che negli ultimi mesi si è mosso bene, e che ora unisce il senso di reponsabilità nazionale (“l’Italia non può restare senza governo”) alla necessità di tutelarsi dagli attacchi della magistratura. Conviene al Pd, che deve assolutamente guadagnare tempo per tentare di ridarsi un contegno, una dignità, una leadership. E ai centristi perchè è l’unico modo per restare in vita. Tutti, inoltre, sono interessati a neutralizzare e a svuotare Grillo (il quale, peraltro, da qualche tempo li sta aiutando), sapendo che il tempo gioca contro il leader del Movimento 5 Stelle.
La lista dei ministri
Con il segretario del Pdl Angelino Alfano vicepremier e ministro degli Interni, il direttore generale di Bankitalia Fabrizio Saccomanni all'Economia e la leader radicale Emma Bonino agli Esteri. Un governo «politico», dice subito il presidente della Repubblica, con «record di presenza femminile». Tra di loro si segnala la presenza del primo ministro di colore della storia repubblicana: Cecile Kyenge, deputato del Partito democratico che approda al ministero senza portafoglio dell'Integrazione.
Filippo Patroni Griffi, già ministro del governo Monti, resterà al fianco di Letta nella veste di sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio. La presenza di Alfano come vicepremier e titolare del Viminale, suggella invece l'intesa di governo tra Pd e Pdl. Al ministero degli Esteri approda Bonino, trasloca invece dagli Interni alla Giustizia Anna Maria Cancellieri.
Nomi esterni alla politica sono quelli di Saccomanni all'Economia e del presidente dell'Istat Enrico Giovannini al Lavoro e alle Politiche sociali. Al dicastero della Difesa si insedierà Mario Mauro, capogruppo di Scelta civica al Senato. Il sindaco di Padova Flavio Zanonato (Pd) avrà la responsabilità dello Sviluppo economico. Alle Infrastrutture e Trasporti arriva Maurizio Lupi (Pdl), vicepresidente della Camera.
Alle Politiche agricole la deputata Pdl Nunzia De Girolamo, all'Ambiente il deputato Pd Andrea Orlando, all'Istruzione, Università e Ricerca Maria Chiara Carrozza, ex rettore dell'Istituto Sant'Anna di Pisa e deputato Pd. Ai Beni e attività culturali e Turismo approda Massimo Bray, direttore editoriale Treccani e deputato Pd. La Salute va alla pidiellina Beatrice Lorenzin.
Quanto ai ministeri senza portafoglio, confermato agli Affari europei il ministro del governo Monti Enzo Moavero Milanesi. Agli Affari regionali e autonomie c'è Graziano Del Rio, presidente dell'Anci. Alla Coesione territoriale il sociologo Carlo Trigilia, ai Rapporti con il Parlamento il deputato Pd Dario FRanceschini, alle Riforme Costituzionali il senatore Pdl Gaetano Quagliariello, all'Integrazione Cecile Kyenge, originaria del Congo, alle Pari opportunità, Sport e Politiche giovanili la campionessa olimpica e senatrice Pd, nata in Germania, Josefa Idem, alla Pubblica amministrazione e semplificazione Gianpiero D'Alia (Udc).
Napolitano: governo politico. «Non c'è bisogno di nessuna formula speciale» quello che nasce «è un governo politico formato nella cornice istituzionale e secondo la prassi» della democrazia parlamentare, ha detto il capo dello Stato. «Il mio auspicio è che ci sia la massima coesione», ha detto ancora il capo delo Stato. Il presidente incaricato «è stato l'artefice della nascita di questo governo, io ho assecondato» il suo sforzo, ha continuato il capo dello Stato. «Voglio esprimere profonda gratitudine al Presidente Giorgio Napolitano», ha esordito il premier. «Voglio esprimere due parole di soddisfazione, sobria soddisfazione, per la squadra di Governo», ha aggiunto Letta prima di leggere la lista dei ministri al Quirinale. «È un governo con una squadra coesa e determinata, fatto di molte competenze, molti giovani e una forte presenza femminile», ha detto ancora Letta. «Nel necessario compromesso della squadra c'è freschezza e c'è solidità». Così Pier Luigi Bersani commenta il governo formato da Letta. Berlusconi: non abbiamo messo paletti. «Abbiamo trattato per la formazione del governo senza porre alcun paletto, sena impuntarci su nulla eslcudendo persone che fossero ministri in precedenti governi». Lo detto Silvio Berlusconi, intervistato dal Tg5, aggiungendo: «Così abbiamo contribuito a fare un governo in poco tempo». Si può commentare che al termine di questa partita il Pd ha perso un segretario (Bersani), due padri nobili (Prodi e Marini), un grande vecchio (Rodotà), un alleato (Vendola), la benevola copertura di Napolitano, cinque punti di consenso elettorale, faccia e credibilità, dovendo alla fine governare con Berlusconi nonostante i solenni giuramenti dei vari Bersani, Bindi, Franceschini, Finocchiaro. Si guardi Letta, perché la vendetta di Bersani e della componente comunista del Pd non si farà attendere.

Il governo Letta e la finanza (29 aprile 2013).
Nelle sale operative della nostra finanza ci si interroga sulle conseguenze di mercato per l’arrivo di Letta al governo. Il presidente incaricato conosce bene il mondo degli affari e una delle sue sentinelle, il deputato Francesco Boccia, ha le idee molto chiare. Fu lui, ad esempio, a fare fuoco e fiamme, anche contro il parere del suo partito, contro l’introduzione della Tobin tax all’italiana. Nelle settimane scorse Magnus Wilberg (economista al ministero delle Finanze svedese) sul Financial Times ammoniva: «Noi la Tobin tax l’abbiamo provata. E non funziona». Il tema fondamentale è ovviamente quello che riguarda il rinnovo del nostro debito pubblico, gli spread sui titoli tedeschi e l’atteggiamento da tenere in Europa. L’idea di fondo è che l’Italia oggi si trovi finanziariamente meno isolata. È di tutta evidenza, nelle sale operative, che il vero guaio d’Europa siano oggi i conti della Francia e le pulizie delle banche tedesche. Il conflitto tra falchi e colombe da sotterraneo è diventato palese. E un’attività di lobbying antiausterità a Bruxelles oggi è ben più facile di ieri. Il prossimo governo sa bene di poter godere di una luna di miele con i mercati che non dipende da esso, ma dalla congiuntura internazionale. Ci sono tre elementi positivi che non si possono perdere:
1. Siamo in una situazione di RISK ON mondiale. È aumentato l’appetito per attività a rischio. Quest’anno i titoli spazzatura americani (quelli a breve rendono intorno al 6 per cento) garantiscono tassi inferiori rispetto a cinque anni fa. Il mondo dei risparmiatori è alla disperata ricerca di rendimenti, che oggi non riescono a trovare sul mercato.
2. La liquidità mondiale è salita a livelli inimmaginabili solo pochi mesi fa. Le recenti mosse espansive della Banca del Giappone (che seguono quelle della Fed) hanno creato (direttamente e indirettamente) una bolla di cash che si sta riversando in Europa. Hsbc la calcola vicina ai mille miliardi di dollari.
3. Il combinato disposto delle prime due situazioni sta comportando un rimescolamento mondiale degli investimenti. Se fino a pochi mesi fa i tedeschi compravano solo carta tedesca e così per le grandi nazioni, oggi si inizia a diversificare geograficamente, alla ricerca di affari.
Si tratta di una tempesta perfetta. O meglio, di una bonaccia perfetta per l’Italia. Le sue basi sono economicamente fragili (stampare moneta non è la soluzione reale del problema), ma gli operatori ragionano sull’oggi. Nel lungo periodo saremo tutti morti diceva quell’economista. A ciò si aggiunga che anche le aspettative non sono pessime. Parliamo di attese finanziarie e non di crescita reale (che è un altro discorso). Prendiamo ad esempio i nostri titolucci di Stato. E dividiamo il discorso in due. Un tedesco oggi si porta a casa un rendimento pari a zero sulle scadenze brevi. Ma se mettesse un po’ di liquidità nei Bot a sei mesi, avrebbe una cedola di circa lo 0,5 per cento. Con la certezza che la Banca centrale europea e il suo programma varato da Draghi pongono un ombrello di protezione su questo genere di titoli pubblici. Ma c’è un secondo elemento che tiene il rendimento dei nostri titoli di Stato più alto dei suoi concorrenti, ma tutto sommato calmierato, e cioè l’impegno diretto del bilancio della Bce sul nostro debito pubblico. Semplificando, e di molto, si può dire che circa un quarto della nostra carta è in mano a Francoforte. E se saltiamo noi, salta dunque l’euro. Il conto è presto fatto. Dal bilancio della Bce si vede come nei suoi conti ci siano già circa 105 miliardi di euro di Btp. A questi si possono, con un po’ di disinvoltura, sommare i 270 miliardi di euro che la Banca centrale europea ha fatto arrivare ai nostri istituti di credito e che questi hanno investito in titoli pubblici. È una ragnatela per la quale se prima l’Italia era too big to fail (come si diceva per salvare le banche a stelle e strisce durante la crisi di mutui) ora lo è ancora di più. Questa congiuntura economica fatta di enorme liquidità ed Europa compromessa con il nostro debito rappresenta un’arma negoziale fenomenale per il prossimo governo. Non sarà facile sprecarla. Anche se non impossibile.

Camera: fiducia al governo Letta (30 aprile 2013).
«Un’ultima opportunità di essere degni del nostro ruolo ci è concessa dall’eccezionale scelta compiuta da Giorgio Napolitano in una delle stagioni più complesse e dolorose della storia unitaria. E accogliendo il suo appello, intendo rivolgermi a voi con il linguaggio sovversivo della verità». Così Enrico Letta nell’esordio del discorso per la fiducia alla Camera in cui il premier ha «rivendicato con forza l’importanza di un temporaneo governo di servizio al Paese, tra forze sicuramente lontane e diverse tra loro, che si sono presentate come alternative alle elezioni e la cui convergenza è sicuramente un’eccezione». Convergenza che si è tradotta in serata in una fiducia passata a larga maggioranza con i voti di Pd, Pdl e Scelta Civica: 453 sì, 153 no e 17 astenuti tra cui la Lega. Replica oggi al Senato con un altro voto da cui non sono attese sorprese. Un voto «non facile», lo aveva definito Letta, per la «eterogeneità delle posizioni» delle forze a sostegno del suo esecutivo, ma delle cui istanze il presidente del Consiglio ha mostrato di tener conto, annunciando che il cavallo di battaglia del Pdl, l’abolizione dell’Imu, entrava nel programma di governo con «lo stop ai pagamenti di giugno della tassa sulla prima casa per dar tempo a governo e Parlamento di elaborare insieme una riforma complessiva». Riforma inserita in una «politica fiscale della casa che limiti gli effetti recessivi in un settore strategico come quello dell’edilizia». Di contro, Letta ha dato spazio alle tematiche del lavoro, particolarmente a cuore al Pd, assumendole come «la prima priorità del mio governo, perché solo con il lavoro si può uscire da questo incubo di impoverimento e imboccare la via della crescita dal momento che di solo risanamento l’Italia muore e le politiche per la ripresa non possono più attendere». Di qui il progetto di «ridurre le tasse sul lavoro, l’allentamento del Patto di stabilità, la rinuncia all’inasprimento dell’Iva». Il tutto nel quadro di una politica di contenimento fiscale che però dica «basta ai debiti che troppe volte il nostro Paese ha scaricato sulle spalle delle generazioni successive». Con un altro passaggio del suo intervento, durato 50 minuti, il premier si è guadagnato il consenso dei grillini. E’ stato quando, invitate le forze politiche a «recuperare decenza, sobrietà, scrupolo, senso dell’onore e del servizio», Letta ha annunciato che «per dare l’esempio - e dico al Parlamento una cosa che nemmeno i miei ministri sanno ancora - il primo atto del governo sarà quello di eliminare con una norma d’urgenza lo stipendio dei ministri parlamentari, che esiste da sempre in aggiunta alla loro indennità». A proposito del finanziamento ai partiti ha proposto un drasttico taglio. «Tutte le leggi introdotte in materia dal ’94 ad oggi sono state ipocrite e fallimentari, non erano rimborsi ma finanziamento mascherato, per un ammontare troppo elevato. Confermato dalla Corte dei Conti: 2 miliardi e mezzo di euro a fronte di spese certificate di mezzo miliardo. Il sistema - ha aggiunto - va rivoluzionato abolendo la legge e introducendo misure di controllo e di sanzione anche sui gruppi parlamentari e regionali», prevedendo anche la libera contribuzione del cittadino accompagnata da opportune detrazioni fiscali. Nelle misure per la riduzione dei costi della politica, prevista anche l’abolizione delle Province. Dedicata alle riforme istituzionali la parte finale del discorso del premier: «Una via stretta ma possibile», che potrebbe essere facilitata dall’istituzione di una «Convenzione aperta anche alla partecipazione di autorevoli esperti non parlamentari», a cui Letta dà 18 mesi di tempo per «avviare il progetto verso un porto sicuro». Trascorsi i quali, «se veti e incertezze dovessero impantanare tutto per l’ennesima volta, non avrei esitazione a trarne immediatamente le conseguenze». Tra i compiti della Convenzione il superamento del bicameralismo paritario e, soprattutto, cancellare il porcellum. Di qui l’invito ad assumere «il solenne impegno che quella dello scorso febbraio sia l’ultima consultazione elettorale che si svolge sulla base della vigente legge». A questo punto, un inciso del premier che, «a livello meramente personale», afferma di preferire, in mancanza di alternative, il ritorno al Mattarellum. Anche la giustizia è stato «un importante argomento di contesto» nel discorso del premier, «in quanto solo con la certezza del diritto gli investimenti possono prosperare». (Giova notare che fonti indirette sostengono il desiderio di Beerlusconi di presiedere questa Convenzione). Quindi, a cascata, «l’impegno per la moralizzazione della vita pubblica, la lotta alla corruzione, una ferrea lotta all’evasione fiscale da coniugare con un fisco amico dei cittadini, dove la parola Equitalia non debba provocare brividi» e, non ultima, la necessità di «non avere più una situazione carceraria intollerabile» che ha portato a «un eccesso di condanne della Corte dei diritti dell’uomo». Non lontana dalle esigenze di giustizia la logica della nomina di Cecile Kyenge al ministero dell’integrazione. La cui scelta, ha osservato il premier, «significa una nuova concezione di confine, da barriera a speranza, da limite invalicabile a ponte tra comunità diverse». Infine, la raccomandazione per un welfare «più universalistico e meno corporativo» e l’impegno prioritario a intervenire sui nodi del rifinanziamento della cassa integrazione e degli esodati con i quali «la comunità ha rotto un patto». Letta non ha, però, fatto cenno alle eventuali fonti per sostenere le nuove spese.

Letta, fiducia anche al Senato (30 aprile 2013).
Dopo il voto di ieri alla Camera il governo di Enrico Letta incassa la fiducia anche al Senato con 233 sì, 59 no e 18 astenuti. Hanno votato a favore Pd, Pdl e Scelta Civica. La Lega si è astenuta, come alla Camera, mentre hanno votato contro i 5 Stelle e Sel. «Non ci sono alternative a quello che stiamo facendo», ha affermato Letta chiudendo il dibattito prima del voto con una forte difesa delle larghe intese. Solo chi teme di avere «una identità debole», sostiene il premier, può avere «paura» dell’alleanza tra poli normalmente alternativi, paura di «mescolarsi». «Non penso che Berlusconi abbia un’identità debole, se ho capito bene il personaggio. Ma anch’io faccio parte di un partito che è orgoglioso della sua identità e se siamo orgogliosi di quello che abbiamo fatto non dobbiamo avere timore». Durante il dibattito il Pdl ha chiesto al premier di chiarire sull’Imu. Immediata la risposta. Il ministro Graziano Delrio ha detto che «il presidente Letta ieri ha detto chiaramente che la rata di giugno verrà sospesa in attesa del nuovo regime che possa aiutare le famiglie meno abbienti», sottolinea il ministro per gli Affari regionali. «C’è un problema di liquidità dei Comuni che affronteremo in queste ore con il ministro Saccomanni, per evitare di metterli in crisi», spiega Delrio, che non azzarda previsioni su cosa in concreto accadrà alla tassazione sulla prima casa: «È una revisione da fare con il Parlamento, non possiamo prevedere il punto di approdo. Certamente c’è il nostro impegno ad alleggerirla». Ma Berlusconi ha ribadito il suo aut aut al governo: «Sono fiducioso sia sull’abrogazione dell’Imu per il 2013, sia per la restituzione di quella del 2012. Abbiamo preso un impegno con i nostri elettori su questo e intendiamo rispettarlo. Non potremmo essere parte di un governo che non attuasse queste misure, né lo sosterremmo dall’esterno». E aggiunge: «Mi chiedete se mi vedo bene come presidente della Convenzione per le riforme. Io sono sempre più bravo in tutto, è certo che mi vedo bene anche in questo ruolo». L’invito di Letta è di non limitarsi ad «alzare le proprie bandiere e i propri stendardi» (servono solo a «coprire la debolezza della propria identità»), ma ad accettare i dati di fatto e a confrontarsi con le politiche concrete, su cui sono possibili «soluzioni comuni». Una sorta di lezione di realpolitik, quella di Letta. «La realtà è quella che abbiamo di fronte, non quella che vorremmo. Anch’io avrei voluto trovarmi seduto a questo tavolo con un governo diverso da questo. Ma la realtà è qualcosa che un politico deve mettere al centro; altrimenti ci raccontiamo delle favole per stare tranquilli e metterci in pace la coscienza». Ma Letta non vuole che il suo governo, con i suoi numeri a prova di bomba, possa dare l’impressione che l’Italia è già fuori dalla crisi. «Ho letto i giornali e ho ascoltato le cose dette in Senato. Il carico delle aspettative è eccessivo. Se c’è la sensazione che tutti problemi sono già risolti perché c’è un governo fortissimo, allora stiamo sbagliando: perché non è così. La situazione è di grandissima difficoltà ed emergenza, e se siamo qui è per far fronte a questa emergenza». Letta è tornato ad indicare nella riforma del sistema politico uno dei cardini del suo governo (l’altro è la politica economica). Già nella scorsa legislatura, ha ricordato , sono stati registrati «tanti punti di convergenza» tra le forze politiche. I 18 mesi indicati come scadenza per le riforme non vogliono essere uno sgarbo al Parlamento: ma la vita del governo sarà «legata» all’approvazione delle riforme necessarie a far sì che l’Italia abbia «istituzioni in grado di decidere». Sulle riforme sarà importante il concorso di tutti. E in questo senso Letta giudica importante l’atteggiamento della Lega: «Ho ascoltato l’apertura di credito della Lega, l’ho colta con grande attenzione». Passando alle politiche anti-crisi Letta ha detto che sul lavoro e sul welfare l’impegno del governo e del ministro Giovannini sarà di «applicare in Italia le migliori esperienze che si sono fatte in Europa». Per la ripresa economica si tratterà soprattutto di stimolare una ripresa della fiducia: «Si è creato un clima per cui anche chi non ha perso il lavoro ha abbassato investimenti e consumi. Ma a ridare fiducia non sarà una legge o un comma, bensì la nostra responsabilità comune», ha aggiunto Letta . Centrale, per il premier, il tema dell’ancoraggio dell’Italia in Europa. Un'Europa che però deve cambiare: «Un continente come il nostro non può essere unito solo dalla moneta: il nostro destino o è comune o è un destino di singoli stati che decadranno». Letta ne parlerà nel suo tour nelle capitali europee: «Cercherò innanzitutto di presentarmi, di aprire un canale di comunicazione e di spiegare che cosa è successo in Italia negli ultimi cinque giorni». Ma Letta avverte: «La scelta che tutti insieme qui abbiamo fatto è figlia di una situazione d’emergenza, che noi affrontiamo con determinazione, buona volontà, energia e consapevolezza dei nostri limiti. Ma c’è un’emergenza, che non scompare con il voto di fiducia. Se non c’è la consapevolezza dell’oggettiva fragilità di quanto fatto e di quanto stiamo facendo e si pensa che tutti i problemi si siano risolti facendo un governo io credo che abbiamo sbagliato. La situazione rimane di grandissima difficoltà». «I cittadini hanno il diritto di esigere da noi, la situazione di difficoltà necessita istituzioni che siano in grado di decidere». E invece «è chiaro che le nostre istituzioni non funzionano». Dopo la fiducia alla Camera, Angela Merkel era stata tra i primi leader stranieri che si sono complimentati con Letta. I due premier si incontreranno oggi alle 17,30 a Berlino. Dopo la tappa a Berlino, Letta ha in programma una sosta a Parigi e una visita a Bruxelles giovedì. L’obiettivo di questi viaggi è quello di presentare ai partner europei la politica che intende perseguire il nuovo esecutivo: l’Italia intende proseguire nel cammino di riordino dei conti pubblici ma chiede all’Unione europea di pensare alle politiche per la crescita e non solo a quelle di austerity. «L’Italia rischia di morire di austerità», ha spiegato ieri Letta. Al presidente francese Francois Hollande il premier chiederà- come ha già fatto Mario Monti durante il suo mandato di primo ministro - di fare asse per chiedere maggiore impegno dell’Unione europea per la crescita. A Bruxelles il premier incontrerà Manuel Barroso, presidente della Commissione europea. E’ probabile che in questa occasione Letta faccia presente che l’obiettivo del risanamento è raggiunto e che il suo governo si attende che l’Italia esca dalla procedura d’infrazione. Il presidente del Consiglio è stato criticato perché nel suo impegnativo discorso di ieri ha parlato di piano straordinario per la ricerca, di soluzione del problema esodati, di reddito minimo per le fasce sociali più disagiate, di nuove politiche industriali, di rilancio degli investimenti pubblici, di congelamento dell’Imu e dell’Iva senza spiegare dove verranno trovate le risorse per fare tutto questo. E’ probabile che le visite a Berlino, Parigi e Bruxelles servano a Letta per saggiare quali sarebbero le reazioni europee alla richiesta da parte italiana di poter usufruire, come e’ accaduto a Francia e Spagna, di una dilazione di due anni per il rientro dal deficit, soluzione che permetterebbe di muoversi con più agio nella spesa pubblica. C’e’ intanto polemica sulla proposta di Letta di varare la Convenzione per le riforme come un organismo autonomo che deve lavorare in parallelo all’attività del governo pur avendo proprio il presidente del Consiglio legato una prima verifica del suo governo fra 18 mesi, quando si prevede che le prime riforme costituzionali possano essere approvate in base alle norme dell’articolo 138 della Costituzione. Gennaro Migliore, capogruppo di Sel, nella dichiarazione di voto, ha annunciato che il suo partito proporrà Stefano Rodotà come presidente della Convenzione. Ieri Silvio Berlusconi aveva annunciato che lo stesso Letta gli avrebbe chiesto di presiedere questo nuovo organismo e che lui aveva finito per accettare. Mentre il premier sarà impegnato a Berlino, Parigi e Bruxelles a Roma si lavorerà a sbrogliare la matassa della nomina dei viceministri e dei sottosegretari che di solito scatena la lotta tra le varie componenti dei partiti. L’obiettivo di partenza del governo è di avere un numero sobrio di sottosegretari.

