Longevità dell'impresa eccellente

Se vuoi che ogni cosa ti sia soggetta, sottomettiti alla ragione. Governerai molti, se ti governerà la ragione: proprio da questa imparerai ciò che devi intraprendere e in quale modo; così non ti imbatterai in situazioni impreviste.

Seneca Lettere morali a Lucilio


1. Premessa

L'analisi di report editi in Usa e in Europa sulla vita delle aziende di successo (quelle che figurano tra le prime 500 nella classifica stilata annualmente da Fortune) indica una vita media di diciotto anni; come se il successo di un'impresa portasse con sé il seme dal quale scaturirà l'insuccesso; sempre nella lista delle prime 500 aziende, stilata da Fortune nel 1970 ben il 60% non esiste più.

Arie de Geus dell'Organizational learning centre, presso l'Mit, in base ad una ricerca sul periodo di vita delle imprese, è arrivato a stabilire che questi tassi di mortalità prematura sono esclusivamente da attribuirsi a scelte imprenditoriali o manageriali errate o a mancanza di scelte; d'altra parte l'impresa è un'organizzazione che fisiologicamente può durare per secoli come dimostrano la giapponese Sumitomo, fondata nel 1590, o la svedese Stora, fondata più di settecento anni fa.
Lo stesso de Geus ha individuato le caratteristiche proprie delle imprese che hanno più di un secolo di vita.

  1. Alta refrattarietà ad intraprendere operazioni finanziarie a rischio.
  2. Sensibilità e attenzione ai cambiamenti in atto nel mondo esterno all'impresa. La gloriosa Banca di San Giorgio, nata nel 1407 a Genova, dopo aver superato tutte le vicissitudini politiche dello stato genovese, non riuscì a conciliare la propria funzione economica con la politica riformatrice di Napoleone e, dopo quattrocento anni di vita, il 4 luglio 1805, fu definitivamente soppressa con decreto imperiale.
  3. Consapevolezza dell'identità aziendale, a tutti i livelli. Le imprese longeve sono pervase da un forte senso di appartenenza e da un'identità aziendale definita e condivisa.
  4. Grande attenzione verso le nuove idee.
  5. Predisposizione al cambiamento del proprio core business. La Dupont, ad esempio, è nata più di duecento anni fa per la produzione della polvere da sparo, nel 1920 era uno dei principali azionisti della General Motors e oggi è un'importante azienda chimica.

Per restare al nostro paese è interessante analizzare la vitalità delle imprese nate nel milanese, area che traina l'industrializzazione italiana e che continua ad essere permeata di cultura d'impresa. Nel 1840 nascono la Falck e la Riva Calzoni, nel 1853 nasce la Carlo Erba, nel 1863 il Tecnomasio, nel 1866 la Zambeletti, nel 1868 la Lepetit, nel 1871 l'editore svizzero Hoepli si trasferisce a Milano, nel 1874 nasce la Boehringer, nel 1872 la Pirelli, nel 1875 la Salmoiraghi, nel 1876 la Franco Tosi, nel 1884 la Edison, nel 1886 la Breda, nel 1894 la MaxMeyer, nel 1895 la Borletti, nel 1896 l'Istituto sieroterapico milanese, nel 1998 la Saffa, nel 1899 la Om, imprese, che, sia pure con alterne vicende e cambiamento di ragione sociale, sono ancora in vita. Il segreto della loro longevità più che centenaria sta nel circolo virtuoso dell'economia milanese: cultura imprenditoriale, innovazione (è stata determinante, specie nell'ottocento, la presenza del Politecnico), finanza (la Cariplo nasce nel 1823, la Banca popolare di Milano nel 1865, la Banca Sella nel 1886, la Banca popolare commercio e industria nel 1888, La Banca commerciale italiana nel 1894, nel 1865 viene fondato il quotidiano Il Sole sul modello della stampa economica inglese), predisposizione al cambiamento e forti legami culturali e imprenditoriali con le aree più avanzate d'Europa.
C'è inoltre da notare, d'altra parte, che le grandi industrie siderurgiche, meccaniche, elettriche, elettromeccaniche e chimiche, caratterizzate da alta concentrazione di capitale finanziario e da basso capitale di conoscenza, che hanno fatto la fortuna economica di Milano nel novecento, è completamente scomparsa, superata da una moltitudine di imprese moderne knowledge based. Secondo l'Istat a Milano sono concentrate, infatti, il 10,4% delle società finanziarie con il 22% degli addetti del settore, il 22,4% delle imprese di marketing con il 35,3% degli addetti, il 9,8% delle società di consulenza aziendale con il 13,5% del totale del settore, il 15,4% delle imprese di software con il 17,6% degli addetti, il 7,7% delle società di ricerca con l'11,1% degli operatori.

