Roma, 18 ottobre 2013 - Il Tribunale militare di Roma ha condannato all'ergastolo Alfred Stork, 90 anni, caporale della terza Compagnia del 54esimo battaglione 'Cacciatori da montagna' responsabile di aver preso parte nel settembre di 70 anni fa a Cefalonia alla fucilazione di "almeno 117 militari italiani" appartenenti per lo più a reparti della divisione Acqui, trucidati alla 'Casetta Rossa'. Nel marzo del 2012, a firmare la richiesta di rinvio a giudizio per Stork era stato il procuratore militare Marco De Paolis, che l'altro ieri ha chiesto il carcere a vita per l'imputato. L'ex militare per l'accusa partecipo' "materialmente alle operazioni di fucilazione, all'uccisione di almeno 117 ufficiali italiani, aventi tutti lo status di 'prigionieri di guerra', essendo nel frattempo intervenuta la resa delle truppe italiane nei confronti delle forze armate tedesche". Stork avrebbe agito "in concorso con gli altri militari del medesimo reparto, tutti, secondo la specifica qualità e mansione contribuendo alla materiale realizzazione del crimine e comunque reciprocamente rafforzandosi nel proposito delittuoso, senza necessità e senza giustificato motivo, per cause non estranee alla guerra e asseritamente dando esecuzione a un ordine direttamente proveniente dal Fuhrer e con il quale si disponeva, inizialmente, l'uccisione di tutti i militari italiani che 'avevano prestato resistenza attiva o passiva o che si erano uniti al nemico', in quanto considerati traditori dell'alleanza tra l'Italia e la Germania, operando in concorso con altri militari tedeschi (alcuni dei quali identificati ma nel frattempo deceduti ed altri ancora non identificati) e con più azioni esecutive di un disegno criminoso". Nel 2005 Stork, sentito sulla strage, ammise di aver fatto parte del 'plotone di esecuzione' ma di aver, appunto, obbedito agli ordini.
Quando qualche giorno fa ho letto questa notizia mi si sono presentati alla mente una serie di flashback riguardanti mio padre e gli eccidi di Cefalonia e Corfù.
Ero molto piccolo e con mamma (maestra elementare), fratello, sorella e una zia eravamo sfollati da Milano nel paesotto di Camerlata (Co); la guerra era sempre vicina, ma, per me, si riduceva a osservare gli aerei che bombardavano la vicina ferrovia, ad andare a giocare nel cortile di una casermetta dell'esercito e, successivamente, a osservare i "partigiani" che, con le mitraglie a tracolla, facevano festa sparando in aria e gli "enormi" carri armati americani che, quali moderne macchine erogatrici di brioches e coca cola, lanciavano caramelle e gomme da masticare e la mamma che andava ogni giorno alla vicina stazione ferroviaria in attesa che arrivasse qualcuno.
Qualcuno un giorno arrivò, era un uomo vestito in malo modo, con uno zaino in spalla, estremamente magro, con la barba incolta e gli occhi spaventati e confusi; ma più spaventati e confusi eravamo io e i miei fratelli. Era nostro padre che tornava dopo tre anni di prigionia. Fu molto difficile superare lo spavento, anche perchè mio padre era caduto in depressione, non tollerava il chiasso dei bambini ed era sempre nervoso. Durante la sua assenza erano deceduti i suoi genitori e la sorella Gloria e questi avvenimenti avevano contribuito a esacerbare il suo avvilimento ....
Infatti tra le carte ho trovato questa missiva inviata dal Vescovado di Tricarico a un'altra sorella di mio padre, Teresa, che viveva a Napoli.
"""" Vescovado di Tricarico, 8 settembre 1944. Gentilissima signorina, esprimo a Lei e ai suoi le più vive condoglianze per la morte di Gloria. La conoscevo dal 1921 (Gloria era maestra a Tricarico, ndr) e so quaqnto era buona e quanto ha sofferto. Ha lasciato la famiglia nella desolazione, ma essa ha cessato di soffrire ed è andata a ricevere il premio eterno. Purtroppo la notizia .......... """"
Per comprendere lo stato emozionale di mio padre ho trovato tra le carte anche questa cartolina inviata dal campo dei prigionieri liberati, ai genitori che erano già deceduti. """" Brünen, 25 agosto,1945. Carissimi genitori, approfitto di un soldato che parte oggi per inviarvi questo mio scritto. Io dovrei partire domani con il gruppo dei settentrionali; vado a Como da Livia e di lì poi spero subito di venire a Napoli. Non potete immaginare il mio animo e la mia gioia, dopo tanti anni di sofferenza. Spero di trovarvi tutti in ottima salute. Io, in questi quattro mesi di attesa mi sono completamente rimesso. Sperando di riabbracciarvi tutti presto, credetemi. Vostro aff.mo Mario"""".
Tutto passò, rientrammo a Milano e mio padre, lentamente, ritornò a essere quella persona tranquilla e pacifica che era sempre stata e riprese il suo lavoro di paleografo all'Archivio di Stato di Milano. Ricordo che non parlava quasi mai del periodo della guerra e della sua prigionia, se non al termine di qualche pranzo, passato in allegria, che gli consentiva di aprirsi a qualche ricordo. Ero curioso e ho memorizzato quegli stralci di avvenimenti che emergevano da un passato buio e doloroso.
Un giorno disse che se l'Italia avesse vinto la guerra gli sarebbe stato offerto un posto di responsabilità nel governo di una provincia dell'Albania e che aveva sognato una bella villetta per la sua famiglia.
Sulla guerra in Grecia i suoi commenti erano molto sconfortanti: parlava di impreparazione e pessimi equipaggiamenti per le truppe, di scarpe di mezzo cartone, di uniformi di stracci rimpastati, di viveri irregolari e a volte avariati, della mancanza di appoggio aereo o di artiglieria, di probabili ruberie, di tradimenti e boicottaggi e di lunghe marce nel fango e per sentieri di montagna, in compagnia dei muli, all'inseguimento di un nemico invisibile o per fuggire davanti a un nemico dieci volte più numeroso e meglio equipaggiato; e di un susseguirsi di sconfitte «qualunque punto strategico tentavamo di conquistare ... scoprivamo che le nostre mosse erano anticipate dal nemico ...... gli ufficiali superiori dicevano che i greci erano guidati da militari inglesi a loro volta pilotati dall'intelligence britannica. .... spesso le sconfitte erano addebitate alle truppe ausiliarie albanesi. Nella realtà i greci si dimostrarono un esercito forte e a proprio agio nei combattimenti tra le montagne».
Raccontava che a seguito della ritirata in Albania, dopo alcuni mesi di calma, iniziò la dura lotta contro i partigiani albanesi che avevano, di fatto, il controllo di quasi tutto il paese skipetaro; « ... ogni tanto facevamo azioni di alleggerimento per mantenere intatte le vie di comunicazione, ma la vita era assicurata solo all'ombra delle caserme».
Parlava della gioia all'annuncio dell'armistizio e dello sgomento suo, dei comandanti e della truppa, quando si resero conto che la guerra sarebbe continuata contro gli ex alleati tedeschi, i quali, a tutti i livelli, erano furiosi per il "tradimento" italiano.
Ma quello che menzionava con estremo dolore era il ricordo delle fucilazioni messe in atto dai tedeschi sugli italiani fatti prigionieri, a Corfù, e considerati traditori.
«Fucilarono molti ufficiali dai gradi più alti fino ai capitani ... io ero comandante di compagnia e mi era stata comunicata, solo verbalmente, la nomina a capitano, ma avevo ancora i gradi di tenente sulla divisa e fui fortunato ... le fucilazioni si interruppero. Sembra perchè Mussolini era stato liberato e aveva convinto Hitler a sospendere quelle esecuzioni». Quest'ultima affermazione mi lasciava un po' perplesso perchè la attribuivo al fatto che mio padre era un uomo all'antica, credeva nel giuramento fatto al Re e aveva un grande rispetto per le Istuituzioni. La storiografia ufficiale, come vedremo, dà un'altra interpretazione, ma non sempre storiografia ufficiale è sinonimo di verità.
Fotografia di Mario Caruso a venti anni (1933).
Ogni anno mio padre si recava, a Milano o in altra città, a una messa in ricordo delle vittime di Cefalonia.
Della guerra combattuta parlava poco; i suoi ricordi riprendevano con la prigionia e la liberazione. Della prigionia ricordava che i prigionieri di guerra erano divisi, dai tedeschi, in tre categorie: gli alleati, degni di rispetto e onoranza, gli italiani, definiti vili e traditori (ndr, non proprio prigionieri di guerra, ma internati, per non riconoscere loro le garanzie della Convenzione di Ginevra. Tutto cominciò l’8 settembre 1943, da quel momento i tedeschi deportarono in Germania, Polonia e nelle retrovie dei fronti, come preda bellica, 700.000 militari italiani fedeli al Re. Il 20 settembre, Hitler non li riconobbe come prigionieri di guerra e per poterli “schiavizzare” senza controlli, li classificò “internati militari” , categoria ignorata dalla Convezione di Ginevra sui Prigionieri di guerra, del 1929) e i russi, una sorta di sottospecie umana e, pertanto, il comportamento dei soldati tedeschi addetti ai campi, nei confronti dei prigionieri, era regolato da questa scala di valori.
«Eravamo trattati nel peggiore dei modi, in condizioni di vita, igienico-sanitarie, di vitto e di alloggio di pura sopravvivenza. Eravamo considerati traditori, quindi con astio e con spirito vendicativo, sottoposti ad angherie e violenze. Soggetti a continue pressioni, minacce, alternate a false promesse e lusinghe per l'adesione alla Repubblica Sociale Italiana, hanno cercato sempre di mortificare la nostra personalità; io e molti altri abbiamo sempre risposto NO! alle loro lusinghe perché eravamo tenuti al giuramento fatto al Re. Siamo stati inviati al lavoro coatto con orari impossibili e disumani, nelle fabbriche soggette, quali obiettivi primari, a continui bombardamenti aerei da parte degli alleati. La fame ci portava a mangiare la buccia delle patate buttate dalle cucine dei tedeschi e non mi vergogno di dire che abbiamo mangiato qualche topo. ». .... e infine la fuga verso la libertà e l'incontro con il mondo "organizzato, luccicante e dorato" dell'esercito americano.
Per meglio comprendere il significato di questi ricordi giova riallacciarsi al filo della storia che vide l'Italia dichirare guerra alla Grecia.
Erano le 3,00 del mattino del 28 ottobre 1940,quando l'ambasciatore italiano ad Atene, Grazzi, si presentò dal capo del governo ellenico, Metaxas, per presentargli il testo dell'Ultimatum italiano. Nel documento si intimava al governo greco di consentire alle forze italiane di occupare, a garanzia della neutralità ellenica nei confronti dell'Italia e solo per la durata del conflitto con la Gran Bretagna, alcuni, punti strategici in territorio greco. Veniva inoltre precisato che "ove le truppe italiane dovessero incontrare resistenze, tali resistenze saranno piegate con le armi e il governo greco si assumerebbe la responsabilità delle conseguenze che ne deriverebbero". Il termine ultimo per l'accettazione delle richieste italiane erano le 6:00 del mattino dunque, anche se Metaxas avesse voluto esaudirle, non avrebbe avuto il tempo materiale per avvertire il re e il consiglio dei ministri e impartire gli ordini a tutte le guarnigioni di frontiera. Terminato di leggere il documento Metaxas diede la sua risposta: «Alors, c'est la guerre». Quella mattina le truppe italiane di stanza in Albania varcarono il confine, avanzando su un fronte di 150 km dal monte Grammos al mare. In prima fila la dividione di alpini Julia e la Divisione di fanteria Parma (nel I° battaglione della Parma era inquadrato mio padre, tenente Mario Caruso) che dal mese di agosto avevano preso posizione al confine greco albanese. La disposizione tattica prevista dal generale Visconti Prasca prevedeva che la divisione Julia, suddivisa in cinque colonne procedesse verso Metzova; le divisioni di fanteria Parma, Venezia e Piemonte alla sinistra dello schieramento dovevano distribuirsi sui monti vicino a Koritza; la Bari la Ferrara e la Siena formavano l'ala destra, assieme al 5° reggimento bersaglieri, a un reggimento di granatieri, ai piccoli carri della Centauro, a due reggimenti di cavalleria, un battaglione del 5° bersaglieri, un battaglione di milizia albanese e un gruppo di artiglieria corazzata si disposero tra la costa adriatica e la Vojussa. Dopo lo sfondamento da parte della Julia avrebbe dovuto entrare in territori greco l'ala destra, mentre l'ala sinistra avrebbe dovuto contenere eventuali attachi greci dalla Macedonia; la Parma e la Piemonte avrebbero dovuto, in caso di sfondamento, presidiare Edessa e Salonicco.
Gli italiani attaccarono la mattina del 28 ottobre, respingendo le poche truppe lasciate dai greci a presidio della zona subito a ridosso del confine. Le divisioni Ferrara e Centauro mossero verso Kalpaki, mentre il Raggruppamento Litorale avanzava alla loro destra lungo la costa, riuscendo poi ad assicurare una testa di ponte oltre il fiume Kalamas. L'avanzata progrediva lentamente a causa delle pessime condizioni ambientali (era una mattina piovosa), con i carri L3 in grave difficoltà sulle colline e sulle piste invase dal fango. Il 31 ottobre il bollettino numero 146 del Comando Supremo italiano annunciava: «Le nostre unità proseguendo l'avanzata nell'Epiro hanno raggiunto il fiume Kalamas in vari punti. Le sfavorevoli condizioni atmosferiche e le interruzioni create dal nemico in ritirata non rallentano il movimento delle nostre truppe». In realtà l'offensiva italiana si muoveva con difficoltà e senza il vantaggio della sorpresa, mentre anche l'apporto dell'aviazione veniva meno a causa del brutto tempo; la leadership era incerta e divisa da rivalità personali; le condizioni avverse del mare resero impossibile il previsto sbarco a Corfù. Improvvisazione, noncuranza delle condizioni meteorologiche, mancanza di coordinamento tra le varie armi saranno tra le cause della sconfitta delle nostre truppe. Entro il 1 novembre, dopo quattro giorni, gli italiani avevano preso Konitsa e raggiunto la principale linea fortificata greca. In quello stesso giorno, il Comando supremo italiano assegnò al teatro albanese la priorità su quello africano. Nonostante i ripetuti attacchi, gli italiani non riuscirono a spezzare le difese greche, tanto che il 9 novembre l'offensiva venne sospesa. Una minaccia per lo schieramento difensivo greco proveniva dall'avanzata dei circa 10.000 uomini della 3ª Divisione Alpina Julia sulle montagne del Pindo in direzione del passo di Metsovo, posizione strategica la cui conquista avrebbe permesso di separare le forze greche dell'Epiro da quelle presenti in Macedonia. A causa della pericolosità delle conseguenze nel caso tale località fosse stata presa dagli Italiani, lo Stato Maggiore greco inviò in rinforzo al settore l'intero II Corpo d'Armata. Gli alpini della Julia, dopo aver percorso 40 km di terreno montagnoso con condizioni meteorologiche micidiali, il 2 novembre riuscirono a catturare Vovousa, 30 km a nord dell'obiettivo Metsovo, ma era ormai chiaro che non avevano abbastanza forze e rifornimenti per proseguire l'avanzata dopo l'arrivo delle riserve greche. A partire dal 2 novembre, i contrattacchi greci portarono alla riconquista di diversi villaggi, tra cui anche Vovousa.
I muli, il principale mezzo di trasporto nella campagna di Grecia.
