Il sovrano si rivolge al mercante e con atteggiamento benevolo e disponibile gli chiede: «Che cosa posso fare per voi?» Il mercante risponde:
«Maestà, dateci buona moneta e strade sicure, al resto pensiamo noi»
Kant
1. Premessa
C'è stato un tempo in cui le obbligazioni erano scritte in genovese, i banchieri internazionali parlavano toscano, gli assicuratori veneziano, le monete più solide erano il ducato veneziano, il fiorino emesso dalla zecca di Firenze e il genovino. Era il tempo in cui gli italiani insegnavano al resto del mondo come accedere al credito senza incorrere nei fulmini ecclesiastici sull'usura, come consolidare il debito pubblico, come far fruttare i risparmi e come evitare di farsi rovinare da un naufragio. Era il tempo in cui il fallimento di una banca gettava sul lastrico centinaia di famiglie; in cui gli italiani – chiamati indistintamente lombardi e considerati usurai – incorrevano nelle ire dei re e nell'indignazione dei popoli, pesante fardello che sarebbe in seguito passato sulle spalle degli ebrei. Era la fine del Medioevo e l'inizio dell'Età moderna, quando i banchieri per lasciare ai posteri un buon ricordo di sé finanziavano i più illustri artisti della loro epoca: gli Scrovegni chiamano Giotto a Padova, come faranno vent'anni più tardi i Bardi e i Peruzzi nella fiorentina basilica di Santa Croce, e i Medici trasformano Firenze uno dei più importanti scrigni d'arte dell'umanità intera. L'Italia dà alla finanza moderna quasi tutti gli strumenti di cui ancora oggi ci serviamo: l'assegno, la girata, la cambiale, la lettera di cambio, lo scoperto, le obbligazioni, l’assicurazione, la riassicurazione e, passando per la @ di internet, la partita doppia, codificata da Luca Pacioli nel suo Summa de aritmetica del 1494, un geniale matematico francescano amico di Leonardo da Vinci, per non parlare di un altro matematico, Fibonacci che, nel 1202 col suo Liber abaci fa conoscere all’Europa lo zero e la numerazione araba. La partita doppia figura, peraltro, già in un documento genovese del 1340 e rappresenta per l’economia quello che il sistema copernicano significa in astronomia.
Genova, Lucca, Siena, Firenze, Venezia e poi ancora Genova sono queste le tappe dell'evoluzione bancaria. Non per nulla le banche più antiche del mondo sono il Monte dei Paschi di Siena (fondato nel 1472) e la banca Carige che affonda le sue radici nel Monte di pietà di Genova aperto nel 1483. I genovesi, forse i più geniali di tutti, danno il là a procedure che saranno in seguito sviluppate dagli altri.
2. La moneta
Sul finire della Repubblica romana e durante tutto l’Impero il sesterzio era la moneta (nome derivato da Giunone Moneta) più diffusa in Europa e in Asia. Durante la Repubblica il sesterzio era una moneta d'argento, e veniva coniata sporadicamente. Con la riforma monetaria di Augusto il sesterzio divenne una moneta di grandi dimensioni e d'oricalco (una lega simile all'ottone, di color giallo oro). Il sesterzio rappresentò meglio di ogni altra tipologia monetale romana la grande capacità artistica e interpretativa degli incisori, livelli che non vennero mai più raggiunti fino all'avvento del conio industriale. I sesterzi rappresentavano, anche, un formidabile mezzo di propaganda e informazione (ad esempio, le provincie più lontane potevano conoscere il nome del nuovo imperatore o nuove vittorie dell'impero proprio dal conio dei nuovi sesterzi), questo in virtù della qualità del conio, delle notevoli dimensioni e della sua grande diffusione.
Con la fine dell’Impero la moneta scompare; nel medioevo non se ne sente il bisogno, per procurarsi beni si usa il baratto anche se i grandi mercanti internazionali usano il mancuso (o dinar) arabo o l’iperbero (o nomisma o bisante) bizantino che hanno una circolazione scarsa di numero ma molto estesa nello spazio. Questa situazione dura fino a quando appaiono nel tessuto sociale europeo commercianti e artigiani per i quali il baratto risulta assolutamente inefficace. Così Carlo Magno tra il 781 e il 794 decide di coniare una moneta che inizia a circolare nel suo vastissimo impero; nasce cosi il denaro (deriva dal nunnus denarius romano equivalente a 10 assi o 4 sesterzi); con una libbra di argento si coniavano 240 denari e la gente cominciò a chiamare lira, appunto da libbra, i 240 denari. Per comodità viene creato un sottomultiplo fittizio della lira il soldo (dal latino solidus) che equivale a 12 denari cosicché 1lira=20 soldi=240 denari. Agli albori dell’anno mille l’Italia settentrionale è l’area economica più sviluppata d’Europa e le zecche di Milano, Pavia, Verona e Lucca forniscono i denari necessari a far girare l’economia europea. Ma con il passare degli anni gli stati post carolingi consentono alle proprie zecche di introdurre nel denaro quantità sempre minori di argento cosicché il denaro lentamente si svaluta e i vari stati scoprono il principio della svalutazione competitiva, che in Europa durerà fino alla nascita dell’euro. Tra il X e il XII secolo nasce in Italia la borghesia; sono gli anni in cui Amalfi, Pisa, Genova, Firenze e Venezia si impongono come empori internazionali. Il denaro carolingio non risponde alle esigenze dei nuovi commerci e ciascuna città comincia a battere moneta propria. Inizia Genova con un proprio denaro nel 1138, nel 1184 Venezia fa battere alla zecca di Verona un proprio conio e successivamente Firenze apre una propria zecca per produrre moneta. Ma il denaro anche se mantenuto con il corretto quantitativo di argento è inadeguato per pagare merci preziose o grandi quantitativi di mercanzie; Genova e Venezia, quasi contemporaneamente, coniano il grosso una moneta d’argento quasi puro; il grosso genovese pesa un grammo e mezzo, quello veneziano due grammi. Il grosso entusiasma i mercanti di tutta Europa, pertanto lentamente ogni zecca europea inizia a coniare il proprio grosso. La nuova moneta non è adatta per un uso quotidiano così a Venezia si conia l’obolo che equivale a mezzo denaro; l’obolo per distinguerlo dal grosso inizia ad essere chiamato piccolo, nome che è rimasto tutt’oggi in Sicilia dove i soldi sono chiamati piccioli.
Nel 1252 Genova conia una moneta d’oro, il genovino, qualche mese dopo Firenze conia il fiorino; entrambe le monete pesano tre grammi e mezzo e hanno un titolo di 950 millesimi. Termina, così, il periodo del monometallismo monetario inaugurato da Carlo Magno quattro secoli prima. Nel 1284 anche Venezia avvia la coniazione aurea con il ducato, moneta che nasce “tam bona e fina quanto il fiorino”. Il ducato conquista la fiducia dei mercanti d’Europa e specialmente del medio oriente e dell’Asia e la manterrà inalterata per secoli. L’intervallo di tempo che va dalla fine dell’Impero romano fino all’era napoleonica è coperto tra l’una e l’altra, principalmente, da due sole monete d’oro, prima dal bisante dei bizantini e poi dal ducato dei veneziani. Nel 1544 il ducato prende il nome di zecchino con una purezza di 997 millesimi (da cui l’espressione di oro zecchino). Il nuovo conio ha una tale successo che la zecca realizza sacchetti sigillati di zecchini che restano intatti nel tempo come se fossero appena coniati. Tutte le zecche d’Europa e alcune zecche orientali coniano monete auree ricalcanti o il ducato o il fiorino. Presto non è più solo il metallo a costituire una merce ma lo diventa anche la moneta e quando la moneta si trasforma in merce il mercante diventa banchiere.
3. I banchieri
Il percorso che porta alla nascita del credito passa attraverso la costituzione di società tra mercanti. La più antica di cui si abbia notizia risale all’829 e vi partecipa il doge di Venezia, Giustiniano Partecipazio, il primo gentiluomo e proprietario terriero che abbia investito parte delle sue ricchezze in attività speculative sul mare. A quel tempo i soci erano chiamati “compagni” da cui si fa derivare il termine inglese di company. A Genova, invece, questo tipo di commenda viene chiamata societas antesignano della moderna Spa.
A quei tempi il maneggio del denaro avviene sopra un banco da cui derivano i termini di banca e di banchiere. Nel XIV secolo si trova spesso l’espressione bancum est ruptum per indicare il fallimento del banco da cui la parola bancarotta. L’attività bancaria moderna vede la luce tra Lucca, Siena, Roma e Genova all’inizio del XII secolo; nel trecento e quattrocento prevale Firenze, mentre nel cinquecento e seicento la palma torna a Genova. Nel XVI secolo la finanza esce dall’Italia e si trasferisce progressivamente a Bruges, Anversa, Amsterdam e Londra.