Europa a due velocità (3 maggio 2013).
Si ritiene che il taglio dei tassi adottato dalla Bce non avrà un grande effetto pratico ma ha un valore simbolico. Quello di una politica espansiva che non si vuole abbandonare. Dall'altra parte la burocrazia europea e le organizzazioni internazionali (l'Ocse proprio ieri) si comportano in modo esattamente opposto. E continuano a opporsi alle riduzioni fiscali. Nessun giudizio di merito (anche se i lettori di IMPRESA OGGI sanno bene la nostra posizione per una forte defiscalizzazione), ma una semplice riflessione di metodo. Come si può pensare di trovare una soluzione alla grave crisi economica europea, se le forze in campo giocano in squadre contrapposte? Gli sforzi dell'una (i soldi a costo zero) vengono vanificate dall'altra (meno quattrini nelle tasche di famiglie e imprese). Come insegna il caso americano, dove politica e moneta hanno lavorato nella stessa direzione. Proprio due giorni fa la Fed si è detta disponibile ad aumentare di 85 miliardi al mese gli acquisti di bond che sta facendo sul mercato. Lasciare mano libera alla politica di spendere a piacimento, potrebbe rappresentare per l'Italia un rischio fatale. Oggi paghiamo la scelleratezza del passato. Con una reazione uguale ma contraria siamo però arrivati all'assurdo di avere un problema di contabilità internazionale nel pagare i 100 miliardi di debiti che la pubblica amministrazione ha contratto con i privati (solo per citare un caso). Siamo passati dai regali a baby pensionati, una bomba sul nostro bilancio, alle rigidità ragionieristiche nel pagare le imprese creditrici. Mentre la Bce, grazie a Mario Draghi, ha messo in piedi delle armi non convenzionali (si pensi al prestito da mille miliardi), la politica eurotedesca si attiene ai codici di un trattato ormai superato. L'esempio dei tassi di interesse è istruttivo. Se Draghi avesse dovuto rispondere solo alle sollecitazioni di Berlino, ieri non avrebbe dovuto ridurre allo 0,5% il tasso di rifinanziamento Bce. A differenza nostra infatti, in Germania iniziano a manifestarsi le prime tensioni sul lavoro. I sindacati, grazie alla piena occupazione di fatto, pretendono per i loro associati aumenti retributivi importanti. È il primo sintomo di una ripresa inflattiva, che chiama tassi più alti e non più bassi. Eppure Draghi è andato avanti per la sua strada.

Gli italiani e le tasse (6 maggio 2013).
La pressione fiscale è sempre più una zavorra per la ripresa economica e la sopravvivenza di famiglie e imprese. Mentre a livello politico impazzano le polemiche e le idee divergenti su come alleggerirla e su quali interventi adottare in via prioritaria, il nuovo allarme viene suonato dalla Cgia di Mestre. L'organizzazione veneta ha infatti stimato che gli italiani sono tra i più tassati d'Europa: ad esclusione della Danimarca (47,4%), della Svezia (36,8%) e della Finlandia (30,5%) - che storicamente hanno sempre avuto una pressione tributaria elevatissima, ma con servizi pubblici e livelli di welfare non riscontrabili in quasi nessun altro Paese d'Europa - l'Italia si colloca al quarto posto di questa speciale graduatoria con una percentuale del 30,2%, ben 1,3 punti in più rispetto al 2011. Il carico è molto più lieve in altri vicini europei: il Regno Unito registra una pressione tributaria (28,6%) di 1,6 punti inferiore alla nostra, in Francia il carico tributario (27,9%) è minore di 2,3 punti ed in Germania (23,6%) addirittura di 6,6 punti. Rispetto alla media dell'Unione europea (26,5%), in Italia il peso delle tasse, delle imposte e dei tributi sul Pil è di 3,7 punti percentuali in più e addirittura superiore di 4,5 punti della media dei Paesi dell'area dell'Euro (25,7%). "Con un livello di tassazione del genere - esordisce Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia di Mestre - dovremmo ricevere una quantità di servizi con livelli di qualità non riscontrabili altrove. Invece, tolta qualche punta di eccellenza che registriamo in tutti i settori, la giustizia civile funziona poco e male, il deficit delle nostre infrastrutture materiali ed immateriali è spaventoso, in molte regioni del Sud la sanità è al collasso, senza contare che la nostra Pubblica amministrazione presenta ancora livelli di inefficienza non giustificabili. Se in Italia le tasse continuano ad aumentare e negli ultimi due anni il debito pubblico sul Pil è passato dal 120 a quasi il 130% e dall'inizio della crisi i disoccupati sono aumentati di circa un milione e mezzo, forse c'è qualcosa che non va. Dobbiamo assolutamente invertire la rotta, alleggerendo il carico fiscale su cittadini ed imprese, condizione necessaria per far crescere la domanda interna e, molto probabilmente, anche l'occupazione".

Krugman contro la politica dell'austerità (6 maggio 2013).
Quando si tratta di infliggere sofferenze ai cittadini delle nazioni debitrici, gli "austeriani" sono inflessibili: è un mondo crudele e bisogna fare scelte difficili. Ma quando gli "austeriani" o i loro amici finiscono sotto il fuoco delle critiche, improvvisamente scoprono i pregi dell'empatia e diventano sensibili. Lo abbiamo visto nel caso di Olli Rehn, il vicepresidente della Commissione europea: i suoi amici a Bruxelles si sono sentiti oltraggiati, oltraggiatissimi, quando ho fatto notare, usando un linguaggio lievemente colorito, che il signor Rehn stava ripetendo una tesi di storia economica che era già stata sfatata più volte. E lo abbiamo visto recentemente con l'articolo di Anders Åslund sul Financial Times in difesa degli economisti di Harvard, Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff e contro la critica, definita "brutale", mossa nei loro confronti da alcuni economisti dell'Università del Massachusetts (sede di Amherst). In un editoriale pubblicato all'inizio di questo mese, Åslund, un economista svedese, ha elogiato Reinhart e Rogoff per «aver fornito un importante correttivo all'idea che gli stimoli di bilancio siano sempre giusti, una posizione molto diffusa tra gli opinionisti economici angloamericani, in testa a tutti Paul Krugman del New York Times». È curioso che dica una cosa del genere, perché è una pura e semplice bugia: come sa chiunque abbia letto quello che scriviamo io o gli economisti Martin Wolf, Brad DeLong, Simon Wren-Lewis e altri, la nostra tesi è sempre stata che gli stimoli di bilancio sono giustificati solo quando ci si trova in una situazione di tassi di interesse a zero. Non posso credere che Åslund questo non lo sappia: perché allora si scredita da solo ripetendo una falsità facilmente confutata? Ma poi, perché definire "brutale" la critica degli economisti di Amherst? Il loro articolo era un'analisi calma e ragionata di come la coppia Reinhart-Rogoff era arrivata a determinare quella famosa soglia del 90%: se a Åslund ha dato l'impressione di essere un'aggressione in piena regola è solo per il contrasto eclatante fra gli elogi che avevano ricevuto i due professori di Harvard e la natura indifendibile della loro analisi. La mia opinione è che gli "austeriani" hanno scoperto di essere finiti in trappola. Si sono gettati anima, corpo e reputazione personale in difesa dei vari elementi della dottrina economica antikeynesiana: l'austerità espansiva, le soglie critiche del debito pubblico e via discorrendo. E come dice l'editorialista Wolfgang Münchau, la cosa terribile è che le loro teorie di politica economica sono state messe in pratica, con risultati disastrosi; come se non bastasse, ora si scopre che i loro eroi intellettuali hanno i piedi d'argilla, o magari di Silly Putty. Per come la vedo io, l'enormità del loro errore è tale che non sono in grado di fornire nessuna risposta ragionevole alle critiche e sono costretti a menare colpi alla cieca, come possono, con attacchi ad personam contro chi li critica o lamentandosi aspramente per la poca urbanità dei loro contestatori. Ed è da simili piccinerie che è governato il mondo - The New York Times).

Consumi ancora in caduta (7 maggio 2013).
I consumi di marzo in Italia hanno toccato il livello più basso dal 2000. L’indicatore dei Consumi Confcommercio (ICC) ha registrato un calo del 3,4% in termini tendenziali e dello 0,1% rispetto a febbraio che, pur segnalando un’attenuazione della caduta della spesa reale, riporta i consumi ai livelli del 2000. Nel primo trimestre, rispetto al primo trimestre del 2012, si registra una flessione del 4,2% e la compressione dei livelli di spesa, spiega Confcommercio, segue quella del reddito e dell’occupazione. La dinamica tendenziale di marzo riflette un calo del 2,2% della domanda di servizi e del 3,9% della spesa per beni. Solo il segmento dei beni e servizi per le comunicazioni mostra un aumento (+3,1% su marzo 2012). Il dato più negativo è ancora quello relativo ai beni e servizi per la mobilità la cui domanda scende dell’8,5%. «Il dato segnala il permanere di una situazione fortemente critica che interessa tutti i segmenti che compongono il comparto e che non sembra essere ancora giunta ad un punto di svolta». Riduzioni dei consumi particolarmente significative hanno interessato anche i beni e servizi ricreativi (-5,6%), gli alimentari, le bevande ed i tabacchi (-3,0%), gli alberghi ed i pasti e le consumazioni fuori casa (-2,8%) ed i beni e servizi per la casa (-2,7%). I dati destagionalizzati confermano invece un’attenuazione della caduta della spesa reale, ma i consumi hanno raggiunto il livello più basso da quando viene calcolato l’indicatore. A marzo, a fronte di una diminuzione della domanda per servizi (-0,7%), i beni hanno mostrato un modesto aumento (+0,2%). Il dato più negativo si registra per gli alberghi ed i pasti e consumazioni fuori casa (-1,4%). L’aumento dell’1,6% dei beni e servizi per la mobilità rappresenta un modestissimo tentativo di recupero rispetto alle riduzioni dei mesi precedenti. Per maggio Confcommercio stima una variazione congiunturale dell’indice dei prezzi al consumo dello 0,1%, con un tasso di crescita tendenziale dell’1,3% (1,2% il mese precedente). «È presumibile che con aprile si sia chiusa la fase di rapido rientro dell’inflazione, in atto dall’ultimo trimestre del 2012, che dovrebbe rimanere attestata, almeno fino all’estate, su valori inferiori all’1,5%».

Fmi su Italia: pil e occupazione (9 maggio 2013).
Nel 2013 ripartiranno Usa e Giappone, ma l'Italia vedrà ancora in calo il suo Prodotto interno lordo. L'economia italiana continuerà infatti a contrarsi anche nel 2013. Dopo il -2,4% del 2012, il Pil calerà quest'anno dell'1,5%, per poi tornare a crescere nel 2014 quando registrerà un +0,5%. Lo prevede il Fondo Monetario Internazionale. Il tasso di disoccupazione salirà al 12,0% nel 2013 (dal 10,6% del 2012) e al 12,4% nel 2014. Tuttavia, per l'Fmi, l'Italia è sulla strada giusta, entro la fine del 2013 la gran parte degli aggiustamenti fiscali infatti saranno stati effettuati, così come restano intatte le prospettive di crescita per il 2014. «In Italia - spiegal'Fmi - il ritmo del risanamento rallenterà all'1% del Pil, un po' meno di quanto inizialmente previsto, ma abbastanza per un pareggio di bilancio in termini strutturali». L'Fmi prevede per l'Italia un debito al 130,6% nel 2013 e al 130,8% nel 2014. Il debito sarà sopra al 120% almeno fino al 2018. In Italia «gli scenari suggeriscono che non sono richiesti ulteriori aggiustamenti, al limite piccole correzioni» afferma ancora il Fondo Monetario Internazionale (Fmi), sottolineando che l'Italia, a causa dell'elevato debito pubblico, deve mantenere un avanzo primario elevato. Per quanto riguarda gli altri Paesi, nel 2013 la crescita mondiale toccherà il 3,3%, un incremento dovuto soprattutto all'andamento delle economie emergenti e in via di sviluppo (+5,3%), mentre la crescita delle economie avanzate si fermerà all'1,2%, merito soprattutto, come detto, del +1,9% degli Stati Uniti e del +1,6% del Giappone. Segno meno, invece, per diversi paesi dell'Eurozona, a iniziare dall'Italia, che dovrebbe vedere il suo Pil contrarsi dell'1,5% per poi segnare nel 2014 una modesta crescita dello 0,5%. È lo scenario che emerge sempre dall'ultimo «World Economic Outlook» del Fondo Monetario Internazionale in cui vengono peraltro riviste (quasi sempre al ribasso) le stime formulate nello scorso gennaio. Il dato negativo dell'Italia (affiancato dal -1,6% della Spagna nel 2013) dovrebbe quindi pesare negativamente sul Pil dell'Eurozona, stimato per l'anno in corso in contrazione di circa lo 0,3% per via di una somma di fattori come «consolidamenti fiscali, frammentazione finanziaria, e aggiustamenti di bilancio nelle economie periferiche». Un risultato negativo per l'Eurozona sul quale tuttavia gravano i rischi legati all'incertezza politica mentre l'fmi invita a procedere verso la costruzione di una solida unione economica e monetaria.

Monito della Bce all'Italia (10 maggio 2013).
Sull’ eurozona pesano ancora rischi sulla crescita e per questo i banchieri centrali di Francoforte giudicano «fondamentale» proseguire nell’attuazione delle riforme strutturali. Nel bollettino di maggio della Bce si punta il focus in particolare sull’Italia, unico paese della periferia nel quale «la competitività non è migliorata dal 2008». Mentre la Bce nota che in alcuni paesi europei, come Irlanda, Spagna e Portogallo, dove in precedenza «i costi del lavoro erano andati aumentando a ritmi superiori a quelli medi europei», a partire dal 2008 invece «è in atto un processo di aggiustamento della competitività» del costo del lavoro. Ma in tutta la zona dell’euro è meglio proseguire nell’attuazione delle riforme, per migliorare il potenziale di crescita e la creazione di posti, in quanto il taglio dei tassi, come spiega la Bce, servirà a spronare la crescita nel secondo semestre di quest'anno. I miglioramenti ottenuti con gli interventi dei governi sono «nel complesso incoraggianti», ma sul fronte delle riforme strutturali «sono necessari ulteriori sforzi». I banchieri avvertono che la ripresa potrebbe essere ritardata, in quanto «i rischi per le prospettive economiche dell'area dell'euro rimangono al ribasso» e c'è la possibilità che la domanda interna o dall'estero rimanga «ancora più debole delle attese». Infatti sono peggiorate le stime degli istituti di previsione citati nel bollettino, con una crescita vista in calo dello 0,4% e in aumento dell'1% nel 2014, e peggiorano anche le previsioni della disoccupazione, al 12,3%, invece del 12,1%. Da qui la possibilità di un nuovo taglio del costo del denaro, lasciata aperta dal presidente Mario Draghi, mentre la Bce studia “altre misure” straordinarie per aiutare le piccole e medie aziende. Inoltre, anche il settore immobiliare è diviso fra Sud e paesi più indebitati e quelli più virtuosi del Nord, mentre secondo la Bce “anche in Italia la crescita dei prezzi è scesa ulteriormente da livelli già negativi”, mentre i prezzi sono in aumento progressivo in Germania, Austria e Finlandia.

L'inflazione colpisce le famiglie meno abbienti (11 maggio 2013).
Negli ultimi otto anni l'inflazione è salita di oltre il 20% per le famiglie italiane con la spesa media più bassa, contro un aumento del 16% per i nuclei familiari con la spesa media più alta. Lo rende noto l'Istat, che avvia la pubblicazione semestrale degli indici che misurano l'impatto dell'inflazione sulle famiglie, suddivise in cinque gruppi (quinti) in base al livello di spesa. "Nel complesso, tra il 2005 e il 2012, l'indice dei prezzi al consumo per le famiglie con la spesa media più bassa è aumentato del 20,2%, a fronte del +16,0% registrato per le famiglie con la spesa più alta e del +17,5% dell'Ipca generale", si legge nella nota Istat. I divari più ampi tra l'Ipca e le variazioni tendenziali mensili degli indici dei cinque quinti si sono registrati nel 2008 e tra ottobre 2011 e ottobre 2012, e sono dovuti in larga parte alle forti oscillazioni dei prezzi di beni energetici e alimentari. L'Istat sottolinea che "nel primo trimestre del 2013, rispetto ai primi tre mesi del 2012, l'inflazione per le famiglie dei diversi quinti di spesa si è distribuita in un intervallo compreso tra il +2,5% del primo quinto (spesa mensile più bassa) e il +1,8% dell'ultimo. Nello stesso periodo l'Ipca generale ha segnato un +2,1%". Questi dati segnalano che l'inflazione ha colpito più i beni primari che quelli voluttuari e meno necessari e, pertanto, aggiunge un altro tassello allo stato di disagio delle famiglie italiane.

G7: niente deroghe all'Italia (13 maggio 2013).
L’Italia «rispetterà gli impegni fissati con l’Europa» per il 2013 e il 2014. Se qualcuno sperava che Fabrizio Saccomanni rientrasse dal G7 di Londra con in tasca qualche sorpresa dovrà rivedere i piani. La splendida cornice seicentesca di Hartwell House – un’enorme villa in uno splendido giardino all’inglese nel Buckinghamshire - non ha fatto cambiare idea al rigido commissario europeo agli Affari monetari Rehn. Per i due era il primo faccia a faccia da quando Saccomanni è ministro. L’ipotesi ventilata a Roma che ci avrebbe dovuto permettere di chiudere la vecchia procedura di infrazione e di ottenere successivamente una deroga alle regole europee - come concesso a Spagna e Francia - è archiviata. Il ministro precisa che non ci sarà «nessuno slittamento» degli obiettivi di bilancio. O meglio: non ci sarà nessuna deroga formale. Il margine di manovra dell’Italia è negli stretti confini del 3% del rapporto fra deficit e Pil. Il che significa un margine quasi nullo quest’anno (siamo già al 2,9%), minimo l’anno prossimo: poiché l’Italia aveva programmato di raggiungere l’1,8%, il nostro margine è dell’1,2% al lordo di quel che spenderemo per pagare ulteriori arretrati ai creditori privati. A prima vista questi numeri sembrano la chiusura da parte dell’Europa alla richiesta di più flessibilità, in realtà si tratta già di un compromesso costruito in giorni di trattative. Concedendoci di arrivare fino al 3%, Bruxelles di fatto ha già permesso all’Italia di non avvicinarsi al pareggio non solo quest’anno (obiettivo fissato da Tremonti) ma nemmeno il prossimo. Inoltre Saccomanni sa che a certe condizioni la Commissione chiuderà un occhio su alcune spese aggiuntive purché servano a stimolare la crescita. Non è il caso dell’Imu, potrebbero esserlo una riduzione delle tasse sul lavoro. Per qualunque altra spesa che l’Europa conteggerà nel deficit «dovremo trovare le risorse, e le troveremo», dice sicuro il ministro. Tradotto: vogliamo tagliare le tasse, spendere di più per i cassintegrati o per assumere i giovani precari statali? O si sposta la tassazione altrove, o si fanno nuovi tagli. Al vertice a porte chiuse di oggi a Sarteano i ministri si dovranno chiarire le idee, perché lunedì Saccomanni è atteso all’Ecofin con un programma di massima. «Chiederemo al ministro come intende far ripartire l’economia italiana, ferma da troppo tempo», riferivano pochi giorni fa fonti europee. Una formula diplomatica per chiarire che le spese non sono tutte uguali, e che l’aumento delle spese in sé sarebbe una iattura. Una precisazione banale ma forse necessaria in una fase in cui vince lo slogan «oltre l’austerità». Non solo: Saccomanni ha detto esplicitamente che per Bruxelles avere informazioni chiare sui progetti di medio termine dell’Italia è la precondizione «per chiudere la procedura di infrazione» in piedi dal vecchio governo Berlusconi. «L’Europa vuole atti pubblici. Quello è il contesto nel quale si muovono: ecco perché con Rehn ho parlato soprattutto di procedure». Che per noi non sia il tempo delle vacche grasse lo ricorda lui per primo: «Tutti si aspettano che rispettiamo gli impegni. E tutti sappiamo che se non lo facessimo le conseguenze non le pagheremmo solo noi ma tutta l’Europa». Nella maggioranza c’è chi ha altri progetti, e dopo aver chiesto lo stop all’Imu sulla prima casa (valore quattro miliardi), ora vuole convincerlo a mettere mano alla tassazione sulle imprese, cioè all’Imu sui capannoni (gettito totale: 11 miliardi). Che ne pensa ministro? «Che la riforma dovrà essere complessiva, e che dobbiamo ancora parlarne».

Crollo del mercato immobiliare (14 maggio 2013).
Anno nero per il mercato immobiliare: nel 2012 le compravendite sono scese ai minimi dal 1985. I dati allarmanti emergono dal «Rapporto immobiliare 2013» realizzato dall’osservatorio dell’Agenzia delle entrate in collaborazione con l’Abi. «Il mercato immobiliare delle abitazioni subisce un vero crollo nel 2012, perdendo oltre 150 mila compravendite rispetto all’anno precedente: si tratta del peggior risultato dal 1985, quando le abitazioni compravendute erano state circa 430 mila». Rispetto al 2011 i volumi di compravendita calano del 25,7% mentre il valore complessivo di scambio scende, parallelamente, di quasi 27 miliardi di euro. «Il volume di compravendite di abitazioni in Italia, nel 2012, con la sola esclusione dei Comuni delle province di Trento e Bolzano - si legge nello studio - è stato pari a 448.364 ntn (numero transazioni normalizzate, ndr.), il -25,7% rispetto al 2011 (603.176 ntn)». Il calo è stato inferiore per i capoluoghi (-24,8%) e maggiore nei comuni non capoluoghi (-26,1%). «Nel corso del 2012, inoltre, il tasso tendenziale trimestrale delle compravendite (rapporto tra i valori del ntn nei semestri omologhi) ha mostrato segni sempre negativi e crescenti a partir dal -19,5% del primo trimestre fino a raggiungere il -30,5% nell’ultimo trimestre dell’anno». I dati non sono positivi neppure per il primo trimestre del 2013: secondo il direttore centrale dell’Abi, Gianfranco Torriero, «i prezzi delle case dovrebbero registrare un calo tendenziale dell’1,1%». Intanto Bankitalia segnala un nuovo record del debito pubblico a marzo. Il dato ha raggiunto quota 2.034,725 miliardi di euro, contro i 2.017,615 miliardi di febbraio. Il precedente picco era stato toccato nel gennaio scorso a 2.022,719 miliardi. In tre mesi, il debito è cresciuto di 46,067 miliardi rispetto ai 1.988,658 miliardi di fine 2012. Le entrate tributarie si sono attestate a 83,829 miliardi di euro nel primo trimestre del 2013. Si tratta di un miglioramento dello 0,79% rispetto agli 83,168 miliardi registrati nello stesso periodo del 2012. Nel solo mese di marzo, gli incassi sono risultati pari a 26,043 miliardi, contro i 26,237 miliardi dello stesso periodo dell’anno scorso. Sul fronte della produzione industriale l’Italia è fanalino di coda in Europa. Infine l’Istat ha comunicato il dato definitivo dell’inflazione: ad aprile è ferma per un incremento tendenziale dell’1,1%. L’Istituto ha rivisto al ribasso la stima preliminare che indicava un aumento dello 0,1% su base mensile e dell’1,2% su base annua. Rispetto al +1,6% di marzo la variazione tendenziale decelera di cinque decimi di punto percentuale. I prezzi dei prodotti acquistati con maggiore frequenza dai consumatori, il cosiddetto carrello della spesa, diminuiscono dello 0,1% su base mensile e crescono dell’1,5% su base annua, in netto rallentamento dal 2% di marzo.