Nel giro di una settimana i greci erano passati dalla difesa all'offensiva. Nei giorni seguenti gli alpini continuarono a combattere in terribili condizioni meteo e sotto la minaccia costante di rimanere accerchiati, mentre la divisione di cavalleria greca guidata dal generale Georgios Stanotas li teneva sotto pressione. L'8 novembre, al generale Mario Girotti, comandante della divisione Alpina, arrivò l'ordine di far ripiegare le proprie truppe in direzione di Konitsa quasi sul confine albanese. Dopo aspri combattimenti, il 10 novembre gli alpini riuscirono a completare la ritirata, raggiungendo la cittadina di Konitsa e sottraendosi così all'accerchiamento. A partire dal 13 novembre la zona di confine fu liberata della presenza italiana, ponendo fine alla "battaglia del Pindo" con una completa vittoria greca. Dopo l'arretramento della Julia i greci attaccarono a Nord Est le divisioni Parma, Venezia e Piemonte che riuscirono, però, a mantenere la posizione. L'inattesa resistenza greca colse il Comando supremo italiano di sorpresa, ça va sans dire. Venne deciso di spedire diverse divisioni in Albania, ma il numero degli uomini che potevano essere sbarcati nel paese delle due aquile era limitato dalla scarsa ricettività dei suoi porti tanto che per cercare di ovviare al problema si fece ricorso anche all'aviotrasporto, mentre i piani per gli attacchi alle isole greche vennero definitivamente cancellati. Le difficoltà incontrate dall'esercito spinsero a cercare anche un utilizzo massiccio dell'aviazione per fiaccare il morale sia delle truppe che della popolazione greca, mentre già il 9 novembre Mussolini, infuriato per la mancanza di progressi, avvicendò il comandante del Gruppo di Armate d'Albania sostituendo Sebastiano Visconti Prasca con il generale Ubaldo Soddu, già vice-ministro della guerra e vice-capo di Stato Maggiore Generale. La tattica del generale Prasca si era risolto nella quasi dissoluzione della Julia, tra il 28 ottobre e il 10 novembre la divisione perse 49 ufficiali e 1.700 soldati, sottufficiali e graduati.
Al suo arrivo, Soddu ordinò alle sue forze di attestarsi sulla difensiva. Era chiaro che l'invasione italiana era fallita. Il 10 novembre 1940, durante una riunione tra Mussolini e i Capi di stato maggiore, il Maresciallo Pietro Badoglio fu polemico: non poteva essere addebitata alcuna colpa né allo stato maggiore Generale, né a quello dell'esercito che, sin dal 14 ottobre avevano fatto presente i tempi e i modi necessari per portare a compimento l'intervento con sicurezza, senza essere ascoltati. Il Maresciallo presentò le dimissioni dalla carica di Capo di Stato Maggiore Generale, che ricopriva ininterrottamente da oltre quindici anni. Il 4 dicembre 1940 le dimissioni furono accettate da Mussolini, che nominò al suo posto il generale Ugo Cavallero.
L'inattività alla frontiera bulgara permise al Comando Supremo greco di trasferire la maggior parte delle proprie truppe verso il fronte albanese. Il 14 di novembre il Generale Alexandros Papagos, forte di una superiorità di 232.000 uomini contro circa 125.000 italiani, lanciò la sua controffensiva. L'attacco, portato in direzione di Coritza, sfondò le difese italiane il 17, la stessa Coritza cadde il 22. Il Comando Italiano conscio della gravità della situazione, ordinò alle proprie truppe di ripiegare, abbandonando anche quelle limitate porzioni di territorio greco che ancora si occupavano in Epiro, e di attestarsi lungo una nuova linea difensiva all'interno dell'Albania. La manovra aveva lo scopo di accorciare sensibilmente il fronte per permettere di raggruppare i reparti disponibili onde cercare di contenere l'offensiva ellenica. Alla Jiulia e alla Parma fu assegnato il compito di ostacolare l'avanzata dell'esercito greco allo scopo di comnsentire al grosso delle truppe italiane di arretrare. Tra l'8 e il 12 dicembre la Julia, dissanguata dopo 45 giorni di fuoco, di fame, di freddo, sostenuta da alcuni battaglioni della Parma riuscì a reggere l'urto dei greci.
Avanposto della Parma nel territorio di Koritza
Il generale Cavallero venne mandato in Albania e dal 29 dicembre sostituì Soddu, prendendo il comando delle truppe italiane. Nel frattempo l'avanzata ellenica continuava, dopo duri combattimenti veniva catturato il porto di Santi Quaranta, seguito dalle cittadine di Pogradec, Argirocastro e Himara alla vigilia di Natale, praticamente l'intera area meridionale dell'Albania risultava occupata. L'esercito ellenico, di lì a poco, riuscì anche a conquistare il passo di Klisura di grande importanza strategica. Tuttavia i greci non furono in grado di sfondare verso Berat, mentre anche la loro offensiva portata in direzione di Valona fallì. Entro la fine di gennaio del 1941, avendo gli italiani riguadagnato la superiorità numerica sul campo, la spinta offensiva greca ebbe termine.
Il fronte si stabilizzò, in quanto entrambi gli avversari non erano abbastanza forti per modificare lo stallo che si era venuto a creare. Gli italiani, dal canto loro, volendo ottenere qualche successo in questo teatro di guerra prima dell'intervento tedesco, ammassarono le loro forze per lanciare una nuova offensiva, denominata in codice "Primavera". Sotto la supervisione personale di Mussolini venne portato un attacco in direzione della Val Desnizza con obiettivo di raggiungere il passo di Klisura. L'assalto, durato dal 9 al 16 marzo, non riuscì però nell'intento di sfondare la linea di difesa ellenica sul Mali Scindeli.
Tra i documenti di mio padre ho trovato questa epopea del 49° fanteria la cui lettura, superato il fastidio di una prosa militaresca e falsa, ci racconta dove il 49° ha combattuto durante la campagna di Grecia.
“”””L’inizio del conflitto italo greco trova il 49° Reggimento fanteria sistemato in difensiva nel settore Korciano (Koritza, ndr), vasto e delicato. L’asprezza del terreno, le forze esigue in rapporto alla fronte, costituiscono elementi sfavorevoli. L’attacco greco si sferra violento in tutto il fronte, preceduto da una preparazione di artiglieria possente e precisa. La linea tenuta dai fanti del 49° si flette ma non si rompe. Di fronte alle preponderanti forze nemiche, gli assalti e i contrassalti dei fanti si susseguono, respingono il nemico. L’onore delle armi d’Italia è loro affidato in questo delicato settore: moriranno, ma non cederanno ……. Cippo 12, Cippo 26, Cippo 30, Kapesticha, Babeni, Hocisht, Cangoj, M. Kallogjerit, Vertelka, M. Cifaristhes conoscono l’eroismo e il sacrificio del I° e del III° battaglione, il sacrificio eroico del suo comandante. Pagine di gloria e di sacrificio consapevole, degne d’epopea! ..... ””””
IL testo non dice che, il 19 novembre 1941, a causa delle forti perdite, la divisione viene sostituita al fronte dalla 2^ Divisione tridentina e che deve portarsi nelle retrovie per riorganizzarsi e per ritornarre al fronte il 12 dicembre successivo. Non dice che tra il 30 ed il 31 dicembre la divisione è costretta a ritirarsi ancora, attestandosi sulla linea Bregu Beshenik – Lemsushi - Monte Tomori. Il testo non dice che all’inizio delle ostilità, il 28 ottobre, l’occupazione della Grecia doveva essere una passeggiata e che un mese dopo le nostre truppe sono costrette ad arretrare, sconfitte, più che dai greci, dall’imperizia e dalla boria del fascismo e dei suoi generali, che concepivano la guerra ancora come un gioco al massacro di uomini mandati allo sbaraglio senza supporto aereo, senza supporto di artiglierie, senza preventivo sfondamento da parte di truppe corazzate. Il documento continua:
“”””Nel ripiegamento, ordinato dalle superiori autorità, sotto la pressione avversaria, le doti di tenacia e di resistenza del 49° fanteria rifulgono di nuova luce. Bregu i Mucit, quota 1108 di Pogradec, Bregu i Saliut, costone di Trebela: nomi di gloria e di sacrifici, tributo inesausto di sangue che il reggimento nuovamente prodiga. Dal lago di Okrida, alle nevi e ai ghiacci del Tomori, al fango della valle Tomorrezza ovunque il nemico trova schierato il 49° fanteria, ovunque si infrangono i suoi rabbiosi attacchi destinati all’insuccesso. ……””””
Posizioni dopo il contrattacco greco.
""All'alba del 9 marzo ha inizio l'offensiva di primavera: sotto gli occhi del duce comincia l'intenso fuoco di preparazione dell'artiglieria, che finalmente dispone anche di grossi calibri, che spara centomila colpi in un paio d'ore. Anche l'aeronautica prepara la strada con massicci bombardamenti, ma quando infine si muove la fanteria i progressi sono lentissimi. Si combatte una battaglia di stile "carsico", con assalti, lanci di bombe a mano e violenti corpo a corpo per la conquista di qualche metro di terreno. Le perdite sono altissime, ma lo sfondamento non avviene. Per cinque giorni gli assalti vengono ripetuti, tra morti e feriti sacrifichiamo più di diecimila uomini ma la "vittoria militare assolutamente necessaria per il prestigio dell'esercito italiano" non arriva: il nemico ha sfruttato il tempo che noi impegnavamo a formare il fronte per fare una sistemazione difensiva molto efficace. L'offensiva italiana - l'ultima organizzata e condotta in autonomia prima dell'intervento tedesco - è fallita, e i motivi sono molteplici: la scarsa fantasia strategica dei nostri generali, che non sanno immaginare qualcosa di diverso dal solito sanguinoso attacco frontale; l'impreparazione militare e psicologica dei nostri soldati, il cui basso morale si ripercuote inevitabilmente sull'impeto dell'assalto; la scarsità degli ufficiali di carriera alla testa dei battaglioni; l'inefficienza dei bombardamenti aerei da alta quota; la mancanza di coordinamento tra i gruppi di artiglieria e i battaglioni che partono all'assalto. Superati infatti i primi 50, 60 metri di slancio, le batterie non allungano il tiro per tempo e rimangono ferme sulle coordinate iniziali, consentendo al nemico un limitato ripiegamento e un rapido contrattacco. Ma nell'esito deludente dell'offensiva di marzo c'è la profonda giustizia della storia. Sarebbe stato troppo comodo poter cancellare, con il colpo di spugna di un successo sanguinosamente pagato, gli errori nefasti dei mesi precedenti e far dimenticare, col narcotico di una brillante avanzata, i congelati, i morti e le umiliazioni subite sul campo di battaglia. La nostra classe politica e militare, che per vent'anni si era ammantata di bellicismo e di retorica guerriera, non ha più seri appigli o scusanti: la sua incapacità è ormai palesata, la già barcollante fiducia nella vantata potenza delle nostre armi raggiunge il suo punto più basso."" (Montanelli, Storia d'Italia).
Una nuova offensiva era in preparazione da parte italiana, ma il 27 marzo il colpo di stato del generale Simovic in Jugoslavia costrinse il comando italiano a ritirare varie divisioni dal fronte greco per guarnire la frontiera tra l'Albania e la Jugoslavia, i piani per nuovi attacchi contro l'esercito ellenico vennero quindi rimandati.
Giova ricordare, infatti, che l'adesione della Jugoslavia al patto Tripartito aveva sollevato un'ondata di proteste nel paese e, il 27 marzo, un colpo di stato guidato dal generale Dušan Simovic, aveva posto sul trono Pietro II di Iugoslavia; il nuovo Governo stipulò immediatamente un patto di non aggressione con l'Unione Sovietica ma attese fino al 2 aprile per comunicare alla Germania che non sarebbe stato stipulato nessun accordo formale con la Gran Bretagna, facendo intendere che l'accordo tra le potenze dell'Asse e la Jugoslavia non sarebbe stato sciolto. Il ritardo fu sufficiente a Hitler per confermare gli ordini diramati il 27 marzo al momento del colpo di Stato, la cosiddetta direttiva 25, che autorizzava lo Stato Maggiore tedesco a elaborare i piani di invasione della Jugoslavia che sarebbe iniziata, contestualmente a quella della Grecia, la cosiddetta operazione Marita.
Da quel momento fino al 6 aprile, quando ebbe inizio l'attacco tedesco, non vi furono più variazioni significative del fronte. In buona sostanza l'Italia aveva perso la guerra con la Grecia e costretto i tedeschi ad aprire un fronte bellico che essi non avrebbero voluto e che ritardò sensibilmente e forse, pregiudizievolmente, l'attacco alla Russia.
I greci, nonostante la sconfitta dell'esercito italiano, si trovavano ora in una situazione pericolosa, avendo dislocato 15 delle loro 21 divisioni sul fronte albanese, lasciando così relativamente scoperto tutto il tratto di confine con la Jugoslavia oltre alla linea fortificata posta a difesa del territorio a ridosso della Bulgaria, zona da cui sarebbe poi partito l'attacco tedesco. I britannici e alcuni alti esponenti greci sollecitarono l'arretramento dell'esercito dalle posizioni tenute in Albania, in modo da concentrare le truppe lungo una nuova linea di difesa che essendo più corta, avrebbe permesso di contrastare in maniera più efficace l'offensiva nazista. Tuttavia, un sentimento d'orgoglio nazionale prevalse sulla logica militare e non si vollero abbandonare le posizioni conquistate. Pertanto la maggior parte dell'esercito greco venne lasciato in Albania, mentre l'attacco tedesco si avvicinava. A causa dell'equilibrio di forze il fronte italo greco rimase praticamente fermo anche dopo lo sfondamento tedesco del 6 aprile.
Per l'invasione della Grecia la Germania schierò le forze precedentemente inviate in Bulgaria; queste comprendevano la 12^ armata, comandata dal feldmaresciallo Wilhelm List, forte di 5 divisioni di fanteria e 3 corazzate, il XVIII corpo di montagna, comandato dal generale Franz Böhme, integrato dalla divisione SS Leibstandarte, comandata dall'Obergruppenführer Josef Dietrich, e dalla IV Luftflotte, comandata dal generale Alexander Löhr, forte di circa 1.200 aeroplani, la cui zona di operazioni si estendeva anche alla Jugoslavia.
L'esercito greco, comandato dal Generale Alexander Papagos, al momento dell'attacco tedesco disponeva di tre armate, composte da 5 divisioni e una brigata di fanteria, 14 divisioni di montagna, una divisione motorizzata, dotata di 24 carri armati leggeri di produzione italiana e olandese e di qualche autocarro italiano, e una divisione di cavalleria, per un totale di 540.000 uomini, comprese 50.000 reclute; l'aviazione, dopo gli scontri avvenuti nei mesi precedenti contro la aeronautica italiana, disponeva di soli 41 caccia e la marina era dotata di una piccola flotta che comprendeva un vecchio incrociatore corazzato, più alcune antiquate unità: 2 incrociatori leggeri, 8 cacciatorpediniere, di cui 4 italiani della classe Idra, 13 torpediniere, 2 motosiluranti e 6 sommergibili.
Gli alleati, schierati nel nord del paese nei pressi del monte Olimpo, disponevano di un contingente, comandato dal generale Henry Maitland Wilson, formato dal I corpo d'armata australiano, comandato dal generale Thomas Blamey, dalla 2^ divisione neozelandese, comandata dal generale Bernard Freyberg, da due divisioni inglesi e da una brigata polacca, per un totale di circa 60.000 uomini.
Il 6 aprile 1941, alle ore 06.00, la 12^ armata tedesca, preceduta dal fuoco di sbarramento dell'artiglieria e dalle incursioni dei bombardieri Stuka, superò le frontiere della Bulgaria e della Jugoslavia per dare inizio all'invasione della Grecia; l'avanzata doveva svilupparsi lungo due direttrici principali: a ovest il grosso delle forze corazzate doveva avanzare superando Skopje, allo scopo di attraversare il confine greco nei pressi di Florina, mentre la 2^ divisione corazzata, comandata dal generale Rudolf Veiel, doveva muoversi in direzione di Strumica per dirigersi verso Salonicco; il XVIII corpo di montagna era incaricato di oltrepassare la cosiddetta linea Metaxas, una barriera fortificata lunga circa 150 chilometri lungo il confine bulgaro, presidiata dalle unità dell'armata greca della Macedonia Orientale, comandata dal generale Konstantinos Bakopoulos, mentre reparti di fanteria tedesca, integrati da truppe bulgare, ebbero il compito di occupare Xanthi e Komotini, e con esse la regione della Macedonia orientale e Tracia, Taso, Samotracia e le isole del mar Egeo site di fronte alla Turchia. Le prime unità ad avanzare verso la linea Metaxas furono la 5^ e la 6^ divisione di montagna, comandate rispettivamente dal generale Julius Ringel e dal generale Ferdinand Schörner, e, alla fine del giorno 7, la prima riuscì, nonostante alcuni tentativi di contrattacco da parte dei reparti greci, ad aprirvi dei varchi, mentre la seconda, valicando il passo di Rupel, a un'altitudine di circa 2.500 metri, discese a valle, raggiungendo la ferrovia che portava a Salonicco. La linea Metaxas, che terminava nel punto di confine tra la Bulgaria e la Jugoslavia, venne sfondata sul lato est dalle due divisioni di fanteria del XXX corpo, comandato dal generale Otto Hartmann, la 50^, comandata dal generale Karl-Adolf Hollidt, e la 16^, comandata dal generale Sigfrid Henrici, e sul lato ovest dalla 2^ divisione corazzata e dalla 72^ divisione di fanteria, comandata dal generale Philipp Müller-Gebhard, che oltrepassando il passo di Strumica, si diressero verso il confine greco jugoslavo, che venne attraversato incontrando pochissima resistenza; la velocità dei panzer tedeschi consentirono all'unità corazzata tedesca di giungere alle spalle dell'armata greca della Macedonia Orientale, che, dopo la rapida occupazione di Salonicco, avvenuta il 9 aprile, si arrese senza condizioni.