Le considerazioni fatte valgono per le imprese medio-grandi; per le Pmi non esistono documenti significativi che descrivano le motivazioni della loro mortalità. L'esperienza dell'autore porta ad identificare, sostanzialmente, due ragioni della mancanza di longevità della Pmi.

  1. La crisi che nasce al momento del trapasso generazionale.
  2. Il ritardo con il quale l'imprenditore si rende conto di segnali premonitori di una crisi. I dati non dànno segni di crisi, i bilanci sono soddisfacenti, la produttività è alta, non ci sono problemi con il personale, è, pertanto, facile che l'imprenditore vada soggetto alla "sindrome di Icaro" e trascuri i segnali intangibili e non misurabili, dote che un imprenditore dovrebbe avere. Come Icaro sicuro delle sue ali precipitò non preoccupandosi che la cera potesse sciogliersi, così l'imprenditore che non presta attenzione ai segnali premonitori può portare la sua impresa al declino.

2. Il ciclo di vita aziendale

Il ciclo di vita di un'impresa è raffigurabile con una curva sigmoide del tipo di quella che descrive il ciclo di vita di un prodotto; anche per le imprese le fasi sono quattro, nascita, sviluppo, maturità, declino.
In generale, quando un'impresa si trova nel punto nel quale inizia il declino e si  decide di cambiare, spesso ha raggiunto un punto di irreversibilità e la salvezza è ardua.
Ma perché le aziende decidono di adottare iniziative di rinnovamento solo quando si trovano nel succitato punto di declino e quindi nel momento meno propizio e di massima difficoltà?

Perché gli imprenditori hanno guidato l'azienda affidandone la verifica dello stato di salute solo agli indicatori economico-finanziari (cioè affidandosi al passato) e hanno trascurato quegli indicatori immisurabili o intangibili, ben noti alla leadership dell'impresa eccellente, e dei quali parleremo in dettaglio.
Se, viceversa, l'azienda decidesse di operare un cambiamento in prossimità del punto di transizione dalla fase di crescita alla fase di stabilizzazione, innescando una nuova curva di crescita, disporrebbe di tempo, energie, entusiasmo e risorse per attivare il nuovo percorso di sviluppo prima che maturità e declino indeboliscano l'organizzazione.

La decisione di procedere in tal senso non è facile in quanto, generalmente, essa presuppone uno spostamento paradigmatico all'interno dell'azienda, ma è opportuno notare che la transizione su una nuova curva di crescita è la principale decisione strategica per un'impresa eccellente.

Molto interessante è il racconto di W. Davidow su come la società Intel, che nel 1968 aveva inventato il circuito integrato con Robert Noyce, alla fine degli anni '70 anticipò una crisi potenziale nel settore dei microprocessori per gli attacchi portati da Motorola e Zilog. Fu costituita una task force, guidata dal Presidente Andy Grove che, dopo aver analizzato i punti di forza e di debolezza della società, aver segmentato il mercato e aver stabilito che i prodotti a catalogo non andavano modificati, lanciò una crociata battezzata «Crush» che coinvolse tutti i dipendenti, in particolar modo gli addetti alle vendite.
Giova osservare che la normale strategia dell'Intel è quella di lanciare sul mercato nuovi prodotti nel momento in cui quelli vecchi stanno fornendo ancora ottime prestazioni. Nel caso specifico la leadership comprese che il cambiamento di cui l'azienda aveva bisogno in quel momento non riguardava il lancio di un nuovo prodotto ma un rilancio dell'immagine dell'azienda sia verso l'interno che verso l'esterno.
Il primo risultato fu quello di far uscire i dipendenti da uno stato di timore e soggezione per l'accerchiamento della concorrenza e portarli su un livello di fiducia in se stessi; infine gli ordini presero a correre e l'acquisizione del cliente Ibm segnò il culmine del successo della crociata.