Un personaggio fondamentale per la nascita della finanza è il cambiavalute; nelle città italiane circolano monete dei vari stati con concentrazioni di metalli preziosi variabili da moneta a moneta e solo i cambiavalute conoscono i loro rapporti di cambio. E’ oggetto di disputa tra specialisti se nasca prima il banchiere o il cambiavalute, fatto sta che, nel 1150, Genova appalta “il diritto di cambiare moneta, per ventinove anni, a un consorzio di banchieri locali”; è il primo documento conosciuto che parli di banche e banchieri. Gran parte delle transazioni tra banchieri e mercanti avviene sulla parola e il nome di banchiere è sinonimo di onestà e affidabilità; banchiere è la persona cui si dà creditum da cui l’accezione moderna di credito.
La prima famiglia di grandi banchieri fu quella dei Pierleoni. Il personaggio che dette l'avvio all'ascesa della famiglia fu, nel decimo secolo, il banchiere ebreo Baruch (Benedetto) che si accattivò la protezione papale fornendo alla Santa Sede cospicui aiuti finanziarî. Battezzato in seguito, col nome di Benedetto Cristiano lasciò l’attività al figlio Leone. Questi continuò per la via tracciata dal padre e si mantenne fedele alla Santa Sede. Da lui nacque Pietro (Petrus Leonis, onde il cognome della famiglia), che morì tra il 1124 e il 1130, lasciando dieci figli, tra cui Pietro (poi antipapa Anacleto II). L'aumento della loro potenza suscitò l'ostilità delle altre famiglie romane, in particolare dei Frangipane, che cercarono in ogni modo di ostacolarne l'ascesa, nonostante fossero a essi imparentati. Va ricordato l'atteggiamento indipendente di Giordano Pierleoni che, in occasione della rivolta popolare del 1143, si dimostrò sostenitore del popolo e giunse persino a percuotere papa Lucio II. Nel quattordicesimo secolo l'influenza dei Pierleoni scemò benché vari suoi membri continuassero a occupare cariche pubbliche.
Una famosa famiglia di banchieri senesi fu quella dei Chigi. Si ritiene che discendesse da un ramo dei conti dell'Ardenghesca, signori di Macereto nel contado senese. I documenti la presentano nel XIII secolo in Siena, dove la famiglia, che era di banchieri, acquistò nobiltà nel 1377 e tenne pubblici uffici. Nel XV secolo, la famiglia si divise nei due rami di Mariano e di Benedetto. Mariano (1439-1504) fu un banchiere famoso, ricostruì il palazzo di Via del Casato in Siena, commise al Perugino la celebre tavola del Crocifisso per l'altare della famiglia in S. Agostino; Sigimondo (1479-1525), suo figlio, genero di Pandolfo Petrucci e persona autorevole a Siena, adornò il palazzo con i dipinti del Sodoma ed eresse la principesca Villa delle Volte. Ma più famoso fu un altro dei figlio di Mariano, Agostino il Magnifico, nato circa il 1465, morto a Roma nel 1520. Appaltatore di saline e dell'allume della Tolfa, tesoriere della Chiesa, dalla sua casa di Roma annodò relazioni commerciali con tutta l'Europa: ebbe ventimila dipendenti, raccolse una sostanza che si disse salire a 800.000 ducati, porse aiuto alle imprese guerresche di Cesare Borgia, all'esiliato Cosimo dei Medici, alle prodigalità di Leone X. Dai Senesi ebbe in dono Portercole (1507). Spiegò uno sfarzo non mai veduto; ma fu amico di letterati, del Bembo, del Giovio, dell'Aretino; aprì una tipografia che diede alle stampr il Pindaro, primo libro greco stampato in Roma (1515); commise a Raffaello e al Sodoma la decorazione della celebre villa fuori di porta Settimiana, che, acquistata nel 1579 dai Farnese, ha il nome di Farnesina; fece decorare da Raffaello la cappella di S. Maria della Pace, e ancora da Raffaello fece disegnare e da lui e da Sebastiano del Piombo dipingere la cappella di S. Maria del Popolo, dove fu sepolto. Decaduto questo ramo della famiglia; il banco fu chiuso (1528). Giova notare che l'attuale Palazzo Chigi prende il nome proprio dalla omonima famiglia.
Orlando Bonsignori (si ha notizia della sua morte nel 1273) è stato un banchiere che occupa fra i banchieri del duecento e non solo senesi, una posizione apicale, sia per l'enorme patrimonio finanziario costruito ed investito, sia per le valenze politiche che la sua attività aveva sviluppato; la sua banca diventa la banca dei papi ed è spesso confrontata allo Ior di oggi. Orlando è un banchiere a tutto tondo e la sua banca, la Gran Tavola, può essere considerata l'antesignana della banca universale. Dopo la morte di Orlando, le redini della banca passano in mano al figlio Fazio, ma la spietata concorrenza dei nuovi banchieri fiorentini e l'incapacità degli eredi di mantenere le relazioni con cui Orlando aveva accresciuto il suo prestigio personale, portano la Gran Tavola verso un progressivo fallimento. Il fallimento dei Bonsignori trascina anche la potentissima compagnia dei Ricciardi di Lucca che era arrivata ad essere una delle più importanti società mercantili e bancarie del duecento.
L’influenza dei banchieri lucchesi prosegue con la famiglia Rapondi. Essa, già dalla fine del tredicesimo secolo aveva relazioni commerciali con le Fiandre, rese più frequenti e proficue quando la Società dei Rapondi, vendendo i manufatti serici di Lucca e acquistando gioielli, oreficerie, codici e opere d'arte fiamminga, poté esercitare anche il cambio e il prestito ed assumere uffici finanziari, appalti e forniture per i duchi di Borgogna, e per le corti di Parigi e d'Avignone. Il centro degli affari di questa compagnia, in continua relazione con le principali famiglie lucchesi dei Guinigi, dei Cenami e dei Buonvisi, fu Bruges. Dino Rapondi è la figura rappresentativa del mercante e del finanziere lucchese, per la varietà e la molteplicità degli affari economici, per l'autorità delle funzioni pubbliche nel governo della Fiandra, per gli avvenimenti politici da cui trasse profitto per costruire la sua fortuna e ostentare il lusso del suo hôtel di Parigi, sulla strada della Vieille-Monnaie. Partecipò, come consigliere delle finanze, alle vicende della famiglia di Borgogna, alle trattative di matrimonio tra Filippo l'Ardito e Margherita di Fiandra, al riscatto di Giovanni, loro figlio, dopo la disfatta di Nicopoli. Il ramo dei Rapondi, che ottenne da Carlo IV imperatore il titolo comitale palatino, prese parte, fino quasi al termine della repubblica di Lucca, agli avvenimenti cittadini, ricoprendo le prime cariche pubbliche. Con la fine dei Rapondi Lucca esce dal palcoscenico europeo.
In campo bancario Genova non sta ferma e vede rifulgere l’astro del piacentino Guglielmo Leccacorvo; il suo banco, da un documento del 1244, è il primo che possa definirsi moderno (per esempio consente scoperti di conto), ma la sua fortuna derivò dall’essersi legato alla famiglia dei Fieschi, onnipotente a Genova, e quando Sinibaldo Fieschi diventa papa col nome di Innocenzo IV i rapporti si fecero ancora più stretti. Il banco Leccacorvo fallisce nel 1259 dopo la morte di Guglielmo. La bancarotta fu figlia dei drammatici avvenimenti politici che sconvolsero Genova in quegli anni, proprio mentre il banco era in fase di espansione. Alcuni storici affermano che alla morte di Guglielmo si scatenò il panico e i clienti corsero alla Banca, ancora solida, per ritirare i propri risparmi. Il panico tra i creditori sarà una delle cause principali del fallimento di molte banche di quei tempi.
I più grandi banchieri del trecento non furono, però, né lucchesi né genovesi ma bensì senesi. Le più importanti famiglie di Siena, i Salimbeni, i Tolomei, i Piccolomini sono tutte famiglie di banchieri, anche se la più importante fu quella dei Bonsignori che erano, però, di modeste origini. A Siena non accade quello che successe a Lucca e anche dopo il fallimento dei Bonsignori la città continuerà a calcare la scena bancaria seppure non più da protagonista. Il Monte dei Paschi nasce nel 1472 come banca della Repubblica e nel 1624 il granduca di Toscana concede, a garanzia dei depositi, le rendite dei pascoli demaniali della Maremma, detti “paschi” da cui il nome attuale dell’Istituto.