Contemporaneamente all'attacco contro la linea Metaxas il XV corpo corazzato, comandato dal generale Georg Stumme, avanzava attraverso la Jugoslavia, conquistando la città di Skopje il 7 aprile, e dirigendosi verso Monastir che fu raggiunta il giorno 10, proseguendo verso Prilep e Bitolj, nei pressi del confine con la Grecia, che venne attraversato il giorno successivo; la rapida avanzata delle truppe corazzate tedesche stava ponendo le basi per un possibile accerchiamento delle due armate greche impegnate contro gli italiani in territorio albanese, e il contingente alleato, la cosiddetta forza W, non disponeva di mezzi sufficienti per fermarla e quindi il generale Wilson ritenne di arretrare la linea difensiva nella zona a sud del fiume Aliakmon e sul monte Olimpo, allo scopo di aumentare le possibilità di difesa per la capitale, e il ripiegamento fu protetto da alcune unità di retroguardia, supportate dai pochi aerei della RAF. Alla testa delle truppe tedesche si trovava la divisione corazzata SS Leibstandarte Adolf Hitler che fu la prima ad attraversare il confine greco jugoslavo e, il giorno 11, essa raggiunse la città di Vevi ma la resistenza della retroguardia alleata rese vani i suoi assalti fino all'arrivo della 9^ divisione corazzata, comandata dal generale Alfred von Hubicki, che riuscì a sfondare la linea difensiva facendo arretrare le truppe alleate sulla linea precedentemente raggiunta dal grosso del contingente comandato del generale Wilson. L'occupazione della città di Vevi consentì ai tedeschi di conseguire l'obiettivo di isolare le due armate greche impegnate contro gli italiani: il 13 aprile il generale Stumme dette ordine alla Leibstandarte Adolf Hitler di congiungersi con la 73^ divisione di fanteria, comandata dal generale Bruno Bieler, e di dirigersi a sud ovest verso Kastoria, allo scopo di tagliare la ritirata dei Greci, che, quello stesso giorno, avevano iniziato il ripiegamento e, il giorno 15, la città fu conquistata e tutte le possibili vie di fuga furono chiuse. Già il giorno 12, non appena giunse l'ordine da parte di Papagos alle truppe elleniche impegnate in Albania di cominciare a ritirarsi onde cercare di evitare di essere insaccate, il comandante dell'armata dell'Epiro richiese ai propri superiori di cominciare a trattare un armistizio, la richiesta venne respinta, ma il 20 aprile il comandante dell'armata della Macedonia occidentale Tsolakoglu prese l'iniziativa e avviò trattative di resa con i soli tedeschi.
Il 13 aprile, contemporaneamente all'inizio della manovra di accerchiamento delle armate greche dell'Epiro e della Macedonia Occidentale, la 9^ divisione corazzata tedesca proseguì in direzione di Atene e, per tentare di contrastarne l'avanzata, il generale Wilson disponeva di un'unica brigata corazzata, posizionata a sud di Ptolemais, i panzer riuscirono ad attraversare un terreno paludoso, che inizialmente era considerato impraticabile, e attaccarono, supportati dalla Luftwaffe, i carri alleati distruggendone 32 e proseguendo nell'avanzata. La situazione indusse Wilson a ripiegare ulteriormente in quanto, dopo la conquista di Salonicco da parte del XVIII corpo di montagna, questo stava avanzando verso sud, lungo la direttrice del mar Egeo, rischiando di chiudere in una morsa l'intero contingente alleato e il generale Papagos maturò l'idea di suggerirne l'evacuazione degli alleati dalla Grecia; il comandante inglese non ritenne possibile una soluzione differente e ordinò la ritirata in direzione del passo delle Termopili, lasciando alcune unità in retroguardia allo scopo di rallentare l'avanzata tedesca, per tentare di raggiungere Atene, al fine di permettere ai soldati di imbarcarsi verso Creta o Alessandria.
Il 14 aprile la 9^ divisione corazzata tedesca conquistò la città di Kozani, stabilendo una testa di ponte a sud del fiume Aliakmon, ma la resistenza dei reparti di retroguardia della 2^ divisione neozelandese riuscì a contenerne l'avanzata ed il generale Stumme fu costretto a ordinare alla 5^ divisione corazzata, comandata dal generale Gustav Fehn, di dirigersi a ovest, verso Grevena, per aggirare il passaggio tenacemente tenuto dalle truppe del generale Freyberg, ma, a causa del terreno difficilmente percorribile dai mezzi corazzati, la divisione impiegò quattro giorni per raggiungerla, consentendo alle truppe di Wilson di proseguire il ripiegamento dell'ala ovest del suo schieramento verso le Termopili. Contemporaneamente a est la 2^ divisione corazzata tedesca stava proseguendo la sua marcia verso sud, seguita dal XVIII corpo di montagna, ma, anche su quel lato dello schieramento, il terreno rendeva estremamente difficoltoso il movimento dei carri armati e, al fine di non perdere velocità, il generale Veiel, ordinò a un reparto di motociclisti di precederne l'avanzata; il 15 aprile, sotto la spinta dei panzer e dei reparti di fanteria che aggirarono le posizioni difensive, i neozelandesi furono costretti a ripiegare verso la gola del fiume Peneus, che rappresentava l'ultimo ostacolo naturale di fronte alle Termopili. Il 16 aprile fu ordinato alla 5^ ed alla 6^ divisione di montagna di aggirare i fianchi della gola dove avrebbe dovuto transitare la 2^ divisione corazzata, la quale attaccò il giorno 18, superando il fiume e raggiungendo Larissa il 19 aprile, infliggendo gravi perdite al nemico, mentre, al centro del fronte, la 5^ divisione corazzata occupò Trikala, chiudendo in una morsa le forze di retroguardia alleate che stavano proteggendo la ritirata del grosso del contingente, impedendogli di congiungersi con la linea difensiva predisposta da Wilson sul passo delle Termopili.
Il 20 aprile la 5^ e la 2^ divisione corazzata tedesche, punte avanzate dei rispettivi corpi, proseguirono in direzione delle Termopili, mentre ad Atene era in corso un'intensa attività tra i vertici militari alleati e le autorità greche: il 19 aprile si tenne una riunione tra Re Giorgio II, il generale Papagos ed i generali inglesi Wilson e Wavell, dove furono definiti i termini dell'evacuazione del contingente alleato. Contemporaneamente a nord il generale Tsolakoglu, disobbedendo alle direttive precedentemente ricevute, accettò di firmare nelle mani di Josef Dietrich la resa della 1^ armata greca e contestualmente di tutte le forze armate del paese, resa che fu formalizzata il 21 aprile presso il comando della 12^ armata tedesca. La notizia delle trattative giunse a Mussolini dal generale Alfredo Guzzoni che, dopo un colloquio telefonico con il generale Enno von Rintelen, era stato da questi informato che il feldmaresciallo List aveva chiesto al generale Cavallero di interrompere l'avanzata delle truppe italiane per non ostacolare le trattative per l'armistizio in corso con il generale Tsolakoglu. Il Duce accolse con sdegno la comunicazione fornitagli dal generale Guzzoni e pretese che l'armistizio fosse formalizzato alla presenza di rappresentanti italiani, e, allo scopo, per tutta la giornata intercorsero comunicazioni tra i Ministeri degli esteri dei due paesi, con l'intervento diretto di Galeazzo Ciano e di Joachim von Ribbentrop, e, a dispetto delle reiterate proteste dei greci, fu concordata la ripetizione della cerimonia per il giorno 23 in una villa nei pressi di Salonicco, con la presenza del generale Ferrero in rappresentanza dell'Italia.
Ma, l'armistizio non riguardava gli alleati. Il giorno 21, il XVIII corpo raggiunse Volos, per proseguire rapidamente verso Lamia, a nord ovest delle Termopili che venne raggiunta anche dalla 5^ divisione corazzata; il 23 aprile le avanguardie delle forze tedesche iniziarono l'attacco verso le Termopili, che avvenne sia dalla costa che dalle colline prospicienti il passo; la 6^ divisione di montagna, dopo un intenso bombardamento da parte degli Stuka, attuò il primo assalto che, nonostante la strenua difesa dei reparti neozelandesi, registrò i primi sensibili progressi, mentre i panzer, attardati dal terreno inadatto, soffrirono alcune perdite; il generale Freyberg, comandante della 2^ divisione neozelandese, rimasto in linea con i soldati, ricevette l'ordine di dirigersi verso uno dei punti d'imbarco concordati, ma egli rimase sul posto, iniziando il ripiegamento solo dopo la mezzanotte. L'attacco in forze, condotto da parte dei tedeschi il giorno successivo, sfondò le ultime difese alleate, consentendo una rapida avanzata verso sud, e le residue forze di Wilson ripiegarono verso Tebe, nel tentativo di stabilirvi una nuova linea difensiva, ma anche questa venne superata di slancio il 26 aprile, costringendo il contingente a ritirarsi definitivamente verso i porti meridionali della Grecia. L'imbarco delle truppe alleate sarebbe potuto avvenire con relativa facilità dal porto del Pireo ma un bombardamento, avvenuto il 6 aprile ne aveva fortemente ridotto la capacità e quindi esse dovettero dirigersi verso alcuni piccoli porti della Grecia continentale quali Rafina, Megara e Porto Rafti, e altri approdi nel Peloponneso quali Nauplia, Monemvasia e Kalamai. L'Oberkommando der Wehrmacht, allo scopo di tagliare la ritirata del contingente alleato, predispose un piano per bloccare il canale di Corinto e intrappolare le unità che dovevano ancora attraversare il ponte e, il 26 aprile, reparti della 7^ divisione paracadutisti furono lanciati su Corinto e nei pressi del ponte ma gli inglesi riuscirono a farlo saltare, rendendo inefficace l'azione tedesca, ma molti dei soldati alleati che lo avevano già attraversato e che non riuscirono a fare in tempo a imbarcarsi furono fatti prigionieri dai reparti della divisione Leibstandarte che stavano velocemente occupando tutto il Peloponneso.
Il 27 aprile la 2^ e la 5^ divisione corazzata fecero il loro ingresso ad Atene, innalzando la bandiera tedesca sull'Acropoli, ponendo fine alle ostilità nella Grecia continentale; l'operazione Marita era stata portata a termine in tre settimane con perdite modeste e, durante la campagna e nei giorni immediatamente successivi, le isole del mar Egeo e del mar Ionio sarebbero cadute una dopo l'altra in mano alle forze dell'Asse con la sola eccezione di Creta.
Sul fronte italo greco il 12 aprile il comando supremo greco aveva ordinato alle truppe d'Albania di dare inizio alla ritirata, diradando progressivamente il fronte. Il 14 la 9^ Armata italiana, forzato il Devoli, occupò Korça, il 15 Bilisthti, il 17 Ersekë. La progressione fu lenta a causa delle difficoltà opposte dal terreno. Nel primo mattino del 22 la compagnia mitragliatrici del 4° Bersaglieri arrivò a ponte di Perati, trovandolo già occupato da un reparto tedesco che, adducendo l'avvenuto armistizio fra la Germania e la Grecia stipulato il giorno prima a Larissa, vietò il passaggio. L'11^ Armata, iniziò il proprio movimento il 13 aprile lungo la direttrice Tepeleni - Argirocastro - bivio di Kalibaki – Gianina - Missolungi. Anch'essa incontrò difficoltà rilevanti connesse agli ostacoli naturali e alla tenace resistenza greca. Nonostante tutto il 17 aprile riconquistò Klisura. In quello stesso giorno lo schieramento delle retroguardie avversarie dal Tomori al mare era crollato; la sinistra dell'Armata, con la Pusteria, si attestava ad Ersekë; al centro la Bari risaliva la valle della Vojussa verso Premeti, mentre in quella del Dhrinos la Ferrara e la Casale si avvicinavano ad Argirocastro; l'ala destra, alquanto più arretrata, era a Porto Palermo. Fra il 19 ed il 22 reparti della Bari, della Cagliari e della Cacciatori delle Alpi ebbero ragione della testa di ponte di Perati, congiungendosi con quelli della 9^ armata giunti in contemporanea; anch'essi furono obbligati dalle truppe tedesche a fermarsi.
Una delle ultime azioni a cui presero parte dei soldati italiani in questo teatro bellico ebbe come obiettivo il possesso delle isole Ionie, il 28 aprile un nucleo di soldati trasportati sul posto da alcuni idrovolanti accettarono la resa del presidio di Corfù, mentre il 30 aprile elementi del II battaglione paracadutisti si aviolanciarono sull'isola di Cefalonia occupandola, successivamente utilizzando dei natanti trovati in loco presero possesso anche dell'isola di Zante. Giova ricordare che l'invasione da parte della Wehrmacht dell'isola di Creta, la cosiddetta "operazione Mercurio", iniziò il 20 maggio 1941 ed ebbe termine il 1º giugno, quando fu completata l'evacuazione della guarnigione alleata dall'isola. La conquista di Creta fu un successo da parte delle truppe aviotrasportate tedesche ma le elevatissime perdite indussero Hitler a porre di fatto termine alle loro operazioni, tanto che, per tutto il prosieguo della guerra esse furono impiegate quasi esclusivamente come forza di fanteria ordinaria. Infatti, dei tremila paracadutiasti lanciati sull'isola solo circa mille si salvarono.
Nell'ambito dell'offensiva italo-tedesca, il 14 aprile la Divisione Parma occupa Kulmakes, il 15 Panarit, il 19 prende il controllo della strada Korca-Ersekë e il 21 raggiunge Perati dove è colta dal termine delle ostilità. La divisione rimane in Albania come forza di occupazione. La Divisione, cui è aggregato il 2º Reggimento "Cacciatori d'Albania", viene destinata al presidio del settore compreso tra Tepelenë, Argirocastro, Himara e Valona, dove sarà impegnata in attività di contro-guerriglia e difesa costiera fino all'8 settembre 1943, giorno dell'armistizio di Cassibile.
Il 3 maggio 1941 un'imponente parata italo-tedesca ad Atene celebra la vittoria delle potenze dell'Asse.
Offensiva finale italo-tedesca
Con la firma della resa e la successiva conquista di Creta, il paese ellenico venne suddiviso tra le forze italiane, tedesche e bulgare:
- La Germania occupò militarmente la Macedonia centrale e orientale con l'importante porto di Salonicco, la capitale Atene, le isole dell'Egeo Settentrionale e parte dell'isola di Creta.
- La Bulgaria ottenne la Tracia.
- L'Italia, che era già presente nell'Egeo con i possedimenti del Dodecaneso, ottenne il controllo della quasi totalità della Grecia continentale, oltre alle isole Ionie, Corfù, Zante e Cefalonia, alle Cicladi e alle Sporadi Meridionali, con Samo e Icaria e alla parte orientale di Creta.
Ad Atene venne instaurato un governo militare greco, sottoposto al controllo della Germania e dell'Italia, con alla guida il Generale Tsolakoglu.
Da qualsiasi prospettiva la si voglia guardare, la campagna di Grecia fu la più disastrosa di tutta la guerra e le sue ripercussioni furono traumatiche per l'immagine dell'Italia e del regime che la governava. Fino a quel momento, benché la potenza militare italiana si fosse rivelata alquanto debole, nessuno poteva onestamente prevedere che non sarebbe riuscita ad avere la meglio sulla piccola Grecia. Invece era accaduto anche questo. Le ambizioni di Mussolini di condurre in piena autonomia dall'alleato una "guerra parallela" erano definitivamente frustrate. Il bluff era stato scoperto, da allora in poi l'Italia avrebbe potuto proseguire la guerra solo come satellite della Germania. La guerra che Mussolini, Ciano e alcuni generali arrendevoli o ambiziosi, sette mesi prima, avevano considerato una passeggiata e una formalità si era conclusa con la sconfitta della cosiddetta guerra parallela e con un bilancio di vittime spaventoso: 13.755 morti accertati, 50.874 feriti, 12.368 congelati, 25.067 "dispersi" per non parlare del materiale bellico andato perduto.