Sempre più recessione (15 maggio 2013).
Continua l'arretramento del prodotto interno lordo italiano: nel primo trimestre del 2013, il Pil italiano - corretto per gli effetti di calendario e destagionalizzato - è infatti diminuito dello 0,5% rispetto al trimestre precedente e del 2,3% a confronto con il primo trimestre del 2012. Secondo l'Istat, che stamani ha diffuso gli ultimi dati aggiornati, la variazione già acquisita per il 2013 - ovvero il risultato nel caso ci sia una variazione nulla fino alla fine dell'anno - è pari a -1,5%, mentre nel Documento di economia e finanza 2013 il Governo ha stimato una diminuzione dell'1,3 per cento. Il calo congiunturale registrato nel primo trimestre dell'anno é il settimo consecutivo, e segna la peggior striscia negativa dall'inizio delle serie storiche. Per l'Istat, «si tratta di una situazione mai verificata a partire dall'inizio delle serie storiche comparabili, nel primo trimestre del 1990». Il calo congiunturale, spiega l'Istituto di statistica, è la sintesi di una diminuzione del valore aggiunto nei comparti dell'industria e dei servizi e di un aumento nel settore dell'agricoltura. Il primo trimestre del 2013 ha avuto lo stesso numero di giornate lavorative del trimestre precedente e una giornata lavorativa in meno rispetto al primo trimestre del 2012. Nel confronto con il trimestre precedente, il Pil è aumentato dello 0,6% negli Stati Uniti e dello 0,3% nel Regno Unito. In termini tendenziali, si è registrata una crescita dell'1,8% negli Stati Uniti e dello 0,6% nel Regno Unito. Un proverbio dice "mal comune mezzo gaudio" ebbene anche la Francia è in recessione. Lo ha sentenziato l'Insée nell'annunciare che il primo trimestre si è chiuso con una flessione del Pil pari allo 0,2%, dopo un calo della stessa entità registrato nell'ultima parte del 2012. Si tratta della terza caduta nell'ultimo anno, visto che il secondo trimestre del 2012 era già in arretramento sempre dello 0,2 per cento.

Gli emiri investono a Milano (16 maggio 2013).
Qatar Holding entra nel progetto di sviluppo immobiliare Porta Nuova, uno dei progetti di riqualificazione urbana più prestigiosi in Europa, con una quota del 40 per cento. Lo comunicano il fondo e Hines Sgr in una nota congiunta che annuncia la nascita di una «partnership strategica» in un progetto dal valore di mercato «superiore ai due miliardi di euro». L'indiscrezione era circolata alcune settimane fa, circa l'interesse per lo sviluppo di Porta Nuova a Milano. Qatar Holding, sottoscrivendo quote di nuova emissione, acquisirà una partecipazione pari a circa il 40%. Le banche che attualmente finanziano l'operazione sono Intesa Sanpaolo, Unicredit, Hypothekenbank Frankfurt, Banca Popolare di Milano e Monte dei Paschi di Siena. «L'investimento di Qatar Holding in Porta Nuova - spiega una nota - diversifica il portafoglio in generale e aumenta la presenza nel mercato immobiliare italiano in particolare. Il progetto imprimerà una trasformazione radicale per il Paese e creerà valore per tutti i soggetti coinvolti». Il controvalore dell'operazione non é stato reso noto, ma Porta Nuova rappresenta uno dei maggiori progetti di riqualificazione urbana in Europa, con un valore di mercato superiore ai 2 miliardi di euro. Al suo interno c'é anche la nuova sede di Unicredit progettata dall'architetto argentino Cesar Pelli. Jeff Hines, Presidente e Ceo di Hines, commentando l'operazione, ha spiegato: «Porta Nuova rappresenta uno dei più importanti progetti di sviluppo immobiliare per il nostro gruppo e per i nostri investitori. Hines ha investito nel futuro dell'Italia, non solo con Porta Nuova, ma anche costituendo un'importante piattaforma domestica di investimento e di gestione per conto di investitori nazionali ed internazionali». Attualmente, infatti, il progetto Porta Nuova é inserito in tre fondi immobiliari gestiti da Hines Italia sgr. Per l'amministratore delegato della società Manfredi Catella: «La partnership con Qatar Holdings rappresenta un passo strategico per i nostri investitori e per Hines Italia sgr e conferma come Porta Nuova sia uno degli investimenti più interessanti nel settore immobiliare italiano. Il territorio é la le risorsa naturale più importante dell'Italia e siamo convinti che possa essere un motore strategico e di sviluppo e di crescita economica del Paese. L'accordo raggiunto é un segnale fondamentale per il sistema economico italiano e per il mercato dei capitali internazionali».

Primi provvedimenti del governo Letta (17 maggio 2013).
Il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto sul congelamento della rata Imu di giugno sulla prima casa e sul rifinanziamento della cassa integrazione in deroga. Banco di prova per il premier Enrico Letta, dopo una vigilia tesa per il primo Consiglio dei ministri operativo del suo governo. Il Consiglio dei ministri ha varato le decisioni su Imu e Cig, accanto agli annunciati tagli agli stipendi dei ministri-parlamentari e al rinvio della scadenza dei contratti dei precari della pubblica amministrazione da luglio a 31 dicembre 2013. «Come primo intervento viene sospesa la rata Imu che le famiglie dovevano pagare e non dovranno più pagare a giugno», ha detto il presidente del Consiglio Enrico Letta al termine del Cdm, confermando che entro il 31 agosto governo e maggioranza faranno la riforma dell'Imu. «Sono fiducioso che l'Unione europea coglierà gli sforzi che l'Italia sta facendo per rimanere virtuosa», ha detto il premier, Enrico Letta, al termine del Cdm. Il decreto varato oggi «ci dà 100 giorni di tempo per articolare la riforma dell'Imu che è fondamentale perchè c'è bisogno di fiducia e di calo della pressione fiscale». Per Letta «c'è bisogno di fiducia e di far calare la pressione fiscale, ma serve anche uno stimolo all'economia reale» a partire dal mercato dell'edilizia che «è crollato» ma che è anche «un volano fondamentale». La sospensione dell'acconto Imu di giugno per la prima casa varrà per le abitazioni principali con le pertinenze, le cooperative edilizie a proprietà indivisa, gli Iacp e gli immobili rurali. Fuori dalla sospensione, invece, gli immobili di pregio, dunque ville, castelli e anche gli immobili signorili. «Dentro il testo c'è un'attenzione molto forte alle imprese perchè si indica fra le priorità» della riforma dell'Imu «la previsione di forme di deducibilità dell'imposta pagata sugli immobili» per attività produttive, ha detto il premier Enrico Letta nel corso della conferenza stampa al termine del Cdm. Il decreto Imu-Cig approvato oggi dal Consiglio dei ministri non altera i saldi e «consentirà di guardare con ottimismo alla chiusura della procedura di disavanzo eccessivo», ha detto il ministro dell'Economia, Fabrizio Saccomanni, spiegando che sarà «un'ulteriore occasione per aprire nuovi spazi di erogazione all'economia». Entro la fine di agosto, poi, il Governo dovrà riformare tutte le tasse sul mattone, altrimenti tutti i contribuenti dovranno pagare l'Imu sospesa a giugno entro il 16 settembre 2013. La riforma della tassazione degli immobili potrebbe far nascere la service tax, un'imposta unica che unirebbe Imu e Tares. Un miliardo per rifinanziare la cassa integrazione in deroga. Il provvedimento approvato dal Cdm «consente di avvicinare il fabbisogno» per il 2013, ha sottolineato il premier Letta. Nella bozza di decreto inizialmente c'erano solo 496 milioni: 250 milioni dal Fondo sociale per l'occupazione e la formazione e altri 246 milioni versati dall'Inps. Poi durante la riunione di governo la cifra è salita a un miliardo di euro. Nel decreto varato oggi ci sono «passaggi molto importanti, come la norma che fa ripartire la logica dei contratti di solidarietà, altro strumento importante per venire incontro a lavoratori e imprese», ha sottolineato il premier, Enrico Letta al termine del Cdm. Letta ha anche annunciato che il governo ha rinviato la scadenza dei contratti dei precari della pubblica amministrazione da luglio 2013 al 31 dicembre 2013. «La scadenza al 31 luglio 2013 avrebbe rappresentato per moltissimi lavoratori un'oggettiva e molto forte difficoltà», ha detto Letta. Riduzione dei costi della politica: taglio agli stipendi dei ministri e sottosegretari parlamentari. «Il nostro primo atto è la riduzione dei costi della politica», ha detto il premier Enrico Letta, ricordando la misura adottata dall'Esecutivo, annunciata negli scorsi giorni, che taglia gli stipendi dei ministri e sottosegretari parlamentari.

Industria: cala il fatturato (20 maggio 2013).
Crolla il fatturato dell’industria a marzo. L’indice calcolato dall’Istat ha segnato un calo dello 0,9% su base mensile e del 7,6% su base annua. L’arretramento tendenziale è il quindicesimo consecutivo e il più ampio da ottobre 2009. Gli ordini, invece, risalgono dopo quattro mesi negativi e sgenano un incremento dell’1,6% rispetto a febbraio, ma il bilancio tendenziale resta pesante con una contrazione del 10%. Il dato congiunturale del fatturato deriva da diminuzione dell’1,7% sul mercato interno e un aumento dello 0,5% su quello estero. Nella media degli ultimi tre mesi, l’indice complessivo registra una flessione del 2,3% rispetto ai tre mesi precedenti. L’andamento tendenziale è invece determinato da un calo del 10,6% sul mercato interno e dell’1% su quello estero. Gli indici destagionalizzati del fatturato segnano cali congiunturali per l’energia (-5,9%), per i beni intermedi (-1,2%) e per i beni strumentali (-0,2%), mentre sono in aumento i beni di consumo (+0,4%). L’indice grezzo del fatturato scende, in termini tendenziali, del 10,7%: il contributo più ampio a tale diminuzione viene dalla componente interna dei beni intermedi. L’unico incremento tendenziale del fatturato si registra nei settori della fabbricazione di computer, prodotti di elettronica e ottica, apparecchiature elettromedicali, apparecchi di misurazione e orologi (+5,2%), mentre la diminuzione più marcata riguarda la fabbricazione di coke e prodotti petroliferi raffinati (-20,8%). A marzo gli ordinativi dell’industria, soprattutto grazie ai mercati esteri, segnano un rialzo dell’1,6% rispetto a febbraio, dopo quattro mesi in negativo, ma il bilancio su base annua resta pesante, con una diminuzione tendenziale del 10,0% (dato grezzo). Il rialzo congiunturale segnato dalle commesse è frutto di una crescita dello 0,2% degli ordinativi interni e di un aumento, nettamente più sostenuto, pari al 3,6%, di quelli esteri. Nonostante il rimbalzo di marzo l’indice totale nella media di gennaio-marzo risulta in diminuzione del 3,2% rispetto al trimestre precedente. A livello tendenziale, fa sapere sempre l’Istat, è ancora una volta il mercato nazionale a trascinare in basso gli ordini (-13,2%), comunque deboli anche sull’estero (-6,1%). Guardando ai diversi settori, l’unico incremento riguarda la produzione di prodotti farmaceutici di base e preparati farmaceutici (+1,0%); invece le variazioni negative più marcate si registrano nella metallurgia e fabbricazione di prodotti in metallo (-17,6%), nella fabbricazione di mezzi di trasporto (-15,9%) e nell’industria del legno, carta e stampa (-10,6%).

ISTAT: Rapporto annuale 2013 (22 maggio 2013).
Potere d'acquisto in calo e consumi in contrazione, disoccupazione alle stelle, soprattutto tra i giovani. La crisi continua a mordere e in Italia sono oltre otto milioni le persone in difficoltà. Questo lo scenario che emerge dal Rapporto annuale 2013 dell’Istat, giunto alla ventunesima edizione, che analizza le trasformazioni che interessano economia e società italiane. Le note dolenti arrivano da diversi fronti, in particolare dal capitolo che l’Istat definisce "disagio economico delle famiglie". Nell’ultimo trimestre del 2012, gli indicatori di deprivazione materiale e disagio economico delle famiglie segnano un ulteriore peggioramento, dopo quello registrato nel 2011. Le persone in famiglie in difficoltà, ovvero quelle in cui esistano almeno quattro delle nove condizioni di disagio stabilite dall'istituto nazionale di statistica, raddoppiano in due anni, passando dal 6,9% del 2010 al 14,3% del 2012. Crollano i consumi e il potere di acquisto. Dal rapporto diffuso dall'Istat emerge che il potere d’acquisto delle famiglie è diminuito del 4,8%. "Si tratta di una caduta di intensità eccezionale che giunge dopo un quadriennio caratterizzato da un continuo declino. A questo andamento hanno contribuito soprattutto la forte riduzione del reddito da attività imprenditoriale e l’inasprimento del prelievo fiscale". E per far fronte al calo del reddito disponibile, le famiglie hanno ridotto dell’1,6% la spesa corrente per consumi: ciò corrisponde a una flessione del 4,3% dei volumi acquistati, la più forte dall’inizio degli anni novanta. Quanto al capitolo spesa, nel 2012 aumenta al 62,3% il numero di famiglie che hanno adottato strategie di riduzione della quantità e/o qualità dei prodotti alimentari acquistati (quasi nove punti percentuali in più rispetto all’anno precedente). Nel 12,3% dei casi le famiglie scelgono per gli acquisti alimentari gli hard discount, soprattutto al Nord.Parallelamente è diminuita anche la propensione al risparmio: si attesta ormai su livelli sensibilmente inferiori rispetto a quella delle famiglie tedesche e francesi, più vicina alla propensione al risparmio del Regno Unito, tradizionalmente la più bassa d’Europa. Gli effetti della recessione ancora in corso si sono riflessi e continuano a riflettersi sul mercato del lavoro: nel 2012 la disoccupazione è aumentata del 30,2% (pari a +636 mila unità; oltre 1 milione in più dal 2008), anche in ragione della riduzione dell’inattività. Si è allungata la durata della disoccupazione. Le persone in cerca di lavoro da almeno 12 mesi sono aumentate dal 2008 di 675 mila unità e rappresentano nel 2012 il 53% del totale, contro una media Ue27 del 44,4%. Situazione ancora più allarmante sul fronte giovanile: il tasso di disoccupazione dei giovani tra i 15 e i 29 anni tra il 2011 e il 2012 è aumentato di quasi 5 punti percentuali, dal 20,5 al 25,2% (dal 31,4 al 37,3% nel Mezzogiorno); dal 2008 l’incremento è di dieci punti. Il tutto mentre nel 2012 l'economia italiana ha segnato una diminuzione del 2,4% in termini reali, dovuta principalmente alla caduta della domanda interna. La domanda estera netta ha tenuto, fornendo un contributo positivo alla crescita dell’attività economica.

ISTAT: la qualità della vita in Italia (23 maggio 2013).
«Nel 2012, nonostante la recessione, i cittadini continuano a tracciare un bilancio abbastanza positivo della propria qualità della vita: 6,8 è il punteggio medio da essi espresso. Rispetto agli anni precedenti, tuttavia, l'incertezza della situazione economica e sociale si riflette sulla soddisfazione espressa per la vita in generale: diminuisce la quota di persone di 14 anni e più che dichiarano alti livelli di soddisfazione (associati a un punteggio tra 8 e 10), che passa in un solo anno dal 45,8% al 35,2%». Lo rileva l'Istat nel Rapporto 2013. «Tra il 2011 e il 2012 la soddisfazione dei cittadini per la propria situazione economica è diminuita di 5,7 punti percentuali. Nel 2012 ha dichiarato di essere soddisfatto per questo aspetto solo il 42,8% della popolazione di 14 anni e più. Inoltre è aumentata la percentuale dei poco soddisfatti (dal 36,1% al 38,9%) e soprattutto quella dei per niente soddisfatti (dal 13,4% al 16,8%)», spiega l'Istat, che osserva come «la soddisfazione per la propria situazione economica, oltre a riguardare quote decisamente inferiori di popolazione rispetto a quanto invece si riscontra per altri ambiti di vita, sia in declino dal 2001». Le analisi effettuate, spiega l'Istat, mostrano che per controbilanciare la diminuzione consistente del livello di soddisfazione economica è necessario associare livelli elevati di soddisfazione per gli aspetti non economici: «nel 2012 la soddisfazione per questi aspetti è cresciuta, ma in misura non sufficiente e l'effetto netto è stato un calo della soddisfazione generale». La quota di residenti soddisfatti della propria situazione economica è molto differente tra aree del Paese e passa dal 50% del Settentrione, al 44,3% del Centro e al 32% del Sud e Isole. Anche dai dati sulla fiducia dei consumatori emerge che una quota crescente di cittadini sta dando indicazioni pessimistiche sulle condizioni economico-finanziarie proprie e del sistema economico nel complesso, raggiungendo livelli minimi a partire dal 1993. Per quanto riguarda la posizione degli italiani verso gli immigrati, essa appare risentire della crisi. «Alcune fasce della popolazione avvertono infatti uno stato di competizione nell'aggiudicarsi risorse scarse, in particolare il posto di lavoro. Anche se l'86,7% degli italiani è d'accordo nel ritenere che ogni persona dovrebbe avere il diritto di vivere in qualsiasi Paese del mondo, superano il 50% coloro che sostengono che, in condizione di scarsità di lavoro, i datori di lavoro dovrebbero dare la precedenza agli italiani rispetto agli immigrati». Il Paese, certifica l'Istat, «è attraversato non soltanto da una profonda crisi economica, ma anche da una diffusa insoddisfazione dei cittadini verso la politica e le istituzioni pubbliche. La fiducia dei cittadini nelle istituzioni è su livelli bassi: in una scala da 0 a 10, giudizi più positivi vengono attribuiti soltanto ai vigili del fuoco e alle forze dell'ordine, mentre i partiti politici sono a livelli minimi».

Relazione annuale di Confindustria (24 maggio 2013).
L’aveva invocato l’anno scorso, alla sua prima relazione da presidente: fateci lavorare in un paese normale. Dopo un anno Giorgio Squinzi, è costretto a prendere atto che questa condizione di normalità purtroppo ancora non c’è. Che i problemi sono tanti e insoluti. Tra ripresa che non arriva, fisco che opprime, credito che manca, lavoro che svanisce, infrastrutture al palo, burocrazia che strozza, addirittura si sono aggravati. E anche la parte trainante del paese, il Nord che produce, vacilla. «É sull’orlo di un baratro economico che trascinerebbe tutto il nostro paese indietro di mezzo secolo». Un quadro inquietante, che potrebbe portare allo sconforto, alla rassegnazione. Ma non è così. Anzi. Ora più di allora, il numero uno di Confindustria è convinto: «Una nuova Italia è possibile, ci vogliono coraggio e volontà, ma è possibile. Perché noi italiani siamo straordinari, capaci di eccezionali scatti di orgoglio e reattività. Dateci stabilità politica, una convinta adesione all’Europa, una serie di riforme per uno Stato amico e saremo un grande moltiplicatore della nostra creatività e capacità di fare industria». In sala ad ascoltarlo, oltre al gotha dell’economia, ai leader sindacali, a esponenti politici di destra, di centro, di sinistra e persino del Movimento 5 Stelle, c’è anche mezzo governo, a partire dal premier. Erano due assemblee - l’ultima della Marcegaglia (Berlusconi) e la prima di Squinzi (Monti) - che il presidente del Consiglio non partecipava all’assise degli industriali. Enrico Letta, invece, non ha voluto mancare e di fatto con il suo saluto ha aperto i lavori. Un segnale di attenzione che gli industriali hanno gradito e interpretato come l’inizio di quella «stagione di cambiamento» che Squinzi invoca dal palco. Chiedendo di mettere l’industria e la politica industriale «al primo posto dell’agenda delle scelte» in modo da favorire la ripresa. E promettendo: «Se questo sarà il governo della crescita e del lavoro noi lo sosterremo con tutte le nostre forze». Dall’inizio della crisi ad oggi abbiamo perso l’8% del Pil. La produzione è crollata del 25%, in alcuni settori del 40%. Migliaia di imprese hanno chiuso, i posti di lavoro si sono volatilizzati. La rabbia si è diffusa. «La mancanza del lavoro è la madre di ogni male sociale» denuncia Squinzi. Ma il tornado recessione ha fatto così tanti danni anche perché ha trovato gioco facile: «un fisco punitivo e opaco, un costo del lavoro cresciuto del 12% negli ultimi 8 anni, mentre in Germania è sceso del 2%, un mercato del lavoro vischioso e inefficiente, la ragnatela dei vincoli burocratici»» . Il credito si è inceppato, minacciando la sopravvivenza di un terzo delle imprese italiane. Non hanno nemmeno più le risorse per affrontare l’ordinaria gestione. «Lo stock dei prestiti erogati alle imprese è calato di 50 miliardi negli ultimi diciotto mesi. Un taglio senza precedenti nel dopoguerra» denuncia Squinzi. Infine ci sono le riforme mancate (legge elettorale), quelle incompiute (liberalizzazioni e giustizia) e quelle sbagliate (il federalismo). Identificati i mali, non è difficile individuare le cure, che passano dal cuneo fiscale alla flessibilizzazione del mercato del lavoro e dell’età pensionabile, da moderne relazioni industriali a un sistema di istruzione più vicino alle esigenze delle imprese, fino a «un intervento speciale di filiera» per il settore dell’edilizia.

