Il sovrano si rivolge al mercante e con atteggiamento benevolo e disponibile gli chiede: «Che cosa posso fare per voi?» Il mercante risponde:
«Maestà, dateci buona moneta e strade sicure, al resto pensiamo noi»
Kant
Con questo ottavo articolo proseguo la pubblicazione di alcuni stralci del mio libro storico-economico L'estinzione dei dinosauri di stato. Il libro racconta i primi sessant'anni della Repubblica soffermandosi sulla nascita, maturità e morte delle grandi istituzioni (partiti, enti economici, sindacati) che hanno caratterizzato questo periodo della nostra storia. La bibliografia sarà riportata nell'ultimo articolo di questa serie di stralci. Il libro può essere acquistato in libreria, in tutte le librerie on-line, oppure on line presso la casa editrice Mind.
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Finanza e affari sporchi
Nel 1971 il presidente dell’Eni Eugenio Cefis (Galli, 1996), che aveva stretto con Fanfani un patto di ferro, diventa presidente della Montedison, coronando con successo il rastrellamento di azioni dell’impresa chimica privata, realizzato grazie ai cospicui fondi di dotazione concessi all’Eni dal Governo. L’operazione nasce dall’accordo tra Cefis, Guido Carli (governatore della Banca d’Italia) ed Enrico Cuccia, preoccupato della perdurante crisi di Montedison e desideroso di vedere alla testa del colosso di Foro Buonaparte un personaggio in grado di realizzare l’obiettivo di creare un forte polo chimico.
Negli anni Settanta Cefis è uno degli uomini più potenti d’Italia. Assunta la guida dell’Eni nel 1967 e conquistato il controllo della Montedison, riesce a creare un enorme impero clientelare; sovvenzionando i partiti politici ne compra l’appoggio e con l’acquisto di diversi giornali può influenzare l’opinione pubblica. Con Cefis iniziano sia la lunga guerra tra pubblico e privato per il controllo della chimica in Italia, che contribuirà a inquinare non poco l’economia del Paese, sia la lotta per la conquista dei giornali. Il petroliere riuscirà a controllare in modo diretto o indiretto: Corriere della Sera, Il Messaggero, Il Giornale nuovo, Il Tempo, alcuni settimanali, radio e canali televisivi. Se l’operazione di scalata alla Montedison riesce, fallisce invece il tentativo del risanamento dell’azienda; Cuccia dovrà cercare allora altri condottieriper il gigante malato: Mario Schimberni prima, e Raul Gardini dopo.
Agli inizi degli anni Settanta il banchiere della mafia, Michele Sindona, tenta una scalata ai vertici del capitalismo italiano (Italcementi, Bastogi, Banca Nazionale dell’Agricoltura), ma viene sconfitto dall’alleanza tra Cuccia, Gianni Agnelli, Cefis e La Malfa. Dopo lo stop alle sue iniziative, Sindona si trova a dover fronteggiare la marea montante dei debiti; Andreotti, suo garante politico, non è più in grado di difenderlo, magistrati italiani e statunitensi lo braccano. Simula il proprio rapimento; con l’aiuto della famiglia mafiosa dei Gambino si rifugia in Sicilia, in casa di Rosario Spatola; fa uccidere l’avvocato Giorgio Ambrosoli, liquidatore della sua banca privata italiana; tenta di far assassinare Cuccia, finché viene imprigionato e condannato all’ergastolo. Benché “sottoposto a ferreo controllo”, muore in carcere bevendo una tazzina di caffè avvelenato. L’azione portata avanti dall’avvocato milanese Giorgio Ambrosoli è il primo serio tentativo di fare luce sull’intreccio tra finanza, mafia e politica. Ma Ambrosoli è lasciato solo a combattere una battaglia che vede, come avversari, le stesse istituzioni. Dirà La Malfa: «Mezza Italia si era mossa per salvare Sindona»; nessuno, però, si muove per salvare Ambrosoli. La storia di Sindona si intreccia con quella di tre altri personaggi: Roberto Calvi, il banchiere che, nella prima metà degli anni Settanta, coinvolge il Banco Ambrosiano in una serie di operazioni finanziarie illecite come il riciclaggio del denaro della mafia, che portano l’istituto al dissesto; Licio Gelli, maestro venerabile della Loggia P2; Paul Marcinkus, il banchiere del Vaticano che con lo Ior aveva aiutato Calvi nell’esportazione illegale di denaro. Le autorità vaticane, pur accettando di risarcire i creditori del Banco Ambrosiano, rivendicano l’immunità rispetto alle leggi italiane e si rifiutano di aiutare i magistrati italiani nelle indagini.
Roberto Calvi in attesa del giudizio d'appello per il fallimento del Banco Ambrosiano, il 9 giugno 1982 si allontana da Milano, giungendo a Roma in aereo, dove incontra Flavio Carboni, col quale organizza la fuga. Il 14 giugno Calvi incontra Carboni al confine con la Svizzera, per poi partire il 15 giugno verso Londra, dall'aeroporto di Innsbruck. Il 18 giugno Calvi viene trovato impiccato sotto il Ponte dei Frati Neri sul Tamigi in circostanze molto sospette, con dei mattoni nelle tasche e 15.000 dollari addosso. Viene trovato anche un passaporto con le generalità modificate in "Gian Roberto Calvini". Non è stata fatta ancora luce sui mandanti dell'omicidio Calvi; la pista più probabile riporta al mondo della criminalità organizzata e dello Ior, che avevano prestato a Calvi considerevoli somme di danaro perse con il fallimento del Banco.