La campagna di Grecia termina in maniera ancor più umiliante di come era iniziata, e Churchill dichiara alla Camera dei Comuni: ".. il dittatore italiano si è congratulato con l'esercito italiano in Albania per gli allori gloriosi che ha conquistato con la sua vittoria sui greci. Questo è senz'altro il record mondiale del ridicolo e dello spregevole. Questo sciacallo frustrato, Mussolini, che per salvare la pelle ha reso l'Italia uno stato vassallo dell'impero di Hitler viene a far capriole a fianco della tigre tedesca con latrati non solo di appetito - il che si potrebbe comprendere - ma anche di trionfo ..."
Nel marzo del '41 le divisioni italiane cominciarono a rimpatriare. Altre furono destinate all'occupazione della Grecia e al presidio dell'Albania e tra queste anche il 49° reggimento Parma con il compito di presidiare le zone di Argirocastro e Koritza. Tra l'estate e l'inverno del '41 l'Albania sembrava una sorta di oasi defilata dal gigantesco conflitto mondiale. Nemmeno i più pessimisti potevano immaginare che sulle montagne di Albania e Jugoslavia si stavano organizzando gruppi di partigiani che avrebbero resa molto dura la vita ai contingenti italiani. Molti villaggi nelle gole boscose dell'entroterra e sulle alture dominnati la litoranea tra Valona e Porto Edda si erano sottratti al controllo italiano e si erano proclamati "libere repubbliche skipetare"; l'esercito italiano riusciva a malapena a mantenere le posizioni strategiche sul mare. Anche i tedeschi, in tutto il settore balcanico, si resero conto che la completa eliminazione del "nemico" nei territori occupati era un'impresa illusoria e impossibile; terminata la guerra dei "bollettini di vittoria" era iniziata un'altra guerra, oscura, sorda, implacabile, fatta di imboscate e rapidi colpi di mano, guerra di atrocità e vendette.
Come sia finita la guerra è ben noto. Occorre ricordare che nella prima metà del 1943, in una situazione generale di grave preoccupazione, indotta dall'opinione, sempre più condivisa, che la guerra fosse ormai perduta e che stesse apportando insopportabili e gravissimi danni al Paese, Benito Mussolini, capo del fascismo, operò una serie di avvicendamenti, che investirono alcuni dei più significativi centri di potere, e delle alte cariche dello Stato, rimuovendo, tra l'altro, alcuni personaggi che reputava ostili alla prosecuzione del conflitto accanto alla Germania, o comunque più fedeli al Re che non al regime. Secondo alcuni studiosi, fu a seguito di tali sostituzioni, finalizzate a rafforzare il regime in crisi di consenso, che Vittorio Emanuele avrebbe rotto gli indugi e iniziato a progettare un piano che consentisse la destituzione del duce. Per questo fu avvicinato Dino Grandi, uno dei gerarchi più intelligenti e prestigiosi dell'élite di comando, che in gioventù si era evidenziato come il solo vero potenziale antagonista di Mussolini all'interno del Partito Nazionale Fascista, e del quale si aveva motivo di sospettare che avesse di molto rivisto le sue idee sul regime. A Grandi, attraverso garbati e fidati mediatori fra i quali il Conte d'Acquarone, ministro della Real Casa, e lo stesso Pietro Badoglio, si prospettò l'opportunità di destituire il dittatore. Grandi riuscì a coinvolgere nella fronda sia Giuseppe Bottai, altro importantissimo gerarca che sosteneva l'idea originaria e "sociale" del fascismo operando sui campi della cultura, sia Galeazzo Ciano, che oltre che ministro ed altissimo gerarca anch'egli, era pure genero del Duce. Con essi Grandi diede vita all'Ordine del Giorno che avrebbe presentato alla riunione del Gran Consiglio del Fascismo il 25 luglio 1943 e che conteneva l'invito rivolto al re a riprendere le redini della situazione politica. Mussolini fu arrestato e sostituito da Badoglio, anziché, come era stato sempre detto a Grandi, da Enrico Caviglia, generale di più stimate qualità personali e professionali. L'arresto di Mussolini, che aveva aperto la strada a un istintivo entusiasmo popolare durato poche ore, non significava la fine della guerra, che continuava "a fianco dell'alleato germanico", ma era un tassello della manovra sabauda per giungere alla pace. Attraverso canali dei più disparati, si cercò un contatto con le potenze alleate, cercando di ricostruire quei passaggi delle trattative (sempre indicate come spontanee e indipendenti) già intessute da Maria José, consorte di Umberto. Furono stabiliti molti contatti con gli alleati finchè si giunse alla trasmissione di un telegramma che preannunciava l'imminente invio del generale Giuseppe Castellano per la firma dell'armistizio. Il telegramma fu intercettato dai tedeschi in Italia che presero a mettere sotto pressione, attraverso il comandante della piazza di Roma, il Maresciallo Badoglio. Il 2 settembre Castellano partì per Cassibile, per dichiarare l'accettazione da parte italiana del testo dell'armistizio; non aveva tuttavia con sé alcuna autorizzazione scritta a firmare. Badoglio, che non gradiva che il suo nome fosse in qualche modo legato alla sconfitta non gli aveva fornito deleghe per la firma, auspicando evidentemente che gli Alleati non pretendessero altri impegni scritti oltre al telegramma spedito il giorno precedente. Gli alleati furono molto duri e determinati; non avevano una grande fiducia negli italiani. Castellano sottoscrisse il testo di un telegramma da inviare a Roma, redatto dal generale Bedell Smith, in cui si richiedevano le credenziali del generale, cioè l'autorizzazione a firmare l'armistizio per conto di Badoglio, che non avrebbe più potuto evitare il coinvolgimento del suo nome; si precisò che, senza tale firma, si sarebbe prodotta l'immediata rottura delle trattative. Solo alle 16,30 pervenne un telegramma che, oltre all'esplicita autorizzazione a firmare l'armistizio per conto di Badoglio, informava che la dichiarazione di autorizzazione era stata depositata presso l'ambasciatore britannico in Vaticano D'Arcy Osborne. A quel punto si procedette alla firma del testo del cosiddetto armistizio 'breve'. Apposero la loro firma Castellano, a nome di Badoglio, e Walter Bedell Smith (futuro direttore della CIA) a nome di Eisenhower. Alle 17,30 il testo risultava firmato. Fu allora bloccata in extremis dal generale Eisenhower la partenza di cinquecento aerei già in procinto di decollare per una missione di bombardamento su Roma, minaccia che aveva corroborato lo sveltimento dei dubbi di Badoglio e che probabilmente sarebbe stata attuata se la firma fosse saltata. A Castellano furono solo allora sottoposte le clausole contenute nel testo dell'armistizio 'lungo', già presentate invece a suo tempo dall'ambasciatore Campbell al generale Giacomo Zanussi, anch'egli presente a Cassibile già dal 31 agosto, che tuttavia, per ragioni non chiare, aveva omesso di informarne il collega. Bedell Smith sottolineò che le clausole aggiuntive contenute nel testo dell'armistizio "lungo" avevano tuttavia un valore che dipendeva dalla effettiva collaborazione italiana alla guerra contro i tedeschi. Nel pomeriggio dello stesso 3 settembre Badoglio si riunì con i ministri della Marina, De Courten, dell'Aeronautica, Sandalli, della Guerra, Sorice, presenti il generale Ambrosio e il ministro della Real Casa Acquarone: non fece cenno alla firma dell'armistizio, riferendosi semplicemente a trattative in corso. Fornì invece indicazioni sulle operazioni previste dagli Alleati; in particolare, nel corso di tale riunione, avrebbe fatto cenno allo sbarco in Calabria, a uno sbarco di ben maggiore rilievo atteso nei pressi di Napoli e all'azione di una divisione di paracadutisti alleati a Roma, che sarebbe stata supportata dalle divisioni italiane in città perché ormai l'Italia avrebbe agevolato gli alleati. Intanto Hitler, il 7 settembre, aveva chiesto al suo comando di formalizzare in un ultimatum le pressanti richieste che i comandi militari tedeschi facevano al comando supremo italiano. Le richieste comprendevano la libertà di movimento delle truppe tedesche in ogni parte del territorio italiano, in particolare le installazioni della marina militare, il ritiro delle truppe italiane dalle zone di confine con il reich, la sottomissione di tutte le truppe italiane presenti nella valle del Po alle direttive del Heeresgruppe B, la creazione di un grande contingente di truppe italiane per la difesa dell'Italia del sud dall'invasione alleata e la modifica della catena di comando in favore di un controllo tedesco delle forze armate italiane. L'ultimatum doveva essere firmato da Hitler il 9 settembre, ma l'annuncio dell'armistizio lo rese inutile. Nelle prime ore del mattino, dopo un bombardamento aeronavale alleato delle coste calabresi, ebbe inizio fra Villa San Giovanni e Reggio Calabria lo sbarco di soldati della 1ª Divisione canadese e di reparti britannici; si trattò di un imponente diversivo per concentrare l'attenzione dei tedeschi molto a sud di Salerno, dove avrebbe avuto invece luogo lo sbarco principale. Due americani, il generale di brigata Maxwell D. Taylor e il colonnello William T. Gardiner, furono inviati in segreto a Roma per verificare le reali intenzioni degli italiani e la loro effettiva capacità di supporto per i paracadutisti americani. La sera del 7 settembre incontrarono il generale Giacomo Carboni, responsabile delle forze a difesa di Roma. Carboni manifestò l'impossibilità delle forze italiane di supportare i paracadutisti americani e la necessità di rinviare l'annuncio dell'armistizio. Gli americani chiesero di vedere Badoglio, il quale confermò l'impossibilità di un immediato armistizio. Eisenhower, avvisato dei fatti, fece annullare l'azione dei paracadutisti, che avevano già parzialmente preso il decollo dalla Sicilia, e decise di rendere pubblico l'armistizio. Alle 18,30 dell' 8 settembre gli alleati annunciarono l'armistizio dai microfoni di Radio Algeri. Alle 18,45 un bollettino della Reuters raggiunge Vittorio Emanuele e Badoglio al Quirinale; il re decise di confermare l'annuncio degli americani. L'armistizio fu reso pubblico alle 19,45 dell'8 settembre dai microfoni dell'EIAR che interruppero le trasmissioni per trasmettere l'annuncio (precedentemente registrato) della voce di Badoglio che annunciava l'armistizio alla nazione.
L'annuncio dell'armistizio da parte degli alleati colse del tutto impreparate e lasciò quasi prive di direttive le forze armate italiane che si trovavano impegnate nei fronti all'estero, e quelle all'interno del paese: non vi erano ordini né piani, né ve ne sarebbero stati nei giorni a seguire. Il mattino successivo, di fronte alle prime notizie di un'avanzata di truppe tedesche dalla costa tirrenica verso Roma, il re, la regina, il principe ereditario, Badoglio, due ministri del Governo e alcuni generali dello stato maggiore fuggirono da Roma dirigendosi verso il sud Italia per mettersi in salvo dal pericolo di una cattura da parte tedesca. La fuga si arrestò a Brindisi che divenne per qualche mese la nuova capitale del Regno. Badoglio, dopo la fuga di Caporetto sarà ricordato anche per la fuga da Roma.
Il progetto iniziale era stato quello di trasferire con il re anche gli stati maggiori al completo delle tre forze armate, ma solo pochi ufficiali raggiunsero Brindisi. Tristemente noto è l'episodio dell'imbarco nel porto di Ortona: poiché non c'era posto per tutti i componenti del numeroso seguito, molti di loro, pur essendo alti ufficiali delle Forze Armate, si gettarono inutilmente all'assalto della piccola corvetta "Baionetta", e una volta respinti a terra, colti dal panico, vestirono abiti borghesi e, abbandonando bagagli e uniformi per terra nel porto, si diedero alla macchia.
Così, mentre avveniva il totale sbandamento dell'esercito italiano, le armate tedesche della Wehrmacht e delle SS presenti in tutta la penisola poterono far scattare l'operazione Achse (secondo i piani già predisposti sin dal 25 luglio dopo la destituzione di Mussolini) occupando tutti i centri nevralgici del territorio nell'Italia settentrionale e centrale, fino a Roma, sbaragliando quasi ovunque l'esercito italiano: la maggior parte delle truppe fu fatta prigioniera e venne mandata nei campi di internamento in Germania, mentre il resto andava allo sbando e tentava di rientrare al proprio domicilio.
Nonostante alcuni straordinari episodi di valore in patria e su fronti esteri da parte dell'esercito italiano (tra i più celebri si ricordano quelli che si conclusero con gli eccidi di Cefalonia, di Corfù e di Coo), quasi tutta la penisola cadde sotto la pronta occupazione tedesca e l'esercito venne disarmato, mentre l'intera impalcatura dello Stato cadde in sfacelo. Le Forze Armate italiane riuscirono a sconfiggere e mettere in fuga il nemico tedesco solo a Bari, in Sardegna e in Corsica (che era stata occupata dall'Italia). A Napoli, invece, fu la popolazione a mettere in fuga le truppe nazifasciste dopo una battaglia durata 4 giorni (episodio che sarebbe poi passato alla storia come le cosiddette quattro giornate di Napoli). Una questione a parte si originò circa la mancata difesa di Roma, che poté essere facilmente espugnata dai tedeschi. La Marina, che era ancorata nei porti da circa un anno per penuria di carburante, dovette consegnarsi nelle mani degli Alleati a Malta come prescritto nelle condizioni di armistizio.
La difesa di Corfù.
Dopo l'8 settembre lo sconcerto delle truppe italiane presenti sui vari fronti fu assoluto e in particolare vediamo qual era la situazione sull'isola di Corfù.
La sera dell'8 settembre sono presenti nell'isola di Corfù le seguenti forze italiane
Comandante Militare dell'Isola (Col. Luigi Lusignani)
1 compagnia Carabinieri Reali
1 compagnia Guardia di Finanza
18° Reggimento Fanteria (Col. Luigi Lusignani)
Vice Comandante Militare dell'Isola (Ten. Col. Alfredo D'Agata)
III Gruppo Cannoni da 75/27/33° Reggimento Artiglieria Divisionale (Ten. Col. D'Agata)
1 gruppo cannoni da 105/28/8° Raggruppamento Artiglieria di Corpo d'Armata
333^ Batteria Contraerea da 20/65 (meno 2 sezioni)
1 compagnia genio artieri
1 plotone genio radiotelegrafisti
elementi di sanità
elementi di sussistenza
Comando Marina "Corfù" (C.F. Nicola Ostuni)
1 flottiglia dragamine
Ufficio Porto di Corfù
unità minori portuali
Comando Aeroporto (Ten. Albano)
Sull'isola è anche presente un presidio tedesco di circa 450 effettivi, agli ordini del Ten. Col. Klotz, formato da specialisti delle trasmissioni e dei servizi, in parte impegnati nell'installazione di due batterie da 150. Poco dopo la proclamazione dell'armistizio i collegamenti con l'Italia e con la Grecia si interrompono per cui il Col. Lusignani deve affrontare la situazione con le sole forze di cui dispone. Alle ore 8.30 del giorno 9 settembre giunge un cablogramma del Comando 11^ Armata di Atene: "Fino ad ore 10 nove corrente manterrete posizioni e vi difenderete da attacchi di qualsiasi provenienza. Ore 10 consegnerete Comando tedesco postazioni fisse, antinavi e antiaeree, conservando artiglierie mobili e armamento individuale. Saranno impartiti ordini circa rimpatrio." Lo stesso ordine con il suo carico di ambiguità giungerà anche all'isola di Cefalonia. Il Col. Lusignani ritiene di non dover prendere in considerazione il messaggio in quanto contrario all'onore militare. Del resto anche questo, come quello giunto a Cefalonia, al Gen. Gandin, avrebbe potuto essere un trucco messo in atto dagli specialisti tedeschi. Il comandante militare dell'isola provvede ad impartire i primi ordini d'emergenza: il comando difesa e quello dell'artiglieria saranno nel castello di Corfù, fanteria e artiglierie creeranno diversi capisaldi, formando anche una riserva di manovra. La mattina del 10 settembre si presenta al comando italiano il Ten. Col. Klotz chiedendo la consegna dei poteri, ma riceve un netto rifiuto; nel frattempo avvengono vari incidenti provocati dai tedeschi. Nella notte viene intercettato un messaggio del Comando Supremo (di Brindisi) così espresso: "Riferimento quanto comunicato circa situazione isola dovete considerare truppe tedesche come nemiche e regolarvi in conseguenza. Generale Rossi". Verso le ore 13 giungono parlamentari tedeschi e il Col. Lusignani riesce a patteggiare con loro: il possesso di Corfù resta agli italiani, i tedeschi possono rimanere nelle loro sedi, ma devono avvisare prima di ogni spostamento. Arrivano anche notizie poco confortanti: si viene a sapere che le truppe di presidio in Albania e in Grecia che hanno ceduto le armi sono state poi inviate nei campi di concentramento in Germania e non rimpatriate come promesso dai tedeschi. Alle 11.30 del giorno 13 un convoglio che trasporta un gruppo tattico tedesco guidato dal maggiore Dodel viene fatto segno dalle artiglierie italiane: tre unità sono affondate e tre danneggiate; un secondo convoglio è costretto a invertire la rotta.