UE: via libera all'Italia (26 maggio 2013).
I tecnici della Commissione Ue ritengono che il bilancio dell'Italia sia in equilibrio e dimostrano di credere agli impegni con cui il governo si è impegnato a mantenere il disavanzo stabilmente sotto il 3% del pil. Per questo, propongono al collegio dei commissari di chiudere la procedura di deficit eccessivo aperta nel 2009. La decisione, attesa per mercoledì, sarà corredata da una serie di raccomandazioni, ricette per imbrigliare il fabbisogno e rilanciare la competitività dell’economia nazionale. In testa alle richieste, come sempre, la riduzione della pressione fiscale su lavoro e imprese, e un riassetto deciso di pubblica amministrazione e banche. Per il governo Letta è un segnale di incoraggiamento che libera risorse e crea prospettive per mantenere bassi i tassi d’interesse per il rinnovo del debito che, non va mai dimenticato, sta per superare il 130% del pil. Per questo a Palazzo Chigi si esprime una giustificata, sebbene cauta, soddisfazione. Prima delle elezioni, l’uscita dalla procedura (Edp, in sintesi) era scontata. Il combinato fra le paure di instabilità, e le nuove spese (e minori entrate) legate al programma dell’esecutivo entrante avevano insinuato qualche dubbio nell’analisi di Bruxelles. Un serrato carteggio fra gli uomini del commissario Olli Rehn e del ministro Fabrizio Saccomanni ha trovato un punto di incontro, complice il momento di flessibilità generalizzata che attraversa l’Ue. «Bocciare l’Italia - confessa una fonte europea - sarebbe stato sbagliato anche politicamente per gli effetti pericolosi che sarebbero seguiti». Le indiscrezioni rivelate dall’agenzia Ansa, e confermate negli ambienti comunitari, ufficializzano il clima positivo che da giorni si stava creando per l’uscita dall’Edp. Al contempo, disegnano un percorso di messa a punto dell’impresa Italia che costringerà a scelte difficili e impopolari. La raccomandazione sul consolidamento, che come le altre cinque dovrà essere ufficializzata a fine giugno dal Consiglio Ecofin, impone di conservare il pareggio (o quasi) in termini strutturali, cioè al netto del ciclo, ma esorta a mettere sulla retta via il debito, che Bruxelles vede al 132,2% del pil nel 2014. Un’azione sul fronte della qualità della spesa è ritenuta cruciale in tale prospettiva. Le percentuali migliorerebbero se ci fosse più crescita. La Commissione invita a snellire la burocrazia che spesso rappresenta una palla al piede per le attività produttive e lo sviluppo. Analogo il consiglio per il sistema bancario che Bruxelles vorrebbe vedere più reattivo e dinamico. Sarebbero due modi per stimolare l’espansione. Un terzo e inevitabile avvertimento riguarda il Fisco. Da tempo la Commissione chiede di trasferire le imposte dal lavoro ai consumi, così i tecnici di Rehn sollecitano a valutare bene gli effetti del possibile slittamento dell’aumento dell’aliquota Iva. Occhio alle linee di gettito, è il loro mantra, da esse dipendono ripresa e occupazione. Alta deve poi essere la guardia nella lotta al sommerso e all’evasione. Nonostante la riforma Fornero che Bruxelles ha sempre ben valutato, si auspica una maggiore flessibilità del lavoro, anche con una contrattazione più incentrata sul livello aziendale. Chiude la serie, l’appello per una maggiore concorrenza. Al governo Monti, la Commissione aveva chiesto in autunno altre liberalizzazioni, nelle professioni, nei servizi, trasporti ed Energia su tutto. Non è successo nulla. E il messaggio non è cambiato.

Corte dei Conti: l'austerità ha aggravato la crisi (27 maggio 2013).
L'austerità ha contribuito ad aggravare la crisi che, nel caso dell’Italia, è «costata» 230 miliardi di euro. Il presidente della Corte dei Conti Luigi Giampaolino, non usa giri di parole per bocciare le politiche adottate negli ultimi anni dai paesi europei. Nel corso della presentazione del Rapporto 2013 sul coordinamento della finanza pubblica, Giampaolino ha sottolineato che «l’intensità delle politiche di rigore adottate dalla generalità dei Paesi europei è stata, essa stessa, una rilevante concausa dell’avvitamento verso la recessione. E l’austerità non ha permesso di raggiungere gli obiettivi prefissati: L’adozione di una linea severa di austerità - oggi oggetto di critiche e ripensamenti - non ha, per altro, impedito che gli obiettivi programmatici assunti all’inizio della legislatura fossero mancati». Secondo il presidente della Corte dei Conti, inoltre, «in Italia, nel periodo 2009-2013, la mancata crescita nominale del Pil ha superato i 230 miliardi». Per la Corte dei Conti si tratta di «un dato sintetico che fornisce un’immediata percezione delle difficoltà di gestione del bilancio pubblico mentre l’economia non cresce più». La ricetta della magistratura contabile è semplice. «Ciò che serve all’Italia e all’Europa sono stimoli per crescere di più, non deroghe per spendere di più». Giampaolino ha poi rilevato come il nuovo governo abbia intraperso una strada nuova rispetto ai «consistenti aumenti di imposte» che ci sono stati «a partire dall’estate 2011». E proprio sul fronte delle imposte il vice ministro dell’Economia Luigi Casero ha annunciato oggi che inizieranno a breve i lavori per la riforma dell’Imu con i risultati attesi per il 31 agosto.
Ottimo successo infine per l’asta dei Ctz a 24 mesi (scadenza 31 dicembre 2014): il Tesoro ha venduto tutti i 2,5 mld a fronte di un imoprto richiesto pari a 3,9 mld. La domanda cioè è stata 1,57 volte l’offerta. Il tasso è sceso al minimo storico dell’1,113% dall’1,167% dell’asta precedente. Il Tesoro ha collocato anche 987 mln di Btp a 5 anni indicizzati all’inflazione (scadenza 15 settembre 2018) ad un tasso dell’1,83%. Anche in questo caso l’offerta è stata sostenuta e pari a 1,82 mld. Positivi gli effetti sullo spread in calo a 255 punti base in una giornata molto positiva per le borse europee con Milano che registra i guadagni maggiori.

Italia fuori dalla procedura di infrazione (29 maggio 2013).
Il rientro dell'Italia fra i Paesi «virtuosi» è stato accolto con unanime sollievo. Molti interpretano questa decisione come l'inizio di una nuova era, in cui i vincoli europei non saranno più un ostacolo all'aumento della spesa e al taglio delle tasse. Non è così. Innanzitutto la chiusura della procedura di infrazione avviene a condizioni precise: che il deficit non superi più il 3% del Prodotto interno lordo (Pil) e che l'Italia faccia alcune riforme importanti: contratti di lavoro, partecipazione al lavoro delle donne, liberalizzazioni dei servizi, istruzione, giustizia civile, semplificazione delle tasse, banche, burocrazia. Tutte cose che avremmo dovuto fare anche senza farcelo chiedere. L'ultimo Documento di economia e finanza (Def) del governo Monti (aprile) stima che il prossimo anno il deficit pubblico dovrebbe essere intorno all'1,8% del Pil. Se così fosse ci sarebbe la possibilità di diminuire le imposte sul lavoro di circa 20 miliardi, riducendo il cuneo fiscale, cioè la differenza fra salari netti per i lavoratori e costo del lavoro per l'impresa. Ciò alzerebbe il deficit, ma lo manterrebbe entro la soglia del 3%. Purtroppo però, quelle stime sono basate su ipotesi ottimiste. E infatti solo poche settimane dopo la pubblicazione del Def, la Commissione europea abbassava il nostro tasso di crescita nel 2014 allo 0,7%, (l'Ocse ha previsto 0,4) con un deficit che salirebbe al 2,5% del Pil. Insomma saremo fortunati se il deficit nel 2014 rimarrà sotto il 3% anche senza spendere un euro in più. Per il 2013 poi la Commissione prevede un deficit esattamente pari al 3% con un Pil che cade dell'1,3%. Ma l'Ocse stima -1,8, il che già ci porrebbe quasi sicuramente a rischio di riapertura della procedura. Insomma lo spazio per un taglio delle tasse purtroppo non c'è, né il margine per utilizzare i fondi strutturali europei il cui cofinanziamento aumenterebbe il nostro deficit. L'uscita dalla condizione di «sorvegliati speciali» deve essere l'occasione per ripensare una strategia per la crescita e la riduzione del debito. Le cose da fare sono note da tempo. Attuare le riforme strutturali suggerite per l'ennesima volta dall'Europa. Rimettere le banche in condizione di prestare denaro, un altro punto sottolineato nelle raccomandazioni della Commissione. Per far questo, si può utilizzare il Meccanismo europeo di stabilità (Ems), come ha fatto la Spagna. Diminuire la pressione fiscale, in primis sul lavoro, e di una quantità che faccia differenza, diciamo 50 miliardi. Per far questo occorre negoziare con l'Unione Europea un temporaneo superamento della soglia del 3% in modo da poter ridurre subito le imposte sul lavoro. Contemporaneamente adottare un piano di riduzione delle spese spalmato sull'arco di un triennio. Il deficit rimarrebbe superiore al 3% ancora per due anni e rientrerebbe solo fra tre. Come la Francia. Ovviamente affinché un simile piano sia credibile e si realizzi in tutte le sue parti, non solo in quelle più facili, dovremmo sottoporci alla sorveglianza di Bruxelles. «Sorvegliati» rimarremo comunque, inutile illuderci, perché le stime di crescita ci spingeranno comunque oltre il 3 per cento anche senza far nulla su tasse e spese. Ma, allora, almeno barattiamo l'inevitabile controllo di Bruxelles per fare qualcosa di utile, non per sopravvivere navigando a vista intorno a un fatidico e inafferrabile 3 per cento. DA CORRIERE.IT

Napolitano e la disoccupazione giovanile (30 maggio 2013).
"Dobbiamo essere una Repubblica all’altezza dell’articolo 1 della Costituzione". Il capo dello Stato Giorgio Napolitano sceglie un’intervista al Tg5 per lanciare un nuovo appello ad affrontare l'emergenza della disoccupazione che sta mettendo in ginocchio il Paese. Non solo richiamandone il valore sancito nella Carta ma anche declinandone il peso attuale nel dramma che lacera i giovani. "La verità è che sono cambiate le tecnologie, i termini dell’occupazione e si è colto molto in ritardo il dilagare della disoccupazione giovanile, sia in Occidente che nei Paesi emergenti", ha spiegato il presidente della Repubblica che non nasconde come il problema sia sentito "molto acutamente e drammaticamente". Tra le priorità del governo, tracciate dal presidente del Consiglio Enrico Letta, c'è la disoccupazione. All'indomani delle elezioni Silvio Berlusconi ha battuto sulla necessità di varare un decreto che intervenga sul mercato del lavoro detassando le assunzioni dei giovani. Proprio al parlamento e, in particolar modo, alla maggioranza che sostiene l'esecutivo, Napolitano ha voluto lanciare un appello a fare presto ricordando che "quello della disoccupazione giovanile non è un problema puramente italiano". Il capo dello Stato ha replicato all’Economist, che è andato in edicola con una copertina e un editoriale dal titolo Una generazione senza lavoro, sottolineando che il settimanale parla "solo nei Paesi del mondo cosiddetto ricco, di 26 milioni di giovani che non sono più nel processo formativo, non stanno facendo più addestramento e non hanno lavoro". "Nell’insieme l’Organizzazione internazionale del lavoro parla di 75 milioni di giovani disoccupati, qualcosa di simile alla popolazione di un grande Paese", ha continuato Napolitano tornando alla Costituzione e a "quel primo articolo che ebbe grande significato". Subito dopo ha ricordato che in Assemblea costituente si discusse moltissimo e si scelse questa dizione anzichè l’altra: "È una Repubblica dei lavoratori". Napolitano ha, quindi, ha messo in risalto il valore di quella scelta terminologica: "'Fondata sul lavoro' è qualcosa di più, significa che c’è un principio regolatore cui si debbono uniformare tutti gli attori sociali e le rappresentanze politiche".

VISCO: l'Italia a rischio (31 maggio 2013)
Bankitalia Assemblea ordinaria. L’Italia non è stata capace di adeguarsi ai cambiamenti (geopolitici, tecnologici, demografici) degli ultimi 25 anni ed ora si impone un aggiustamento di «portata storica». Perché dobbiamo dimostrare di saper uscire dalla grave situazione in cui siamo caduti: imprese con difficoltà di finanziarsi e di innovare, che chiudono, banche indebolite da crisi del debito sovrano e recessione, disoccupati raddoppiati dal 2007 (i giovani senza lavoro sono al 40%). Una spirale che ha prodotto un pil 2012 del 7% inferiore a 5 anni fa mentre il reddito disponibile delle famiglie e la produzione industriale sono in caduta libera. È un atto d’accusa senza appelli quello rivolto dal governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, al paese e in particolare ai suoi rappresentanti politici, che «stentano a mediare tra interessi generali e particolari». E avverte: non bisogna «dissipare» i frutti generati dall’uscita dalla procedura Ue per deficit eccessivo. Questi sono il risultato degli sforzi di risanamento che vanno portati avanti con le riforme senza «cali di tensione». Anche perché margini per agire sul disavanzo «non ci sono» quest’anno ed è illusorio per noi pensare di crescere utilizzando la leva del deficit.
In 20 cartelle fitte di dati Visco non si sottrae, nelle sue seconde considerazioni finali, dal fornire suggerimenti e ricette precise, ad iniziare dal taglio delle tasse. Mentre ci si divide tra chi privilegia iniziare da un’abolizione dell’Imu e chi da un intervento su costo del lavoro e imprese il Governatore sembra prendere posizione; non cita il balzello sulla casa, ma sulle riduzioni di imposte è chiaro: sono «necessarie nel medio termine, pianificabili fin d’ora e non possono essere che selettive, privilegiando lavoro e produzione. Perché «il cuneo fiscale frena l’occupazione e l’attività delle imprese». Serve inoltre spezzare la spirale negativa» nata dal calo dei prestiti bancari alle imprese da un lato e la flessione della domanda di credito da parte delle imprese che incide «negativamente sull’attività economica». Insomma sul calo degli impieghi il discorso è complesso ma in ogni caso l’industria è chiamata «ad uno sforzo eccezionale» per superare le difficoltà: «alcune lo stanno facendo - riconosce Visco - Troppo poche hanno però accettato fino in fondo questa sfida. A volte si preferisce, illusoriamente, invocare come soluzione il sostegno pubblico».
Adesso tutti insieme dobbiamo agire per evitare che la recessione abbia ripercussioni sulla coesione sociale cercando di favorire l’impiego dei giovani e in questa direzione «vanno poste le condizioni per sfruttare appieno strumenti e agevolazioni, già previsti dal nostro ordinamento, all’ingresso e alla permanenza, da occupati, dei giovani».
Poi Visco illustra la portata storica del cambiamento che si impone: «molte occupazioni stanno scomparendo - osserva - negli anni a venire i ragazzi non potranno semplicemente contare di rimpiazzare i più anziani nel loro posto». «Sin d’ora si devono creare nuove chance di impiego e rafforzare «sistemi di protezione, pubblici e privati, nei periodi di inattività».
Alla fine arriva l’esortazione di Visco a non lasciarsi vincere dal pessimismo nonostante tutto: «non bisogna aver timore del futuro, del cambiamento. Non si costruisce niente sulla difesa delle rendite e del proprio particolare, si arretra tutti. Occorre consapevolezza, solidarietà, lungimiranza. Interventi e stimoli ben disegnati». Perché, spiega, «anche se puntano a trasformare il Paese in un arco di tempo non breve produrranno la fiducia che serve per decidere che già oggi vale la pena di impegnarsi, lavorare, investire». Davanti a banchieri e imprenditori Visco rivendica infine il ruolo della vigilanza nell’aver evitato nella fase acuta della crisi il tracollo del credito. Ma invita comunque gli istituti di credito ad agire sui costi e gli azionisti, in particolare le fondazioni, a «rinunciare ai dividendi quando necessario» e ad «accettare la diluizione del controllo favorendo all’occorrenza l’aggregazione con altri istituti».
Ecco le considerazioni del governatore Visco in pillole:
- PAESE IN RITARDO DI 25 ANNI
«Non siamo stati capaci di rispondere agli straordinari cambiamenti geopolitici, tecnologici e demografici degli ultimi venticinque anni. L’aggiustamento richiesto e così a lungo rinviato ha una portata storica... Le origini finanziarie e internazionali della crisi, cui si è soprattutto rivolta l’attenzione delle autorità di politica economica non devono far dimenticare che in Italia, più che in altri paesi, gli andamenti ciclici si sovrappongono a gravi debolezze strutturali».
- SITUAZIONE GRAVE
«Noi italiani dobbiamo mostrare di saper uscire dalla grave condizione i cui siamo caduti... L’Italia si trova ancora a un passaggio difficile. Per superarlo non possiamo permetterci cali di tensione: dobbiamo insistere nell’opera di riforma».
- RICHIAMO AI PARTITI
«I rappresentanti politici stentano a mediare tra interesse generale e interessi particolari: i cittadini ne ricevono segnali contrastanti e incerti».
- SIAMO ANCORA IN RECESSIONE
«Anche quest’anno si chiuderà con un forte calo dell’attività produttiva e dell’occupazione. L’inversione del ciclo economico verso la fine dell’anno è possibile».
- COESIONE SOCIALE A RISCHIO
«La recessione sta segnando profondamente il potenziale produttivo, rischia di ripercuotersi sulla coesione sociale».
- TROPPE LE RIFORME INATTUATE
«In molti casi, varate le riforme, hanno tardato, talvolta ancora mancano, i provvedimenti attuativi; non sono cambiati i comportamenti dell’amministrazione». È un tratto ricorrente dell’esperienza storica del nostro Paese: le principali difficoltà non risiedono tanto nel contenuto delle norme, quanto nella loro concreta applicazione».
- NON DISPERDERE I PROGRESSI COMPIUTI
«I progressi conseguiti vanno preservati. Disperderli avrebbe conseguenze gravi. È illusorio per noi pensare di uscire dalla crisi con la leva del disavanzo di bilancio».
- SÌ AL TAGLIO DELLE TASSE MA SUL LAVORO
«Riduzioni di imposte, necessarie nel medio termine, pianificabili fin d’ora, non possono che essere selettive, privilegiando il lavoro e la produzione: il cuneo fiscale che grava sul lavoro frena l’occupazione e l’attività d’impresa».
- IMPRESE CHIAMATE A SFORZO ECCEZIONALE
«Le imprese sono chiamate a uno sforzo eccezionale per garantire il successo della trasformazione, investendo risorse proprie, aprendosi alle opportunità di crescita, adeguando la struttura societaria e i modelli organizzativi, puntando sull’innovazione, sulla capacità di essere presenti sui mercati più dinamici».
- SCOMPAIONO I LAVORI
«Molte occupazioni stanno scomparendo; negli anni a venire i giovani non potranno semplicemente contare di rimpiazzare i più anziani nel loro posto di lavoro. Vanno assicurate sin d’ora le condizioni per favorire la nascita di imprese nuove, generare nuove opportunità di impiego».
- BANCHE DEBOLI, RISCHIO DI ALTRE CRISI
«Le banche sono state «indebolite prima dalle tensioni sul debito sovrano, poi dagli effetti della recessione... Rischiano di emergere situazioni problematiche».
- IL FUTURO NON DEVE FAR PAURA
«Non bisogna aver timore del futuro, del cambiamento. Non si costruisce niente sulla difesa delle rendite e del proprio particolare, si arretra tutti».

Il Pil tedesco rallenta (3 giugno 2013).
La crescita tedesca nel 2013 è prevista debole: ci sono significativi rischi sulle prospettive e per questo sarà importante evitare un «risanamento eccessivo». Ad affermarlo il Fmi nell’Article IV su Berlino. «La solidità del sistema bancario è migliorata ma restano debolezze», si legge, nel rapporto. Tanto che il Fondo Monetario internazionale ha tagliato le stime dei Pil del 2013 della Germania dallo 0,6% allo 0,3%. «Il pil della Germania è previsto crescere dello 0,3% quest’anno con una graduale ripresa alla fine dell’anno condizionata a un’ulteriore e tangibile riduzione dell’incertezza a livello europeo», ha proseguito il Fmi, sottolineando che l’allentamento fiscale «marginale» di quest’anno è appropriato. «Le riforme strutturali per aumentare il potenziale di crescita della Germania sono una priorità», mette in evidenza il Fmi, precisando che le riforme al sistema finanziario interno dovrebbero assicurare un’armonizzazione con le iniziative europee e offrire chiarezza sul panorama finanziario emergente. In parole povere il Fmi sostiene che l'arretramento tedesco è dovuto alla politiche di austerità attuate in Germania; i tedescchi soffrono per i postumi dela stessa medicina che hanno imposto all'Europa.

Ristrutturazione alla Indesit (4 giugno 2013).
Indesit Company annuncia 1.425 esuberi. Si tratta di 25 dirigenti e 150 impiegati di staff; gli altri sono lavoratori nelle fabbriche, così suddivisi: 480 a Fabriano, 230 a Comunanza, 540 a Caserta. Indesit Company, tra i leader in Europa nella produzione e commercializzazione di grandi elettrodomestici (lavabiancheria, asciugabiancheria, lavastoviglie, frigoriferi, congelatori, cucine, cappe, forni e piani di cottura), ha presentato ai sindacati il piano di salvaguardia e razionalizzazione dell'assetto in Italia: previsti 70 milioni di euro di investimenti, l'efficientamento e snellimento delle direzioni centrali e la razionalizzazione dell'assetto produttivo. La riorganizzazione dell'assetto italiano del Gruppo, che attualmente impiega circa 4.300 addetti coinvolge appunto 1.425 persone nei cui confronti saranno applicati degli ammortizzatori sociali. Il piano, spiega la società, prevede una razionalizzazione dell'assetto produttivo e il ruolo cruciale dell'Italia per l'industrializzazione e produzione dei modelli ad alta innovazione e contenuto tecnologico destinati alle fasce medio alte della domanda. La riorganizzazione si rende necessaria come risposta all'attuale scenario competitivo europeo che vede il mercato ancora negativo rispetto ai volumi del 2007 (Europa Occidentale -10% e Italia -25%) e la continua espansione di nuovi produttori provenienti dai Paesi a miglior costo, che operano con una forte aggressività di prezzo e prodotto, con conseguente deterioramento di prezzi e margini e una sovraccapacità produttiva ormai strutturale. Negli ultimi anni, con intensificazione nel 2012 e nel primo semestre del 2013, la situazione di mercato ha fortemente condizionato le produzioni italiane di Indesit, con il conseguente ricorso a cassa integrazione ordinaria per gli stabilimenti (25% delle giornate lavorate) e da aprile 2013 anche per gli uffici centrali (20% delle giornate lavorate). La missione strategica dei 3 poli industriali italiani del Gruppo, si legge nella nota Indesit, sarà ridisegnata con interventi di riassetto produttivo che verranno implementati nel periodo 2013-2016. Il sito produttivo di Fabriano sarà driver dell'innovazione per i forni da incasso, il sito produttivo di Comunanza (AP) sara' driver dell'innovazione per le lavabiancheria a carica frontale e il sito di Caserta sarà dedicato alla produzione di frigoriferi e i piani cottura a gas da incasso destinati principalmente ai mercati ad alto valore aggiunto italiano e dei Paesi dell'Europa occidentale. Nel sito di Fabriano, che diventa l'unico polo produttivo del Gruppo per i forni, saranno concentrate anche le produzioni oggi realizzate in Polonia mentre le produzioni italiane non più sostenibili (principalmente destinate ai Paesi dell'Est) saranno riallocate in Paesi a miglior costo, con la saturazione della capacità produttiva di Indesit in Polonia e il rafforzamento delle capacità produttive in Turchia (anche per cogliere le opportunità dei mercati in forte espansione del Middle East e Nord Africa).