Ed ecco che arriva il turno di Firenze con i Peruzzi e i Bardi, e, a livello inferiore, con gli Acciaiuoli, i Pucci, i Frescobaldi, i Guadagni nel trecento e i Medici nel quattrocento.
I Peruzzi sono un’antica famiglia di Firenze, notevole per la parte che prese alla vita politica della città per tutto il tempo del reggimento comunale, e per l'importanza che ebbe nella vita economica durante un intero secolo, dalla metà del XIII alla metà del XIV. Dell'antichità della casata fanno testimonianza versi di Dante (Par., XVI, 126), che ricollegano il nome di "quei della Pera", col nome della porta per cui si entrava nel piccolo cerchio della prima Firenze; e assai addietro negli anni ci riportano anche le dirette attestazioni documentarie, che provano la personalità storica di Amideo. Da costui, vissuto all'inizio del Duecento, partono i due grandi rami della famiglia: di Filippo e di Arnoldo. Più che per la partecipazione alla vita politica, il nome di questa casata è passato alla storia per l'importanza della compagnia mercantile, che fu, nella seconda metà del sec. XIII, una prima compagnia di Filippo di Amideo, a far parte della quale entrarono nel 1300 i figli di Arnoldo, dando vita a quella grande società che per la larghezza del campo d'azione, per la forza dei capitali, per l'audacia delle iniziative fu detta con orgoglio dal Villani, che ne fece parte, una colonna della cristianità. Sotto la guida degli eredi di Filippo e di Arnoldo, la compagnia si dedicò a ogni sorta di affari, al commercio, all'industria, alle operazioni di banca, impiantando succursali nei principali punti di traffico, e nei grandi centri politici (in Italia a Barletta, a Genova, a Napoli, a Pisa, a Venezia, in Sardegna, in Sicilia, e all'estero ad Avignone, a Bruges, a Cipro, a Londra, a Maiorca, a Parigi, a Rodi, a Tunisi), alla direzione delle quali avvicendò un personale numeroso e di prima qualità, che dà la misura della grandiosità e della precisione dell'organizzazione. Naturalmente, data la situazione politica dell'Europa nel primo cinquantennio del sec. XIV, che vide la lotta tra Angioini e Aragonesi e l'inizio della guerra dei Cento anni, i campi di azione più proficui apparvero il Mezzogiorno d'Italia, l'Inghilterra e la Francia; ed è appunto a Napoli, a Londra e a Parigi che i rapporti fra i sovrani e la compagnia Peruzzi raggiunsero una tale entità che si può dire che essa, da sola o in unione con le consorelle dei Bardi e degli Acciauoli, abbia avuto in pugno le finanze di quei principi; soprattutto in Inghilterra, dove Edoardo III finì per abbandonare ai mercanti fiorentini la riscossione di tutti i proventi del regno in restituzione dei prestiti enormi ottenuti per le spese della corte e per le esigenze delle guerre in Scozia e contro la Francia. Se le accennate ragioni, a cui si deve aggiungere il fatto dell'esportazione della lana dall'Inghilterra e del grano dal regno di Napoli, e delle operazioni di compravendita di merci, di cambio di monete nelle fiere di Champagne (il successo di tali manifestazioni commerciali era dovuto principalmente alla sicurezza che i conti di Champagne garantivano ai mercanti e alla loro posizione geografica. Situate a metà strada tra il Mediterraneo e il Mar Baltico, divennero infatti il cardine del commercio europeo per circa due secoli), avevano fatto assumere tanta importanza alle succursali londinese, parigina e napoletana, ciò non toglie che anche le altre sedi fossero attivissime: e soprattutto quella di Rodi, dove i cavalieri dell'Ordine gerosolimitano attinsero largamente ai forzieri dei Peruzzi. In breve volgere di tempo la compagnia si trovò impegnata a fondo nelle vicende politiche dei varî settori dove esplicava la sua attività, mentre il comune di Firenze richiedeva dai suoi mercanti, e specie dalle grandi banche, contribuzioni sempre più gravose per far fronte ai nemici, e per attuare il piano di espansione territoriale imposto da quelle stesse condizioni che fatalmente avviavano a passare dall'organizzazione repubblicana alla signoria. Fu così che mentre i bilanci sociali del primo trentennio del Trecento dettero utili altissimi, a partire dal bilancio del luglio 1335 cominciarono le perdite, che, divenendo sempre più gravi, portarono al clamoroso fallimento del 1343. Dice il Villani che, allora, dal re d'Inghilterra i Peruzzi avanzavano 600.000 fiorini d'oro e da quello di Napoli 100.000, mentre il re di Francia li aveva cacciati dal regno confiscando tutti i loro beni. Le cifre sono sicuramente esagerate, e lo studio diretto dei documenti del tempo tende a ridurle: ma non di tanto però, che esse sole non bastino a provare la straordinaria vastità delle operazioni dei Peruzzi, e a giustificare come il fallimento di questa potente società, seguito a breve distanza dal crollo di altre imprese bancarie (i Bardi e gli Acciaiuoli ad esempio), e infine dal dissesto della folla dei mercanti minori, abbia segnato un punto decisivo nella storia economica e nella storia politica di Firenze. Giova notare che nel momento di maggior fulgore la Banca aveva 15 filiali e novanta dipendenti.
Nel 1332 Piero di Gualterotto Bardi acquistò per 10.000 fiorini d'oro i possedimenti a nord di Prato dai Conti Alberti, in particolare il castello di Vernio, dando origine al ramo nobile dei Bardi di Vernio. Simone de' Bardi, detto Mone, sposò Beatrice Portinari, figlia di un banchiere. E’ questa la Beatrice amata da Dante Alighieri. A Firenze i Bardi avevano le proprie case sulla strada che da essi prende il nome, la via de' Bardi in Oltrarno, in particolare a palazzo Canigiani, originariamente palazzo de' Bardi. Nel 1427, risiedevano a Firenze 60 nuclei familiari appartenenti ai Bardi, 45 dei quali abitavano nel quartiere Oltrarno. Questo dato dà l'idea della coesione familiare, che risultava utile anche negli affari; la stessa coesione che caratterizzò i Peruzzi. La famiglia Bardi ebbe diverse rivali. Nel maggio 1345 ebbe uno scontro armato con i Peruzzi e molteplici furono gli scontri con i Buondelmonti. La rivolta contro i signori di Firenze del 1343 colpì la loro famiglia, che ebbe la propria residenza assalita e saccheggiata dalla folla. Due anni dopo (1345) Re Edoardo III d'Inghilterra si rifiutò di restituire loro i debiti contratti per la Guerra dei Cento anni costringendo la loro compagnia a dichiarare il fallimento assieme ad altre importanti compagnie, come quella dei Peruzzi, e innescando un processo a catena che coinvolse gravemente l'economia fiorentina. Giovanni Villani scrisse che la quantità di fiorini d'oro prestata al monarca inglese "valea un reame": lo storico stesso, che aveva preso parte alla stipula del prestito, ne pagò le conseguenze venendo incarcerato. Al massimo del suo splendore la compagnia dei Bardi era una delle più ricche d'Europa, superiore anche a quella dei Peruzzi. Aveva numerose filiali in Italia (Ancona, Aquila, Bari, Barletta, Castello di Castro, Genova, Napoli, Orvieto, Palermo, Pisa, Venezia) e in tutto il continente (Avignone, Barcellona, Bruges, Cipro, Costantinopoli, Gerusalemme, Maiorca, Marsiglia, Nizza, Parigi, Rodi, Siviglia, Tunisi). Tra il 1310 e il 1345 la Compagnia impiega ben 346 persone. Con i Peruzzi e gli Acciaiuoli essi ebbero di fatto il monopolio delle finanze pontificie. Per dare un esempio dell'efficienza della loro "holding", nel 1336 essi ricevettero dalla loro filiale di Avignone l'incarico da parte di Papa Benedetto XII di inviare agli armeni, assaliti dalle popolazioni turche, il corrispettivo di diecimila fiorini d'oro in grano. Detto fatto: il 10 aprile arrivò l'ordine, poche settimane dopo gli agenti italiani dei Bardi comprarono il grano sulle piazze di Napoli e Bari tramite le loro filiali, e prima della fine del mese, navi cariche delle vettovaglie erano già salpate verso il Mar Nero. Per capire le ragioni del repentino crollo dei Bardi è necessaria un'analisi della struttura della compagnia commerciale. Ciascuna filiale, sulla carta, era come un'agenzia indipendente che aveva il diritto di stipulare affari, di fissare i prezzi e di autoregolamentarsi. Tutte queste agenzie, tuttavia, erano legate tra loro da un accordo di solidarietà che, quindi, faceva sì che non fossero troppo esposte ai capricci dei singoli mercati e che potessero lavorare in modo coordinato. Un tale modello organizzativo, evidentemente, offriva una notevole flessibilità alla struttura che, tuttavia, si vedeva tutelata in tutte le sue parti dalla solidarietà interna. Era, inoltre, possibile decidere i punti vendita delle merci a seconda dei vari valori di mercato locali, massimizzando così i profitti. Fu questa la forza della compagnia, ma anche la sua debolezza. Nel caso in cui una filiale fosse fallita trovandosi con un profondo rosso, infatti, le altre sedi avrebbero dovuto aiutarla a ripianarne i bilanci. Ciò, tuttavia, poteva portare ad un pericoloso effetto domino avente come il risultato la bancarotta di tutte le filiali della compagnia. Fu ciò che avvenne nel 1343. Le sorti familiari non tornarono più allo splendore del passato, ma i Bardi mantennero comunque uno spessore di rilievo nella vita fiorentina. Dai Bardi di Vernio nacque la Contessina de' Bardi, moglie di Cosimo de' Medici e nonna di Lorenzo il Magnifico. Nel 1576, grazie a una donazione di Francesco I de' Medici, tornarono nel palazzo in via de' Bardi. I Bardi tennero tenacemente i loro possedimenti presso Vernio opponendosi al dominio della Repubblica fiorentina prima e del Granducato di Toscana poi, mantenendo un regime feudale. Solo con il Congresso di Vienna del 1815 venne abolita qualsiasi giurisdizione di tipo feudale e la contea di Vernio venne unita legalmente al Granducato di Toscana. Lo shock per i fallimenti Peruzzi e Bardi fu tale da impedire a chiunque di prendere il loro posto per un mezzo secolo, ovvero fino alla fondazione del Banco Medici nel 1397. Ma giova osservare che il Banco Medici non raggiungerà mai le dimensioni di quelle dei Peruzzi e dei Bardi, non avrà mai un ruolo da protagonista nell’economia europea come fu quello dei primi due. La stessa Firenze non raggiungerà mai la prolificità di banche nel periodo dell’apogeo dei Peruzzi e dei Bardi; ben 88 banchi, contro i 33 del’epoca medicea.