Il presidio di Porto Edda in Albania intanto ripiega su Corfù; vi giungono circa 3.500 uomini:
Comando 49° Reggimento Fanteria/Divisione "Parma" (Colonnello Elio Bettini)
I Battaglione/49° Reggimento Fanteria (tra questi era mio padre Mario con il grado di tenente)
III Battaglione/232° Reggimento Fanteria/Divisione "Brennero"
DXLVII Battaglione Costiero
VIII Battaglione Milizia "Varese"
CIX Battaglione Milizia "Macerata"
XV Gruppo Artiglieria Guardia alla Frontiera (con 2 sezioni cannoni da 75/27)
31° Ospedale da Campo
elementi del genio fotoelettricisti
elementi di sussistenza
elementi della guardia di finanza
elementi della Marina.
La sera del 13 giungono a Corfù anche le torpediniere "Sirtori" e "Stocco" inviate dall'Italia. Il 14 un attacco aereo di Stuka danneggia la "Sirtori", poi fatta incagliare sulla spiaggia, mentre la "Stocco" riceve l'ordine di rientrare a Brindisi. La mattina del 15 viene respinto un secondo tentativo di sbarco tedesco. Il 16 il colonnello Lusignani fa completare l'armamento dei partigiani greci e dispone il loro impiego per la lotta antiparacadutisti; il Comando Supremo intanto gli concede la Medaglia d'Argento al Valor Militare sul campo.
L'Aeronautica dispone una "ricognizione offensiva" su Corfù per il giorno 17, ma non se ne conosce l'esito. Il giorno successivo seguono altre missioni aeree a protezione del presidio italiano. Il giorno 19 settembre arriva la MS 33 carica di medicinali, la motonave "Probitas" e le torpediniere "Clio" e "Sirio", poi avviate a Santi Quaranta in Albania dove imbarcano e rimpatriano 1.760 soldati. All'alba del 20 due ufficiali inglesi si paracadutano sull'isola e portano l'elogio personale del generale Eisenhower, mentre proseguono gli attacchi di velivoli tedeschi. Nella notte del 24 i tedeschi riescono a sbarcare: si tratta di tre gruppi tattici appartenenti alla 1^ Divisione Cacciatori da Montagna. Nel contrastare lo sbarco le perdite italiane ammontano a circa 500 uomini. Il 26 settembre il presidio italiano è costretto alla resa; circa 280 ufficiali sono rinchiusi nel Castello di Corfù, mentre la truppa è raccolta nell'aeroporto; numerosi militari riescono a fuggire grazie all'aiuto della popolazione locale. 29 ufficiali (tra i quali Lusignani e Bettini) sono fucilati, altri sono eliminati con un colpo di pistola e alcuni deportati in Germania; il 10 ottobre oltre 4.000 prigionieri vengono imbarcati sulle navi; all'apparire di aerei alleati gli italiani manifestano gioia, ma i tedeschi li mitragliano facendo molte vittime; una delle navi è anche affondata dagli stessi aerei alleati, pochi superstiti si salvano a nuoto. 'La strage di Corfu è' meno conosciuta di quella di Cefalonia, ma ha avuto lo stesso svolgimento. Non ci fu una votazione come a Cefalonia, ma tutti i militari decisero di non consegnare le armi. Anzi, è stato il primo atto di resistenza al nazismo, in quanto cominciò il 13 settembre, e si concluse il 25 settembre''. Il numero dei caduti italiani nell'isola di Corfù è incerto, ma si può calcolare intorno ai 1.315 uomini, il che porta il totale delle perdite italiane nelle isole di Cefalonia e Corfù a circa 9.065 vittime e più di 1.200 feriti, oltre ai 4.000-4.500 internati in Germania, molti dei quali non faranno più ritorno. Giova notare che a Corfù gli italiani al comando del colonnello Lusignani catturarono il presidio tedesco, composto da 450-550 militari della Wehrmacht, 441 dei quali (di cui sette ufficiali) furono trasferiti in Italia, scortati da alcune decine di carabinieri, su pescherecci mobilitati dal locale capo partigiano Papas Spiru: questi furono gli unici prigionieri di guerra tedeschi in mano a Badoglio, ed è verosimile che si debba ad essi, per reciprocità, il mancato massacro dei nostri a Corfù, a differenza di Cefalonia.
La guerra di Grecia che era cominciata con il delittuoso sacrificio della Julia si chiudeva tre anni dopo con gli eccidi di Cefalonia, Corfù e Coo. Nel mezzo trentacinque mesi di stupidità, di incompetenze, di ferocia insensata, di sacrifici, di soliatari atti di coraggio, "tra due parentesi rosse di sangue e nere di morte".
Intanto, con l'operazione Quercia, il 12 settembre 1943 i paracadutisti del Lehrbataillon (2. Fallschirmjägerdivision) e alcune SS del Sicherheitsdienst, avevano liberato Mussolini, che, per ordine di Badoglio, era stato imprigionato a Campo Imperatore sul Gran Sasso.
Trattamento dei prigionieri italiani in mano tedesca
Per comprendere cosa mio padre, come altre centinaia di migliaia di soldati, abbia dovuto sopportare durante il periodo della "prigionia" è necessario spiegare quale fosse lo scenario nel quale vennero a trovarsi i soldati italiani catturati dai tedeschi.
Il particolare accanimento tedesco contro i militari italiani si manifestò immediatamente con i feroci massacri dei prigionieri in quei fronti di guerra nei quali le forze armate italiane avevano opposto resistenza al disarmo e alla cattura. L'atteggiamento persecutorio nei confronti dei soldati italiani si perpetuò nei Lager e, per di più, i tedeschi riuscirono a eludere, con la complicità dei fascisti di Salò, ogni forma di controllo e di intervento internazionale a favore dei prigionieri italiani.
La costituzione della repubblica sociale offrì, infatti, ai tedeschi il pretesto per sospendere l'invio a Ginevra delle cartoline di cattura: gli italiani furono considerati "internati militari", non protetti, perciò, dalla convenzione del 1929, sullo specioso rilievo che essi, appartenendoi a uno stato alleato della Germania (la R.S.I.), non erano prigionieri di guerra, bensì militari temporaneamente dislocati all'estero, in attesa di essere reimpiegati.
Nonostante lo scetticismo del Comando Supremo tedesco, fu prevista, come personale favore di Hitler nei riguardi di Mussolini, la costituzione di quattro divisioni, da addestrare in Germania, con contingenti tratti dai campi di concentramento, integrati dai coscritti della classe 1924, che sarebbero affluiti a partire dal 15 novembre 1943. Le divisioni erano: la San Marco, la Monte Rosa, la Littorio e l'Italia, che sarebbero state rimpatriate, a ultimato addestramento, e avrebbero costituito il primo nucleo del futuro esercito repubblicano.
Prima ancora della costituzione della R.S.I., ai militari italiani era stato proposto, subito dopo la cattura, di collaborare, come combattenti o come lavoratori, con le forze armate tedesche, ma esigue erano state le adesioni. Costituita la R.S.I., l'adesione per le previste unità italiane appariva più dignitosa e le prospettive di rimpatrio degli aderenti non mancarono di essere magnificate dal governo fascista, con adeguata propaganda sia nei Lager, sia in Italia, ottenendo che alle pressioni esercitate direttamente nei campi dagli emissari fascisti si aggiungessero quelle delle famiglie in attesa.
Contemporaneamente, pervennero dall'Italia, da parte di ditte e di enti vari, numerose richieste nominative di personale ritenuto necessario nell'attività esercitata anteguerra, accompagnate e appoggiate dal caldo invito delle famiglie (ma, anche in tali casi, l'adesione implicava il riconoscimento della R.S.I.). Per gli internati fu questo il problema centrale: resistere alle pressioni politiche e familiari e, con esse, alla nostalgia della Patria, alla fame e al freddo (l'inverno 1943 -1944 fu particolarmente crudo e i tedeschi, a ragion veduta, mandarono gli internati, senza vestiario adeguato, a svernare nei Lager della Polonia fino allora riservati ai soli russi che erano morti a migliaia); oppure, con l'adesione, riconoscere come legittimo il governo della repubblica sociale. Era una scelta cui gli internati non potevano comunque sottrarsi e, rimanendo nei campi, restava l'amara consapevolezza che con una semplice firma si sarebbe potuto evitare, oltre alle sofferenze morali e fisiche, il prevedibile rischio di soccombere (circa 40.000 internati pagarono con la vita il loro rifiuto, altri, a causa delle sofferenze e della denutrizione, contrassero malattie e invalidità che, dopo la liberazione, li costrinsero a lunghi soggiorni in ospedali e convalescenziari o li condussero a morte).
Come reazione alla propaganda nazifascista, nacque all'interno dei Lager la resistenza alle adesioni. La questione che, inizialmente, ciascuno aveva risolto secondo le proprie inclinazioni o, più semplicemente, paventando di rimanere in balia dei tedeschi, divenne un problema collettivo, in una più ampia visione degli avvenimenti e nella meditata riflessione su quale fosse il dovere verso la Patria. Le conferenze di carattere culturale, le adunate regionali e d'arma, gli stessi sermoni dei Cappellani, furono pretesto e occasione per approfondire il problema e per un'attiva contropropaganda che i tedeschi non tardarono a scoprire e a reprimere, pretendendo la preventiva censura sugli argomenti trattati in tali manifestazioni. Ciò non impedì tuttavia che l'opera di dissuasione continuasse, clandestinamente e capillarmente, attraverso i colloqui nelle baracche e, in ogni occasione, nei contatti personali con gli incerti e i più esposti alle sollecitazioni.
La contropropaganda, che, spontaneamente, si sviluppò in ogni Lager, sortì effetti diretti e indiretti: gli aderenti non superarono l'1,03% e moltissimi furono i disertori che, al rimpatrio delle divisioni repubblicane, passarono ai partigiani. Senza parlare poi degli effetti negativi che il mancato rientro della gran massa degli internati ebbe sulla popolazione dell'Italia occupata, nei rapporti sia con i tedeschi invasori, sia con le autorità fasciste. Ovvia, infine, l'importanza, sul piano politico internazionale, dell'atteggiamento assunto nei confronti del fascismo da una massa così qualificata di italiani.
Ne risultò, a ogni richiesta, un sempre minore numero di aderenti, malgrado le pressioni reiterate per mesi e mesi e l'aggravarsi delle restrizioni di volta in volta minacciate e puntualmente messe in atto come principale mezzo di coercizione.
La responsabilità di tali vessazioni risaliva, sia ai tedeschi, sia alla R.S.l.; allorquando, ad esempio, per venire incontro alla disastrosa situazione degli internati, la Croce Rossa Internazionale offrì alle autorità di Salò il suo aiuto, queste subordinarono l'accettazione degli invii di viveri e di medicinali «all'eliminazione di ogni etichetta o contrassegno delle merci e dei generi, in quanto tutti di provenienza di paesi sotto il controllo del nemico»; e, poiché la Croce Rossa non accettò tale condizione, assurda quanto in mala fede, nessun aiuto poté giungere agli internati.
A parte il raffronto con la diversa sorte riservata agli altri prigionieri (francesi, belgi, inglesi, ecc. si trovavano talvolta in campi confinanti con quelli dei militari italiani), cominciarono a farsi sentire le conseguenze della lunga fame e del freddo, nonché delle pessime condizioni igieniche. Cimici, pulci, pidocchi rendevano incombenti le minacce di epidemie: quelle di tifo petecchiale, che già avevano ucciso negli stessi campi migliaia di russi, rifecero la loro comparsa (dichiarata la quarantena e senza medicine, il cibo veniva passato attraverso il reticolato). La tubercolosi, le oligoemie, gli edemi da fame aumentavano, e anche gli ospedali, per l'assoluta mancanza di medicine e la persistente scarsità di cibo, offrivano poco sollievo: nei soli Lazarettlager di Zeithain, di Górlitz e di Fullen - tre fra i vari ospedali per internati - morirono 2.258 militari.
Anche per il resto, le prospettive non erano incoraggianti. Il trattamento inflitto dai tedeschi, esasperati dal fermo contegno della massa degli internati, si faceva sempre più duro: estenuanti trasferimenti da campo a campo, interminabili appelli nella neve, con temperature bassissime, continue umiliazioni, percosse. In vari campi si ebbero esecuzioni sommarie di singoli e collettive, per infrazioni disciplinari anche lievi; per i più ostinati vi erano i campi di punizione o il trasferimento ai KZ, come, ad esempio, a Dora, dove morirono per le sevizie 296 militari; ad Hildesheim, nell'Hannover, furono impiccati 132 militari dei circa 500 addetti allo sgombero delle macerie dei bombardamenti; 150 militari furono fucilati nel Lager di Sebalduschof di Treuenbrietzen, e così via in una serie incontrollabile di assassini.
Nel febbraio 1944 erano praticamente cessati gli arruolamenti per l'esercito di Salò, ma continuarono, invece, con gli stessi metodi, le pressioni per le adesioni al lavoro (invece degli emissari fascisti, venivano ora nei Lager gli imprenditori tedeschi per scegliere gli elementi da ingaggiare). Fin dall'inizio, i tedeschi, con brutale sfruttamento, avevano impiegato i soldati e i sottufficiali italiani nelle miniere e nell'industria e, in aperta violazione della Convenzione di Ginevra, anche in attività attinenti alla produzione bellica; altrettanto si verificò più tardi, per gli ufficiali, con l'invio generale al lavoro coatto.
Il 20 luglio 1944, infatti, con l'accordo Hitler-Mussolini fu adottata una soluzione radicale per il problema del lavoro. Premesso che la situazione interna italiana non aveva consentito di fornire alla Germania il contingente di mano d'opera previsto si stabilì che il potenziale lavorativo degli internati militari venisse « sfruttato in pieno per il processo di produzione in Germania». Inoltre, si escluse, espressamente da parte italiana, "qualsiasi richiesta di rimpatrio", apparendo nocivo reintegrare nella madrepatria elementi che, "a causa delle loro condizioni morali, avrebbero potuto facilmente passare al campo avversario".
La soluzione, il cui unico lato positivo fu quello di sottrarre centinaia di migliaia di italiani dell'Italia occupata alla deportazione in Germania per il lavoro forzato, ebbe per effetto che i tedeschi si sentirono autorizzati a usare ogni costrizione per fare uscire dai Lager tutti gli internati e impiegarli nelle industrie, comprese quelle belliche. Era, però, un accordo che, non solo trasformava arbitrariamente gli internati militari in civili, (cosiddetti "liberi lavoratori"), ma che la Germania aveva stipulato con la R.S.I., cioè con un governo che gli internati avevano sempre rifiutato di riconoscere.
Di fronte alla ferma resistenza degli italiani, i tedeschi non si arrestarono e gli internati, ufficiali compresi (questi ultimi, privati a forza dei gradi), vennero inviati al lavoro sotto la sorveglianza della polizia, mentre i più ribelli furono trasferiti negli orrendi "campi di rieducazione al lavoro"..
