Il sovrano si rivolge al mercante e con atteggiamento benevolo e disponibile gli chiede: «Che cosa posso fare per voi?» Il mercante risponde:
«Maestà, dateci buona moneta e strade sicure, al resto pensiamo noi»
Kant
Con questo articolo proseguo la pubblicazione di alcuni stralci del mio libro storico-economico L'estinzione dei dinosauri di stato. Il libro racconta i primi sessant'anni della Repubblica soffermandosi sulla nascita, maturità e morte delle grandi istituzioni (partiti, enti economici, sindacati) che hanno caratterizzato questo periodo della nostra storia. La bibliografia sarà riportata nell'ultimo articolo di questa serie di stralci. Il libro può essere acquistato in libreria, in tutte le librerie on-line, oppure on line presso la casa editrice Mind.
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LA POLITICA NEGLI ANNI SETTANTA
L'omicidio di Aldo Moro
Il 16 marzo 1978 Aldo Moro, che si sta recando in Parlamento per l’investitura di Andreotti, viene rapito dalle Brigate Rosse. Un commando costituito da Mario Moretti (che, dopo aver sostituito Renato Curcio nelle BR, ha avviato una stagione di sangue), Prospero Gallinari, Germano Maccari, Anna Laura Braghetti, Bruno Seghetti, ha programmato per mesi ogni fase del rapimento. In via Fani, un gruppo di brigatisti, sulla cui reale consistenza non si è mai arrivati a un chiarimento, tende un’imboscata alle due auto, uccide la scorta e l’autista di Moro e trascina l’uomo politico in una cella di via Montalcini. Il gruppo non è particolarmente addestrato ad azioni di terrorismo, né all’uso delle armi, ma la cura nella programmazione dell’assalto, la sorpresa e la mancanza di una reazione efficace durante l’agguato rendono tutta l’operazione facile e priva di intoppi.
Perché Moro? La “versione ufficiale” dei brigatisti recita: «L’uomo politico era considerato il responsabile dei governi di solidarietà nazionale, la trappola che la DC aveva teso ai comunisti per indebolire il partito e con esso, in generale, tutta la classe operaia». Per 55 giorni, Braghetti, Gallinari e Maccari, sotto la direzione di Moretti, tengono Moro prigioniero, mentre il Paese è tormentato dal dilemma se trattare o no con i terroristi per salvare l’uomo. Moro subisce interrogatori da parte di Moretti, e la summa dei 55 giorni di interrogatori è trascritta dallo stesso statista in un memoriale del quale non si è mai conosciuta la versione integrale. A Moro è consentito di inviare lettere a parenti, amici e colleghi di partito. Nei confronti dei democristiani si mostra particolarmente duro: Andreotti è il principale oggetto dei suoi attacchi, Zaccagnini viene rimproverato di essere inerte e succubo di fronte a una disumana ragion di Stato e insultato come il peggior segretario che la DC abbia mai avuto. I comunisti vengono definiti traditori, perché Moro sta pagando per la sua politica di apertura verso il Pci, e la loro fermezza viene considerata un fatto di mero cinismo. Cossiga viene accusato di essere compiacente nei confronti di Berlinguer in virtù della loro parentela.
Tornando al rapimento, un indizio sembra emergere in modo incredibile quando alle forze dell’ordine giunge la notizia che durante una seduta medianica, cui partecipano Prodi e Alberto Clò, «uno spirito evoca il nome Gradoli»; purtroppo le forze di sicurezza si recano nel paesino di Gradoli (Viterbo), mentre a nessuno viene in mente di andare in via Gradoli a Roma. L’ipotesi che un futuro presidente del Consiglio e un futuro ministro si siano messi a invocare gli spiriti con il bicchierino è a dir poco ridicola; la teoria più verosimile è che qualcuno dell’area dell’Autonomia abbia detto a un professore del “giro” di Prodi che in via Gradoli a Roma c’era un covo dei brigatisti e che si sia usato l’espediente della seduta spiritica per non mettere nei guai la fonte della “soffiata” (Fasanella, 2000). Poi in via Gradoli la polizia ci arriverà davvero, a causa di una perdita d’acqua che stava allagando l’appartamento sottostante. Secondo il brigatista Alberto Franceschini, e come intuisce lo stesso Moro, l’episodio sarebbe stato un messaggio ai brigatisti: «Vi siamo addosso, uccidetelo». Nello stesso giorno, un comunicato avvisa che il corpo di Moro è stato lasciato presso il Lago della Duchessa; l’informazione si rivelerà falsa e gli stessi brigatisti, una volta arrestati, non sapranno darne una spiegazione. Solo tempo dopo si verrà a sapere che l’idea è stata di Claudio Vitalone, magistrato della Procura di Roma, che voleva «tentare di sparigliare il gioco dei brigatisti», come spiegherà lui stesso; tuttavia, anche in questo caso, non è mai stato chiarito chi abbia confezionato materialmente il comunicato. Sempre secondo il BR Franceschini, quel comunicato poteva essere un ulteriore messaggio lanciato alle BR: «Affrettatevi ad uccidere Moro».