Il marchio La Perla a Scaglia (4 giugno 2013).
Silvio Scaglia, martedì 4 giugno uscendo dall’aula del Tribunale con in tasca l’azienda italiana dell’intimo di lusso, afferma: «È una sfida personale, è un marchio grandioso e faremo di tutto per rilanciarlo». Silvio Scaglia, l’ex fondatore di Fastweb conquista La Perla, storica azienda del made in Italy oggi in concordato preventivo. Con un’offerta di 69 milioni, la sua Sms Finance si è aggiudicata l’asta competitiva indetta dal Tribunale di Bologna per cui si erano presentate anche Calzedonia e l’israeliana Delta Galil Industries. Sconfitto Sandro Veronesi, fondatore di Calzedonia, che nel progetto ci aveva creduto fino all’ultimo e per la seconda volta. Già sette anni fa infatti il gruppo dell’intimo aveva tentato di acquisire La Perla ma la famiglia proprietaria Masotti gli preferì il fondo americano Jh Partners. Questa volta a scombussolare i piani di Calzedonia è arrivato Scaglia. Le due offerte sarebbero state equivalenti dal punto di vista occupazionale, entrambe garantivano 800 posti di lavoro. «La discriminante è stata il prezzo di acquisto - ha puntualizzato Scaglia -. Faremo di La Perla un grande marchio mondiale della bellezza e lusso femminile» ha annunciato il manager lasciando il Tribunale di Bologna e confermando che metterà sul piatto ulteriori 110 milioni per gli investimenti di rilancio del brand. Veronesi, dal canto suo, sembra non aver digerito l’esito dell’asta, tant’è che a chi gli chiede di commentare la vicenda, il patron di Calzedonia risponde a muso duro: «Dalla padella degli americani alla brace di Scaglia. Povera Perla, mi dispiace per i dipendenti, che devo dire si sono fatti vivi in tanti per chiedere di sostenerli. Abbiamo fatto quello che abbiamo potuto - ha aggiunto - e tirato parecchio sul prezzo. Ci saranno grati i creditori delle banche, che prenderanno molti più soldi. Il mondo è pieno di aziende comperate da fondi di investimento che si sono trovati in mano cose che non sanno gestire. Peccato, perché La Perla era una bella opportunità, perché è una azienda italiana». Giova notare che al di là delle polemiche tra Scaglia e Veronesi va registrato il ritorno di un prestigioso brand in mani italiane.

SandPoors', tolti 44 miliardi alle imprese (5 giugno 2013).
Le banche hanno tolto 44 miliardi al sistema delle imprese": lo scrive l'agenzia di rating Standard and Poor's in uno studio pubblicato oggi. Per fronteggiare il credit crunch, sempre più aziende italiane, anche di medie dimensioni, aumenteranno nei prossimi anni il ricorso alle emissioni obbligazionarie per far fronte alla stretta sul credito bancario. Al momento, ricorda l'agenzia di rating, le imprese italiane ricavano dalle banche il 90% del loro fabbisogno di finanziamento, una fonte destinata a diventare sempre più arida a causa della lunga fase di deleveraging e riassestamento dei conti che attende gli istituti di credito del paese. A spingere le imprese a ricorrere in modo più ingente alle emissioni obbligazionarie, prosegue Standard and Poor's, contribuiranno inoltre recenti interventi normativi che le agevolano, anche dal punto di vista fiscale. Si tratta di un'evoluzione che potrebbe rivelare dei vantaggi, riflette Renato Panichi, analista di Standard and Poor's. "Crediamo che un maggiore ricorso al mercato obbligazionario potrebbe aiutare a migliorare la struttura del capitale delle aziende italiane e ridurne i rischi di rifinanziamento perchè allungherebbe i tempi di maturazione dei bond e diversificherebbe la platea di investitori". Il processo di progressiva sostituzione di una fonte di finanziamento con l'altra, avverte però lo studio, rischia di essere lungo e difficile in quanto gli investitori istituzionali italiani non hanno dimostrato finora una grande propensione all'acquisto di obbligazioni di medie imprese, che all'80% attraggono investitori stranieri. Le emissioni corporate sono ammontate a 29 miliardi nel 2012, quasi il doppio dei 15,1 miliardi del 2011. Un processo che dovrebbe rafforzarsi visto che "il credito bancario dovrebbe continuare a ridursi" anche a fronte di Basilea III, dell'esigenza del sistema bancario di ridurre l'esposizione al funding della Bce e di digerire l'ampio stock di sofferenze accumulate durante la recessione.

Confindustria: cinque mosse per ripartire (6 giugno 2013).
Semplificazione, taglio «drastico» dei costi per le imprese, pagamento al più presto di tutti i debiti della p.a., mercato del lavoro «meno vischioso ed inefficiente», detassazione degli investimenti in ricerca e innovazione: sono le cinque proposte di Confindustria per il rilancio economico, industriale e sociale del Paese. Gli industriali rilanciano il Progetto per l’Italia nel giorno in cui il Centro Studi traccia un quadro preoccupante sull’industria manifatturiera. La crisi, in circa sei anni, «ha causato la distruzione di una buona fetta del potenziale manifatturiero italiano, pari a circa il 15%. Il settore è in condizioni molto critiche anche se il Paese ha ancora ottime carte da giocare». Dal 2007 al 2012 poco meno di 540 mila persone impiegate nel manifatturiero hanno perso il posto di lavoro. In quattro anni, dal 2009 al 2012, in Italia hanno cessato l’attività 54.474 imprese del settore, il 19,3% del totale. Dal 2007, anno della prima delle due recessioni che si sono abbattute sul Paese, il numero totale delle imprese manifatturiere è diminuito di oltre 32mila unità. Le più colpite sono state le Pmi. A causa della crisi ogni giorno chiudono 40 imprese, avverte il vice presidente Confindustria per il Centro Studi, Fulvio Conti. Ma secondo Confindustria l’Italia ce la può fare con la collaborazione di tutte le forze. «Tutto il Paese deve credere nell’obiettivo dell’alta crescita e rimboccarsi le maniche», commenta il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi. Se non si interviene subito per invertire la rotta, sostiene, «rischiamo di vedere ulteriori defezioni, ma ce la possiamo fare». Il numero uno di viale Astronomia auspica anche che «le risposte che arriveranno nelle prossime settimane dal governo vadano nella direzione giusta. Il Paese deve agire perché non può perdere il treno della ripresa. Abbiamo fatto cose straordinarie in questo dopoguerra e non possiamo arretrare». Tra i capitoli su cui agire in fretta, cita quello dei giovani. «I loro problemi sono i problemi del Paese, l’ultimo dato sulla disoccupazione è agghiacciante e inconcepibile», conclude. Infine Squinzi ritornano sul problema del credit crunch: i prestiti bancari erogati alle imprese si sono fortemente ridotti al punto che anche le aziende sane sono «a rischio di fallimento». Tempestivo è l’allarme dell’agenzia di rating Standard and Poor’s. Le banche hanno tagliato alle imprese italiane 44 miliardi nel 2012. Dunque sempre più imprese, anche di medie dimensioni, aumenteranno nei prossimi anni il ricorso alle emissioni obbligazionarie per far fronte alla stretta sul credito bancario. E senza ripresa ci potrebbero essere nuovi declassamenti per le imprese del nostro Paese.

I giovani senza lavoro (7 giugno 2013).
La cifra dell’emergenza la contabilizza in apertura di discorso: i senza lavoro «sono 650mila» un «numero aggredibile» con «urgenza». Ed è il passaggio chiave del discorso del ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, al convegno dei giovani Imprenditori di Confindustria. Il titolare del Welfare spiega un dettaglio non di poco conto che esemplifica lo psicodramma collettivo di una generazione e i rischi di un forte disinvestimento: «Non è vero - ha rilevato - che il 40% dei giovani italiani è senza lavoro, ma in realtà è il 40% dei giovani italiani che sono attivi che è senza lavoro. Attenzione, non è una sottigliezza, è una differenza piuttosto rilevante sul piano politico e della politica economica. Il piano per l’occupazione - ha polemizzato Giovannini - lo sto facendo copiando i giornali perché raccontano continuamente, anche oggi, di un fantomatico documento già pronto, con fantomatiche percentuali di sgravi fiscali che non esiste». Giovannini ha ribadito che la riforma della legge Fornero va fatta «con il cacciavite e non con la clava». Le modifiche più rilevanti potrebbero investire il sistema degli ammortizzatori sociali, l’anello di congiunzione più delicato nel rapporto tra imprese e lavoratori, data la fortissima crisi e un prodotto interno lordo in contrazione da sette trimestri. Così «stiamo partendo - dice il ministro - tanto che il sottosegretario Dell’Aringa avvia questo tavolo la prossima settimana, e se servono modifiche normative si faranno, anche con urgenza». L’ex presidente dell’Istat ha poi parlato delle misure allo studio dell’esecutivo per rilanciare l’occupazione e ha spiegato la differenza di coperture per ridurre l’alto costo del lavoro e la necessità di incentivare le nuove assunzioni: «Una cosa è il taglio del cuneo per tutti gli occupati, una cosa gli sgravi per le assunzioni: parliamo di quantità completamente diverse. Il presidente del Consiglio ha parlato di interventi per le nuove assunzioni sgravi che dovrebbero entrare nel piano di giugno, mentre per il taglio del cuneo stiamo parlando di miliardi e miliardi, e di quello eventualmente si tratterà nella legge di Stabilità». Il ministro ha poi bocciato l’idea del reddito minimo che «disincentiva l’offerta di lavoro. Serve invece un sostegno che spinga le persone a cercare un nuovo lavoro».

Italia sempre più in recessione (10 giugno 2013).
La recessione in Italia è più pesante delle previsioni: il pil nel primo trimestre è diminuito dello 0,6% rispetto al trimestre precedente e del 2,4% nei confronti del primo trimestre 2012. Lo comunica l’Istat sottolineando che la stima preliminare diffusa il 15 maggio scorso aveva rilevato una diminuzione congiunturale dello 0,5% e un calo tendenziale del 2,3%. La variazione acquisita del Pil per il 2013 è pari a -1,6%. Al contempo, la caduta della produzione industriale ad aprile, anche se rallenta, segna comunque il ventesimo calo consecutivo. L’indice calcolato dall’Istat ha registrato -0,3% su base mensile contro -0,9% (dato rivisto da -0,8%) di marzo. Nella media del trimestre febbraio-aprile la flessione è risultata pari all’1% rispetto al trimestre precedente. Corretto per gli effetti di calendario, l’indice è diminuito in termini tendenziali del 4,6% (i giorni lavorativi sono stati 20 contro i 19 di aprile 2012), contro il -5,3% di marzo (dato rivisto da -5,2%). Nella media del periodo la produzione è scesa del 4,4% sullo stesso periodo dell’anno precedente. Tornando a guardare il Pil, rispetto al trimestre precedente tutti i principali aggregati della domanda sono diminuiti. Con riferimento alla domanda interna, i consumi finali nazionali e gli investimenti fissi lordi sono diminuiti, rispettivamente, dello 0,3% e del 3,3%, mentre le esportazioni hanno subito un calo dell’1,9%. Le importazioni hanno registrato una flessione dell’1,6%. La domanda nazionale al netto delle scorte ha sottratto 0,9 punti percentuali alla variazione del Pil, con contributi di -0,3 punti dei consumi delle famiglie e di -0,6 degli investimenti fissi lordi; l’apporto della spesa della Pubblica Amministrazione (Pa) è stato nullo. Il contributo della domanda estera netta è stato negativo per 0,1 punti percentuali, mentre le scorte hanno fornito un apporto positivo di 0,3 punti percentuali. Intanto arriva l’appello di Squinzi al governo: «Se il rigorismo e l’austerità mettono in ginocchio la tenuta sociale e il patrimonio delle nostre imprese affinché altri possano fare shopping portandosi a casa i nostri pezzi migliori a prezzi di saldo, dobbiamo dire no». «Accettando la vulgata monetarista abbiamo finito per compromettere il mercato interno - aggiunge Squinzi intervenendo all’assemblea di Assolombarda a Milano - attenendoci ai dettami di un’austerità fine a se stessa e accettando di ridurre il rapporto debito-Pil asetticamente, senza una logica economica che accompagnasse questa scelta». «Senza peraltro riuscire» a centrare l’obiettivo: «quando si è insediato il governo Monti il rapporto debito-Pil era a 117, adesso siamo a 127 e le proiezioni di quest’anno ci portano almento al 132», conclude il presidente di Confindustria. Il leader di Confindustria accusa l’Europa di essersi «accanita con una politica di rigore a dir poco miope, dimenticando che solo la crescita può sostenere il rigore finanziario».

Amministrative. Trionfo del centro sinistra (11 giugno 2013).
Giornata di trionfo per il centrosinistra, che si aggiudica tutti e 16 i Comuni capoluogo dove si votava il rinnovo del sindaco (11 al ballottaggio). Ma bassa l’affluenza, attorno al 48% dei votanti. E se l’attenzione corre innanzitutto alla Capitale, dove Ignazio Marino sfratta Gianni Alemanno dal Campidoglio, sono tanti i segnali di una rivoluzione in arrivo. A Roma l’insuccesso clamoroso di Alemanno racconta soprattutto la fine di un modello politico-amministrativo, quello post-missino. A Siena, città definita “rossa” anche per via dell’intreccio incestuoso tra amministrazione e MPS, il Pd riesce a tenere il Comune per il rotto della cuffia e salta agli occhi lo «sciopero del voto» da parte di una larga fetta dell’elettorato storico di centrosinistra, al punto che l’astensione cresce del 13% nel giro di due settimane. Insomma traballa un modello, quello post-comunista. A Treviso, da vent’anni feudo dei leghisti, esce sconfitto il sempiterno sindaco Giancarlo Gentilini, che ne trae queste conclusioni: «La mia era è finita, insieme a quella del Pdl e della Lega». In Brianza, tradizionale roccaforte del centrodestra, altra scossa tellurica: nei tre comuni dove si è votato per il secondo turno, ovvero Carate Brianza, Brugherio e Seveso, il Pd travolge tutti. Guglielmo Epifani è giustamente entusiasta dei risultati. «È una giornata davvero importante - dice il segretario del Pd - c’è ritrovato orgoglio tra gli elettori, quasi fosse una rivincita per il voto alle politiche anche se restano due voti distinti. Dobbiamo restare con i piedi per terra, il lavoro da fare è tanto, l’astensione è enorme, però è un dato omogeneo e questo ci carica di una responsabilità particolare di buon governo». Il Pdl, all’opposto, è quasi tramortito. «I risultati elettorali del secondo turno - dice mestamente il coordinatore Sandro Bondi - confermano che quando vince, il Pdl vince grazie al carisma e alle qualità politiche del presidente Berlusconi». Una realtà del Pdl è che il partito non ha fatto quasi nulla per creare una classe dirigente credibile, ha sempre puntato sul carisma di Berlusconi che, come tutti, non è eterno. Ma questa tornata amministrativa, che premia il centrosinistra e bastona il centrodestra, può creare contraccolpi nel governo? Enrico Letta è convinto di no, anzi. «Mi sembra - dice il presidente del Consiglio - che complessivamente rafforza lo schema del governo di larghe intese. Un risultato che quindi ci spinge a lavorare di più a partire da dove eravamo con il risultato delle elezioni politiche». Lettura che non convince Nichi Vendola, che la trova paradossale, e polemizza: «Ma caro Enrico, non scherziamo, stai guardando un altro film. Oggi vince un centrosinistra alternativo alla destra». Epifani si rende conto che l’argomento è deflagrante e va cauto: «È complicato prevedere gli effetti del voto sul governo, ma certo dà spinta in più alle posizioni e al ruolo del Pd nel Paese». Così come, specularmente, Angelino Alfano veste i panni del pompiere: «La vita continua e il governo di larga coalizione vive obiettivamente oltre il perimetro delle battaglie amministrative parziali». Già oggi, comunque, c’è la prima verifica: alle 8.30 a Palazzo Chigi si tiene un vertice di maggioranza su riforme costituzionali e misure economiche con Letta, Alfano, Franceschini, i ministri competenti e i capigruppo di maggioranza di Camera e Senato. Vendola si riferisce chiaramente al successo di Ignazio Marino, detto dagli avversari “il marziano”, uno che ha stravinto il ballottaggio di Roma con il 63,93% dei voti contro il 36,07% del sindaco uscente. In campagna elettorale ha voluto parlare di temi etici come i diritti gay o l’eutanasia. Il risultato è che cambiano casacca anche tutti i Municipi, pure quelli più storicamente di destra. Dice il neosindaco: «Sono davvero tantissime le cose che devono essere fatte in questa città, che deve riprendersi il ruolo internazionale che le spetta». Quello che mi ha disgustato al termine di questa scadenza elettorale è stato l'atteggiamento di alcuni giornalisti di radio e televisiioni; l'esultanza per la vittoria dei sindaci del centro sinistra contro i barbari del centro destra è stata esplicitata in modo molto più veemente di quanto abbiano fatto i sindaci vincitori. Questo della faziosità dei media è un cancro che avvelena l'atmosfera politica italiana e dire che il Paese è governato da una coalizione destra-sinistra che dovrebbe consentire di abbassare i toni. Il parere di Ftancesco Alberoni, tratto da IlGiornale.it.- Quando si è formata la Repubblica italiana sono riemersi i partiti esistenti negli anni Venti, all'origine del fascismo, tipici di un epoca in cui il partito si considerava non solo l'interprete ma anche la guida e l'educatore delle masse. Compito diventato ancora più importante con il suffragio universale. L'archetipo a cui tutti più o meno facevano riferimento era il partito comunista, un potente apparato che educava i militanti fra cui poi selezionava i fedelissimi che avrebbero fatto carriera nel partito e nello Stato. Alle elezioni il popolo votava i designati del partito che in parlamento avrebbero eseguito le decisioni della direzione Il partito-apparato ha incominciato a scricchiolare quando sono stati eliminati per via giudiziaria Dc, Psi e Pli e sono nati i movimenti Lega e Forza Italia dove si fa carriera stando nell'enclave del capo carismatico. Questi capi carismatici, per essere ubbiditi dai loro parlamentari hanno dovuto fare un legge elettorale (il porcellum) in cui fanno eleggere solo chi vogliono, con la minaccia di non farli rieleggere la volta successiva. Una legge che andava bene anche alla direzione del Pd che non poteva più contare sull'ideologia. Andrà ancora meglio per Grillo che sceglie i suoi miliziani e li caccia quando vuole. Dei vecchi partiti d'apparato, in Italia, oggi resta solo il Pd in cui però cominciano a farsi strada leader osteggiati dalla direzione ma scelti dal popolo, come dimostra il caso di Renzi. Molti le considerano scaramucce interne. Io credo invece che siano il sintomo di una tendenza generale: la gente non vuole più dare la delega a un partito, vuole votare una persona concreta, vedere cosa fa e poi mandarla via se ha fatto male. Avviene col sindaco e col presidente della regione ed è pronta a farlo a livello nazionale votando o il presidente della Repubblica, come in Francia, o il presidente del Consiglio come il sindaco. Ma la vecchia direzione del Pd non lo tollera perché sa che, se vota il popolo, non c'è più bisogno del partito. Eppure l'epoca dei partiti-apparato , dei comitati centrali è finita. Il popolo vuole decidere chi eleggere e chi mandare a casa, e lo farà.

Confartigianato: ancora critiche sul fisco (12 giugno 2013).
«Le imprese italiane corrono contromano e a occhi bendati e sembra si faccia di tutto per spingerle oltre confine per trovare condizioni normali: il fisco italiano tassa il 68,3% degli utili lordi d’impresa, in Svizzera appena il 30,2%». Il presidente della Confartigianato Giorgio Merletti lancia l’ennesimo allarme sul fisco che schiaccia le Pmi. «Le nostre aziende non ce la fanno più a sopportare una pressione fiscale che nel 2013 toccherà il 44,6% del Pil, 2,4 punti in più sopra la media Eurozona» ha proseguito dal palco dell’assemblea dell’organizzazione. Appello subito raccolto dal ministro dello Sviluppo economico Flavio Zanonato che non si è sottratto agli stimoli di una platea reattiva e poco incline a illusioni. Sono al vostro fianco, ha assicurato «ma le cose non sono facili, non ci sono risorse e dobbiamo attivare meccanismi a costo zero per dare soddisfazione alle imprese». E poi: «a me non disturba se sono contestato su questioni concrete, mi piace essere incalzato su proposte specifiche, lavorare insieme significa anche essere stimolati», ha ribattuto a chi vociava di più, tra i tanti stremati dalla crisi. La realta è che «paghiamo 38 miliardi di maggiori imposte rispetto ai partner europei, 639 euro in più per abitante. Tra il 2005 e il 2013 l’incremento delle entrate fiscali è stato pari ai 132 miliardi di incremento del Pil. Così non si esce dal tunnel della crisi» ha incalzato Merletti. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: nei 600 giorni da novembre 2011 a oggi si sono perse 60mila imprese, la disoccupazione giovanile è cresciuta di oltre 8 punti, il Pil calato del 3,4%, la pressione fiscale è aumentata di quasi 2 punti e il credito alle imprese è diminuito di 65 miliardi. Nel frattempo si sono avvicendati il governo tecnico supplente e poi lo «stallo alla messicana». Numeri da brivido, per questo le imprese non vogliono più promesse dalla politica. «Adesso tocca a voi, chi governa rispetti il mandato, fate il vostro dovere» ha detto il numero uno degli artigiani, particolarmente applaudito su fisco, burocrazia («ci costa 31 miliardi l’anno»), da spellarsi le mani sul «disastro Sistri». «Una amministrazione pubblica che non paga è una vergogna. Mi impegno al vostro fianco per il completo azzeramento dello stock dei debiti scaduti» ha assicurato Zanonato, consapevole di dover dare tempi certi alle Pmi artigiane, di cui ha lodato a più ripresa tenacia, talento, «qualità e materia grigia» ha detto citando Einstein. Revisione dell’Imu, perché «è contraddittorio tassare un tornio o una pressa, così gli immobili strumentali». Promette misure per la ripresa e semplificazioni entro giugno, via le complicazioni inutili, ha detto, e più risorse anche per il credito attraverso il Fondo centrale di garanzia, grazie al supporto di Cassa depositi e prestiti. Fino a una nuova legge Sabatini, in tandem con l’Economia, per dare il via a una misura per il rinnovo del processo produttivo e per acquisire beni strumentali. E anche i costi dell’energia (le Pmi pagano il 37,8% in più della media Ue) devono essere abbassati ai livelli degli altri paesi competitori europei. «Stiamo valutando misure di sostegno agli investimenti delle pmi che operi con modalità snelle». Pur tra mille difficoltà e risorse zero stiamo lavorando, è stato il messaggio del ministro. «Ha parlato con un linguaggio nuovo - ha dato atto Merletti - si vede che arriva dall’amministrazione locale, ha fatto il sindaco».