Sulla situazione degli I.M.I., così si era espresso, fin dal 27 marzo 1944, il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia: « Il C.L.N.A.I., a notizia del selvaggio trattamento al quale vengono sottoposti, da parte degli aguzzini nazisti, gli ufficiali e i soldati italiani internati nei campi di concentramento in Polonia che si sono rifiutati di prestare servizio nelle organizzazioni militari e civili tedesche; esprime a questi coraggiosi la sua solidarietà e l'ammirazione dei liberi e degli onesti di tutto il mondo; denuncia i responsabili dei delitti e delle atrocità affinché siano, a suo tempo, giudicati e giustiziati come criminali di guerra».
L'odissea degli internati si concluse, con la fine della guerra in Europa, nell'aprile-maggio 1945. Per oltre tre anni essi avevano combattuto su tutti i fronti, compiendo il loro dovere di militari; per venti lunghi mesi in mano di un feroce nemico, avevano lottato contro il nazismo e il fascismo, come uomini liberi, ed avevano avuto fra i reticolati, come già sui campi di battaglia, i loro caduti.
Qualche tempo fa, dopo il decesso di mia madre, ho avuto modo di trovare documenti di cui non ero a conoscenza, riguardanti la vita di mio padre dall'armistizio, alla breve guerra con le truppe tedesche a Corfù e alla prigionia. I documenti erano in parte consunti o distrutti dal tempo e in parte illegibili. Riporto alcune testimonianze che dànno ragione a quei flashi di ricordi di mio padre.
Queste notizie le ho ricavate dallo stato di servizio militare di mio padre.
""""....richiamato alle armi e assegnato al 47° reggimento di fanteria ... 11 dicembre 1940
...... assegnato al 49° reggimento di fanteria e mobilitato ........ 2 gennaio 1941
Partito con Aereo dell'Aeronautica da Foggia e arrivato all'aeroporto di Tirana ...il 3 gennaio 1941
Giunto in territorio dichiarato zona di guerra ..... il 3 gennaio 1941
.... catturato dalle truppe tedesche a Corfù e internato in Germania .....il 25 settembre 1943
...rimpatriato e inviato in licenza di 60 gg. ....il 4 settembre 1945
.... collocato in congedo ................... il 3 novembre 1945
Ha partecipato dall'8-1-41 al 23 aprile 1941 a operazioni di di guerra al confine greco-albanese, 49° Fanteria
Ha partecipato dal 18/11/42 al 28/9/1943 a operazioni di guerra nello scacchiere balcanico, 49° Fanteria
Decorato della croce al merito di guerra in data 31/8/1948 """"
Quest'altro documenta il fatto che Mario Caruso era stato, effettivamente, nominato capitano.
""""DISTRETTO MILITARE DI MILANO
Prot. 010/Inf/3198/5380 - Milano 26/2/1955
Al Cap. Ftr. Cpl. Caruso Mario - Via Omboni, 6 Milano
Il Ministero della Difesa Esercito con dispaccio n. 1/3073/SAUC dell'11/2/1955 ha comunicato che, con Decreto Presidenziale 16/11/1954 registrato alla Corte dei Conti il 23/12/1954 in registro 52, foglio 140 (in corso di pubblicazione sul B.U.), la S.V. è stata promossa al grado di capitano con anzianità assoluta e decorrenza assegni primo gennaio millevovecentoquarantaquattro.
La presente partecipazione è valida a tutti gli effetti.
Vivissimi complimenti.
IL COLONNELLO COMANDANTE
N. DI AMATO""""
Questo è l'allucinante proclama emesso dal comandante della 9^ Armata dopo la sconfitta con la Grecia.
""""COMANDO NONA ARMATA
Ufficiali, sottufficiali, graduati, soldati e legionari della 9^ Armata
La campagna d'Albania è finita!
Per lunghi mesi, combattenti dell'Armata dal silenzio operoso, avete sofferto e lottato mantenendo intatta la fede nella vittoria. Avete sofferto nel fango dello Shkumbini, del Devoli, del Tomorriza e sugli innevati greppi del Guri Topit e del Tomori. Avete lottato contro un nemico aggressivo, tenace, valoroso e per un lungo periodo strapotente di forze. Avete avuto fede anche quando chiunque avrebbe disperato. Pur essendo l'armata su due fronti voi spiccaste da entrambe il primo balzo della definitiva riscossa portando ovunque il tricolore in terra nemica.
Avete ben meritato della patria!
E oggi, mentre l'armistizio segna con la Vittoria la fine di un periodo di storia, Io, vostro comandante, mi inchino reverente ai nostri morti e abbraccio voi tutti con commosso affetto di padre, affermando che ciascuno di voi è in diritto di rammentare fieramente questi giorni e dire domani orgogliosamente ai propri figli: 'Io fui della 9^ Armata d'Albania'.
IL GENERALE D'ARMATA COMANDANTE
ALESSANDRO PIRZIO BIROLI
KORCA, 23 aprile 1941- XIX""""
Questo ordine di servizio mostra in modo inequivocabile lo stato di confusione degli alti comandi, dopo l'8 settembre, e la volontà di non farsi sopraffare dai tedeschi dei comandanti di reggimento e battaglione.
""""49°Reggimento Fanteria "Parma" - Comando I° Battaglione
25 settembre 1943, ore 16
Oggetto: Comunicazione
Al Capitano Stefanucci Giulio..... Com. 1/a Cp
Al Capitano De Filippi ................Com. 2/a Cp
Al Tenente Caruso Mario............Com 3/a Cp
Al S.ten Como Francesco............Com. CC
Al S.ten Albanese Luigi ..............Com. Pl Mortai 81
E' probabile che si verifichino infiltrazioni di truppe tedesche fra le nostre truppe. Verificandosi tale eventualità non debbono avere luogo combattimenti. Il comandante di reparto sul cui fronte si verificassero infiltrazioni si presenterà al Comandante delle truppe tedesche, come parlamentare e inviterà a presentarsi al Comando Bettini un delegato dei tedeschi. Questi dovrà prima essere accompagnato a questo Comando. Siano prese tutte le disposizioni del caso per evitare assolutamente incidenti o atti inconsulti da parte di qualche elemento. Tali sono gli ordini perrvenuti ora dal Colonnello Bettini.
Segnare ricevuta a mezzo latore.
Il Maggiore comandante del battaglione
(Ildebrando Bertolini)
Nota manoscritta del maggiore Bertolini " E' opportuno che le disposizioni di cui sopra non vengano a conoscenza dei partigiani" """".
Queste seguenti note erano riportate in un quaderno che mio padre ha portato con sè da Corfù fino alla liberazione e salvatosi miracolosamente attraverso infinite peripezie. Questa sorta di diario non contiene espressioni che potevano irritare i tedeschi che lo avessero trovato in un'eventuale perquisizione. Molte pagine risultano, parzialmente, illeggibili, specialmente le ultime, quelle della fuga e della liberazine; evidentemente esse rispecchiano quei momenti di eccitazione e di mancanza sistemazioni atte alla scrittura. Esso descrive con minuzia la vita di un prigioniero di guerra nei lager tedeschi. Il punto interrogativo indica l'incertezza della parola. Tra i documenti ho trovato anche un dizionario tedesco - inglese, fornitogli dagli alleati; evidentemente in quei tre anni aveva imparato il tedesco; questo spiega la facilità che aveva di muoversi in Germania.
"""" La sera dell'8 settembre '43 alle ore 20 apprendiamo dalla radio della firma dell'armistizio tra Italia, Inghilterra e Usa. La sera del 12 alle ore 10 ricevo l'ordine di approntare la compagnia per partire alla rotta di Corfù con armi e munizioni. Il 13 settembre alle 0,30 parto alla volta di Corfù. Alle ore 5 sbarchiamo senza essere disturbati da aerei nemici: con i camion conduco la compagnia in località Manduchio. La notte del 13 la città di Corfù viene bombardata. Il 15 (?) procediamo a piedi verso Tebloni con compiti di antiparacadutismo, durante il tragitto siamo oggetto di osservazione aerea da cui ci sottraiamo nascondendoci nei boschi. A Guvino prendo contatto con il maggiore Carbonara e il suo aiutante maggiore Canepa Carlo. A Tebloni dispongo la compagnia in assetto difensivo, il 16, visita del colonnello Lusignani che elogia la mia compagnia per il perfetto stato di addestramento e ordine, il 18, il maggiore Bertolini Ildebrando assume il comando del battaglione. Il 26 settembre è dichiarata la resa dell'isola al nemico. Disarmo del battaglione, dopo aver reso gli onori militari al colonnello Comandante. Ore 17 in Fortezza ove restiamo fino al 1 ottobre.
13/10/43 Partenza per la prigionia a Deblin (Polonia, voivodato di Lublino, ndr) attraverso il seguente itinerario: Igoumenitsa, Florina (campo sportivo, gabbia), dal 13 al 28 ottobre, Skopje, Nich, Belgrado, Wilipeck, Kaposvàr, Sopron, Vienna, Linz, Dresda, Leignitz, Glogau, Deblin Irena, Stammlager 307, N° 24.771, III Blocco, 3^ Compagnia, Camerata 30. Tramutato in Oflag 77.
23 marzo 1944. Partenza per Lathen (Germania, Bassa Sassonia, ndr). con il seguente itinerario: Varsavia, Francoforte sull'Oder, Erkner (completamente distrutta), Berlino, Hannover, Osnabruck, Meppen, Lathen. Campo a 13 km. Oflag 6. Baracche con oltre 200 letti in legno a tre piani. Un rancio al giorno molto scarso; le forze se ne vanno.
9 aprile. Messa di Pasqua cantata e all'aperto, molto commovente. 12/4. Chiedo di andare a lavorare in una fabbrica come operaio meccanico. Firmo un contratto di lavoro per 6 mesi per la ditta Nichense in Nordhorn. 28/4 Partenza in torpedone per Nordhorn. Finalmente senza reticolati e sentinelle; arrivo alla nuova sede alle 14. Sembra di tornare un po' a vivere; camerate da 18 posti, letti a due piani, lenzuola, tavoli, sedie, libertà di entrare e uscire fino alle 22. Due ranci al giorno: pane 400 gr. al giorno. I primi giorni in fabbrica lavoro al reparto legname, poi ottengo di cambiare e vengo assegnato al Reparto officina meccanica. Numero di lavoro 4464, ore di lavoro 6-12, 13-17,30, paga 1 marco al giorno in buoni per acquisti.
17 luglio '44. La vita procede regolarmente, lavoro, lager, letto. Il vitto viene integrato con acquisti di pane in cambio di sigarette. Si è sempre in attesa che il Signore ponga termine a qusta via crucis. Fede e speranza.
17/9 ore 9. Viene una commissione per chiedere la firma per il passaggio a lavoratore civile (i lavoratori civili potevano essere sottoposti a lavori pesanti senza la tutela della Croce Rossa, ndr). Rifiuto e resto in attesa di decisioni da parte del comando militare tedesco. 18 settembre ore 12. La marcia della fame. Mentre sono in fabbrica sono comandato di uscire dove veniamo inquadrati da sentinelle tedesche; perdiamo la nostra libertà per la seconda volta. Lasciamo il lager e andiamo verso Schuttorf (20 km); dormiamo nelle cabine di una piscina. 19/9. Seconda tappa Dreierwalde (25 km). 20/9. Terza tappa Laggenbeck (30 km). Sosta in una stalla. 21/9 Quarta tappa Hasbergen (20km). Sosta in una stalla. In questi 4 giorni abbiamo avuto 2 etti di marmellata e 1,5 kg di pane. 22/9. Quinta tappa Osnabruck (15 km). Arriviamo in un lager VI C dove vi sono soldati che anch'essi hanno rinunciato alla firma del passaggio a lavoratori civili. Qui si prospetta il dilemma o lavorare come civili o morire di fame. 23/9. Alle 11 ci viene comunicato che, in treno, rientriamo a Nordhorn. Alle 12 siamo alla stazione e alle 20 prendiamo il treno. Alle 22 arriviamo a Rheine. Alle 23 la stazione viene bombardata. 24/9. Alle 4 prendiamo il treno per Bentheim. Alle 5 ripartiamo, alle 9 siamo a Nordhorn. Qui ci si prospetta nuovamente il dilemma o firmare oppure ripartire per una nuova marcia della fame, questa volta con il bagaglio in spalla. Dopo 7 giorni di simile vita siamo prostrati e volontariamente poniamo la firma. 26 settembre 1944. Torniamo in fabbrica e io passo dall'officina meccanica alla Werberei come tessitore. Frequento la scuola per impratichirmi. 28/9 Vengo passato alla sala dei tessitori dove mi affidano due macchine per tessitura. Orario 6-12, 12,30-17. Per la nostra nuova posizione non possiamo scrivere in Italia. (Giova ricordare che i cosiddetti militari civilizzati godevano di una illusoria semilibertà di movimento e di orario, ricevevano un salario mensile di 120 marchi al mese, ma dovevano pagarsi tutto: vitto, integrazioni alimentari, sigarette, alloggio, magari nello stesso lager coi cancelli aperti e il piantone tedesco, vestiario, lavanderia. ndr).
Nella documentazione di mio padre ho trovato questo ordine di servizio.
""""Stalag VI/C
Bathorn, den 25 sept, 1944
Lo stalag VI/C dichiara che l'italiano militare internato Caruso Mario, N° di matricola 21771/207 il 24 sept, 1944 secondo la disposizione del OKW N° 05777/44 del 12/44 è stato trasferito da internato a lavoratore civile.
Firma
Hauptmann (firma illeggibile).""""
Giova ricordare che la trasformazione da internati a civili fu concordata tra Hitler e Mussolini, come risulta dal seguente documento.
Promemoria consegnato dal Duce al Fiihrer il 20 luglio 1944, riguardante l'accordo per la trasformazione degli Internati Militari Italiani in lavoratori civili.
""""La situazione italiana non ha consentito in questi ultimi mesi di dare alla Germania l'atteso contributo di mano d'opera ch'era stato previsto.
Qualche mese fa il Maresciallo Kesselring ha assorbito circa 70.000 unità lavorative italiane, mentre 60.000 sono state date al Maresciallo dell'Aria Von Richthofen.
Successivamente è stato richiesto al Governo della Repubblica Sociale un contributo di quasi un milione di unità lavorative.
Allo stato attuale delle cose è impossibile aderire a tale richiesta:
1) a causa della sensibile diminuzione del territorio nazionale;
2) per la demoralizzazione che si è prodotta presso tutte le classi sociali italiane, in seguito alla caduta di Roma e alla successiva avanzata nel territorio italiano delle forze angloamericane.
Tale stato d'animo aggiunto al fatto che recentemente sono rientrati dalla Germania degli ammalati provenienti dai campi d'internamento, ridotti in pietose condizioni fisiche, ha determinato una forma di avversione al reclutamento in Germania per ragioni lavorative. Mentre perciò da parte degli organi della Repubblica Italiana vivissimo è il desiderio di contribuire allo sforzo produttivo della Germania, difficile appare il reclutamento della mano d'opera italiana.
Stando così le cose, è mio dovere di proporre:
1) che il potenziale lavorativo degli internati militari italiani venga sfruttato in pieno per il processo di produzione germanica: per raggiungere questo deve essere migliorata la loro situazione materiale.
2) sarebbe opportuno avviare la parte rurale degli internati ai lavori agricoli.
3) gl'internati dovrebbero essere selezionati a seconda delle loro capacità di rendimento professionale e manuale.
4) a parte degli internati aderenti potrebbe essere permesso l'inquadramento in vere e proprie categorie militari. Potrebbe in tal modo venir attuata una parte del programma del maresciallo Goering circa l'impiego nella Lutwaffe germanica.
5) Da quanto precede viene esclusa da parte italiana qualsiasi richiesta di rimpatrio in Italia, in quanto anche io sono convinto che sarebbe nocivo reintegrare nella madrepatria degli elementi, che, a causa delle loro determinate condizioni morali, potrebbero facilmente passare al campo avversario.
Una soluzione del problema degli internati militari nel senso sopraesposto costituirebbe da un lato un apporto di alcune centinaia di migliaia di forze lavorative all'industria e all'agricoltura germaniche e, dall'altro, avrebbe per conseguenza un notevolissimo alleggerimento della situazione politica interna della RSI.
Il risolvimento di questo problema in uno con la battaglia che si sta dando al banditismo partigiano in Italia, rappresenterebbe senza dubbio un contributo decisivo per il ripristino e il rafforzamento del Governo Fascista.
F.to Mussolini"""".