3. Le fasi della vita di un'impresa

Osservando la curva sigmoide, la curva cioè di un'azienda che non si preoccupi in tempo di rilanciarsi su un'altra curva di sviluppo, si possono fare le seguenti considerazioni.

    Nel momento in cui un'impresa nasce «Si percepisce un alto livello di energia e di eccitazione e vi è un diffuso spirito di collaborazione e di integrazione tra gli individui. Ci si sente pionieri in un'avventura sfidante e questo genera gratificazione e appagamento sul lavoro. La flessibilità è massima».
Generalmente in questa prima fase non sono state ancora ben definite la vision, la mission, le strategie eppure lo spirito di identificazione nell'idea imprenditoriale è alto, tutti sono allineati con l'imprenditore nel conseguimento dei primi obiettivi e le motivazioni sono legate a questo target. L'ambiente è libero da pregiudizi, gelosie e preconcetti, tutti tendono ad essere creativi e propositivi, le competenze non sono codificate, il livello di burocratizzazione è nullo, le gerarchie impercettibili. L'immagine dell'impresa verso il mondo esterno è in fase di costruzione, i rapporti con i clienti sono buoni, anche se spesso il prodotto offerto risente di una certa politica del trial and error; arrivano, infatti, alcuni reclami ma l'organizzazione interna è fortemente orientata a recepirli, anzi a cercare di fidelizzare il cliente che reclama.

Nella fase dello sviluppo l'impresa conosce un momento di forte espansione. I clienti apprezzano i prodotti offerti, la reputazione dell'azienda fa sentire i collaboratori orgogliosi di lavorare per quell'impresa, l'organico incomincia a crescere per soddisfare la domanda, si raggiunge il punto di breakeven (1) e arrivano i primi utili. Il livello di energia e di eccitazione è ancora alto, c'è anche un diffuso senso di euforia per i risultati raggiunti. L'impresa inizia a conoscere, però anche alcuni aspetti negativi.

  1. Non è possibile, infatti, soddisfare le aspettative di tutti; alcuni pensano che l'impresa non riconosca pienamente gli sforzi e i sacrifici del periodo precedente e dànno le dimissioni, passando, magari, ad un'azienda concorrente.
  2. Si cominciano ad osservare i primi schemi precostituiti per la soluzione dei problemi e si dà meno spazio a creatività e nuove proposte.
  3. Si nota l'inizio di una certa formalizzazione nei rapporti interpersonali; vi è meno spontaneità.
  4. La conoscenza inizia ad essere gerarchizzata.

A questo punto una leadership in grado di analizzare criticamente questi primi e deboli segnali dovrebbe iniziare a valutare alternative di business per avviare una nuova fase di sviluppo.

Giova osservare che la succitata sigmoide ha un punto di flesso H, che rappresenta il momento in cui lo sviluppo passa da una fase di crescita molto energica e forse un po' caotica ad una fase di sviluppo più pilotato.
E' interessante osservare questo punto perché un'azienda può morire anche nelle sue prime fasi di vita; essa, infatti, può andare incontro a quella che si chiama mortalità infantile.
In genere, se l'azienda riesce a superare il punto di flesso H, vuol significare che la leadership ritiene superate le difficoltà iniziali è ha intensificato gli investimenti e gli sforzi per progredire ulteriormente in una fase di sviluppo più ordinato e pianificato.

Durante la fase della maturità si acquisiscono i massimi risultati economico-finanziari. Il prodotto dell'impresa è, oramai, noto e affermato sul mercato, i clienti sono soddisfatti, l'impresa ha definito in dettaglio vision, mission e strategie di medio-lungo periodo.
Di converso i problemi emersi nella fase precedente si sono acuiti e ne sono nati altri.

  1. Non si avvertono più l'energia e l'eccitazione delle fasi precedenti.
  2. Alcuni collaboratori della fase pionieristica se ne sono andati e i nuovi assunti non hanno vissuto quel particolare momento.
  3. L'impresa va bene ed è diffusa l'idea che debba andare bene ancora per molto. La sindrome di Icaro è oramai prevalente in azienda.
  4. Le motivazioni e le ragioni di soddisfazione per i dipendenti vanno scemando.
  5. Creatività e spirito di iniziativa hanno lasciato il posto all'esecuzione formale di compiti definiti.
  6. Si nota un calo di tensione nella ricerca di nuovi mercati, nuovi prodotti e soluzioni innovative.
  7. L'organizzazione è più rigida e burocratica.
  8. E' subentrato il principio della difesa dei propri piccoli centri di potere.
  9. L'immagine verso l'esterno non è più coerente con l'immagine interna.
  10. Iniziano ad arrivare un gran numero di reclami, ma lo spirito con il quale vengono accolti non è più quello della fase pionieristica.