Flavio Carboni ha subìto numerosi arresti, scontando brevi periodi di detenzione e venendo imputato di numerosi crimini, quali l'omicidio di Roberto Calvi, imputazione da cui è stato assolto in tutti e tre i gradi di giudizio. L'unica condanna definitiva nei suoi confronti è stata emessa nel 1998, a 8 anni e 6 mesi di reclusione per concorso nel fallimento del Banco Ambrosiano.
Lo scippo del Corriere della Sera
Alla morte di Angelo, il figlio Andrea Rizzoli – facendosi prestare i soldi dalla Montedison di Eugenio Cefis – compra la quota del Corriere della Sera in mano a Giulia Maria Crespi, diventando di fatto il socio di riferimento del quotidiano. Non contento, decide di liquidare anche le quote degli altri due soci, gli Agnelli e i Moratti. La sorella di Andrea, contraria all’operazione, si fa liquidare la propria parte di patrimonio e Andrea si trova sommerso di debiti e facile preda di politici e faccendieri. Andrea affida al figlio Angelo il compito di gestire il quotidiano di via Solferino, ma l’impresa è ardua. L’azienda è arcaica e controllata dai sindacalisti e dai giornalisti del Pci che il direttore Pietro Ottone, prigioniero del Consiglio di fabbrica del quotidiano, aveva assunto in massa dalla fallita Aldo Palazzi Editore.
I Rizzoli trovano chiuse le porte di tutte le banche, inconsapevoli del fatto che molte sono presiedute o dirette da affiliati della P2 che, per i Rizzoli, hanno in mente un piano ben preciso. Le uniche porte aperte sono, infatti, quelle del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e, indirettamente dello Ior; in cambio Andrea Rizzoli dovrebbe fare da prestanome ai pacchetti azionari che Calvi e gli amici piduisti Licio Gelli e Umberto Ortolani hanno accumulato all’estero, e portare alla direzione del Corriere il piduista Franco Di Bella. Nel 1977 la P2, con l’obiettivo del controllo dei media, spinge i Rizzoli verso l’acquisizione di molti altri quotidiani: Il Piccolo di Trieste, Il Giornale di Sicilia di Palermo, l’Alto Adige di Bolzano e La Gazzetta dello Sport. Nello stesso anno Andrea lascia definitivamente il gruppo al figlio Angelo e si ritira a vita privata. Nel 1978 viene fondato un nuovo quotidiano locale: L’Eco di Padova, e la casa editrice entra nella proprietà de Il Lavoro di Genova e finanzia L’Adige di Trento. Nel 1979 la Rizzoli porta la propria quota azionaria del periodico TV Sorrisi e Canzoni al 52%, ottenendone il controllo. Infine viene fondato L’Occhio, con direttore Maurizio Costanzo.
Costanzo, nel 1980, direttore del telegiornale Contatto (primo notiziario nazionale non RAI in onda sull'emittente della Rizzoli PIN - Primarete Indipendente), viene coinvolto nello scandalo del ritrovamento della lista degli aderenti alla loggia massonica P2. La sua tessera è la numero 1819 (il suo fascicolo il numero 626) con la qualifica massonica di maestro. Inizialmente nega con decisione l'appartenenza alla loggia (sebbene solo pochi mesi prima avesse fatto sensazione una sua intervista a Licio Gelli, pubblicata sul Corriere della Sera), poi sostiene di essere stato iscritto a sua insaputa; ricordo ancora un'intervista durante la quale Costanzo piangendo diochiara la sua estraneità alla loggia. Infine ammette la sua partecipazione in un'intervista a Giampaolo Pansa, rilasciata al quotidiano La Repubblica. Tale ammissione è stata definitivamente ribadita dallo stesso Costanzo di fronte alla Corte d'assise, durante il processo ai capi della loggia massonica, accusati di cospirazione politica.
Agli inizi degli anni Ottanta l’azionariato del gruppo Rcs è così ripartito: 40% Angelo Rizzoli, che aveva liquidato il fratello Alberto; 40% la Centrale, finanziaria del Banco Ambrosiano; 10% più un’azione Fincoriz, della quale il direttore generale del gruppo, Bruno Tassan Din, aveva di fatto il controllo in nome e per conto dei piduisti. Pertanto i Rizzoli si trovano implicati nello scandalo della P2 e, il 4 febbraio 1983, Angelo Rizzoli e Bruno Tassan Din (entrambi iscritti alla Loggia), ricevono un mandato d’arresto. Le difficoltà economiche dei Rizzoli, l’arresto di Angelo, provato nel fisico e nel morale, conducono prima all’amministrazione controllata della Rizzoli-Corriere della Sera, e, poi, all’ingresso della cordata “nobile” guidata da Agnelli e Mediobanca. L’operazione è facilitata dalla convinzione che il Nuovo Banco Ambrosiano non possa tenere in portafoglio il 40% della Rcs e dare la liquidità necessaria per rilanciare l’azienda editoriale. La realtà dei fatti ha dimostrato che, dopo un anno dall’acquisto, la Rcs è riuscita a produrre 100 miliardi di utili e che l’azienda vale attorno ai 1.000 miliardi. Angelo Rizzoli può recuperare solo poco più di 10 miliardi (Panerai. 2010).
2 luglio 2013
Eugenio Caruso