Stemma della famiglia Bardi
Gli Acciaiuoli sono originari di Brescia, il patriarca Gugliarello era un guelfo in fuga per sfuggire alle faide politiche, che si trasferì verso il 1160 a Firenze, dove si iscrisse all'Arte del Cambio. Probabilmente commerciava in acciaio e per questo avrebbe avuto il soprannome di Acciaiuolo, da cui il cognome della famiglia. Nel 1282 fondarono una compagnia commerciale che divenne molto ricca e potente e fu alla base della fortuna di famiglia. Come le compagnie consorelle dei Bardi e dei Peruzzi ebbe sedi in tutta Europa e prestò denaro a importanti figure dell'epoca. Divennero infatti nel corso del XIV secolo banchieri degli Angioini del Regno di Napoli, del Pontefice, dell'Ordine dei Gerosolimitani ecc. Nel 1345 la sconfitta nella guerra contro Lucca, finanziata anche dal loro banco, portò le sorti familiari sull'orlo del fallimento. La compagnia, seguendo le sorti di Peruzzi e Bardi dovette quindi essere liquidata con gravi strascichi economici e politici. Un ramo della famiglia si stabilì sin dal Trecento a Napoli, dove, grazie ai legami con la casata regnante, assurse a grande potenza e ricchezza, per esempio Niccolò Acciaiuoli divenne Gran Siniscalco del Regno di Napoli. Nel 1388 il ramo della famiglia di Neri Acciaiuoli comprò il titolo nobiliare relativo al Ducato di Atene, che mantenne per circa un secolo, fino a Francesco Acciaiuoli II, che perse il ducato per la conquista del sultano Mehmet II.
Gli Strozzi. Il primo esponente della famiglia di rilievo politico è Ubertino Strozzi, figlio di Rosso. Egli fu tra i protagonisti della riforma dell'amministrazione repubblicana dopo la cacciata dei ghibellini da Firenze, stabilendo, tra l'altro, che chiunque volesse esercitare un'attività dovesse essere iscritto ad una delle corporazioni delle Arti, estromettendo quindi la nobiltà feudale dall'esercizio delle professioni e favorendo la corsa al potere del ceto dei mercanti, che proprio in quegli anni tessevano le loro trame per quegli straordinari casi di ascesa sociale che si sarebbero manifestati a partire dal secolo seguente. Fu soprattutto l'attività bancaria di altissima importanza che permise alla famiglia di costruire una solida base economica dalla quale poi derivarono gli incarichi e gli onori, i titoli nobiliari e il mecenatismo. Il Banco Strozzi, tra i principale della città già dal primo Quattrocento, prestava denaro a papi e re ed aveva filiali in tutta Europa: Francia, Spagna, Fiandre, oltre a un banco nelle principali corti italiane: Roma, Napoli, Ferrara, Venezia, eccetera. Almeno fino al Quattrocento gli Strozzi erano di gran lunga la famiglia più ricca di Firenze. In ogni città gli Strozzi facevano costruire lussuose residenze che avevano scopi anche di rappresentanza verso la loro illustre clientela, ed erano ben allenati in quella palestra di banchieri che era la spietata concorrenza di Firenze. Palla Strozzi fu un fine letterato, filologo e filosofo, collezionista di libri rari e conoscitore del greco e del latino. Già avanti negli anni si trovò infine allo scontro frontale contro Cosimo de' Medici, l'uomo che si era preso tutto il potere cittadino e davanti al quale solo due strade erano possibili: allearcisi accettando un ruolo da subordinati o scontrarcisi frontalmente, e Palla, dall'alto della sua ricchezza e fiero della propria cultura, fu a capo della fazione antimedicea assieme a un altro oligarca indomabile, Rinaldo degli Albizi.