Durante la fase del declino anche gli indicatori economico-finanziari sono l'evidenza del cattivo stato di salute dell'azienda. Gli elementi negativi sono sotto l'occhio di tutti.

  1. Il livello di slancio e di energia è minimo.
  2. In azienda prevale un senso di sfiducia e di panico.
  3. Molti dei collaboratori migliori se ne sono andati.
  4. Si vive alla giornata, la vision, la mission, le strategie aziendali sono state completamente abbandonate.
  5. Il know-how dà segni di obsolescenza.
  6. I conflitti di natura sindacale sono all'ordine del giorno.
  7. Il livello di fidelizzazione dei clienti è crollato.
  8. L'imprenditore si affida a consulenti esterni per valutare possibili soluzioni alla crisi, ma i tentativi di riorganizzazione gettano l'azienda in una crisi definitiva e irreversibile.

4. Come evitare il declino

Da quanto detto sopra l'imprenditore di un'azienda eccellente deve avere nel proprio dna la capacità di percepire i deboli segnali di una possibile crisi e porvi rimedio.
Nella letteratura scientifica sono indicati "otto fattori di vitalità" che l'imprenditore dovrebbe tenere sotto controllo al fine di poter effettuare una valutazione di massima sul momento più opportuno per operare il cambiamento e allungare il ciclo di vita della sua impresa.

4.1 La soddisfazione dei collaboratori

Tutti oggi parlano dell'importanza delle risorse umane come capitale fondamentale dell'impresa e quindi dell'impegno che l'azienda deve rivolgere ai collaboratori per motivarli, coinvolgerli, inculcare in loro il principio d'identificazione, mantenere elevato il loro livello di conoscenze, applicare l'empowerment(2). Di converso le aziende trovano difficoltà a mettere in pratica questi concetti che sono sulla bocca di tutti; spesso ricorrono alle riorganizzazioni, con il risultato, spesso, di far irrigidire e imbozzolare il collaboratore su se stesso per la paura del nuovo. In questo ambito la discriminante competitiva tra le aziende non sta tanto nella consapevolezza dell'importanza della massima valorizzazione delle risorse umane quanto nella capacità di realizzare nel concreto questa valorizzazione.
Gli studi di un gran numero di sociologi dànno indicazioni importanti per superare le succitate difficoltà; questi studi indicano, infatti, che le persone tendono sempre più ad esprimere sul lavoro bisogni legati alla propria autorealizzazione e all'aumento della propria autostima(3); pertanto le persone non si recano più al lavoro per soddisfare solo i propri bisogni di base, bensì per trovare, anche, un appagamento ai propri bisogni di realizzazione sociale.
Ma come comportarsi per essere sintonizzati con queste aspirazioni provenienti dal mondo del lavoro?
Per conseguire la soddisfazione dei collaboratori, l'imprenditore dovrebbe risalire all'analisi transazionale e ricordare che la struttura dell'Io di ciascun individuo si basa su tre componenti, l'Io genitore, l'Io adulto, l'Io bambino. Nei rapporti umani ciascun individuo, a seconda delle circostanze, si comporta utilizzando uno dei tre stati della personalità.
Se l'imprenditore, nei rapporti con il collaboratore assume la posizione da genitore a bambino (modello gerarchico direttivo) e il collaboratore risponde cercando un rapporto adulto-adulto, sorgeranno sicuramente motivi di attrito e di insoddisfazione. Inizialmente il rendimento del collaboratore potrà essere elevato, perché esegue attentamente i compiti assegnatigli, ma, con il passare del tempo, nel collaboratore calano l'autostima e la soddisfazione e cala il rendimento.
Se l'imprenditore assume una posizione da adulto ad adulto (modello di transazione al termine della quale entrambi hanno raggiunto un livello più alto di soddisfazione), inizialmente i risultati del collaboratore potranno essere inferiori rispetto a quelli ottenibili con il modello gerarchico, ma, con il tempo, il rendimento crescerà e, in un circolo virtuoso, con esso cresceranno autostima e soddisfazione, ad ulteriore vantaggio dei risultati.
Il monitoraggio del livello di soddisfazione dei collaboratori prevede, innanzitutto, un'analisi dei bisogni e dei valori personali del collaboratore; successivamente si procederà, sia a verificarne la soddisfazione in termini di percezioni sulla possibilità di crescita personale e professionale e sul suo coinvolgimento nel raggiungimento degli obiettivi aziendali, sia a capire come il collaboratore vede l'ambiente di lavoro e il rapporto con gli altri.
L'analisi della soddisfazione dei collaboratori è quindi un compito gravoso, ma fondamentale per l'impresa eccellente che voglia, sia realizzare il modello della massima valorizzazione del capitale umano, sia tenere sotto controllo uno degli elementi indicatori di un potenziale stato di declino.

