Ogni legge trasgredita troppo spesso è cattiva; spetta al legislatore abolirla o emendarla.
Marguerite Yourcenar.
Pubblico questo articolo molto specialistico per comprendere come la nuova frontiera della ricerca vada individuata melle biotecnologie così come nelle nanotecnologie.
Nel lavoro “Exploiting microbial hyperthermophilicity to produce an industrial chemical, using hydrogen and carbon dioxide” (M. W. Keller et al., PNAS, 2013) viene presentata la possibilità di produrre biocombustibili con archeobatteri (sono una suddivisione sistematica fondamentale, al più basso livello, della vita cellulare) eterotrofi (eterotrofia è la condizione nutrizionale di un organismo vivente che non è in grado di sintetizzare le proprie molecole organiche autonomamente a partire da molecole inorganiche, come ad esempio utilizzando l'anidride carbonica. Per la sopravvivenza esso deve quindi far riferimento a composti organici precedentemente sintetizzati da altri organismi, che sono invece detti autotrofi, come ad esempio tutte le piante che posseggono clorofilla) termofili ingegnerizzati in modo da renderli chemiosintetici. In tal modo i microrganismi sono in grado di fissare la CO2 per via non fotosintetica al fine di produrre composti ridotti che sono i precursori di biocombustibili. La valutazione di questa possibile soluzione richiede un’analisi che parte da due considerazioni principali: una legata agli aspetti energetic ed una agli aspetti ecologici.
Aspetti energetici
C’è un diffuso e ragionevole interesse mondiale alla ricerca di combustibili alternativi ai fossili e derivati da energie rinnovabili ed è superfluo discuterne i motivi ambientali ed economici, ormai ben noti. In particolare la domanda riguarda il settore dei trasporti e quindi la ricerca di combustibili liquidi per autotrazione. Le Compagnie spingono verso la realizzazione di carburanti di sintesi, gasolio e benzina, in modo da avere la completa miscibilità. In Europa c’è una sovrapproduzione di carburanti leggeri, quindi resta maggiore domanda per il biodiesel che non per prodotti come il bioetanolo che concorrerebbe con il mercato delle benzine. Negli ultimi anni si è parlato e si è fatto molto sul biodiesel derivato da oli vegetali con un processo di transesterificazione: esso viene prodotto prevalentemente in Paesi sudamericani ed asiatici che ne esportano una grande quantità, soprattutto in Europa. Questo combustibile crea almeno tre problemi: uno economico-sociale perché sottrae terreni agricoli alle produzioni alimentari causandone l’aumento dei prezzi; uno ambientale, perché nei Paesi tropicali vengono abbattute foreste ricche di diversità biologica per fare spazio alle monocolture (emblematico il caso della palma che sostituisce le mangrovie); infine, si manifestano numerosi aspetti negativi di carattere tecnico legati al funzionamento dei motori e agli evidenti processi di biodegradazione che si innescano nei siti di stoccaggio. A ciò si aggiunge che le grandi speranze aperte dalla possibilità di ricavare gli oli dalle colture massive di microalghe in terreni marginali, si stanno ampiamente ridimensionando per le basse rese e gli alti costi impiantistici di tali sistemi. Quindi la strada obbligata che rimane da esplorare è quella dei combustibili liquidi di sintesi derivati da idrogeno e CO2 e gli Autori dell’articolo propongono di partire dalla chemiosintesi microbica di questi due composti piuttosto che dalla fotosintesi, testualmente: “This approach circumvents the overall low efficiency of photosynthesis and the production of sugar intermediates”.
Aspetti ecologici
La vita nasce da un percorso qualitativo nelle trasformazioni dell’energia: ossia nel meccanismo di trasformazione fotosintetica dell’energia solare una percentuale dell’1% circa si trasforma in composti cellulari ed il restante 99% si disperde come entropia. Questo 1% si trasmette nella intera rete trofica con efficienza decrescente, ma con qualità crescente. Questo concetto di crescita qualitativa dell’energia si comprende se guardiamo a questi processi nella scala dei tempi dell’evoluzione delle specie. È sorprendente osservare come questa piccola scintilla di luce solare arrivi a generare la sua forma di più elevata qualità, che è il pensiero. Con buona probabilità, la vita primordiale è stata generata da un processo prefotosintesi che è la chemiosintesi. Ossia composti chimici ridotti ed alte temperature, condizioni tutt’ora riscontrabili nelle vicinanze delle fumarole sottomarine, hanno dato origine a organismi cellulari primordiali. Negli ultimi anni si è molto sviluppato lo studio di microrganismi classificati Archea che per le loro caratteristiche metaboliche molto particolari, sono in grado di vivere in ambienti estremi (termofili, alofili, acidofili ecc.). Senza entrare nel dibattito tuttora aperto sulla filogenesi di questi microrganismi, pensiamo che sia interessante esplorare le vie della chemiosintesi primordiale per trovare applicazioni innovative e convenienti per la produzione di “biocombustibili”. Nell’articolo citato gli autori descrivono il metodo adottato per ingegnerizzare il microrganismo termofilo eterotrofo Pyrococcus furiosus con geni del termofilo mixotrofico Metallosphaera sedula. Il primo dubbio che si pone è: perché trasferire le funzioni tra i due microrganismi quando la Metallosphaera è in grado di esprimere la stessa attività biochimica senza alcuna modifica e con tassi di crescita elevati? L’unica risposta possibile è che quest’ultima è attiva solo in un ambiente acido con pH 2. Ma la critica maggiore all’articolo riguarda l’uso dell’idrogeno come donatore di elettroni. Gli Autori scrivono che questa soluzione è alternativa alla scarsa efficienza della via fotosintetica, e indicano come più conveniente fonte di idrogeno quella che si ricava dalla fermentazione delle biomasse. Ma queste sono prodotte comunque dalla fotosintesi, e la fermentazione abbassa il bilancio energetico finale dell’intero processo ben al di sotto di quello ottenibile direttamente dalla fotosintesi. Ciononostante, l’articolo apre la strada all’esplorazione di nuove possibili soluzioni: la più immediata da considerare è l’uso dell’idrogeno solforato (H2S) come donatore di elettroni. Sono infatti noti molti microrganismi chemio e fotosintetici che ne fanno uso e, inoltre, il composto è abbondante ed economico, anzi costa molto liberarsene. L’ENEA, e in particolare il Laboratorio Biomasse e Bioenergia dell’Unità Tecnica Fonti Rinnovabili, è molto impegnato nella ricerca su biocombustibili di nuova generazione. Nel 2012 sono stati avviati due impianti pilota bistadio che, partendo da scarti agroindustriali, producono nel primo stadio idrogeno e CO2 in percentuale 50%/50%, e nel secondo metano e CO2 in rapporto che arriva fino a 80%/20%. In collaborazione con i ricercatori ENEA che si occupano di solare termodinamico e le Università di Torino e di Milano, è stato presentato un progetto per convertire i prodotti del primo stadio in combustibili di sintesi attraverso un processo termochimico solare. Inoltre nel Laboratorio Biomasse e Bioenergia è in sperimentazione un fotobioreattore che converte l’H2S in idrogeno e zolfo elementare. Questo progetto viene svolto in collaborazione con l’Università di Copenhagen, che ha il ruolo di produrre microrganismi ingegnerizzati capaci di esprimere più elevate efficienze di processo.
Di Giulio Izzo - Tratto da Energia ammbiente e innovazione - 1 - 2013
18 settembre 2013
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