I Medici. Giovanni di Bicci de' Medici era uno dei 5 figli di Averardo de' Medici e di Jacopa (o Giovanna) Spini. Suo padre era un mercante di lana che solo nell'ultimo periodo della sua vita aveva raggiunto la ricchezza. Alla sua morte (1363) il suo cospicuo patrimonio venne però diviso in cinque parti uguali, diventando così un'esigua eredità nelle mani dei figli. Lo zio di Giovanni, Vieri de' Medici (cugino di Averardo), era invece molto ricco, esercitava la professione di banchiere e fra i settanta e più banchi presenti nella Firenze medievale, il suo era uno dei più floridi. Proprio a servizio dello zio, Giovanni di Bicci de' Medici, imparò il mestiere di banchiere, diventando presto il responsabile della filiale a Roma. Nel 1386 rilevò questa filiale grazie al piccolo patrimonio portato in dote da sua moglie, Piccarda Bueri, poi aumentato dall'entrata di nuovi soci. Nel 1397 la sede fu spostata a Firenze, vicino ad Orsanmichele, all'incrocio fra Via Porta Rossa e Via Calimala, con un capitale di 10.000 fiorini per un po' più della metà di Giovanni e per la parte restante dei suoi due soci. La fondazione del Banco dei Medici, è normalmente fatta risalire proprio al 1397, quando Giovanni sposta la sua banca da Roma a Firenze. Il cambio di città portò un vantaggio alla banca, in quanto molte delle grandi banche predominanti a Firenze erano fallite. La scelta di Giovanni si rivelò molto azzeccata, anche perché Firenze ebbe a disposizione, per le sue attività mercantili, un buon porto sul Mediterraneo, dopo la conquista di Pisa. Un altro vantaggio fu che era più facile investire i capitali a Firenze piuttosto che a Roma. Nel marzo del 1402 venne aperta la filiale di Venezia e poi quella di Ginevra. Nel 1413 Giovanni riuscì a diventare il banchiere privilegiato dei conti papali, grazie all'amicizia con l'Antipapa Giovanni XXIII che lo aveva fatto accedere all'attività della Camera Apostolica. Il Banco dei Medici così riscuoteva le decime e ne ricavava una percentuale, un'opportunità che accrebbe enormemente le fortune finanziarie del Banco e della famiglia. Questo "monopolio" però durò solo due anni perché nel 1415 il papa venne deposto dal Concilio di Costanza e imprigionato e il Banco Medici si trovò a dividere la fonte di guadagno con le imprese rivali, fra le quali quelle degli Spini e degli Alberti. Con il fallimento del Banco Spini nel 1420 Giovanni riacquistò buona parte delle prerogative perse sulla riscossione dei conti papali, questa volta in maniera duratura, circostanza che portò una notevole prosperità a lui ed alla famiglia. Grazie aagli introiti del banco, largamente sopra i 100.000 fiorini all'anno, e grazie alla sua prestigiosa clientela, Giovanni poté permettersi anche di rendere il favore a Giovanni XXIII: nel 1419 versò 30.000 fiorini per ottenerne la sua scarcerazione. Dopo la sua morte il prelato venne sepolto nel Battistero di Firenze, nella tomba realizzata da Donatello e Michelozzo su commissione del figlio di Giovanni, Cosimo il Vecchio. Nel 1420, morì Benedetto de' Bardi (il ministro o direttore generale di tutte le filiali), e venne sostituito dal fratello minore Ilarione de' Bardi. I contratti stipulati in questo periodo portano la firma di Ilarione a nome di Cosimo, e non del padre Giovanni di Bicci; questo segna l'inizio di un trasferimento di responsabilità e di poteri da Giovanni a Cosimo (detto il vecchio). Due Portinari vennero inseriti nelle filiali di Firenze e Venezia. Ilarione non visse molto a lungo, e viene citato come morto in una lettera del febbraio 1433; questo fu un periodo poco fortunato durante il quale il governo di Rinaldo degli Albizi fece esiliare Cosimo a Venezia. Il 24 marzo 1439, venne fondata la filiale di Bruges. Ciò accadde quando il figlio del reggente la filiale di Venezia (1417-1435) venne inviato a investigare, nel 1438, e tornò con l'opinione che sarebbe stato possibile creare una società a responsabilità limitata con Bernardo di Giovanni d'Adoardo Portinari (1407 - 1457) che assunse entrambi i ruoli di responsabile e azionista di maggioranza. Quando Angelo Tani (1415-1492) divenne azionista di minoranza nel 1455, venne creata la filiale con partecipazione paritaria del Banco dei Medici. Una situazione similare di "accomandita" venne realizzata ad Ancona, sembra con Francesco Sforza. Il 1446 vide la nascita della filiale di Avignone. Nel 1466 fu creata la filiale di Lione con il graduale trasferimento della filiale di Ginevra. La struttura del Banco aveva a quel punto raggiunto la fisionomia definitiva; una nuova filiale sarebbe stata aperta a Milano, su richiesta di Francesco Sforza. Il suo primo rappresentante Pigello Portinari era molto capace e la filiale prestava fondi alla corte degli Sforza; dopo la morte di Pigello la filiale non fu in grado di incassare i finanziamenti per 179.000 ducati concessi allo Sforza. In ogni caso, questo periodo, sotto Cosimo e il suo ministro Giovanni de' Benci, fu il più prospero nella storia del Banco. Con la morte di Cosimo il 1 agosto 1464, ebbe inizio il declino della società. Nel momento di massimo splendore il Banco, che era in assoluto il più importante d’Europa, aveva 65 dipendenti e 7 filiali, numeri, però, inferiori a quelli dei Bardi e dei Peruzzi.
Un primo segnale del declino fu il quasi fallimento della filiale di Lione a causa della venalità del suo direttore, salvato solamente dagli sforzi del ministro Francesco Sassetti; le difficoltà erano affiorate dopo quelle registrate nella filiale di Londra, che avevano messo in difficoltà, per gli stessi motivi, la filiale di Bruges, che aveva prestato delle grosse somme di denaro a re Edoardo IV. Nel 1467, Angelo Tani fu inviato per rivedere i libri. Tani tentò di iniziare il recupero dei crediti: il re doveva restituire 10.500 sterline; la nobiltà 1.000; altre 7.000 erano costituite da merci fornite e non più recuperabili. Tani terminò il salvataggio e ritornò in Italia, ma il suo lavoro fu reso vano dal mancato sostegno dei direttori delle filiali interessate e in particolar modo di quello londinese Canigiani. L'evento fatale fu la guerra delle due rose che rese Edoardo IV incapace di rimborsare i prestiti; la filiale fu liquidata nel 1478, con una perdita totale di 51.533 fiorini. Dopo il fallimento della filiale di Londra, essa venne messa in accomandita sotto il controllo di quella di Bruges, diretta dal terzo dei fratelli Portinari, Tommaso Portinari. Tommaso aveva diretto la filiale per diversi decenni, ma aveva dato prova di non essere all’altezza: egli aveva concesso enormi prestiti alla Corte Burgunda per ingraziarsi il favore dei regnanti ed elevarsi socialmente. La filiale venne liquidata nel 1478 con perdite di circa 70.000 fiorini. Dopo la morte di Cosimo, le sue proprietà e il Banco passarono sotto il controllo del figlio maggiore Piero di Cosimo. Piero riconobbe i problemi che si avvicinavano, e tentò di iniziare una "politica di riduzione delle spese". È sicuro che Piero tentò di intervenire pesantemente sulla filiale londinese per recuperare, per quanto possibile, i crediti vantati nei confronti di Edoardo IV; ordinò alla filiale di Milano di ridurre i prestiti, disse a Tommaso Portinari, della filiale di Bruges, di vendere le navi e di non concedere prestiti di difficile esigibilità e tentò di chiudere la filiale di Venezia divenuta non più proficua. Nella prospettiva di seguire il suo piano d'azione, Piero si trovò in difficoltà: era politicamente costoso e richiedeva che i prestiti venissero rimborsati, e tali richieste potevano costargli care. Il re d'Inghilterra poteva rendergli impraticabili alcuni tentativi di esportare la lana inglese, e della lana inglese il Banco aveva disperato bisogno per due ragioni. Il primo era che quella lana era molto richiesta; se Firenze non avesse avuto la possibilità di approvvigionarsi per fare i tessuti, non avrebbe potuto vendere le sue merci e cosa più importante, non avrebbe potuto dar lavoro alle classi più modeste che si specializzavano in quel settore. La seconda ragione era che c'era un problema sistemico nel Banco dei Medici dove gli investimenti fluivano dal nord Europa verso l'Italia e la lana era necessaria, anche, per offrire un flusso di valuta verso nord per bilanciare i conti. Quindi quando Edoardo aveva chiesto i prestiti, la filiale di Londra non aveva potuto esimersi dal concederli.
Dal 1494, anche la filiale di Milano cessò di esistere. Le filiali videro la loro fine nel 1494, quando Savonarola e il papa iniziarono ad agire contro i Medici. La sede di Firenze era stata bruciata durante una rivolta, quella di Lione venne rilevata da una società concorrente, la filiale romana andò in bancarotta quando Papa Leone X chiese gli 11.000 fiorini che aveva depositato nel Banco. Al momento del fallimento il Banco Medici era ancora la più grande banca d'Europa, con almeno sette filiali e cinquanta agenti, un numero stupefacente per l'epoca. L’inizio della crisi del Banco si può far risalire a Cosimo che passò la maggior parte del suo tempo dedicato alla politica, grazie alla quale riuscì a trasformare la Repubblica in Signoria, della quale Cosimo fu Signore, e quando non era impegnato nei complotti della società fiorentina, patrocinava letterati e artisti. Questo gli lasciò poco tempo per occuparsi della selezione dei direttori delle filiali del Banco e per guardare con attenzione all'interno del Banco con l'intento di evitare frodi e malversazioni. Piero morì il 2 dicembre 1469 e gli succedettero i suoi due figli Lorenzo e Giuliano. I due non raggiunsero la maggioranza e così Lorenzo investì nel Banco il patrimonio di Piero. Gli interessi di Lorenzo nel campo della politica e dell'arte (che portarono a chiamarlo "il Magnifico") lo obbligarono a cedere al suo mediocre ministro Francesco Sassetti, la responsabilità di decidere importanti questioni del Banco. Sassetti venne incolpato del declino del Banco per il fallimento delle filiali di Lione e Bruges, e Lorenzo per essersi fidato di Sassetti o di non averlo ascoltato quando gli riferiva dei problemi. Veramente, Lorenzo disse una volta, quando Angelo Tani (che aveva tentato di prevenire il fallimento della filiale di Bruges) fece appello a lui per sollevare Sassetti e restringere i prestiti della filiale londinese, che "lui [Lorenzo] non capiva tali questioni." Alla morte di Lorenzo l'8 aprile 1492, la gestione passò a suo figlio Piero di Lorenzo (1472-1521), allora ventenne. Piero non aveva alcun talento per gestire una banca e si affidò al suo segretario e prozio Giovanni Tornabuoni. Inutile dire, che i due amministrarono male la banca e trascurarono il nuovo ministro (Sassetti era morto nel marzo 1490) Giovambattista Bracci. Quando la crisi apparve in lontananza, un modo di tentare di imbrigliarla sarebbe stato quello di cominciare a ridurre gli interessi pagati sui depositi. Ma tale mossa avrebbe danneggiato l'immagine dei Medici, e così venne intrapresa troppo tardi. In aggiunta a questo, Lorenzo "il Magnifico" non si occupò affatto del Banco. Egli concentrò il patrimonio della banca nel patrocinio di artisti e letterati. I problemi fiscali cominciarono a cresce in modo pressante fino a costringere Lorenzo a razziare la tesoreria di stato di Firenze e defraudando il Monte della Dote, un fondo caritatevole. Subito dopo, la pressione politica di Carlo VIII di Francia con l'invasione d'Italia del 1494, obbligò Piero di Lorenzo de' Medici a cedere alle forze di Carlo e all'insolvenza imminente del Banco. I beni del Banco vennero distribuiti ai creditori e tutte le filiali vennero dichiarate fallite.