In una lettera scritta dopo l’episodio del falso comunicato, Moro afferma: «Desidero dare atto che alla generosità delle Brigate Rosse; devo, per grazia, la salvezza della vita e la restituzione della libertà […]». Un fatto è quindi certo: Moro era sicuro della sua liberazione. Eppure, dopo qualche giorno, in una lettera alla moglie scrive: «Ora, improvvisamente, quando si profilava qualche esile speranza, giunge incomprensibile l’ordine di esecuzione […]». Che cosa era accaduto nel periodo tra i due scritti? Nel mondo politico i socialisti sono per la trattativa, i comunisti sono contrari per rimarcare l’assenza di continuità tra partito e terrorismo; anche i democristiani, sia pur riluttanti, scelgono la strada della fermezza. Intervistato anni dopo da Sergio Zavoli, De Mita affermerà: «Vede, uno Stato può trattare, se però è forte. Allora lo Stato non era forte». Inoltre ammetterà, un po’ cinicamente, che molta parte della DC non si sarebbe poi tanto dispiaciuta per la morte prematura dello statista pugliese. Gallinari confesserà a Sergio Zavoli che i carcerieri di Moro compresero che non vi sarebbe stato nessun accordo per la liberazione del prigioniero quando Berlinguer si dichiarò contrario a qualsiasi trattativa, condizionando pertanto le altre forze politiche. Sollecitato da Fanfani, il consiglio nazionale della DC decide di riunirsi per valutare la possibilità di concedere la grazia alla terrorista Paola Besuschio, che non aveva compiuto delitti di sangue, in cambio della liberazione di Moro; anche il Presidente Leone è d’accordo.
Il 9 maggio il corpo di Moro viene trovato in via Caetani, a pochi passi dalle sedi di DC e Pci, nel portabagagli di una Renault rossa. Intervistato da Sergio Zavoli sulla ricostruzione fatta dai media su tutta la vicenda, Gallinari dichiarerà: «Voglio dirle una cosa: se non fosse perché quella è la storia di una grande rivolta politica nel Paese, una storia nella quale ci sono vittime da una parte e dall’altra, ci sono morti, c’è sangue, se non fosse per tutto questo, direi che la ricostruzione, il modo in cui sono stati letti gli avvenimenti, sarebbero molto più adatti per i fumetti che per un serio giornalismo». E affermerà ancora Rossana Rossanda: «Bisogna dire con molta franchezza che la morte di Moro fu una decisione politica. E i protagonisti in quei giorni erano due: democristiani e comunisti. Ma i comunisti non avevano interesse a lasciar uccidere Moro. E la DC? Se c’è un mistero, nella storia delle BR, viene da quella parte».
Giovanni Pellegrino, andando contro il parere di molti, afferma che la storia delle BR non è completamente conosciuta; oltre alla chiarezza sull’area di contiguità che sosteneva i brigatisti, Pellegrino sostiene che ogni qual volta la Commissione stragi faceva riferimento all’esistenza di un’area di contiguità con le BR veniva aperto sui media un fuoco di sbarramento da parti politiche diverse, dando alla Commissione la sensazione di aver toccato “qualcosa” che non andava toccato. D’altra parte gli stessi brigatisti hanno sempre sostenuto di non aver raccontato tutta la loro storia perché, una volta sconfitta la lotta armata, la scelta che essi avevano compiuto era quella di non nominare nessuno che non fosse già in carcere o incriminato.
Sicuramente una svolta nel sequestro Moro si ha quando il “sistema” comprende che i brigatisti hanno in mano due ostaggi: Moro e le sue rivelazioni. Da quel momento, presumibilmente, la contrapposizione non è più tra lo Stato e i brigatisti, ma tra lo Stato e i brigatisti in possesso delle rivelazioni di Moro. «A quel punto ci fu una svolta, un momento di torsione nella vicenda sotterranea del caso Moro. Probabilmente perché si tentò di mettere in campo una strategia con l’obiettivo di salvare l’ostaggio e di neutralizzare tutto ciò che egli aveva potuto dire alle BR» (Fasanella, 2000). Anzi è ragionevole ipotizzare che, parallelamente alle trattative umanitarie tese alla liberazione di Moro, siano state avviate trattative più “profonde” mirate a salvaguardare i segreti di Stato. L’ostaggio non viene salvato, il memoriale completo dell’uomo politico non verrà mai trovato e i brigatisti non saranno mai molto loquaci sulle rivelazioni avute da Moro.
L’affare Moro è il sintomo del male oscuro che devasta la politica del Paese in quegli anni, è la dimostrazione che indecisione, impotenza, inconfessabilità e incapacità di decisioni responsabili sono i vizi di una classe politica abituata a ragionare in termini di interessi di bottega e di “servile encomio”, piuttosto che in termini di lealtà, trasparenza, coraggio e spirito di servizio.
L'intransigenza si mostrerà vincente, perché l'omicidio di Moro segna l'inizio della fine delle BR, che vengono debellate, grazie alla legge dell'80 sui pentiti e all'abilità e determinazione del generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa.
14 gennaio 2014
Eugenio Caruso da L'estinzione dei dinosauri di stato.