4.2 L'energia.

A molti sarà capitato di entrare in un'azienda e osservare la quantità di energia presente tra i dipendenti.
Supponiamo di avere un appuntamento con l'imprenditore di una Pmi energeticamente ricca; l'impatto con l'azienda inizia dall'ingresso dove si viene accolti con calore e cordialità, il tempo di attesa della persona con la quale si ha l'appuntamento è breve, si viene accompagnati attraverso un'open space dove tutto appare tonico, i telefoni squillano, le persone si muovono con dinamismo, senza per questo apparire frenetiche o angosciate, l'ambiente dà la sensazione di rapporti informali e amichevoli. Si raggiunge l'imprenditore, che ci accoglie con atteggiamento fortemente orientato a stabilire un rapporto. Durante la riunione il nostro interlocutore è disturbato pochissimo dalla sua segretaria, che appare a suo agio nel "gestire" il tempo del suo capo.
Di converso sarà capitato anche il caso opposto, l'incontro con l'imprenditore di un'impresa priva di energia come una batteria scarica.
All'ingresso il visitatore viene accolto, dalla persona preposta a questo incarico, come elemento di disturbo rispetto ad altre attività ritenute più importanti (magari la soluzione di un cruciverba). La persona con cui si ha l'appuntamento non si riesce a trovare, non è in ufficio forse è in qualche reparto, non ha lasciato alcuna informazione alla segretaria, né tantomeno la stessa risulta informata dell'agenda del capo. Il visitatore trascorre un quarto d'ora circa curiosando sulla bacheca sindacale, che rivela, sia segnali di contrasti tra maestranze e imprenditore, sia uno stato di preoccupazione da parte dei dipendenti. Finalmente, si viene accompagnati attraverso un'open space dove tutto appare vecchio, i dipendenti hanno gli sguardi svogliati di chi compie attività routinarie e monotone, la gente si muove con aria strascicata, si nota qualche gruppetto di persone che chiacchierano. L'imprenditore che ci riceve, pur mostrando interesse e cordialità, afferma di avere poco tempo e di essere sommerso dagli impegni; infatti ogni cinque minuti il colloquio è interrotto dalla segretaria, dal telefono, dal cellulare o addirittura dallo spedizioniere di un fornitore che vuol sapere dal signor ingegnere dove deve scaricare il materiale.
Da questi due esempi reali se ne può dedurre una definizione di energia in azienda.
Essa è l'elemento dal quale scaturisce la capacità d'azione dell'impresa e trae origine dalle motivazioni, dall'impegno, dalla passione, dalla sicurezza, dall'autostima.

Deve crearsi nell'individuo un circolo virtuoso nel quale lo sforzo compiuto per ottenere il massimo dalle proprie prestazioni - sforzo compiuto per essere

(1) E' il momento in cui i ricavi uguagliano la somma dei costi fissi e di quelli variabili.

(2) Empowerment è l'affidamento di autonomia e responsabilità ai collaboratori.

(3) Gli psicologi definiscono l'autostima come "l'unità centrale del nostro essere", il motore delle nostre azioni, l'origine degli atteggiamenti mentali vincenti o perdenti. Avere autostima non significa arroganza o prepotenza, ma l'assoluto rispetto di sé e degli altri.


coerente con ciò in cui crede e per soddisfare le proprie aspirazioni -  e i riconoscimenti da parte dell'imprenditore (o del manager) e dei colleghi alimentano l'autostima, e quindi producono l'energia necessaria per un ulteriore miglioramento delle prestazioni.