Stemma dei Medici
Venezia non fu mai competitiva con le grandi banche di Siena, Lucca o Firenze ma giova ricordare il fallimento di un gran numero di banche, fallimenti in gran parte dovute alla caduta di Costantinopoli in mani ottomane nel 1453, alla guerra con gli stessi ottomani e con Milano. Benedetto Soranzo fallisce nel 1453, Pietro e Vettor Soranzo chiudono nel 1491, rimborsando tutti i creditori, il banco Garzoni fallisce inaspettatamente nel 1499, pochi mesi dopo è la volta del Banco Lippomano. Sempre nel 1499 la Signoria crea un fondo di garanzia a protezione del Banco Pisani, ma l’anno seguente Alvise Pisani liquida tutti i creditori chiudendo la banca e con essa scompaiono dal panorama di Venezia le quattro più grandi banche. Anche le banche veneziane, come quelle toscane e genovesi falliscono per un limite che le accomuna tutte: la limitata liquidità.
Con i Medici termina la stagione dei grandi banchieri italiani e alla fine del XV secolo iniziano a imporsi banchieri del Sud della Germania tra i più importanti i Fugger e i Welser. In Italia alle banche private si sostituiscono quelle pubbliche come la Genovese Casa di San Giorgio (soppressa da Napoleone nel 1805), i veneziani Banco di Rialto (assorbito nel 1637 dal Banco Giro) e Banco Giro (liquidato nel 1806 da Napoleone), il senese Monte dei Paschi, il romano Banco di Santo Spirito (confluito nel 1992 nella Banca di Roma) e i Monti di Pietà di Bernardino da Feltre passato alla storia, anche, per la sua accesa intolleranza nei confronti degli ebrei, tanto da essere considerato il padre dell’antisemitismo. Le banche pubbliche attirano i risparmi privati emettendo “titoli di debito” che non sono altro che le moderne obbligazioni. Il primo Monte di Pietà fu fondato a Perugia, nel 1462, dal frate Michele Carcano da Milano.
3.1 Le assicurazioni
Benedetto Cotrugli naque a Ragusa (Croazia), fu mercante e l'autore del primo trattato commerciale che la storia ricordi. Egli osservò scrupolosamente le metodiche di contabilizzazione utilizzate a quel tempo componendo sul tema il libro Della Mercatura e del Mercante Perfetto, stampato per la prima volta a Venezia nel 1573, sia pure scritto parecchi decenni prima. All'epoca del Cotrugli, la mercatura era considerata alla stregua di un'arte, e il "Mercante perfetto" era quell'uomo di cultura che - guidato dalla doverosa rettitudine - è così sensibile da interessarsi ai luoghi nei quali opera, sapendone valutare la situazione politica, il diritto e le consuetudini vigenti, al fine di condurre con successo i propri affari. A queste virtù basilari, il mercante deve aggiungere una profonda competenza tecnica, trattata dal Cotrugli nella sua opera. In particolare, egli descrive analiticamente lo strumento contabile della partita doppia (successivamente trattato ed ampliato da Luca Pacioli), ed esorta il mercante a tenere tre libri:
• il memoriale (oggi chiamato prima nota), nel quale saranno riportate tutte le operazioni compiute in un dato giorno, ognuna delle quali darà luogo ad una scrittura contabile;
• il giornale, che riporta i fatti di gestione elencati nel memoriale e suddivisi per giorno;
• il quaderno (oggi mastro) che riporta tutti i conti ed alla fine ha un suo repertorio alfabetico che permette una rapida ricerca per soggetto o per data.
Alla fine dell'anno, l'analisi del giornale e del quaderno è sufficiente per la formazione di una prima situazione contabile, che permetterà successivamente di creare il bilancio di esercizio. La buona conclusione di un affare è in definitiva un'elevazione anche spirituale del mercante perfetto, e in quanto tale deve portare il giusto profitto. Per esser quest'ultimo legittimo, tutto deve avere uno scopo morale: per il giusto profitto - conclude il Cotrugli - "è ordinata quest’arte mercantile (...) à quest’opera de la consecuzione del fine, concorrerà come istrumento atto". Giova notare che il Cotrugli si dilunga sulle varie pratiche volte ad assicurare i mercanti dalla perdita delle proprie mercanzie per rapine, affondamento di nave, assalto di pirati e altro.
Infatti darsi da fare con le polizze assicurative, frazionarle o rivenderne il rischio era una faccenda molto diffusa a Venezia, a quei tempi la capitale europea delle assicurazioni. Sul finire del XVI secolo si sottoscrivevano ogni anno polizze per 3,6 milioni di ducati e assumendo con un tasso medio dei premi attorno al 6-8 per cento si ricava che il valore dei premi era tra 215 e 290.000 ducati. Ma non furono i veneziani a inventare l’assicurazione perché le prime testimonianze scritte di questa pratica, come contratti di assicurazione marittima, si trovano a Genova su documenti della fine del XII secolo, mentre il primo contratto assicurativo veneziano è del 1395. Sempre a Genova un notaio stipula il primo contratto di controassicurazione di cui sia rimasta traccia. Sul finire del seicento l’ombelico del mondo assicurativo si sposta a Londra; assicuratori e assicurati si riuniscono in Lombard Street presso il bar di un certo Edward Lloyd.
4. I lombardi e l’abominevole guadagno
Nella classificazione sociale dei banchi piccolo è brutto e peccaminoso, mentre grande è bello e virtuoso. Come abbiamo visto i grandi banchieri si vedono attribuire altissima considerazione sociale e c’è chi arriva al principato, come i Medici; chi invece presta piccole somme a persone comuni è additato al pubblico disprezzo per l’abominevole guadagno. Eppure questi piccoli prestatori invadono l’Europa concorrendo in modo considerevole al suo sviluppo e creando le basi del capitalismo moderno. Questi prestatori scimmiottano le grandi banche ma se ne differenziano per un aspetto che fa di loro soggetti molto affidabili: utilizzano capitali propri e non maneggiano depositi di terzi. Alcuni di questi prestatori, pur non raggiungendo i vertici delle grandi famiglie di banchieri, conquistano posizioni di rilievo ed elevati patrimoni personali. Gli unici, ma non trascurabili rischi per loro sono l'insolvenza dei creditori e le prevaricazioni degli stati.
La presenza di mercanti e prestatori italiani a nord delle Alpi risale almeno agli inizi del Duecento, spinta da una congiuntura economica europea favorevole agli spostamenti e allo sviluppo di nuove forme di credito. In particolare i prestatori, indicati sovente con il generico nome di lombardi (a nord delle Alpi gli italiani erano dispregiativamente chiamati lombardi), si contraddistinguevano per la facilità di movimento, tanto nel senso di una emigrazione in direzione transalpina, quanto nel senso di un riflusso verso la città di provenienza, o tra le località dove si trovavano i loro banchi di credito. Tali spostamenti avevano i loro punti fissi lungo le vie di comunicazione, maggiori e minori, e nel corso di due secoli circa le modalità e i tempi con cui essi avevano aperto i loro banchi (o casane) si erano via via trasformati, seguendo quell’intreccio di componenti geografiche, politiche, istituzionali e culturali che caratterizzano ogni regione. Ed è così che, tra gli inizi del Duecento e la metà del Quattrocento, non vi era regione dell’odierna Europa occidentale che non avesse una casana sul proprio territorio gestita inizialmente da un nucleo di famiglie astigiano-chieresi, appartenenti anche a importanti casate cittadine, cui si erano aggiunti, in seguito, numerosi altri lombardi di famiglie meno note, tutti però provenienti da località piemontesi, come Bene, Castiglione, Calosso, Castagnole, Montemagno, Frassinello, Robella, Pomaro, Mondovì, Trofarello, Pinerolo, Fossano ed emiliane, come Piacenza. Basta pensare alla convocazione a Colonia, nel Natale del 1309, fatta dal futuro imperatore Enrico VII di lombardi provenienti da non meno di settanta località ubicate tra la Mosa e la Schelda per rendersi conto della capillare disseminazione dei prestatori. Ciò non esclude che alcuni prestadenaro avessero mantenuto una duplice attività, facendo convivere funzioni e operazioni prettamente mercantili accanto a quelle finanziarie.