Marchionne: un piano Marshall per l'Italia (13 giugno 2013).
«Dobbiamo scommettere sul futuro dell’Italia. Serve uno scatto di orgoglio, uno sforzo collettivo, una specie di patto sociale, chiamatelo piano Marshall per l’Italia o come volete. Un piano di coesione nazionale per la ripresa economica». Lo ha detto stamane all’assemblea di Confindustria Firenze Sergio Marchionne. Secondo l’ad di Fiat, il Paese ha bisogno di «un grande sforzo collettivo per condividere impegni, responsabilità, sacrifici. E per dare all’Italia la possibilità di andare avanti», ha sottolineato Marchionne. Che chiede «una specie di patto sociale che cancelli le opposizioni e le distinzioni tra le varie fazioni». Tutti, dice l’a.d. di Fiat, «devono partecipare: la politica, i sindacati, le imprese, le università, le associazioni di categoria: tutti quanti, in ogni strato della società. Tutti dobbiamo lavorare ad un grande progetto di rilancio verso un obiettivo che non sia l’interesse di una o dell’altra parte ma quello più alto di ridare fiducia e prospettive all’Italia». Quanto a Fiat, «intendiamo fare la nostra parte per l’Italia. Contribuire alla costruzione di un domani che sia all’altezza delle nostre aspettative di crescita industriale, sociale e civile. Perché ci sarà sempre un pezzo d’Italia in ogni Fiat che andrà in giro per il mondo, come ci sarà sempre un po’ di Fiat in ognuno di noi», ha detto ancora Marchionne. Che avverte: «Se tra un paio d’anni saremo ancora qui a lamentarci delle inefficienze e dei problemi di competitività del nostro Paese non dovremo che vergognarci di noi stessi. Fiat non è più quella del 2004, ma è considerata ancora una azienda italiana che si porta dietro tutti i pregiudizi, come quelli sulla qualità dei prodotti e quello di vivere alle spalle dello Stato con aiuti pubblici. Abbiamo creato lavoro e benessere, e continuiamo a investire e credere nell’Italia». Il progetto di Fiat per la produzione in Italia «porterà in 3-4 anni al pieno impiego dei lavoratori». Fiat, dal 2004 ad oggi, ha fatto scelte «per diventare piu forte», ha «superato un isolamento» che «l’avrebbe danneggiata. Se fosse rimasta la Fiat di una volta avremmo già portato i libri in tribunale da un pezzo. La scelta più razionale sarebbe quella ci chiudere uno o due stabilimenti in Italia anche per far fronte alla sovraccapacita’ produttiva. Abbiamo invece detto e lo ribadisco che non chiuderemo nessuno stabilimento in Italia. Abbiamo sempre gestito la nostra libertà con coscienza». Ha detto di voler puntare sull’Italia anche come piattaforma di produzione per i mercati di tutto il mondo e a questo proposito ha ricordato gli investimenti fin qui già effettuati. A Pomigliano, ha ricordato, «abbiamo investito 800 milioni e abbiamo trasformato l'investimento in uno stabilimento modello». A Grugliasco, invece, è stato speso 1 miliardo di euro, mentre a Melfi sono in programma investimenti per 4 miliadi che permetteranno di produrre dal 2014 due nuovi modelli.

La crisi degli esercizi commerciali (15 giugno 2013).
La crisi prolungata minaccia una desertificazione delle città italiane. Se il trend di chiusure delle imprese del commercio registrato nei primi quattro mesi dell’anno dovesse continuare allo stesso ritmo, al primo gennaio 2014 la faccia dei centri urbani apparirebbe decisamente cambiata e più buia rispetto a dicembre 2012 con bar, locali, ristoranti, negozi di abbigliamento decimati dalle chiusure. E la desertificazione colpirebbe soprattutto il Sud. Secondo le stime dell’Osservatorio Confesercenti, bar e ristoranti registreranno infatti un saldo negativo combinato di 17.088 imprese, arrivando a perdere il 5% del totale di aziende registrate nel dicembre 2012. Ai negozi di moda e abbigliamento potrebbe andare anche peggio: a scomparire saranno ben 11.328 esercizi, secondo le stime, con una contrazione dell’8% sul 2012. Calo più contenuto invece per il settore alimentare, il cui saldo previsto è di -4.701 unità, con una variazione negativa del 3% sul 2012. Secondo la previsione Confesercenti, il settore dell’abbigliamento registrerà nel 2013 4.593 aperture e 15.921 chiusure. Si tratta di un rapporto aperture-chiusure di 2 a 7, un dato peggiore rispetto a quello di tutte le altre categorie di attività commerciali e anche del totale nazionale, per il quale il rapporto è di una nuova apertura ogni tre chiusure. Per quanto riguarda i bar, i nuovi esercizi saranno 6.714, contro 14.430 che chiuderanno per sempre la serranda; mentre i ristoranti vedranno 15.750 imprese cessare l’attività a fronte di 6.378 aperture. La crisi del commercio si estende a tutto il territorio nazionale, colpendo ogni regione. Per quanto riguarda le attività del settore alimentare, le stime Confesercenti indicano un saldo particolarmente negativo soprattutto in Sicilia, dove le nuove aperture saranno solo 288, un dato inferiore di quasi quattro volte a quello delle chiusure, previste a quota 1.080. Nell’abbigliamento, invece, è la Basilicata a mettere a segno il risultato proporzionalmente peggiore: con 240 chiusure e solo 84 nuove aperture, la regione perderà a fine anno il 10% del totale dei negozi del settore. In Abruzzo, invece, è previsto un record negativo per i ristoranti: con 144 aperture e 534 chiusure, al primo gennaio 2014 la regione avrà perso l’8% del totale delle imprese attive nella ristorazione. Nel settore Bar, spicca la stima per la Valle D’Aosta che, con 33 nuove aperture e 30 chiusure, potrebbe mettere a segno una variazione minima, ma positiva, dell’1%. Dal commercio all’impresa, secondo uno studio della Cgia di Mestre ogni anno la burocrazia costa alle piccole e medie imprese 31 miliardi di euro, pari a 7000 euro a impresa. Rispetto agli anni precedenti le cifre sono in aumento perchè grazie a rilevazioni più puntuali del fenomeno sono state scoperte nuove sacche di burocrazia, ha spiegato il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi in una nota. Negli ultimi anni il legislatore ha approvato una serie di misure di alleggerimento del peso burocratico che, una volta andate a regime, dovrebbero far risparmiare alle Pmi quasi 8,5 miliardi di euro. Inoltre la Cgia ha auspicato che con il nuovo decreto sulla semplificazione, che il governo Letta dovrebbe presentare oggi, questo vantaggio economico sia implementato in tempi brevi. «31 miliardi di euro corrispondono a 2 punti di Pil circa: una cifra spaventosa», ha dichiarato Bortolussi.

Varato decreto del fare (16 giugno 2013).
Ieri sono state varate una ottantina di misure distribuite su molti fronti, dai tagli alle bollette alle assunzioni nella scuola, dalla sforbiciata del 25% alle cause civili alle assunzioni nelle Università agli indennizzi contro i ritardi della burocrazia. Poi mercoledì si svolgerà un consiglio dei ministri dedicato alle semplificazioni e venerdì un altro per varare il decreto con misure a favore dell’occupazione. Si articola in tre mosse il piano di Enrico Letta per dare una prima scossa agli italiani. «Abbiamo approvato tante misure che servono a rilanciare l'economia del nostro Paese, perché gli italiani che vogliono fare possano rilanciare l'economia. È un provvedimento completo»,ha detto Letta nella conferenza stampa seguita al lungo consiglio dei ministri svoltosi ieri pomeriggio, conferenza stampa che ha visto la partecipazione di molti ministri. Tra le principali novità approvate da un decreto che somiglia al classico ”mille proroghe” di ogni fine anno, lo stop ai pignoramenti sulla prima casa da parte di Equitalia, 5 miliardi di euro per sostenere le imprese che vogliono investire in macchinari, 550 milioni di tagli sulle bollette energetiche. Inoltre, sono previsti lavori pubblici per un totale di circa 3 miliardi di euro in piccole, medie e grandi opere, con una ricaduta a livello occupazione di almeno 30mila nuovi posti di lavoro. Particolare enfasi è stata posta sia da Letta che dal ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, sulle norme che elimineranno, anche tramite la conciliazione obbligatoria, oltre un milione di vecchie cause civili sull’intero stock di quattro milioni. Tra i provvedimenti approvati ci sono anche norme sull'edilizia scolastica (100 milioni messi a diposizione dall’Inail) mentre «si ampliano le facoltà di assumere delle Università e degli enti di ricerca per l'anno 2014. Con questo provvedimento si libereranno posti per 1.500 ordinari e 1500 nuovi ricercatori», ha detto il ministro della Pubblica Istruzione Maria Chiara Carrozza. Spicca fra le misure l’allentamento («Una rivoluzione», l’ha definita il vicepresidente Angelino Alfano) della stretta per chi ha debiti con il fisco. Equitalia infatti non potrà più espropriare la prima casa, a meno che non si tratti di un immobile di pregio. Si rafforzano anche i benefici della rateizzazione dei debiti che vengono confermati anche dopo otto rate non pagate. L'aiuto a chi non paga perchè non ha liquidità non si ferma più dunque dopo due rate non pagate. Il governo ha inoltre varato «in via sperimentale una norma che introduce un indennizzo per il ritardo nei procedimenti e che comporta una responsabilizzazione di tutti i soggetti della pubblica amministrazione», ha sottolineato il ministro per la Pubblica amministrazione Giampiero D'Alia. In sostanza se una amministrazione rallenta eccessivamente l’esame di una pratica il cittadino potrà chiedere un rimborso. Ieri mattina, infine, il premier ha visto il presidente della Commissione Europea Manuel José Barroso rassicurandolo sulla volontà italiana di rispettare gli impegni europei trovando nel contempo risorse soprattutto per combattere l’incubo della disoccupazione giovanile. Secondo Letta il vertice riunito l’altro ieri a Roma dei ministri del Lavoro e delle Finanze «delle quattro più importanti economie dell'eurozona» (Italia, Germania, Francia e Spagna) ha segnato con chiarezza la volontà di «lavorare uniti per fermare l'emorragia disoccupazionale».

Taglio ai processi civili (17 giugno 2013).
L’obiettivo è ambizioso: alleggerire il carico del contenzioso civile di un milione 157mila processi nei prossimi cinque anni. E’ il traguardo che il governo Letta, con il «decreto del fare», si prefigge di tagliare. Passo obbligato in un Paese in cui lo stato della giustizia civile rappresenta un fattore di svantaggio competitivo tanto per le imprese che per i lavoratori. Senza contare il numero di condanne a carico dello Stato per violazione dei termini di ragionevole durata dei processi. Secondo le previsioni dell’esecutivo, le nuove norme produrranno nel prossimo quinquennio la definizione di 675mila procedimenti in primo grado, 262mila in appello e 20mila in cassazione per un totale 957mila 500. Dato al quale andrebbero ad aggiungersi, nello stesso periodo e per effetto di misure ad hoc, 200mila cause in meno in entrata. Viene reintrodotta la mediazione obbligatoria, nonostante la bocciatura della Corte Costituzionale, per numerose materie con l’esclusione, su richiesta dell’avvocatura, delle controversie per danni da circolazione stradale. Una scelta accolta come una «vittoria» dalla presidente degli Avvocati per la mediazione, Lorenza Morello: «Eravamo certi che lo stop della Consulta non fosse altro che un arresto temporaneo per far rinascere l’istituto più forte di prima». Ma salutata con una dichiarazione di guerra dall’Organismo unitario dell’avvocatura. «Registriamo con sconcerto la reintroduzione della mediazione obbligatoria che aveva dato già cattiva prova di sé nell’applicazione verificatasi prima che la Corte Costituzionale lo bocciasse sonoramente», accusa Fabio Sportelli, della giunta esecutiva dell’Oua. «Si è tenuto conto sia delle argomentazioni della Consulta che delle richieste dell’avvocatura e sono state introdotte significative novità», spiega il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Maria Ferri. «E’ un ottimo inizio – aggiunge –. Ma come tutti decreti legge può essere migliorato in sede di conversione». Il decreto introduce stage di formazione presso gli uffici giudiziari dei tribunali (un aiuto contro la carenza di organico), un contingente di 400 giudici non togati per lo smaltimento del contenzioso pendente nelle Corti di Appello e la figura di assistente di studio presso la Corte di cassazione. Altra novità, nell’ambito dei processi di divisione di beni in comproprietà (notoriamente lunghi), è la possibilità di attribuire la delega a un notaio nominato dal giudice delle operazioni di divisione quando ci sia accordo tra i comproprietari. Capitolo impresa: il faro è la certezza del credito. Viene rivisto il concordato in bianco, introdotto nel 2012 per consentire all’impresa in crisi di evitare il fallimento e di salvare il patrimonio. Per impedire condotte abusive (dirette cioè solo a rinviare il fallimento), l’impresa dovrà depositare, a fini di verifica, l’elenco dei creditori e, quindi, anche dei debiti. Il Tribunale potrà chiudere la procedura in caso di condotte fraudolente. Nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, il giudice dovrà fissare la prima udienza non oltre 30 giorni e, in quella sede, decidere sulla provvisoria esecuzione.

G8: crescita e lotta ai paradisi fiscali (18 giugno 2013).
Priorità a crescita e lavoro. Poi lotta all’evasione e giro di vite contro i paradisi fiscali. Sono queste le conclusioni economiche del vertice G8 di Belfast. I leader hanno raggiunto un accordo per un nuovo impulso alla lotta contro il riciclaggio e «società di comodo» utilizzate come strumento di evasione fiscale, annuncia Downing Street. Il tema era una delle priorità dettate dalla presidenza britannica del vertice in Irlanda del Nord e l’auspicio è che l’accordo per nuove regole renderà più difficile basare società in paradisi fiscali. A conclusione del confronto su questo tema tra i leader del G8 a Lough Erne, cui oggi ha partecipato anche il cancelliere dello scacchiere George Osborne, il premier britannico David Cameron ha diffuso un messaggio via Twitter in cui ha sottolineato che l’accordo è stato raggiunto sulla base di un piano d’azione britannico. Secondo il G8 l’Europa deve proseguire l’applicazione degli accordi dell’Unione bancaria perché «fortemente necessaria» per ridurre la frammentazione finanziarie. E la «sostenibilità di bilancio deve andare insieme a strategie di crescita ben definite», incluse le «riforme strutturali» mirate a crescita. La nostra «urgente priorità è promuovere la crescita e il lavoro, particolarmente per i giovani ed i disoccupati a lungo termine». Il comunicato individua tre ricette per la crescita: «Sostegno alla domanda, sicurezza delle finanze pubbliche e riforme».

2012: anno horribilis per le costruzioni (19 giugno 2013).
«Il 2012 è stato per le costruzioni l’anno più nero nella crisi più intensa e più lunga nella storia del Paese», sottolinea l’associazione dei costruttori Ance. Che calcola: da inizio crisi i posti di lavoro persi sono 446 mila, con i settori collegati salgono a 669 mila «come l’intera popolazione di Palermo», 11.177 le imprese fallite. «Abbiamo toccato il fondo», sottolinea il rapporto dell’osservatorio congiunturale sull’industria delle costruzioni dell’Ance. «Mai così bassi gli investimenti», che nel 2013 arrivano al sesto anno consecutivo di caduta, con un calo complessivo del 29%. Le imprese delle costruzioni che da inizio crisi hanno chiuso i battenti rappresentano il 23% dei fallimenti registrati in tutti i settori economici. «Muore l’edilizia, muore la filiera», evidenzia il rapporto, indicando che nel 2012 le consegne di cemento sono diminuite del 22,6% ed il fatturato del legno del 19%. Le stime per il 2013 indicano che gli investimenti «registreranno una ulteriore caduta del 5,6% rispetto al 2012», nonostante l’effetto positivo degli interventi del governo su incentivi fiscali e debiti della P.a. Per il 2014 sono due gli scenari possibili tracciati dall’associazione dei costruttori: senza politiche per il settore gli investimenti continueranno a calare del 4,3%, e vorrà dire che in sette anni le costruzioni avranno perso investimenti per 59,3 miliardi, il 32,1%. Sarà «il tramonto dell’intero tessuto industriale dell’edilizia». Se invece verranno messe in campo politiche per il settore, e, in particolare, se si attuassero le proposte dell’associazione dei costruttori (revisione Imu, messa a regime degli incentivi fiscali per ristrutturazioni e ecobonus, riattivazione del circuito del credito) gli investimenti potrebbero tornare a crescere, dell’1,6%. Spendere 5 miliardi in infrastrutture nel 2014 aumenterebbe il Pil dello 0,33% e produrrebbe 44.500 posti di lavoro: una «manovra di rilancio» da mettere in campo nei prossimi 5 anni è possibile, sostiene l’Ance, senza sforare il limite del 3% di deficit e riducendo addirittura il rapporto debito/Pil’’.

I giovani talenti preferiscono cioccolata e auditing (20 giugno 2013).
La Ferrero, per la prima volta, riesce a scavalcare Google come società preferita dagli studenti italiani di facoltà dell'area business. Seguono Unicredit, Intesa Sanpaolo e Banca Centrale europea. Google si conferma invece al primo posto per gli studenti di ingegneria, informatica, scienze naturali e precede Ferrari e Microsoft. A rivelarlo è la classifica "Italy's most attractive employers" stilata da Universum, società specializzata nelle strategie aziendali per attrarre i migliori talenti, in base alle preferenze espresse da quasi 21mila studenti di 39 tra università e business school del nostro paese. Scorrendo la classifica degli studenti degli atenei business dopo i colossi del lusso (Lvmh) e della bellezza (L'Oréal) si trova l'ascesa della Ferrari che si piazza al decimo posto. Un colosso della moda come Giorgio Armani arretra di sette posizioni rispetto la graduatoria del 2012 e Bulgari, al 23esimo posto, perde ben 11 posti. Guadagnano posizioni invece i colossi dell'auditing e accounting, le istituzioni bancarie e della finanza. Bnl-Gruppo Bnp Paribas sale al 13 posto e precede J.P. Morgan. Goldman Sachs è al 18esimo. «Quest'anno registriamo un momento di grande cambiamento nelle preferenze degli studenti italiani – spiega Claudia Tattanelli, Global director e country manager per l'Italia di Universum -. Prediligono i grandi marchi ma si orientano verso le multinazionali con radici locali, finanziariamente solide, e che assumono sia in Italia che all'estero». C'è un calo d'interesse verso famosi brand tra cui Sony e Nokia mentre multinazionali come Ferrari, Barilla, Pirelli, Ducati, Luxottica e il Gruppo Fiat guadagnano posizioni. In netta ascesa la popolarità delle società di consulenza strategica e gestionale. ErnstandYoung è al 15 posto della classifica generale e al primo nel settore auditing e accounting, dopo avere guadagnato ben 9 posti rispetto allo scorso anno. Kpmg è al 19esimo contro il 26esimo mentre nella top 30 entrano PricewaterhouseCooper (24esima posizione) e Deloitte (30). «Le persone sono la chiave del nostro successo – sottolinea Donato Iacovone, amministratore delegato di Ernst and Young in Italia e region managing partner –. Nel corso dell'ultimo anno fiscale abbiamo inserito 900 nuove risorse e per il nuovo anno fiscale confermiamo la nostra volontà di aprire le porte ad altrettanti giovani talenti». Cosa attira gli universitari verso le multinazionali, le società di consulenza e le banche? Uno dei principali obiettivi è la possibilità di iniziare un percorso di carriera internazionale. A dirlo è il 40% degli studenti che dopo la laurea vede il primo impiego ideale proprio all'estero. Il vero traguardo è però riuscire a raggiungere un giusto equilibrio tra vita professionale e personale come emerge dal 60% delle risposte. Circa un terzo del campione poi vorrebbe essere messo alla prova a livello competitivo e intellettuale oppure essere un leader.