Non sempre, però, l'eccesso di energia è un fattore positivo; l'iperattivismo dell'imprenditore del secondo caso era frutto o di uno stato d'ansia per le sorti dell'azienda o di una incapacità nella gestione del proprio tempo o di un inconscio desiderio di non fermare il pensiero sulla realtà aziendale e sugli errori commessi. Esistono, poi, forme di energia negativa, che sono altrettanto dannose all'azienda come il succitato iperattivismo in condizioni di sfascio generalizzato nel resto dell'azienda.

La quantità di energia positiva che le persone sprigionano all'interno dell'azienda fa la differenza tra l'impresa eccellente e l'impresa che potrebbe andare incontro al declino.

Giova osservare che quando l'impresa si trova nelle fasi nascente e di sviluppo il coinvolgimento delle persone e le motivazioni sono alte. C'è il gusto della sfida e l'energia è tangibile in ogni azione della maggior parte del personale. Man mano che l'impresa tende a istituzionalizzarsi il sacro fuoco dei primi tempi tende a spegnersi.
E' a questo punto che la leadership creativa deve rilanciare l'impresa facendo partire una nuova curva di sviluppo puntando su tre elementi.

  1. Rienergizzare, cioè trasmettere energia, entusiasmo e grinta nuovi,
  2. Ricreare un futuro, cioè elaborare, comunicare e far condividere una nuova vision,
  3. Ridare fiducia alle persone in modo che possano esprimere, ancora, il massimo del loro potenziale.

4.3 L'identità dell'impresa

L'impresa va considerata come una persona con la propria identità, e cioè l'insieme di principi e valori guida all'interno di un paradigma.
Se le persone si riconoscono nei valori di cui l'azienda è portatrice esistono i presupposti perché si crei un forte senso di appartenenza e quando le persone sono orgogliose di far parte di un'impresa significa  che c'è convergenza tra la mission aziendale e il progetto di vita individuale.
L'identità di un'impresa è come l'anima di una persona; creare, sviluppare, arricchire l'identità d'impresa significa rafforzare il proprio vantaggio competitivo attraverso una linfa che far scaturire nel personale energie positive, passione, orgoglio d'appartenenza, spirito di sacrificio.
D'altra parte, è opportuno sottolineare che il rafforzamento del senso di appartenenza dei collaboratori va costruito sulle solide basi della responsabilizzazione e valorizzazione delle persone, non solo con pure espressioni di principio, ma con fatti concreti e con segnali precisi e coerenti con tale spirito.
L'identità dell'impresa è, quindi, vitale perché è fonte di energia per il conseguimento di obiettivi anche ambiziosi, perché crea l'allineamento tra il personale e gli obiettivi aziendali, perché pone le basi per un impegno comune verso il perseguimento della vision aziendale.

Un grave segnale per l'imprenditore è rendersi conto che anima e cuore dei collaboratori non sono più in sintonia con l'anima dell'impresa. Forse i valori sui quali era stata fondata l'azienda si sono persi per strada; cooperazione, rispetto, pari dignità sono diventate parole vuote. L'imprenditore deve dare una forte svolta all'impresa rivitalizzando quei valori e, ancora una volta, agendo in modo concreto e inviando segnali coerenti con la volontà di rilancio.