La grande ondata di emigrazione transalpina si affievolisce nel corso della prima metà del XV secolo, fino a scomparire: diverse le cause e ancora non tutte scandagliate; una di queste è sicuramente la stessa situazione politica all’interno di città come Asti (soprattutto) e Chieri, di cui le famiglie dei lombardi avevano fin dal Duecento costituito il patriziato, che aveva favorito un generale orientamento verso forme di investiture nobiliari tramite l’acquisto di castelli e feudi nel contado che richiedevano una radicale trasformazione dei comportamenti. L’esigenza di un maggiore radicamento signorile in patria, dove stavano maturando nuovi equilibri politici, portava a ridurre le lunghe permanenze all'estero e a circoscrivere l’attività finanziaria ad alcuni membri "specializzati" di ciascuna famiglia, come denunciano ad Asti, fin dal principio del XV secolo, le numerose procure ad agire "ultra montes" rilasciate verso congiunti.
Grazie anche a documenti conservati in archivi stranieri, sappiamo, che alla base degli stanziamenti dei feneratori (o prestadenaro) vi erano quasi sempre le necessità finanziarie delle autorità locali, urbane o principesche, alle quali essi dovevano versare un diritto di borghesia o un censo annuo per poter esercitare la loro professione. In cambio ricevevano un permesso, limitato nel tempo ma che di solito era rinnovato senza particolari difficoltà, con cui si accordava loro l’esercizio del prestito dietro precise condizioni; in tal modo il lombardo e la sua famiglia acquisivano determinati privilegi, soprattutto di tipo fiscale, e si mettevano sotto la protezione dell’autorità. In alcune regioni, poi, i lombardi erano riusciti persino a ottenere il monopolio del credito proprio grazie a questo insieme di misure protettive, al contempo istituzionali e non ufficiali, che rappresentano così il quadro entro il quale si svolgeva la loro attività.
Rapporti con re, duchi, conti, signori, vescovi o abati e rapporti con elementi della società locale erano, dunque, le due sponde entro cui si muovevano i prestadenaro che si stabilivano oltralpe. Tale posizione li metteva inevitabilmente nella condizione di dover mantenere dei buoni contatti con le parti, di cui però potevano subire i repentini mutamenti di opinione, specie nel caso dei principi. Così, le licenze per le attività dei banchi potevano essere improvvisamente seguite da inquisizioni, sequestri, chiusura delle tavole ed espulsioni dovute ai motivi più disparati: utilità economiche (ossia incameramento dei beni), crisi politiche, guerre, pressioni di gruppi sociali rivali.
Lo stimolo che poteva spingere gruppi o singole persone a frequentare una certa area geografica dell’Europa, ed eventualmente a radicarvisi, dipendeva sicuramente da ragioni diverse - politiche ed economiche innanzi tutto - che solo parzialmente, o in determinati periodi, aderivano alle condizioni proprie di quell'area, permettendo di raggiungere una convergenza con la comunità locale. Il fitto intreccio di relazioni attivate dai meccanismi di credito favoriva inevitabilmente il contatto con strati eterogenei della società; non solo, i rapporti nati dal bisogno contingente di denaro potevano stabilizzarsi facilmente dando luogo a gruppi d'interesse destinati a volte a durare nel tempo. Si tratta di capire la tipologia di tali rapporti e di individuare quali erano state le strade battute dagli esponenti delle famiglie di feneratori per ottenere l'integrazione, fino a che punto essi si erano amalgamati e a quale livello della gerarchia sociale si erano collocati; in altre parole, se essi avevano mantenuto anche all'estero il loro status sociale o se, in qualche modo, avevano dovuto ricominciare una scalata sociale.
Da un punto di vista economico, possiamo in generale parlare di un'integrazione a pieno titolo dei lombardi attraverso una capacità di adeguamento alle esigenze locali e di godimento dei relativi vantaggi. In alcune realtà regionali i lombardi avevano incontrato una società relativamente aperta, che accoglieva nei ranghi della sua élite cittadina coloro che - pur forestieri - erano forniti di mezzi finanziari. Una società, cioè, che dava maggior rilievo alle capacità economiche più che alle origini dei lombardi, riconoscendo in essi una fonte di arricchimento e di vantaggi per la città: è il caso di Friburgo, di Ginevra, di Gand, di Anversa, di Digione. E l'integrazione economica poteva essere utilizzata dai lombardi come punto di partenza per un successivo inserimento a diversi livelli della scala sociale.
Con tali premesse, possiamo certamente dire che un vero radicamento oltralpe è stato abbastanza raro, se con questa parola intendiamo uno stanziamento definitivo che permetta di trovare le prove di una continuità di residenza lungo un periodo superiore a quello di una sola generazione. In questo senso, ne possiamo parlare a proposito di alcuni Asinari giunti a Ginevra all'inizio del XIV secolo e indicati nelle fonti come "nobili". Le diversità degli insediamenti lombardi in ambito europeo portano a un'ulteriore considerazione, ossia che è esistito un rapporto completamente diverso tra i feneratori e i locali (autorità e società) a seconda del luogo di stanziamento. Nel caso dei centri urbani la discriminante principale fra inserimento e radicamento dei lombardi va individuata in particolare nell'affidamento di cariche cittadine. Infatti, qui le autorità pur comprendendo il tornaconto dell'attività di credito da essi svolta, seppure in forme diverse, non li consideravano dei cittadini alla pari degli altri e, di conseguenza, non permettevano una loro penetrazione nei punti chiave dell'organizzazione comunale. Non è da escludere che ciò fosse legato alla percezione che affidare a un usuraio forestiero un ruolo amministrativo vitale rappresentasse un rischio. Ma non solo. Si può ipotizzare che vi fosse un'opposizione da parte del ceto dirigente locale, un implicito sistema di esclusione a livello istituzionale, qualora consideriamo che l'inserimento di un solo esponente lombardo nell'amministrazione poteva essere tanto un semplice investimento, specialmente se si trattava di uffici redditizi, quanto un potenziale mezzo per rafforzare la posizione dell'intera famiglia. Appare in tal modo evidente una distinta via all'integrazione e alla carriera politico-amministrativa: benché provenissero quasi sempre da casati che in patria giocavano un ruolo importante, in città politicamente autonome era stato molto difficile per i prestadenaro ottenere un posto nelle maglie della gestione del potere. Diversamente, in regioni e città sottoposte a un'autorità di tipo regio, ducale, comitale o vescovile erano stati molti coloro che avevano avuto la possibilità di un'ascesa politica. L'autorità principesca o comitale, infatti, si basava sulle capacità dei lombardi e sulla loro disponibilità monetaria per far fronte alla pressante necessità di denaro, spesso ricambiando proprio con l'affidamento di uffici pubblici. Essa vedeva nelle conoscenze tecniche e nell'abilità finanziaria dei feneratori prima di tutto dei vantaggi, che passavano anche attraverso le periodiche vessazioni nei loro confronti: così alcuni lombardi erano stati detentori di zecche, tesorieri, ricevitori delle imposte, gestori di pedaggi e dogane, castellani e balivi, esattamente come avveniva con tutti coloro che fornivano denaro liquido ai conti e ai principi, sulla base di un reciproco interesse.
Alcune famiglie erano così riuscite a far parte di una certa élite economica internazionale, anche se ciò non significava automaticamente essere riconosciuti come appartenenti ad essa dall’élite locale.
Per diverse città è ormai accertato che i lombardi non erano stati affatto relegati in quartieri periferici, e che, in alcuni casi, la strada dove essi operavano aveva addirittura preso il loro nome (esattamente come poteva avvenire per qualunque altra professione), mostrando talvolta una lunga persistenza attraverso le numerose trasformazioni urbanistiche. uno stile di vita e, sicuramente, si spartivano il possesso delle case lungo le strade centrali e più importanti del centro, come a Friburgo, a Malines, a Douai.