Invincibili nell'arte di non scegliere (21 giugno 2013).
Di Luca Ricolfi da la stampa.it
Sul governo Letta le valutazioni possono essere molto diverse. Molti elettori, ad esempio, hanno apprezzato il mero fatto che l’Italia sia riuscita a darsi un governo, dopo due mesi di balletti inconcludenti. Altri ne apprezzano lo stile pragmatico, l’attitudine al dialogo, la politica dei piccoli passi. Altri ancora, invece, sono profondamente delusi: specie le basi del Pdl e del Pd non hanno gradito quelli che possono apparire elementi di continuità con il governo Monti, come la deferenza verso l’Europa e un certo attendismo sulle scelte cruciali.
Ma come stanno le cose?
A me pare che, a due mesi dal suo insediamento, il governo Letta abbia già mostrato piuttosto chiaramente il suo volto. Nato dalla assenza di alternative, esso aveva di fronte due strade. Prima strada: governare cercando il massimo comun divisore fra le idee della destra e della sinistra, ovvero varare il maggior numero di provvedimenti capaci di mettere d’accordo destra e sinistra (a proposito: il massimo comun divisore fra 8 e 6 è 2). Seconda strada: governare cercando il minimo comune multiplo fra le idee della destra e della sinistra, ovvero tentare di metterne in atto le idee più incisive (a proposito: il minimo comune multiplo fra 8 e 6 è 24). Fra le due strade il nuovo governo ha scelto molto nettamente la prima, che poi è la cifra fondamentale di tutti i governi della seconda Repubblica, ivi compreso il governo Monti, specie nella parte finale della sua parabola. Governo del «fare», indubbiamente, ma inteso come fare pochino, rimandando al futuro tutte le scelte cruciali, quelle difficili e che possono creare conflitti. Prima del voto tutte le maggiori forze politiche in campo avevano dichiarato di saper come «reperire» svariati miliardi di «risorse», chi per abbattere l’Imu (più o meno integralmente), chi per rilanciare gli investimenti pubblici, chi addirittura per restituire l’Imu dell’anno scorso. Ora che si ritrovano tutte insieme nel medesimo governo, ora che appaiono miracolosamente d’accordo su alcune priorità (ad esempio bloccare l’aumento del l’Iva), ora che non possono accusare l’avversario politico di intralciare l’azione del governo, improvvisamente scoprono di non saper più come trovare quelle medesime risorse che in campagna elettorale consideravano a portata di mano. Con 400 miliardi di spesa pubblica extra-pensionistica e 150 miliardi di evasione fiscale, i nostri governanti ci dicono candidamente di non saper proprio come fare a recuperarne anche solo 4, quanti sarebbero necessari per evitare l’aumento dell’Iva. Ed ecco allora la soluzione: chiedere all’Europa di fare più deficit, l’unico vero punto di contatto importante fra destra e sinistra. Era chiaro fin dai programmi elettorali di Pd e Pdl, è chiaro da come si stanno muovendo sullo scenario europeo i loro leader. L’unica vera differenza è che i dirigenti di centro-sinistra vogliono salvare le apparenze, negoziando con le autorità europee il permesso di sforare su determinate voci (investimenti pubblici, pagamenti della Pubblica Amministrazione), mentre Berlusconi ha meno peli sulla lingua e ogni tanto si lascia scappare quello che molti pensano, anche a sinistra: e cioè che un po’ di deficit fa bene, certo non lo si può annunciare spudoratamente e programmaticamente, e però sì, lo sappiamo perfettamente che l’anno prossimo, a conti fatti, ci troveremo con diversi decimali di deficit pubblico in più. Di qui un permanente navigare a vista, con molta retorica ma senza grandi progetti, con un campionario di buone intenzioni ma senza nessuna scelta forte.
Si poteva, si potrebbe fare diverso?
Verrebbe da rispondere: forse no, i nostri politici sono quello che sono, e dopotutto siamo italiani.
Ma, forse, si dovrebbe anche aggiungere: se non ora quando?
Detto in altre parole: a che serve un governo di Grosse Koalition, con destra e sinistra unite nel medesimo esecutivo, se non a fare, finalmente, quelle scelte difficili che da almeno venti anni vengono rimandate? Non è questo che ha fatto la Germania quando era lei il «malato d’Europa»? E non è forse per non aver fatto quelle scelte che ora il grande malato d’Europa siamo proprio noi, con la nostra attitudine a nascondere la testa sotto la sabbia, a rimandare le decisioni, a conservare tutto il conservabile? Perché continuiamo a cercare le cause dei nostri mali solo all’infuori di noi, nella Merkel, nell’Europa, nella speculazione? Perché la politica non vuole riconoscere che è la sua incapacità di decidere che ha portato il Paese al disastro? Perché non vogliamo capire che il nostro futuro dipende innanzitutto da noi stessi? La risposta a questi dubbi, purtroppo, pare essere una sola. L’unica arte in cui i nostri politici non hanno rivali è l’arte del non governo. Neppure in un momento come questo, in cui la principale forza di opposizione, il movimento di Beppe Grillo, si sta autodistruggendo, destra e sinistra trovano in sé stesse la forza per sposare fino in fondo le proprie idee più audaci, facendo quello che una Grosse Koalition dovrebbe e potrebbe fare: aggredire sia l’evasione fiscale sia gli sprechi della Pubblica amministrazione, in una logica di «minimo comune multiplo», che dalla destra e dalla sinistra cerca di estrarre il meglio di ciascuna, anziché il meno peggio di entrambe. Il fatto che, di fronte all’esigenza di scovare pochi miliardi per contenere le aliquote Imu o Iva i nostri governanti ci confessino che non hanno la minima idea di dove e come trovare i soldi, e che se li trovassero si tratterebbe di interventi «di estrema severità», ci dà la piena misura di quanto volino basso, di quanto poche cose pensino di poter fare anche in futuro, e tutto sommato anche di quanto poco siano attrezzati per guidare l’Italia. Una politica seria, dopo decenni di analisi, di studi, di ricerche, di denunce sull’evasione e sugli sprechi dovrebbe avere i cassetti pieni di soluzioni, di piani dettagliati, di progetti operativi, e non si farebbe prendere alla sprovvista appena ha l’opportunità di governare. Peccato, perché questa è un’occasione straordinaria. Probabilmente irripetibile, e quasi certamente l’ultima.

I nostri conti correnti sotto il microscopio (22 giugno 2013).
Da lunedì prossimo, 24 giugno, banche, Sgr, Sim, assicurazioni e fiduciarie potranno cominciare a trasmettere all'Erario i dati relativi ai rapporti finanziari dei clienti. Lo ha annunciato ieri a Rimini Attilio Befera, direttore dell'agenzia delle Entrate, nel corso del convegno «Tracce, impronte e archivi finanziari». Befera ha comunicato che il sistema di trasmissione dei dati su saldi e movimenti dei conti correnti e degli altri tipi di strumenti finanziari avverrà tra sistemi telematici (quella che in inglese è definita come application to application) «per ridurre al minimo le possibilità di accessi non autorizzati». La novità è obbligata dalla legge 214/2011 e dai successivi provvedimenti del 17 aprile 2012, del 15 novembre 2012 e del 31 gennaio 2013 del Garante per la privacy. Proprio sulla riservatezza dei dati ha insistito Befera, che ha ricordato come tutti i dati che confluiranno nel server del Fisco saranno cifrati. Il direttore delle Entrate ha anche rammentato che questo sistema servirà per effettuare una migliore selezione dei soggetti a rischio evasione che saranno dunque perseguiti in modo più efficace. Già nell'audizione del 31 ottobre 2012 alla Commissione parlamentare di vigilanza sull'anagrafe tributaria, Befera ebbe modo di affermare che «le informazioni contribuiranno alla selezione delle posizioni da controllare» nella lotta contro l'evasione e l'elusione. Questi dati, disse, «potrebbero concorrere a formare liste di contribuenti, già individuati in base a elementi di rilevanza fiscale, da sottoporre all'accertamento sintetico, o di soggetti non congrui e non coerenti agli studi di settore». Da lunedì, dunque, gli istituti di credito potranno cominciare a trasmettere non solo nomi e codici fiscali ma anche – e questa è la vera novità – i dati contabili e Befera ha confermato anche la tempistica: entro il 31 ottobre dovranno essere comunicate le informazioni relative alle diverse tipologie di rapporti attivi nel 2011; entro il 31 marzo 2014 quelle del 2012, mentre a regime i dati degli anni successivi dovranno essere inviati entro il 20 aprile (per i dati relativi al 2013 la scadenza è il 20 aprile 2014). Sull'accessibilità e sull'usufruibilità degli archivi finanziari e delle banche dati Befera è andato oltre. «A monte – ha spiegato – c'è un problema di ipertrofia normativa dovuta sostanzialmente alla scelta del legislatore di perseguire un'equità verticale, che obbliga a trattare in maniera fiscalmente diversa situazioni diverse e non invece, il principio di equità orizzontale che obbliga a trattare in maniera fiscalmente uguale situazioni uguali. Oltre a questo, c'è la cosiddetta sindrome burocratica, che porta a chiudere le falle con ulteriore produzione normativa». Il nostro commento è che data la facilità con la quale gli hacker riescono a introdursi nei sistemi informatici più complessi, come quelli della Nasa, del Pentagono, della US Navy o del NYTimes e in Italia Ministero Difesa, Enel, Siae e la stessa Equitalia non sembra azzardato affermare che potremmo vedere, presto, in rete la situazione dei nostri cc o dei nostri portafogli titoli.

Lavazza un marchio italiano che tiene (24 giugno 2013).
L’Italia ha superato la crisi del ’29, due conflitti mondiali e il difficile dopoguerra. Periodi peggiori di oggi, dobbiamo farci coraggio: riusciremo a battere anche questa congiuntura negativa». Giuseppe Lavazza, vice presidente insieme al cugino Marco dello storico gruppo di famiglia, quarta generazione di un’azienda simbolo del made in Italy, che ha portato il caffè in tutto il mondo, vede la tazzina mezza piena, come un espresso. Ma il caffè, come molti altri beni di consumo, avverte l’imprenditore «rischia di essere amaro, se il governo non riuscirà a evitare ulteriori aggravi fiscali e a ridurre sprechi e spese eccessive».
Cosa potrebbe succedere in Italia?
«L’ulteriore aumento della pressione fiscale non potrebbe che determinare una crescita dell’effetto recessivo, come già avviene da diversi anni, poiché una parte rilevante della spesa pubblica italiana è improduttiva e brucia risorse ingenti senza generare ritorni apprezzabili e creare vera e stabile ricchezza. Ci si accontenta di un effetto di natura strettamente redistributiva e assistenziale, ma mettendo mano a una quota ormai superiore al 50% del Pil e con un intervento spesso a pioggia e privo della necessaria focalizzazione. È chiaro che il sistema non può più reggere e vanno apportate significative correzioni».
Dopo il «decreto del fare» come può il governo rilanciare la crescita?
«I fronti sono tanti, e alcuni urgenti, hanno necessità di solida copertura finanziaria come abbassare le tasse che pesano sul costo del lavoro per esempio attraverso una drastica revisione di tanti inutili sgravi e incentivi fiscali a favore delle imprese. Altri sono economicamente neutrali ma contribuirebbero a fare dell’Italia un paese meno problematico per chi ci lavora come l’abbattimento radicale degli infiniti vincoli burocratici e dello strapotere della burocrazia amministrativa e la necessaria certezza nel campo del diritto a partire da quello tributario».
Con il calo dei volumi in Italia, molte aziende hanno puntato sull’export, cercando di aumentare le vendite all’estero. Che cosa dovrebbe fare chi ha difficoltà a entrare nei mercati esteri?
«Le nostre imprese devono puntare su efficienza, talento, innovazione, creatività e buon marketing. Lavazza, per esempio, crede molto alla promozione del suo brand attraverso ogni tipo di veicolo pubblicitario purché economicamente efficiente e allineato con la sua strategia di internazionalizzazione: dalla gastronomia, alla cultura, alla fotografia, fino a musica, arte e sport. Infatti, per il terzo anno siamo il caffè ufficiale di Wimbledon e abbiamo già raggiunto un risultato straordinario: il nostro caffè si è rapidamente inserito nell’iconografia dell’evento e questo ci ha permesso di rafforzare la riconoscibilità del nostro marchio nel Regno Unito e a livello internazionale».
Non le sembra però un paradosso cercare di convertire al caffè il popolo di Sua Maestà, da secoli abituato al rito del tè?
«Già da qualche anno assistiamo all’apertura delle frontiere del gusto e della cultura gastronomica: c’è sempre di più contaminazione di cibi, bevande, riti e tradizioni. Una contaminazione tra te e caffè c’è già stata. Gli inglesi hanno provato prima il caffè in tazza grande come facevano per il tè, consumando caffè solubile, un passaggio quasi naturale».
Ora quest’abitudine è cambiata?
«Sì e Wimbledon lo dimostra: già l’anno scorso il nostro espresso e i nostri cappuccini si sono affermati con decisione nelle nostre caffetterie allestite durante le due settimane del torneo. Sono stati serviti circa un milione di caffè, abbiamo gestito 60 punti vendita e impiegando 600 baristi e 200 macchine da caffè. Proprio oggi inizierà il torneo e speriamo di fare ancora meglio, non solo con l’espresso ma anche col cappuccino».
Oltre alla Gran Bretagna, quali sono gli altri mercati strategici?
«Oltre l’Italia, sono soprattutto Nord America, Germania, Francia e Australia. In particolare gli Stati Uniti sono un mercato importante. Nel 1991 abbiamo fondato la consociata Lavazza in Usa e dal 2010 siamo partner e azionisti di Green Mountain Coffee Roasters. Attualmente Lavazza detiene circa l’8% delle azioni della società, confermando così il valore strategico della partnership industriale».
A proposito di America, non teme la concorrenza di Starbucks? Per ora si dice che il colosso Usa abbia ancora qualche remora ma un giorno potrebbe entrare di prepotenza nel mercato italiano.
«Nessuna paura. In Italia forse ci sono troppi bar perché avvenga l’ingresso di Starbucks e d’altra parte non credo che il nostro Paese sia un contesto a loro ideale. Considero invece Starbucks un apripista in tanti altri mercati perché diffonde in modo globale la cultura del caffè, aiutandoci a entrare o a rafforzarci in molti Paesi».
Il mercato italiano del caffè risente della crisi e quest’anno i volumi sono in calo?
«Il mercato in generale è in contrazione ma si mantiene dinamico per il tasso di innovazione che lo contraddistingue e anche piuttosto vitale. In Italia esistono oltre 600 torrefattori locali. Potremmo forse assistere a qualche fenomeno di consolidamento e di aggregazione, ma il contesto sembra stabile».
Come ha affrontato Lavazza il calo del mercato in Italia?
«Il nostro annus horribilis è stato il 2011, quando abbiamo subito in bilancio una perdita di 9 milioni. Abbiamo affrontato il problema di petto, rivisto la struttura interna, portato avanti azioni per contenere i costi, razionalizzato l’organizzazione, rifocalizzato gli investimenti e tagliato i rami secchi, insomma abbiamo avviato una vera e profonda spending review».
E nel 2012 avete recuperato?
«Abbiamo realizzato un utile di 97,1 milioni di euro, in netta controtendenza rispetto al 2011, riallineandoci con i livelli pre-crisi. Il fatturato 2012 è salito a 1.330,7 milioni di euro (+ 4,9% rispetto al 2011). Risultati possibili anche grazie alla plusvalenza di 36 milioni di dollari realizzata con la cessione del l’1% di Green Mountain, azioni che poi ci siamo ricomprati, salendo all’8%. L’obiettivo 2013 è confermare questi risultati».
I rapporti all’interno della famiglia continuano a essere stabili o ci sono attriti?
«Lavazza ha una storia secolare: è stata fondata nel 1895 e la famiglia è sempre stata molto unita, nonostante guerre, crisi e tante difficoltà. Ricordo che all’inizio degli anni’ 80 mio padre Emilio e mio cugino Alberto che ora è presidente del gruppo si trovarono a un bivio: trasformare Lavazza in una grande conglomerata alimentare dai biscotti alla cioccolata o continuare a puntare sull’attività principale. Scelsero la seconda via, più in salita e meno di moda allora, ma fu una scelta vincente. Ora siamo alla quarta generazione».
Lavazza si quoterà in Borsa?
«No, un’impresa va in Borsa spesso quando ha bisogno di soldi e vuole finanziare così la sua crescita. Lavazza è già ben patrimonializzata e con una forte liquidità: nel 2012 il saldo di cassa è stato di 288,1 milioni».

Berlusconi condannato per il processo Ruby (25 giugno 2013).
I giudici Giulia Turri (presidente), Carmen d'Elia e Orsola de Cristofaro dopo 7 ore di Camera di Consiglio hanno condannato Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione per concussione e prostituzione minorile con l'interdizione perpetua ai pubblici uffici. I giudici nell'aumentare di un anno rispetto alle richiese del pm la pena inflitta a Berlusconi, hanno modificato "il reato contestato al capo A": non più concussione per induzione ma concussione per costrizione. È stata anche disposta la trasmissione degli atti alla Procura affinchè valuti le presunte false testimonianze rese da alcuni testimoni nel corso del dibattimento. Nella lista spiccano l'esponente Pdl Valentino Valentini, l'europarlamentare Licia Ronzulli e la senatrice Mariarosaria Rossi, ma anche la funzionaria di polizia Giorgia Iafrate, che affidò Ruby a Nicole Minetti, il cantautore Mariano Apicella e diverse delle ragazze che frequentavano le cene di Arcore. I giudici hanno poi disposto la confisca dei beni sequestrati a Karima El Maurogh, in arte Ruby, e al compagno Luca Risso. «Ero veramente convinto che mi assolvessero perché nei fatti non c'era davvero nessuna possibilità di condannarmi. E invece è stata emessa una sentenza incredibile, di una violenza mai vista né sentita prima, per cercare di eliminarmi dalla vita politica di questo Paese». Questo il commento sulla sentenza del tribunale di Milano sul caso Ruby di Silvio Berlusconi, secondo il quale »non è soltanto una pagina di malagiustizia, è un'offesa a tutti quegli italiani che hanno creduto in me e hanno avuto fiducia nel mio impegno per il Paese. Ma io - afferma in una nota il leader del Pdl - ancora una volta, intendo resistere a questa persecuzione perché sono assolutamente innocente e non voglio in nessun modo abbandonare la mia battaglia per fare dell'Italia un paese davvero libero e giusto». La condanna ha immediatamente conquistato l'apertura di tutti i siti dei media internazionali, molti dei quali già ore prima avevano in homepage la notizia dell'imminente verdetto. La Cnn ha fatto una breaking news dal titolo: «Giudici italiani condannano ex premier Berlusconi a sette anni di prigione per sesso con prostitute minori», e ha aperto la sua edizione web anche il Wall Street Journal: «Berlusconi condannato nel processo per sesso a pagamento». Striscioni e cartelli per dire che la legge è uguale per tutti, coccarde tricolori appuntate sulle giacche e nei capelli, e un coro che intonano l'Inno di Mameli e Bella ciao. Questo lo scenario ieri all'esterno del tribunale di Milano. «Una condanna per salvare la dignità dell'Italia» si legge su un cartello e su un altro «La legge è uguale per tutti e siamo tutti uguali davanti alla legge». A portare questi striscioni sono per lo più donne, arrivano da Milano e spiegano che sono venute a festeggiare in quanto sia spettavano la sentenza di condanna almeno per quanto riguardava l'accusa di prostituzione minorile.

Un altro rischio per l'Italia: i derivati (26 giugno 2013).
I derivati ristrutturati all'apice della crisi dell'area euro rischiano di costare all'Italia miliardi di euro di perdite. I contratti originali - riporta il Financial Times citando un documento del Tesoro, trasmesso alla Corte dei Conti - risalgono alla fine degli anni 1990, ovvero al periodo "precedente o subito successivo all'ingresso dell'Italia nell'euro". In quel periodo "Mario Draghi, attuale presidente della Bce, era direttore generale del Tesoro" afferma il Financial Times, sottolineando che il rapporto di 29 pagine non specifica le potenziali perdite dell'Italia sui derivati ristrutturati. Ma tre esperti indipendenti consultati dal quotidiano calcolano le perdite, sulla base dei prezzi di mercato al 20 giugno, a circa 8 miliardi di euro. Il rapporto - mette in evidenza il Financial Times - si riferisce solo alle "transazioni e all'esposizione sul debito nella prima metà del 2012, inclusa la ristrutturazione di otto contratti derivati con banche straniere dal valore nozionale di 31,7 miliardi di euro. Il rapporto lascia fuori dettagli cruciali e non fornisce una quadro completo delle perdite potenziali dell'Italia. Ma gli esperti che lo hanno esaminato - aggiunge il Financial Times - hanno detto che la ristrutturazione ha consentito al Tesoro di scaglionare i pagamenti dovuti alle banche straniere su un periodo più lungo ma, in alcuni casi, a termini più svantaggiosi per l'Italia". Il documento non nomina le banche nè fornisce i dettagli sui contratti originali "ma gli esperti ritengono che risalgano alla fine degli anni 1990. In quel periodo Roma aggiustava i conti con pagamenti in anticipo dalle banche per centrare gli obiettivi di deficit fissati dall'Unione Europea per i primi undici paesi che volevano aderire all'euro. Nel 1995 l'Italia aveva un un deficit di bilancio del 7,7%. Nel 1998, l'anno cruciale per l'approvazione del suo ingresso nell'euro, il deficit si era ridotto al 2,7%". Sul rapporto del Tesoro è intervenuta anche la Guardia di Finanza - riporta il Financial Times -, con perquisizioni lo scorso aprile negli uffici di Via XX Settembre.