4/10. Per la prima volta aerei alleati bombardano la periferia di Nordhorn; l'allarme suona quando gli aerei sono già sulla città. 21/10 Alle 15,45 la città viene bombardata, una bomba esplode a 200 metri dal lager, altre bombe cadono in fabbrica e sul palazzo della Powel. Il salone di tessitura è stato preso in pieno, fortunatamente era di sabato pomeriggio e noi eravamo nella baracca; nella città non è stato dato l'allarme. Diminuita la razione settimanale di pane. 28/10. A seguito del bombardamento una parte degli ufficiali è andata a sgomberare le macerie. Per poter mangiare siamo stati in riga dalle 12 alle 18. Un paio di bombe hanno centrato la città, gli aerei nemici (notare come la paura trasformi gli aerei alleati in aerei nemici ndr) hanno sganciato due bombe nel bosco a 500 metri dal lager Un po' di panico. 29/10. Sveglia ore 3,30. C'è una novità per questa domenica. Tutti i lavoratori stranieri, italiani, russe, uomini e donne olandesi, francesi, belgi e altri prendiamo un treno, alle 5, per un percorso di circa 12 km; siamo in campagna e vi restiamo fino alle 16 per scavare una trincea per la 'difesa a oltranza della Germania'; per tutto il tempo aerei alleati hanno sorvolato sulle nostre teste senza sganciare bombe. La linea ferroviaria Nordhorn - Bentheim è stata interrotta per cui torniamo a casa (notare la parola casa, ndr) a piedi. Arriviamo alle 19; il rancio è meglio del solito. 30/10. Nell'orario del mio lavoro c'è una novità: Faccio il turno notturno 15- 2 di notte, mi sembra migliore, sia per riposare, sia per il lavoro in se.
8/11 ore 10 Nuovamente aerei americani hanno sganciato una decina di bombe vicino alla fabbrica: Un nostro collega S.Ten. Rufo è stato colpito da una scheggia e portato all'ospedale. 9/11 ore 2. Mentre usciamo dalla fabbrica un aereo nemico ci mitraglia, fortunatamente nessuno è stato colpito. Sempre, giorno e notte il cielo di Nordhorn è sorvolato da aerei americani e inglesi in formazioni numerose. Il Signore ci aiuti. 12/11. Passiamo tutta la giornata fuori, presso Bentheim per scavare trincee; il tempo inclemente ci ha perseguitati con acqua, freddo e vento. Torniamo inzuppati e infreddoliti. 13-18/11. Tutta la settimana sono adibito ai lavori di scavo trincee all'acqua e al vento, presso la fabbrica. 19-20/11. Andiamo ad Hastrup per approntare opere di fortificazione. Partiamo alle 4,30 e torniamo alla sera verso le 19. Compenso tre fettine di pane con burro. Dalla stazione al posto di scavo ci sono 6 km a piedi per sentieri fangosi. 21/11. In fabbrica l'orario è ora 7,30 - 18, si peggiora sempre. 23/11. Lasciamo in 36 la fabbrica 'Nichense und Dutting' e veniamo assegnati all'Organizzazione Tod (L'Organizzazione Todt - OT fu una grande impresa di costruzioni che operò, dapprima nella Germania nazista, e poi in tutti i paesi occupati dalla Wehrmacht impiegando il lavoro coatto di più di 1.500.000 uomini e ragazzi. Creata da Fritz Todt, l'organizzazione operò in stretta collaborazione con gli alti comandi militari durante tutta la seconda guerra mondiale utilizzando prigionieri di guerra, ndr), per fare i muratori nelle trincee. Veniamo liquidati dalla fabbrica e alle 13 andiamo alla stazione. Alle 14 partiamo per Bentheim e di qui per Rheine dobbiamo fare 1km a piedi perchè la stazione è distrutta. Aspettiamo fino alle 20 sotto l'aqcqua e prendiamo un treno per Burgsteinfurt dove aspettiamo oltre tre ore sotto l'acqua il treno per Oberhausen dove arriviamo alla una del 24/11 e aspettiamo fino alle 11 in stazione finchè non vengono quelli della O.T. e, a piedi, facciamo 12 km con il bagaglio in spalla e arriviamo a Mülheim an der Ruhr nel lager internazionale Hemweg (?)-22. Stanze brutte, niente lenzuola, pagliericci vuoti, due piccole coperte. Siamo avviliti, trattati come bestie. 26/11. Andiamo al lavoro ingaggiati dalla ditta francese Hocke, come manovali muratori per lavori di scavo per ricoveri antiaerei. Continua la Via crucis, orario 7-12, 13-17.
A questo punto sono obbligato a interrompere il racconto di mio padre per ritornare alla nostra casetta di Camerlata dove vivevamo mia madre, i miei fratelli, io e una zia. C'è stato un periodo durato alcuni mesi durante il quale mia madre si diede da fare in modo frenetico. Aveva trovato una sistemazione provvisoria per me e mio fratello (saremmo dovuti andare a vivere da una collega della mamma a Brunate), mia sorella sarebbe rimasta a Camerlata con la zia, perchè, tramite la Tod, lei sarebbe andata a congiungersi con mio padre e a lavorare come operaia in Germania. Ricordo quella bella passeggiata con la funicolare Como-Brunate e la graziosa villetta dove saremmo dovuti andare a vivere. Fortunatamente mia madre fu ben consigliata e non ne fece nulla. .....
26/11- 3/12. Durante la serttimana abbiamo avuto un bombardamento aereo. 5 grosse bombe sono cadute a 100 metri dal lager. Abbiamo avuto i vetri rotti e tutto intorno distrutto. Siamo stati a Essen dove ci sono la Siemens e la Krupp, tutto distrutto. Abbiamo parlato con il delegato italiano Molteni Tino, ci ha promesso il suo aiuto per liberarci dalla Tod e trovarci un'occupazione migliore. Visitiamo Duisburg anch'essa completamente distrutta. Si mangia liberamente nei ristoranti senza carta, una brodaglia e un piatto di patate e krauti; si è liberi da quella schiavitù di Nordhorn, la polizia non si cura di noi. Siamo liberi. Il vitto nel lager è pessimo. A mezzogiorno sul posto di lavoro acqua completa, alla sera una gavetta di crauti, patate e miglio, pane 1/2 kg al giorno, i companatici, ora, sono più abbondanti, burro ogni giorno, formaggio una volta alla settimana, spesso salame. (Frase illeggibile). 4-12/12. Nessuna novità sulla nostra sistemazione; facciamo sempre i manovali presso la ditta Hocke, per lavori di costruzione di rifugi per la popolazione civile. Fortunatamente si lavora con un po' di rilassatezza e ciò rende il lavoro meno faticoso, ma sentiamo che non potremmo resistere a lungo con una simile vita. Che Dio ci assista. 10-17/12. Sono stato tutta la setimana a casa con la febbre. Nessuna novità. Il sig. Molteni, che doveva aiutarci a non fare più i muratori, è partito per l'Italia. Restiamo con un sacco di chiacchiere e una pala in mano a fare ricoveri (i ciarlatani della burocrazia imperversavano anche allora, ndr). Il rancio è completato con stamgenichte (?) nei ristoranti all'impiedi. Durante la settimana solo qualche bomba in Mülheim; molto battute Essen e Duisburg. 18/12. Giornata molto attiva in fatto di allarmi. Intensa attività aerea. 24/12 ore 12. Intenso bombardamento a pochi chilometri. 25/12 ore 16. Un apparecchio precipita durante un duello aereo. Come pranzo natalizio, patate al sugo con crauti e carne, un po' di pane, burro e salame. 28/12. Sono stato a Kupfenduk (?) a portare la pratica alla Tod per un miglioramento. 31/12. Finisce l'anno. A letto penso ai miei e agli anni in cui, in pace, si aspettava il nuovo anno.
1/1/45. Inizia male il nuovo anno. Quasi tutto il giorno allarmi aerei; vitto pessimo, patate e rape. 2/1. Riprendo a lavorare tutto il giorno all'aperto con 10 gradi sotto zero. 3/1. Si va alla disinfettazione e si brucia la stufa e il materiale di tre camerate va tutto bruciato, la mia camerata è solo intaccata; nudi siamo in mezzo a una corrente gelida. Si resta al lager per sistemare le cose. 7/1. Incomincia a nevicare e noi lavoriamo all'aperto. Litigo con l'assistente cecoslovacco e mi prendo uno schiaffo e un pugno. Pazienza. 8/1 Giornata bruttissima. Dieci ore di lavoro sotto la neve e la tormenta. Siamo avviliti. 9/1. Resto a casa a riposare. Continua a nevicare, i tram sono fermi. 10/1. Freddo sempre intenso. I tram sono sempre fermi. Forse cambiamo sistemazione. 14/1. Continuiamo a lavorare sempre come muratori, nessun miglioramento, il clima è rigidissimo, nevica spesso; arriviamo anche a 20 gradi sotto lo zero, si lavora sempre all'aperto. Posta non ne arriva. La via crucis continua. Il fisico, fortunatamente, resiste ancora, anche se il vitto non è sufficiente. Segno queste note oggi 31 gennaio, onomastico di mio padre. Che il Signore protegga tutti i miei.
1/2. Sono stato a riposo per una contusione a un piede provocatami durante il lavoro nel ricovero. Fortunatamente il dolore non è stato molto. 7/2. Ricevo, finalmente, una lettera da mia moglie in data 19/11/44 dopo l'ultima del 13/8. E' molto avvilita e ben comprendo la sua situazione con tre bambini da curare, con il costo della vita che aumenta. Anche la nostra situazione peggiora; il vitto alle 12 è sempre acqua, alla sera la solita minestra, con poche patate, anche il companatico va diminuendo. 7/2. Nessuna novità. Resto a casa per la contusione al piede fino al 14. Torno al lavoro dal 15 al 21 e poi resto a casa per mancanza di abiti.
8/3. Sono a casa per mancanza di lavoro. Ieri si è registrato un tiro di artiglieria alleata da Mülheim. Diversi colpi cadono a poche centinaia di metri dal lager. Molti in città, vicino alla stazione. Continua l'esodo di lavoratori stranieri dalle zone alla destra del Reno. Düsseldorf e Duisburg a 7 km da noi vengono sgomberate. Forse verremo sgomberati anche noi. 10/3. Siamo continuamente sotto i tiri di artiglieria alleata. Batterie tedesche alle nostre spalle battono al di là del Reno. Tief flieger alleati sganciano bombe sulla città e mitragliano. La minaccia incombe su di noi giorno e notte (il fatto che i campi nei quali è stato mio padre non siano mai stati colpiti fa supporre che l'intelligence alleata sapeva che vi erano prigionieri di guerra, ndr). 11/3. Un gruppo di 12 ufficiali con altri soldati viene inviato a Duisberg, per lavori. Mi separo da Albanese Luigi, l'unico amico e compagno d'armi che ho nel mio calvario. Dicono che torneranno. Speriamo. 12/3. Dopo un controllo torno a lavorare. Siamo sempre sotti i tiri di artiglieria alleata. Per la prima volta faccio, con altri compagni, il facchino. Portiamo le valigie di gente sfollata di Essen; camminiamo per due ore; in compenso ci danno 4 sigarette e 350 gr di pane. Tutti stiamo provando ogni umiliazione, ogni fatica, ogni dolore; l'unica forza che ci tiene in vita è la speranza del RITORNO. 13/3. Sono rimasto a casa di mia iniziativa. Continua il tiro di artiglieria nemica (lo sconforto lo porta, quasta volta a usare l'aggettivo nemica, ndr) su Mülheim. Siamo in continuo pericolo. 14/3. Alle 7 due colpi sono esplosi vicinissimi a noi. Alcune scheggie nella baracca. 18/3. Tornano da Maiburg (?)-Duisberg gli 11 ufficiali partiti. Torna anche Albanese. 24/3. Siamo sempre sotto il tiro dell'artiglieria. La sera del 23 assistiamo a un intenso fuoco delle artiglierie. Si parla di una nostra partenza. 25/3. Apprendiamo che alle 18 dobbiamo partire per non si sa dove. Abbiamo viveri a secco per tre giorni. Andiamo alla stazione di (illeggibile). Alle 22 arriva il treno. Siamo in tre, Albanese, io e (illegibile). Tragitto: Mülheim, Bockum, Gelsenkircken, Recklinghausen. Settimana Santa. La linea dopo Recklinghausen è distrutta. Scendiamo dal treno. Nessuno sa cosa fare. Restiamo in attesa di ordini. Dieci aerei in picchiata ci mitragliano. (Frase poco leggibile; si capisce che qualcuno resta ferito e ognuno cerca di mettersi in salvo). Convinco (nome illegibile) e Albanese a fuggire e andare verso Suderwich. (Frase poco leggibile; si capisce che trovano ospitalità in una fattoria dove ricevono del latte e un fienile per dormire e che a Suderwich c'è un lager). Alla fattoria la padrona ci offre (due intere pagine poco leggibili. Si capisce che vanno verso il lager di Suderwich. Probabilmente i tedeschi sono in fuga perchè si legge che a Suderwich mangiano un ottimo rancio della wehrmacht. 31/3. Sono sotto il fuoco dell'arteglieria, sia dei tedeschi, che degli alleati).
1/4 ore 2. Troviamo scampo in un bunker lasciato dai tedeschi. Ore 10,15 della PASQUA, arrivano le prime truppe americane che ci lasciano per andare a occupare la città. La prigionia è finita possiamo festeggiare la Pasqua. E' il giorno più bello della mia vita. (Parte poco leggibile; si parla di aver bevuto un caffè e di sperare di avere indicazioni dal comando americano). 2/4. Siamo andati nella città di Sinsen. Apprendiamo da una pattuglia americana che dobbiamo recarci a Bassert, centro di raccolta di prigionieri liberati. Unitamente a un gruppo di donne italiane, portate a lavorare in Germania con l'inganno e rifugiatesi nel lager di Suderwich sabato mattina, e 6 soldati andiamo a Bassert, distante sei chilometri. Mettiamo tutto il bagaglio su un carretto requisito ai tedeschi e arriviamo all'ex campo dei francesi. Troviamo altre donne italiane che ci accolgono con molto calore e ci invitano a mangiare con loro: gnocchi, frittelle e caffè. 3/4. Incontro un nuovo ufficiale, un capitano che faceva servizio all'ospedale di Bassert. Ci trasferiamo al campo grande dove sono raccolti tutti gli stranieri liberati. Ci assegnano una bella stanzetta con acqua corrente, tendine, luce da tavolo, brande con molle. Il vitto è una sbobba molto buona. 4-6/4. Nessuna novità degna di nota. 7/4. Si parte di nostra iniziativa da Bassert, abbandonando la nostra comitiva; andiamo verso Wesel. Pagina poco leggibile. Dormiamo in un pagliaio. 8/4. Alle 14 arriviamo al campo di Wesel. 9-12/4. Anche qui nessuna iniziativa. 14/4 Partiamo da Wesel per Brünen dove è formato il campo italiano "Piave" con 2000 uomini. Mi assegnano il comando di 950 uomini. Alloggio in una casa, sgomberata dei tedeschi, con altri ufficiali; c'è una mensa e il comando americano ci fornisce i pasti. Si torna un po' a vivere.
7-24/5. (Ancora una pagina poco leggibile nella quale si parla di vita che riprende, della fine della guerra, di partite di calcio con rappresentative straniere.'I miei soldati battono la rappresentativa inglese'. Di un volumetto, da stampare, grazie agli americani, per raccogliere memorie e pensieri e dedicato ai caduti in guerra.)
Tra le pagine del suo diario ho trovato questo documento da lui manoscritto e che se trovato dai tedeschi gli avrebbe procurato gravi conseguenze; il documento era in buono stato come se fosse stato ben conservato per produrlo come atto di accusa.
"""" Oggi 26 settembre 1944 in Nordhorn (Bentheim) - Germania.
Si fa risultare dal presente atto quanto appresso narrato.
Il giorno 17 settembre 1944 tutti gli ufficiali italiani internati in Germania (compresi quelli in calce segnati) e trovantisi al lavoro a Nordhorn presso gli stabilimenti tessili delle ditte Powel, Nichense e Rawe, venivano riuniti da un capitano della wehrmacht e dal maresciallo di polizia di Nordhorn e informati delle formalità per il passaggio da internato militare a lavoratore civile in base al comunicato dell'OKW del 20/7/44 con la precisazione che occorreva firmare una dichiarazione di rinuncia di carattere amministrativo verso il governo del Reich; che in conseguenza del passaggio occorreva togliere dalle divise ogni distintivo di grado militare e che, infine, per amore o per forzsa dovevamo diventare lavoratori civili.