4.1 A Parigi i lombardi sono piacentini
A Parigi i Piacentini erano i "lombardi" e prestatori per eccellenza. Tra i loro clienti il re di Francia, nobili e borghesi. Nel 1298 cinque compagnie piacentine a Parigi (Guadagnabene, Anguissola, Cavezzoli, Borrini e Capponi) sono assoggettate a un’imposta di 5.500 lire. Nel 1303 le compagnie piacentine sono dieci e risultano le più tassate (Anguissola per lire 8.000, Guadagnabene, Capponi e Cavezzoli per 6.000 ciascuna, Borrini per 4.000). Dal 1325 altri cambiavalute piacentini operano in Francia: Castellino Dolzani, Bartolomeo Damoros, Guglielmo e Daniele Ermizone, Guglielmo e Nicolino Capponi, Isaldino Dolzani. Piacentino è quel Gandolfo Arcelli, primo tra i contribuenti parigini all’inizio del Trecento, creditore del re di Francia e grande prestatore; piacentino è pure Fulco Caccia capitano dei mercanti. Nel 1399 il cambiavalute piacentino Giovanni Aglio trasferisce da questa piazza a Lisbona 1.000 corone d’oro (moneta che ebbe corso nei baliaggi dei lombardi): un prestito fatto da due mercanti fiamminghi al re del Portogallo. Giovanni Musso, nel trattato De moribus civium Placentiae, quando parla dell’abbondanza e della ricchezza dei mobili e delle suppellettili che arredavano le case di Piacenza nel 1388, aggiunge: «Ciò è dovuto ai mercanti della nostra città che hanno prese queste abitudini nei paesi che frequentavano e che frequentano per i loro traffici: la Francia, le Fiandre e la Spagna».
4.2 I lombardi scacciati da Londra
Maledetti italiani, sfruttatori, usurai, affamatori, gente che toglie il lavoro importando beni a basso prezzo, usando per i trasporti le economiche navi fiamminghe, anziché le affidabili navi inglesi. Cambiano i tempi, cambiano i soggetti, ma i temi sono sempre quelli: stranieri inaffidabili che attentano al benessere dei docili abitanti locali. In questo caso siamo a Londra, a metà Quattrocento. Lo scenario è quello del cuore della City: Lombard Street (che però al tempo si chiama ancora Great Tower Street) dove sono insediati i lombardi. Esercitano il prestito su pegno, quindi vengono considerati usurai e sono molto mal visti (il loro posto sarà preso dagli ebrei). I toscani (lucchesi, senesi, fiorentini), invece, sono grandi prestatori internazionali e per questo godono di buona considerazione. Come già visto, pessimi sono considerati i primi, ottimi i secondi. Nel 1450 il capo della rivolta dei contadini del Kent, John Cade, marcia su Londra e chiede ai lombardi armi e denaro, pena il vedere le loro teste far bella mostra di sé infilzate sulle picche. La rivolta finisce male, ma sei anni più tardi il sangue degli italiani di Londra scorre davvero. Un giorno di inizio maggio del 1456 il domestico di un mercante inglese di stoffe, mentre va a spasso per Cheapside, si imbatte nel domestico di un mercante italiano che porta un pugnale alla cintura. In Italia agli inglesi non è concesso girare armati e quindi affronta il suo collega chiedendogli soddisfazione. L'italiano però, o si sottrae, o non fornisce una risposta a tono, e così l'inglese gli sottrae l'arma e gliela spacca in testa. Il mercante lombardo protesta con il sindaco, Thomas Canyng. Questi convoca il giovane feritore a Guildhall dove una corte lo imprigiona. Ma tutta Londra sa quel che sta accadendo, e al di fuori di Guildhall si riunisce una folla che solidarizza col ragazzo detenuto e protesta rumorosamente. Quando il sindaco, accompagnato dai suoi due sceriffi, decide di lasciare la sala, si trova la strada sbarrata da un muro umano. Non riesce a farsi largo tra la folla, e mentre cerca di spiegare i motivi della condanna, viene zittito da alte urla di protesta. A quel punto Canyng teme per la sua vita e ordina che il prigioniero sia liberato. La notizia del rilascio del domestico passa di bocca in bocca e viene presa come un'approvazione del comportamento della folla da parte delle autorità. Immediatamente si scatena la caccia all'italiano: alcuni mercanti fiorentini, lucchesi e veneziani vengono rapinati, e i londinesi si danno al saccheggio di quattro case abitate da stranieri nella Bread Street. Il sindaco fa catturare alcuni capi della rivolta. Ma sembra che pure gli italiani si siano difesi perché anche qualcuno di loro finisce in prigione. Sabato 8 maggio è il giorno del verdetto: tre uomini vengono condannati all'impiccagione: due sentenze saranno eseguite lunedì, una più tardi. Veder penzolare qualcuno da una forca tranquillizza un pochino gli animi: il sindaco fa leggere in tutta la città un proclama in cui si afferma che non saranno tollerate ulteriori violenze e che i lombardi devono poter svolgere le loro attività come sempre. Intanto il Senato della Serenissima vota un decreto che condanna «lo straordinario insulto perpetrato dai cittadini di Londra». Intanto trascorre l'inverno, arriva la primavera 1457 e in maggio, come ogni anno, è previsto l'arrivo a Londra della muda di Fiandra, cioè il convoglio di galee da mercato veneziane dirette nei porti nel Nord Europa. Alcuni mercanti italiani hanno già fatto giungere a Londra a bordo di navi fiamminghe, in attesa di trasferirli nelle galee col vessillo di San Marco, lana grezza e tessuti di lana, pagando i consueti dazi. Ma una notte, mentre si dondolano nel Tamigi, i vascelli fiamminghi sono attaccati da unità inglesi provenienti da Calais e Sandwich. L'azione è clamorosa e subito il re scrive al sindaco ordinandogli che le navi siano rilasciate e i beni restituiti ai loro legittimi proprietari. Il sindaco però non riesce a far giustizia come gli viene richiesto. Trascorrono alcuni mesi di quiete, ma poi la situazione precipita di nuovo. Verso la fine di luglio una folla di londinesi si raduna fuori città, a Bishopswood, con l'intenzione di farsi giustizia da sé: per i lombardi si prospettano ore molto poco piacevoli. Questa volta però l'azione del sindaco Canyngs è vigorosa e immediata: manda un contingente di uomini armati incontro ai rivoltosi e ingiunge ai lombardi di barricarsi nelle loro case. Cosa sia accaduto esattamente in quelle ore concitate non si sa, non sono sopravvissuti documenti che ne parlino. Di sicuro ci sono stati numerosi arresti, ma non ci è noto se siano avvenuti dopo un combattimento tra rivoltosi e forze del sindaco, o dopo il saccheggio di alcune case di lombardi. Il risultato è che i lombardi si riuniscono tra loro e decidono di lasciare Londra armi e bagagli per trasferirsi a Southampton. Londra, però, ha bisogno dei mercanti e dei banchieri italiani, non può vivere senza, e quindi comincia un paziente lavoro di ricucitura. Nel 1460 la muda di Fiandra si affaccia di nuovo al porto sul Tamigi e da allora è business as usual. Da allora non si registrano più testimonianze di ostilità contro gli italiani.
Lombard Street a Londra, rue des Lombardes a Parigi, Lombardenvest e Lombardenstraat ad Anversa, la Casa dei genovesi a Bruges, testimoniano ancor oggi il ruolo avuto dagli italiani in campo finanziario; Michelangelo, Raffaello, Tiziano e Tintoretto non ci avrebbero lasciato i capolavori che conosciamo se alle loro spalle non ci fosse stato il mecenatismo dei banchieri e dei prestatori del Rinascimento. Banchieri e prestatori italiani non avevano praticamente concorrenza, se non minima da parte della città di Barcellona; nel XIII secolo e fino al rinascimento il fiorino, grazie alla crescente potenza bancaria di Firenze, divenne la moneta di scambio preferita in Europa, una sorta di dollaro dell'epoca. Anche ducato e genovino erano ben accettati su tutti i mercati dell'occidente e dell'oriente. Il fiorino è rimasto la moneta ufficiale degli stati della Germania centro-meridionale, fra cui Francoforte, il Baden, il Wurttemberg, la Baviera, fino all' unità tedesca nel 1870; inoltre è rimasto la moneta ufficiale dell'Impero austroungarico fino all'adozione della corona nel 1892 e la moneta olandese fino all'introduzione dell'euro nel 2002. Il fiorino è tuttora la moneta ungherese.
31 maggio 2013
Eugenio Caruso