Arriva il pacchetto lavoro (26 giugno 2013).
Arriva il pacchetto lavoro del Governo. Il Consiglio dei Ministri ha varato una serie di misure per incentivare l’occupazione per uno stanziamento complessivo di 1,5 miliardi di euro. Confermato anche, per tre mesi, lo stop dell’aumento dell’Iva, che dal prossimo 1 luglio sarebbe dovuta passare al 22% anche se in sede di conversione del decreto, non è escluso un ulteriore rinvio a dicembre. «Deciderà il Parlamento», spiega Enrico Letta. Le coperture, ha garantito il Ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, non comporteranno aggravi per i cittadini. Nel dettaglio, il ventaglio di misure comprende agevolazioni per chi assume giovani tra i 18 e i 29 anni nonché un fondo di 2 milioni per la formazione dei disoccupati oltre i 50 anni di età. L’incentivo per chi assume un dipendente a tempo indeterminato ha un tetto di 650 euro mensili, e corrisponde al 33% della retribuzione mensile lorda per un periodo di 18 mesi. In questo modo, ha spiegato il premier, si punta ad «aiutare l’assunzione di 200 mila giovani italiani con una intensità maggiore nel centro-sud ma con un intervento che riguarda l’intero Paese». Per poter usufruire dell’incentivo, il giovane senza lavoro deve essere privo di impiego da almeno 5 mesi e di un diploma di scuola media superiore o professionale, deve vivere da solo con una o più persone a carico. Non solo, ma in via sperimentale è previsto anche l’arrivo della carta per l’inclusione sociale che nell’obiettivo dell’esecutivo, servirà a combattere la povertà estrema. Gli sgravi prevedono che i soggetti siano privi di impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi, siano privi di un diploma di scuola media superiore o professionale, e vivano soli con una o più persone a carico. Le risorse andranno soprattutto al Sud. I fondi per gli incentivi per nuove assunzioni ammontano infatti per il Mezzogiorno a 100 milioni per il 2013, 150 per il 2014, 150 per il 2015, 100 per il 2016. Per le altre Regioni 48 per il 2013, 98 per il 2014, 98 per il 2015, 50 per il 2016. Il pacchetto lavoro prevede anche incentivi per quegli imprenditori che assumono lavoratori disoccupati in Aspi. L’incentivo alle imprese sarà finanziato con la quota parte dell’Aspi non utilizzato dal lavoratore assunto a tempo indeterminato. Nasce anche la carta per l’inclusione sociale. È un intervento, spiega ancora Letta, dedicato alla lotta contro la povertà estrema, sperimentale, da estendere a tutte le regioni del Mezzogiorno. In arrivo anche provvedimenti per i disabili. «In passato sono stati ridotti i fondi per incentivare l’assunzione di lavoratori disabili. Abbiamo deciso di investire e portare a 22 milioni di euro la cifra di intervento specifico», ha spiegato Letta. Slitta di tre mesi l’aumento dell’Iva dal 21 al 22%, che era previsto dal primo luglio e salta invece a ottobre. Il provvedimento, ha detto Letta, «credo che dimostri la volontà del governo di aiutare l’economia con la dovuta prudenza. Ma in questo momento non è il caso di fare scelte che diano l’impressione di «sfasciare i conti pubblici». Ciononostante, «in Parlamento si verificherà insieme alle commissioni parlamentari la possibilità di un ulteriore differimento dell’aumento dell’Iva». Angelino Alfano ha espresso forte soddisfazione. «Altri due gol segnati dal governo su tasse e lavoro». E sull’Iva il segretario Pdl frena i “falchi” del partito: «Il fatto è che il 1 luglio doveva aumentare una tassa e questa tassa non aumenterà più. L’obiezione sarà, solo per tre mesi. Ma il Parlamento può aumentare questo termine». Ma Renato Brunetta, capogruppo alla Camera del partito guidato dal vicepremier, la vede in modo del tutto diverso e avverte che «quando un governo trova soluzioni così deboli rischia di cadere». «Vogliamo vedere le coperture relative ai provvedimenti». Letta è ottimista. «Adesso siamo nella fase più complicata, una sorta di Gran Premio della montagna, perché i conti sono quelli di quest’anno», ma alla fine del 2013, e grazie anche all’uscita dell’Italia dalla procedura di deficit eccessivo, «ci sarà la pianura e l’anno prossimo la discesa quando imposteremo la legge di Stabilità del 2014». L’accordo con Berlusconi arrivato ieri è stato tradotto in atti concreti dal Consiglio dei ministri di oggi, anche se il dossier Iva continua a essere fonte di tensione nella maggioranza e, specialmente, nel Pdl. A ogni modo, prosegue senza sostanziali intoppi la marcia di avvicinamento di Enrico Letta verso un Consiglio Ue nel quale, a quanto si direbbe dai toni usati anche ieri alla Camera, se non «batterà i pugni» sul tavolo, come molti gli chiedono da tempo, davvero poco manca. «Puntiamo a dare un colpo duro alla piaga della disoccupazione giovanile», garantisce il presidente del Consiglio aggredendo così un’emergenza nazionale ma anche il tema sul quale per primo ha chiesto all’Europa di schierarsi e di passare dalle parole ai fatti. Certo Letta non si nasconde che «in giorni così complicati, la crisi internazionale è ancora lì e ci obbliga alla prudenza. A volte - raccomanda - serve il coraggio della prudenza e non solo quello dell’azione». Ed è Guglielmo Epifani a dire a Silvio Berlusconi che «bisogna far le cose per dare una mano al Paese ancora dentro al tunnel» della crisi, non invece perché «ci sono altre questioni attinenti ai problemi dei processi di Berlusconi». E dunque quelle di Berlusconi a Letta sulla tenuta del governo «non possono essere rassicurazioni di un giorno, perché c’è bisogno di una stabilità di almeno un paio d’anni». Intanto arrtiva il plauso dei sindacati. Per Susanna Camusso, segretario generale della Cgil «È positivo che il provvedimento degli incentivi si rivolga ad assunzioni a tempo indeterminato, a trasformazioni di contratti precari in contratti a tempo indeterminato, quindi questo è sicuramente un segnale positivo». Inoltre «aumentare l’Iva sarebbe un errore perché in un Paese che ha bisogno di aumentare i consumi e di rilanciare la domanda, non si possono fare interventi che contrastino questa opportunità». Anche il numero uno della Uil Angeletti plaudeo: «Il decreto sul lavoro è un primo passo». Anche Raffaele Bonanni (Cisl) parla di «primo segnale positivo».

ECOFIN su fallimento banche (27 giugno 2013).
I 27 ministri delle Finanze dell'Unione hanno trovato un accordo sulle regole da applicare in occasione della ristrutturazione o della liquidazione di una banca in crisi. L'intesa prevede che in un primo tempo azionisti, obbligazionisti e depositanti - non la mano pubblica - siano messi a contribuzione. Il compromesso dà ai governi nazionali una certa flessibilità nell'adottare le norme europee, in modo da adattarsi ai diversi mercati locali. Secondo l'accordo, gli investitori dovranno subire una perdita dell'8% degli attivi dell'istituto di credito prima che il governo possa intervenire con il denaro pubblico per aiutare una banca in difficoltà. L'uso di un eventuale fondo statale di liquidazione bancaria sarà limitato al 5% degli attivi, mentre l'uso del Meccanismo europeo di stabilità (Esm) sarà possibile solo in precise circostanze. Nel contempo, i governi dovranno creare fondi di liquidazione bancari pari allo 0,8% del totale dei depositi garantiti. L'accordo tra i ministri delle Finanze dell'Unione è stato particolarmente difficile da trovare perché due filosofie molto diverse si sono affrontate in queste settimane. Da un lato, alcuni paesi volevano difendere l'omogeneità del mercato unico, come la Germania o l'Olanda. Dall'altro, alcuni stati membri volevano dotarsi di strumenti adatti alle specificità nazionali, come la Francia o l'Italia o anche la Spagna. La Svezia ha strappato concessioni straordinarie. Secondo l'intesa, il governo svedese potrà mettere a contribuzione in un primo tempo il 20% degli attivi ponderati per il rischio anziché l'8% degli attivi. Nel contempo, il fondo di liquidazione svedese sarà finanziato dal 3% dei depositi garantiti (e non dell'0,8 % come per gli altri paesi). Alcuni diplomatici sostengono che dietro alla posizione tedesca ci sia stato anche il timore di creare regole troppo lasche che potessero consentire ai paesi in difficoltà di chiedere più rapidamente del necessario l'aiuto dell'Esm. Si capirà col tempo se l'equilibrio tra regole armonizzate e flessibilità nazionali preserverà la libera concorrenza e il mercato unico. Le regole, che dovranno ora essere approvate dal Parlamento europeo, devono entrare in vigore entro il 2018. L'accordo prevede un ordine nel contributo degli investitori alla liquidazione bancaria: prima gli azionisti, poi gli obbligazionisti meno garantiti, poi quelli più garantiti, i depositi delle grandi imprese e infine i depositi non garantiti di oltre 100mila euro. Si tratta di un "buon compromesso", ha commentato il ministro dell'Economia italiano Fabrizio Saccomanni che ha partecipato alle trattative. L'accordo "contribuisce a spezzare il circolo vizioso tra rischio sovrano e rischio bancario". E ancora: "Abbiamo costruito un sistema di tutela dei risparmiatori che combina un quadro armonizzato con la flessibilità necessaria a tener conto delle specificità nazionali». I depositi di meno di 100mila euro saranno salvaguardati. Il ministro delle Finanze olandese e presidente dell'Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem ha parlato di "cambiamento importante" perché "passeremo dal denaro pubblico, quello dei contribuenti, al denaro del settore finanziario, che sarà chiamato a risolvere i propri problemi". All'inizio dell'anno, Dijsselbloem era stato aspramente criticato per aver spiegato che la ristrutturazione del sistema bancario cipriota, con perdite del settore privato, sarebbe stato un modello per il futuro. L'accordo raggiunto a qualche ora dall'inizio di un nuovo vertice dei capi di stato e di governo dell'Unione, è un aspetto cruciale del tentativo europeo di darsi un assetto comune in campo bancario. Giunge dopo che i 27 hanno deciso di trasferire la vigilanza creditizia dagli stati membri alla Banca centrale europea. Nelle prossime settimane, la Commissione dovrà presentare un progetto di autorità di liquidazione bancaria e regole su uno schema comune di garanzia dei depositi.

UE: fondi contro la disoccupazione giovanile (28 giugno 2013).
I 27 Paesi dell'Unione hanno approvato a Bruxelles un pacchetto di sostegno all'economia che prevede otto miliardi di euro a favore dell'occupazione giovanile (non più i sei previsti). I governi hanno anche discusso nuove misure per aiutare il rifinanziamento delle piccole e medie imprese. L'accordo è giunto dopo un inatteso round negoziale sul bilancio comunitario 2014-2020, che ha provocato incertezza fino all'ultimo secondo. Per lottare contro la disoccupazione giovanile, i governi hanno dato il loro benestare a otto miliardi di euro nei prossimi sette anni, di cui sei nel solo biennio 2014-2015, in modo da offrire alle persone con meno di 25 anni un lavoro, uno stage o un periodo di apprendistato entro quattro mesi dalla fine degli studi o dalla perdita del lavoro. La strategia è una risposta all'elevata disoccupazione di alcune regioni europee e all'emergere di partiti estremisti in numerosi paesi dell'Unione. «Abbiamo preso anche altre decisioni – ha detto il presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy –. Per esempio: la promozione della mobilità transfrontaliera, anche nel settore della formazione o dell'apprendistato di alta qualità. Queste misure riduranno gli ostacoli, dando prospettive a centinaia di migliaia di giovani». Le politiche per l'occupazione sono tendenzialmente nazionali. C'è il tentativo di dare loro una valenza europea. I 27 capi di Stato e di governo hanno anche discusso dei modi per aiutare il rifinanziamento delle piccole e medie imprese, in grave difficoltà nel recuperare denaro sui mercati finanziari e agli sportelli bancari. La Commissione e la Banca europea per gli investimenti (Bei) hanno presentato un rapporto, mettendo sul tavolo tre diverse opzioni, che prevedono cartolarizzazione dei prestiti e leva finanziaria fino a creare un paracadute da 100 miliardi di euro. «Le ultime 24 ore sono state un successo», ha detto il presidente della Commissione José Manuel Barroso durante una conferenza stampa. Il benestare dei 27 alle misure economiche è giunto dopo un incredibile e inatteso round negoziale. Nella mattinata di giovedì Parlamento, Consiglio e Commissione avevano trovato finalmente un'intesa sul bilancio comunitario 2014-2020, già approvato dai governi in febbraio ma che necessitava del benestare anche parlamentare. Le richieste del Parlamento per dare il suo accordo – più flessibilità nel gestire gli ammontari tra una posta e l'altra – hanno provocato le incertezze della Gran Bretagna che ha voluto essere sicura che nulla sarebbe cambiato nella sostanza, soprattutto per quanto riguarda lo sconto di cui gode Londra. Ieri sera i diplomatici dei 27 hanno verificato numeri alla mano che le cifre non venissero modificate, creando incertezze sull'esito finale del vertice.

Sale il tasso di disoccupazione (1 luglio 2013).
In Italia il tasso di disoccupazione a maggio si attesta al 12,2%, in aumento di 0,2 punti percentuali rispetto a aprile e di 1,8 punti nei dodici mesi. Si tratta del massimo storico dal 1977. Lo rileva l'Istat. Analoga tendenza in Europa: nuovo aumento e nuovo massimo storico del tasso di disoccupazione medio nell'area euro: a maggio ha raggiunto il 12,1 per cento, dal 12 per cento di aprile, e secondo Eurostat in un mese si sono contati 67 mila disoccupati in più. Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni è sceso al 38,5%, in diminuzione di 1,3 punti percentuali rispetto ad aprile e in aumento di 2,9 punti su base annua. Secondo le stime dell'Istat sono in cerca di lavoro 647mila under 25, pari al 10,7% della popolazione di questa fascia d'età. Il numero di individui inattivi tra i 15 e i 64 anni diminuisce dello 0,2% rispetto al mese precedente (-35 mila unità) e dello 0,9 % rispetto a 12 mesi prima (-127 mila). Il tasso di inattività si attesta al 36,1%, in diminuzione di 0,1 punti percentuali in termini congiunturali e di 0,3 punti su base annua. A maggio l'occupazione maschile cala dello 0,4% in termini congiunturali e del 2,5% su base annua. L'occupazione femminile cresce dello 0,3% rispetto al mese precedente e cala dello 0,6% nei dodici mesi. «Il fatto che il tasso di disoccupazione continua a crescere - è il commento del ministro del Lavoro Enrico Giovannini a margine dell'assemblea generale di Federculture - testimonia ancora una volta la gravità della crisi. La ripresa non é ancora iniziata. Tutti gli indicatori ci indicano che potrebbe riprendere nel corso dell'autunno».

Merkel e la disoccupazione (3 luglio 2013).
La lotta alla disoccupazione, soprattutto quella giovanile, sbarca a Berlino. «Non ci deve essere una generazione perduta», spiega in un’intervista a sei quotidiani europei, la cancelliera Angela Merkel, che ospitera il Summit, definendo la situazione dei giovani «insostenibile» in un continente che invecchia. La riunione di Berlino si svolge a meno di una settimana dal Vertice Ue che ha “liberato” otto miliardi (nove secondo le previsioni più ottimistiche) per ridare futuro alla nuova generazione. Presente la politica - con circa 20 premier e capi di stato - ma anche i tecnici, tra ministri del lavoro e responsabili delle agenzie per l’occupazione. Oggi si farà il punto non solo su come e quali strumenti mettere in campo per capitalizzare e trasformare quei fondi Ue in un volano per il lavoro e per la crescita, ma anche per rilanciare l’azione e le `mosse´ europee per il prossimo futuro. Un flagello, come più volte gli stessi leader hanno bollato l’emergenza lavoro, che solo ieri ha mostrato ancora una volta i numeri della sua gravità: con un’eurozona dove il 12,1% è senza lavoro e il 23,8% dei giovani disoccupati. E l’Italia che per la prima volta si è portata sopra alla media di Eurolandia (al 12,2%) e vede il 38,5% (cifra seppur in lieve calo) dei suoi giovani senza posto. Il nostro paese schiera non solo il ministro del lavoro, Enrico Giovannini, ma anche lo stesso premier Enrico Letta che - di ritorno dal tour in Medio Oriente ed in un momento delicato sul fronte politico interno - a Berlino è pronto a continuare la sua azione di stimolo. Letta vola in Germania certamente soddisfatto, dopo i risultati già incassati a Bruxelles e al G8 sul tema lavoro, nel vedere che la sua priorità, la lotta alla disoccupazione, ha visto l’appuntamento di Berlino, previsto a livello “tecnico” (responsabili del Lavoro e delle agenzie) salire di livello, attraendo una ventina tra colleghi e capi di stato Ue. Per un giro di tavolo che dovrà servire - è l’auspicio di Roma - non solo a individuare, attraverso le varie esperienze nazionali - gli strumenti da mettere in campo ma anche per continuare a spronare l’azione Ue con politiche comuni. La Merkel propone di prendere spunto dal modello tedesco in quanto «dopo la riunificazione abbiamo maturato le nostre esperienze riuscendo a ridurre la disoccupazione con riforme strutturali, ora possiamo mettere a disposizione queste esperienze». La Germania propone di mettere a punto una “road map”, con un bilanciamento tra austerità e crescita, e con il rilancio del lavoro giovanile in primo piano. Al Vertice sono attesi tra gli altri, anche il presidente francese Francois Hollande, e i vertici Ue, Herman Van Rompuy e José Manuel Barroso. L’obiettivo è di consolidare il risultato del Consiglio europeo di fine giugno e rilanciare nuove politiche comuni. Le risorse, 6 miliardi nel prossimo biennio di cui 1,5 all’Italia, sono state al centro dell’ultimo vertice Ue per sostenere rapidamente i sei milioni di giovani europei disoccupati: una potenza di fuoco che molti giudicano insufficiente, che potrebbe arrivare a 9 miliardi (portando la quota per l’Italia a 1,5 miliardi di euro) liberando risorse grazie all’attesa, e sperata, flessibilità di bilancio. Una nuova partita del campionato per il lavoro, quella che si gioca oggi a Berlino, cui anche la Merkel scende in campo con una doppia maglia: quella europea e quella interna in vista dell’appuntamento elettorale che la vedrà andare alle urne a settembre.

Rivoluzione alla BCE (4 aprile 2013).
Rivoluzione alla Banca centrale europea. Dopo aver insistito dalla sua nascita, sia sotto la presidenza Trichet sia sotto quella di Mario Draghi che «non prende impegni precostituiti» in materia di tassi d'interesse, la Bce ha annunciato ieri il contrario: e cioè che «prevede che i tassi rimarranno agli attuali livelli, o anche più bassi, per un lungo periodo di tempo». In inglese si chiama "forward guidance", in italiano gli esperti della Bce le definiscono "indicazioni sul futuro della politica monetaria". In questo, l'Eurotower segue l'esempio dell'americana Federal Reserve, che ha dichiarato che non alzerà i tassi se non quando la disoccupazione scenderà sotto il 6,5%, e agisce in contemporanea con la Bank of England, che oggi stesso, alla prima riunione presieduta dal nuovo governatore Mark Carney ha a sua volta adottato una "forward guidance". Draghi è stato decisamente più vago, ma ha fatto un importante riferimento, oltre all'inflazione, finora l'unica stella polare della Bce, anche all'andamento dell'economia reale, che resta debole, e alle condizioni monetarie e del credito, tuttora bloccato in diversi Paesi dell'eurozona. Non ha precisato neanche per quanto tempo valgano queste indicazioni. Intanto però ha mandato un segnale preciso che, pur senza abbassare per il momento i tassi, la Bce non intende subire passivamente il rialzo dei rendimenti del mercato monetario provocato dall'annuncio della Fed che, prima o poi, si muoverà gradualmente (tapering) verso una politica più restrittiva: Draghi naturalmente ha sostenuto che la Bce agisce in autonomia e non in risposta alle altre banche centrali, ma ha fatto capire che non opera in un vuoto e si muove senza preconcetti. Anche il livello attuale dello 0,50% del principale tasso di rifinanziamento e lo 0 dei depositi delle banche presso la Bce stessa non vanno considerati un pavimento inviolabile. Infine, sulla decisione di adottare queste indicazioni prospettiche, il consiglio si è pronunciato all'unanimità. Anche la Bundesbank, quindi, per una volta, è allineata. Ed è già un risultato importante dopo le polemiche di questi mesi.

Rapporto FMI sull'Italia (5 luglio 2013).
La ripresa economica in Italia dovrebbe iniziare «a tardo 2013», secondo il Fondo monetario internazionale, sostenuta dalle esportazioni e da un'inversione sul ciclo degli investimenti. Tuttavia, nel documento diffuso al termine della missione in Italia - rapporto sull'Italia ex articolo IV - il Fmi avverte che i rischi su queste prospettive restano orientati al ribasso. L'Italia registrerà nel 2013 un Pil negativo pari a -1,8%, mentre tornerà a crescere dello 0,7% nel 2014. L'istituzione di Washington, soprattutto, si schiera contro la cancellazione dell'Imu sulla prima casa. «La tassa sulla proprietà sulla prima casa dovrebbe essere mantenuta per ragioni di equità ed efficienza e la revisione dei valori catastali accelerata per assicurare l'equità». Certamente - ha detto il ministro dell'Economia Fabrizio Saccomanni nella conferenza stampa indetta dopo la pubblicazione del report - «terremo conto dell'opinione del Fondo Monetario Internazionale sul tema Imu che, per altro, era nota ex ante e l'obiettivo è di trovare il consenso all'interno della coalizione. Stiamo lavorando su questa linea». Sul parere negativo dell'Fmi relativo a un intervento sull'Imu si è espresso il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi: «Penso che sull'Imu ci sia la possibilità di intervenire, non ho sentito negatività particolari - ha affermato il leader degli industriali -, credo che in termini economici sia più difficile l'intervento sull'Iva». Il ministro Saccomanni ha commentato le indicazioni del Fmi relative alla ripresa economica italiana «tra fine 2013 e inizio 2014». «L'Fmi ha riconosciuto i progressi dell'Italia su conti pubblici e misure anticrisi - ha detto Saccomanni -. Ha riconosciuto che il sistema ha retto bene all'impatto della crisi ed è stato in grado di fronteggiare le sfide che rimangono di fronte». Rimane il nodo lavoro: la disoccupazione, osservano i tecnici del Fondo monetario internazionale, è a livelli inaccettabili. L'Italia - è il messaggio - deve adottare un nuovo contratto di lavoro, unico e più flessibile, per i nuovi assunti. La crescita passa soprattutto dalle riforme. «Accelerare il passo delle riforme - si sottolinea nel report del Fmi - sarà essenziale per rilanciare la crescita e creare posti di lavoro». «Le difficili riforme erano necessarie - spiega l'Fmi - per ripristinare la fiducia e allontanare l'Italia dall'orlo del precipizio». L'Fmi ha tagliato dal -1,5% al -1,8% le stime sul Pil italiano del 2013. Ha invece alzato quelle per il 2014 dal +0,5% al +0,7%. «La ripresa è attesa a fine 2013, sostenuta dall'export e da una modesto miglioramento degli investimenti», si legge nell'Article IV sull'Italia. Gli esperti del Fmi segnalano che l'economia italiana sta mostrando «segnali di stabilizzazione ma rimangono forti venti contrari a frenare la ripresa. La fiducia delle imprese e delle famiglie é risalita ma non ha ancora avuto un effetto positivo sull'andamento delle attività e sull'impiego. E se le pressioni sul debito sovrano e il passo del consolidamento fiscale quest'anno si sono attenuati, le condizioni finanziarie rimangono difficili tenendo a freno le spese private». Secondo il Fondo, le autorità «dalla fine del 2011 hanno adottato misure coraggiose per rafforzare le finanze pubbliche e trasformare l'economia» e queste riforme erano «necessarie per ristorare la fiducia e allontanare l'Italia dall'orlo del baratro». Le prospettive di crescita tuttavia «rimangono deboli, la disoccupazione é su livelli inaccettabili e la fiducia dei mercati é ancora fragile, a indicare come il compito sia ben lungi dall'essere terminato». Il nuovo governo - si legge ancora nel report - ha adottato misure per rafforzare i successi già ottenuti nell'affrontare i problemi strutturali dell'Italia e ora «sarà essenziale accelerare il passo delle riforme per ridare slancio alla crescita e creare posti di lavoro». Anche l'Europa, sottolinea il Fondo, dovrà svolgere il proprio compito con azioni volte a risolvere la frammentazione dei mercati e rafforzare ulteriormente l'Unione monetaria. ''Su Imu prima casa intollerabile interferenza del Fmi. Si facciano gli affari loro". Lo scrive su Twitter Maurizio Gasparri (Pdl), vicepresidente del Senato". Non siamo assolutamente d'accordo con la posizione del Fondo monetario internazionale in relazione all'Imu sulla prima casa. Proprio per ragioni di equità, e anche per potenziare la domanda, riteniamo che debba essere abolita". Lo dice Fabrizio Cicchitto (Pdl) aggiungendo che "oggi il premier Letta non ha nascosto le difficoltà sul reperimento delle risorse anche riguardo al blocco dell'aumento dell'Iva, ma siamo certi che alla fine riusciremo a trovarle dai tagli alla spesa pubblica". Considerando che l'Italia è uno dei paesi a più alta tassazione del mondo sembra sospetto questo attacco del fmi all'eliminazione dell'Imu sulla prima casa. Non vorrei che ci fosse lo zampino di qualcuno del precedente governo ... un suggeritore occulto.

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Eugenio Caruso



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