Il giorno 18 settembre, alle ore 12 circa, gli ufficiali in calce segnati, che avevano rifiutato la firma della dichiarazione di cui sopra, venivano invitati a fare i bagagli e partire per via ordinaria per destinazione non precisata, ricevuto a testa, come viveri, per i previsti 4 giorni di marcia un pane di 1,5kg, 50 gr di marmellata (ditte Nichense e Rawe), 20 gr di formaggio e 10 gr di salame (ditta Powel).
La marcia inizia alle ore 15 del detto giorno 18 settembre e con tappe di un minimo di 20 fino a 35 km al giorno, gli ufficiali in calce venivano fatti passare per le seguenti località: Schuttorf, Dreiderwalde, Laggenback, Oesede, giungendo il 22 a Osnabrück, sempre a piedi e con il solo ausilio di qualche carretto o altro mezzo di fortuna per il trasporto del bagaglio pesante e per gli ammalati (si noti, a questo proposito, che i mezzi servivano anche alla scorta, formata da elementi anziani, che non erano in grado nè di portare il bagaglio, nè, per una parte di essi, di camminare); i pernottamenti furono fatti a Schuttorf nelle cabine di una piscina, sul nudo pavimento, e, nelle altre località, nelle stalle di cascinali.
Finiti i viveri ricevuti in partenza i sottosegnati ufficiali il 21 settembre, a Oesede, dovevano provvedere con mezzi propri all'acquisto di patate per circa un quintale per 9 marchi, non ricevendo altro dalle autorità tedesche fino alle ore 20 del 22 settembre a Osnabrück, dove furono distribuite due gallette a testa e una decina di patate, queste ultime della cucina del lager dei soldati italiani.
A Osnabrück, i sottoindicati ufficiali giungevano alle 12 circa del 22 per portarsi al lager (il lager veniva raggiunto dopo una marcia forzata di 8-9 km durante l'allarme per un'incursione aerea); in un primo tempo il Comando Controllo in città comunicava che tutti gli ufficiali sarebbero stati adibiti allo sgombero delle macerie e, successivamente, il maresciallo, comandante del lager aggiungeva che tutti gli ufficiali avrebbero dovuto lavorare e che se non avessero lavorato non avrebbero mangiato.
La mattina del 23, alle ore 10 circa, veniva dato l'ordine di partenza per rientrare a Nordhorn, in treno; venivano distribuiti 375 gr di pane e 20 gr di margarina a testa.
Portando il bagaglio in spalla per un'ora, dopo un'attesa di varie ore all'aperto sotto la pioggia nella stazione di Osnabrück, gli ufficiali venivano divisi in tre gruppi, il primo giungeva a Nordhorn nella tarda sera del 23, il secondo alle 7 del 24, dopo aver subito nella stazione di Rheine un bombardamento aereo.
Gli ufficiali in parola rientravano a Nordhorn debilitati dalla fatica e dalle privazioni subite, cui non erano preparati fisicamente dopo lunghi mesi di prigionia; oltre trenta erano febbricitanti e altri erano impossibilitati a marciare per fiaccature ai piedi o per altri mali.
Alle ore 12 circa del 24 settembre il maresciallo della Polizia di Nordhorn, munito di un pacco di moduli della dichiarazione soprariportata, riuniva tutti gli ufficiali sottosegnati e comunicava testualmente: chi non avesse firmato avrebbe ripreso il giorno successivo la marcia e che, questa volta, non sarebbero stati forniti mezzi di trasporto e che quindi occoreva alleggerire i sacchi; che tutti gli ufficiali dovevano convincersi che prima o poi tutti sarebbero diventati liberi lavoratori, con le cattive.
Davanti a questa intimazione tutti gli ufficiali in calce segnati, meno undici, considerando le proprie condizioni fisiche, per la quasi totalità di essi, gravemente menomate e distrutti dalla fame, aderivano a porre nel modulo la richiesta firma.
Soltanto dopo di ciò fu distribuito il rancio.
Segue la firma di 78 ufficiali. """"
Nel campo di liberazione dei prigionieri italiani. Ufficiali, militari e civili dettero a vita a un volumetto di ricordi tra i quali riporto gli articoli scritti da mio padre.
CAMPO ITALIANO
WILLIAM 1
Ricordi
Brünen (Germania), 1945
Ufficiali 25, Militari 1.726, Civili, 36.
Attuività culturale: Prof. Lazzati, Università Cattolica di Milano.
Giornalismo a cura di: Caruso Mario, Mason Francesco, Vitaliano Severini e Genesi Gabriele.
Manifestazioni sportive e teatrali: tenenti Caruso Mario e Vitaliano Severini, e soldato Piccone Giuseppe.
Direzione attività sportiva curata dal ten. Caruso Mario
A VOI ....
A Voi che stroncata aveste la vostra giovane Vita da un popolo cui il Signore pietra pose al posto del cuore, dedichiamo questo volume.
• FALZINI Renato da RIGNANO SULL’ARNO (Firenze)
• CAVAGLIERI Mario da CASTEL SAN PIETRO ( Bologna)
• MANTOVAN Gianni da MONTAGNANA (Padova)
• BARELLI Ermenegildo da MILANO
• MONTAGUTTI Giuseppe da ROCCA MALATINA (Modena)
• BIBAN Umberto da MONSILE DI PIANE (Venezia)
• DRAGONI Pietro da VAL FABRICA (Perugia)
• BARBARI Domenico da MODENA
• BREGA Silvio da ANCONA
• MAGRI’ Francesco da CATANIA
• MARAGLINO Giovanni da TARANTO
• DELL’ANNA Giuseppe da LECCE
• CARACOSI Pasquale da ROCCA D’ASPIDE (Salerno)
• FRANZOSE Augusto da TREVISO
• CORTOPASSI Giuseppe da TRENTO
• DE CLEMENTE Franco da L’AQUILA
• MINISINI Alfonso da COLLOREDO DI MONTE ALBANO (Udine)
• CELLINI Umberto da ASCOLI PICENO
• MAZZILLI Mauro da NUORO
• PASQUI Pasquale da CASTIGLIONE DI PEPOLI (Bologna)
• BURATTI Pacifico da MONTE MONACO (Ascoli Piceno)
• ZANETTI Demetrio da VILLAFRANCO BAGNONE (La Spezia)
• COMUNE Nicola da ORTA DI ATELLA (Napoli)
• ASCIOLLA Antonio da RONCOLISI DI SESSA AURUNCA (Napoli)
• GROSSO – CAMPANA? da TORINO
• DI DORA Luigi da FASANI DI SESSA AURUNCA (Napoli)
• RESINI Guido da GALZIGNANO (Padova)
• MASSI Celestino da CIVITANOVA MARCHE (Macerata)
• SEMERANO Francesco da ???
• AZOTINI Romualdo da PIGNATARO (Frosinime)
• MONELLI Ferruccio da GENOVA
• BELLAGOTTI Luigi da CHIANNI (Pisa)
• FILAFERRO Vincenzo da PONTEBBA (Udine)
• DELLA VALERIA Mario da ? IMI Nr. 52311
• PANICHELLI Ernesto da CIVITANOVA ALTA (Macerata)
• AUGELLOTTI Francesco da ACQUAVIVA PICENO (Ascoli Piceno)
• DOSELLI Egidio da PIAN DI CASTELLO (Pesaro)
• TORRESANI Alfeo da BOVOLONE (Verona)
• CLEMENTI Guerrino da MIZZOLE (Verona)
• CASALE Rocco da MONTE SAN BIAGIO (Littoria)
• FAGGIOLI Vincenzo da PETRITOLI (Ascoli Piceno)
• TARSILIO Ponsin da LOZZO ATESTINO (Padova)
• SANVITO ?? da SESTO SAN GIOVANNI (Milano)
• BELELLI Afro da CORREGGIO (Reggio Emilia)
• FIORAVANTE Arrigo da FERRARA
• CODELUPPI Primo da BUDRIO-CORREGGIO (Reggio Emilia)
• PUCCIANTI Laurino da PRATO
• CRISTINI Luigi da ROGOREDO (Milano)
• CARUSO Francesco da FILADELFIA (Catanzaro)
• MENEGAZZO Giovanni da CAMPO NOGARA (Venezia)
• CIMATTI Guerrino da PREDAPPIO ALTA (Forlì)
• VERARDI Giuseppe da CEGLIE MESSATICA (Brindisi)
• RICCIPUTI Alfonso da S. CARLO DI CESENA ( Forlì)
• FRINGUELLI Umberto da PIOPPE DI SALVERO (Bologna)
• CESCO Antonio da SELVA DI MONTEBELLO (Vicenza)
PREFAZIONE
Per voi, del campo William 1, questo piccolo volumetto dedicato alla memoria dei fratelli, cui il destino non ha concesso il dono più grande: rivedere dopo anni di umiliazioni, sofferenze e stenti la cara Patria.
Nello scorrere queste pagine a distanza di anni, ritroverete voi stessi, nei vostri racconti, nei racconti dei vostri compagni.
Ognuno di voi ha portato una pietra nella costruzione di questo ricordo: frasi, racconti, poesie, canzoni e disegni, il tutto frutto della più semplice e genuina anima nostrana, danno in pieno per chi legge, la visione esatta di quello che è stato il nostro esilio in terra tedesca.
Io credo che un profano che non ha conosciuto da vicino ciò che noi abbiamo vissuto, resterà incredulo leggendo queste pagine; il suo animo educato alla scuola latina, si ribellerà al solo pensare che un uomo, dotato di ragione, possa essere simile a bestia.
Noi no; a sangue abbiamo marcato il nostro ricordo. Chi vi scrive, deportato come il più volgare delinquente, fu costretto al lavoro, contro ogni legge internazionale, a una lavoro pesante, umiliante, massacrante. Messo con i suoi compagni ai margini della vita sociale, segnato a dito per le vie come traditore per aver combattuto, curvo nel corpo perché gravato da soma, con gli abiti a brandelli, conserva, come voi, intatta la sua fede nella Patria, nella Famiglia.
Respingemmo a testa alta ogni offerta di adescamenti. La fame rodeva il corpo, Il nerbo batteva a sangue: sarebbe bastato un sì per tornare ad essere uomini. Non l’ebbero.
Più il ferro e il fuoco liberatore stringeva il cerchio intorno a chi credeva di essere ormai signore e padrone delle vite umane e più su noi veniva sfogata la sua imbelle ira. Il compagno cadeva sfinito dalle fatiche, il fratello moriva colpito dallo stesso fuoco liberatore, perché espostovi con ferocia satanica dai suoi custodi. Noi, la stessa fine, la stessa sorte, piuttosto che venderci per un pezzo di pane.
Abbiamo vinto!
Forse conserveremo per tutta la vita i segni più o meno palesi di questa dura prigionia, ma abbiamo vinto, come ha vinto chi non tornerà!
Ci ritroviamo in queste pagine, voi morti e noi vivi, uniti per sempre da quel legame che nessuno potrà distruggere:
IL RICORDO!
Brünen , 1945
Mario Caruso
NOI DI CORFU'
12 SETTEMBRE 1943. Siamo radunati nella civettuola cittadina di Santi Quaranta, noi del I/49* Fanteria “Parma”, unitamente al colonnello Bettini Elio: con noi e la gloriosa bandiera. L’ordine dall’Italia, per chi ha voluto comprendere, era di resistere a chi avesse osato disarmarci.
Alle nostre spalle tutti avevano ceduto le armi; eravamo soli. Cosa fare? Corfù, la Capri della Grecia, di fronte alla baia albanese sarebbe stata un’ottima base dove avremmo potuto tenere fede al nostro giuramento. Presi gli accordi con il colonello Lusignani Aldo del 18° “Acqui” sbarcammo nella notte del 13 nell’isola incantata. Novecento tedeschi che presidiavano l’isola, furono in poche ore disarmati e spediti in Italia; sette aerei, nella prima giornata di battaglia, caddero in fiamme colpiti a morte dai nostri mitraglieri.
Dodici giorni resistemmo all’incessante martellamento nemico, che, non potendo sfogare in altra maniera il suo disappunto per la nostra tenace resistenza, bruciò e distrusse la città medesima, gioiello d’arte, faro di civiltà della Grecia di Omero.
Due volte furono respinti i tentativi di sbarco dalle nostre artiglierie costiere. La fame, il non dormire, il continuo incubo, non potevano abbattere la nostra volontà. Ogni compagno caduto era un motivo in più per stringere i denti! Bettini e Lusignani vivevano con noi e per noi; si lottava per l’onore della nostra patria per la difesa delle nostre bandiere.
Dall’Italia, tanto vicina, vennero in nostro aiuto due torpediniere. La Sirtori inchiodata da bombe nemiche nella baia corfiota, con la sua sagoma ancora affiorante, pareva che dicesse: sono qui con voi, non ho nulla da darvi, né pane, né fuoco, tutta la mia anima ho donato. Forza ragazzi, dalla costa adriatica le madri, le spose, i figli odono tuonare il cannone: è Corfù che non cede, che non muore.
23 Settembre. Cefalonia, l’eroica sorella vicina, difesa con il sangue di migliaia di italiani, sopraffatta dalla preponderanza nemica, cede!
Un esercito civile avrebbe reso gli onori delle armi ai fratelli superstiti. Il tedesco volle invece bollarsi ancora di più con il marchio di barbaro e assassino. Centinaia di ufficiali e migliaia di soldati pagarono con il proprio sangue il prezzo dell’onere!
24 Settembre. Siamo soli: le artiglierie tedesche dalle coste vicine e dal mare non danno tregua; l’aviazione incalza sempre più; i mitraglieri che hanno visto diciassette aerei abbattersi in fiamme per opera loro, non possono più sparare essendo terminate le munizioni; l’acqua manca; la sussistenza è saltata in aria; il nemico ingigantisce il suo sforzo, vuole l’isola a ogni costo.
25 Settembre. Chiunque avesse osato parlarci di resa avrebbe rischiato di lasciarci la pelle. L’assassinio di Cefalonia doveva essere vendicato: eravamo pronti a pagare lo stesso prezzo! Lo sforzo fisico, il non poter chiudere occhio per dodici giorni, ci aveva trasfigurati nel viso, eravamo l’ombra di noi stessi. I capi ci vedevano nella nostra titanica ostinazione e ben comprendevano che, cedendo, avrebbero pagato di persona: vollero pagare per la nostra vita. La partita ormai era persa; cedettero ma non fuggirono, andando per primi incontro al nemico.
Corfù alza bandiera bianca!
Vorremmo fuggire, riprendere a combattere altrove. Dove? Il mare che prima ci ha difesi, oggi ci stringe in una spaventosa morsa, senza rimedio, senza una via di scampo.
26 Settembre ore 11. Siamo schierati in armi in Megalò Livadi. Elmetto, zaino affardellato, baionetta innestata: è un battaglione che cede le armi o pronto per andare all’assalto?
Giungeste colonnello Bettini nella vostra macchina, scortato da un plotone di barbari. Udiste ancora una volta levarsi al cielo il grido di mille battaglie dei vostri fanti:” Savoia” Ci passaste in rivista: avevamo gli abiti logori, le barbe lunghe, il cuore schiantato, gli occhi rossi!
Non proferiste parola: ci si parlava guardandoci in viso. Ripartiste con la macchina tedesca in mezzo a due angeli custodi; andavate via per sempre da noi; portavate in tasca l’azzurro guidoncino del comando.
Giugno 1945. Siamo sulla via del ritorno dopo mesi di dura prigione; ritorno alla nostra Patria, ritorno alle nostre case!
Anche tu o gloriosa bandiera del 49° tornerai. Ti verremo a prendere a Corfù, dove l’amore dei tuoi fanti caduti ti ha fatto buona guardia.
Suoneremo la diana “Noi di Corfù”. Colonnello Bettini e quanti dei compagni foste portati via senza mai più rivedervi, se sarete assenti, la Patria potrà iscrivere il vostro nome nel libro d’oro dei Suoi Figli più Grandi.
Mario Caruso
Da questi documenti trovati per caso emerge la figura di Mario Caruso che fu sicuramente un leader per altri ufficiali, soldati e civili durante i giorni bui che seguirono l'8 settembre 1943.
Eugenio Caruso - 6 novembre 2013