4.4 L'immagine dell'impresa

Una buona o ottima immagine di un'impresa rappresenta un patrimonio di inestimabile valore. Essa favorisce i rapporti con tutti gli stakeholder e quindi genera business, ma essa deriva anche dal giudizio degli stakeholder, verso i quali devono, quindi, indirizzarsi gli sforzi dell'azienda.
L'immagine di un'impresa è l'insieme di due componenti, una cognitiva e una emotiva. La prima è costituita dai numeri, dai fatti, da esperienze dirette o indirette avute con l'azienda, dai comportamenti, dalle risposte; la seconda è costituita dal coinvolgimento emotivo, dal ricordo, dalla tradizione, dai valori, dall'orientamento personale di chi esprime la valutazione.
Comunque, qualunque sia il messaggio che l'impresa invia al mondo esterno, esso dovrà essere tale da non creare discrasie con l'immagine che dell'azienda hanno i dipendenti; infatti, tanto più brillante è l'immagine proiettata all'esterno tanto maggiore sarà il riflesso negativo sulle persone che quotidianamente toccano con mano una realtà aziendale diversa.
L'immagine interna deve essere perfettamente coerente con quella esterna, anzi, nel processo  di costruzione della propria immagine ci si dovrà focalizzare innanzitutto sugli aspetti interni, organizzativi e culturali  e passare attraverso l'interiorizzazione di una sentita identità aziendale da parte del personale.
La grande impresa costruisce, generalmente, la propria immagine con la pubblicità, chi puntando sugli aspetti cognitivi (la globalizzazione delle mode e dei gusti, l'antirazzismo, l'unione tra i popoli, la famiglia, la natura), chi privilegiando il coinvolgimento emotivo (l'esclusività, il messaggio provocatorio, l'anticonformismo, il mito giovane, la bellezza, il ricordo).
Nel caso di una Pmi la trasmissione dell'immagine, raramente avviene attraverso messaggi pubblicitari; generalmente, viene sfruttato il tessuto delle relazioni che tiene uniti gli stakeholder  verso i quali, giorno per giorno, vengono trasmessi la cultura, i valori, la vision e la mission aziendali e dai quali vengono recepiti gli stimoli per un progressivo miglioramento dell'immagine stessa.
Una leadership accorta dovrebbe tenere sotto controllo la qualità della propria immagine presso gli stakeholder, anche affidandosi a terzi, neutrali nel giudizio.

4.5 L'innovazione

Un'impresa che voglia sopravvivere in un mercato nel quale l'ipercompetizione (4) è la regola dovrà fare dell'innovazione la propria regola di vita.
L'impresa dovrà, quindi, entrare in una logica di innovazione continua e l'innovazione dovrà interessare vari aspetti dell'impresa, il prodotto, il servizio, il processo, il management, la logistica, il marketing, essa dovrà entrare, cioè, in ogni componente delle catene del valore alla Porter, sia orizzontali, che verticali, per creare valore per l'insieme degli stakeholder, partendo dalla creazione di valore per ogni singola attività che, in qualche modo, coinvolga l'azienda.
L'innovazione può essere di tipo incrementale, fatta di piccoli passi, oppure può essere dirompente, può scardinare gli schemi costituiti, cambiare i paradigmi esistenti, creare un circolo virtuoso nel quale si arriva a distruggere l'esistente per sostituirlo con il nuovo, che una volta diventato obsoleto, viene sostituito da qualcosa d'altro.
E' ovvio che un'impresa non può vivere quotidianamente con questo secondo tipo di innovazione, ma essa deve avere nel proprio dna la possibilità di avviare un processo di innovazione "rivoluzionaria", quando la leadership si rende conto che, per evitare il declino, è venuto il momento di far partire una nuova curva di sviluppo.
E' ovvio che per avviare un processo di innovazione continua l'impresa ha bisogno di forti e condivise valenze culturali, il gusto della sfida, la fiducia, la libertà e la passione di aprire nuove vie, ma, fondamentalmente, ha bisogno di un detonatore e questo detonatore è la creatività, senza la quale non sono possibili né miglioramenti incrementali, né, tantomeno, quella che Schumpeter chiama «la distruzione creativa». L'argomento di come poter essere creativi è talmente pregnante per la sopravvivenza delle aziende che abbiamo deciso di dedicargli un capitolo, il quinto.

L'imprenditore dovrà quindi verificare, per ogni area di attività dell'impresa, la presenza della cultura dell'innovazione. Dovrà cercare di non criticare le proposte non realizzabili, ma incoraggiare costantemente e premiare lo sforzo creativo teso al miglioramento.

4.6 Il capitale intellettuale

E' noto, anche ai meno esperti di organizzazione aziendale, che il capitale intellettuale di un'azienda moderna (conoscenza, informazioni, brevetti, esperienze acquisite, risultati della R&S) costituisce una delle prime fonti di vantaggio competitivo.
L'importanza che le risorse intellettuali stanno acquistando nella transizione verso una nuova economia, nell'accezione data in prefazione, e come queste risorse stiano inesorabilmente sostituendo capitale e forza lavoro come asset strategici di un'impresa sono fatti che possono essere mostrati con alcune semplici considerazioni.

  1. Il valore di un prodotto percepito dal cliente risiede sempre più negli aspetti intangibili (design, immagine aziendale, servizio, emozione, ricordo) che sono frutto delle risorse intellettuali, e sempre meno nella sua materialità.
  2. Aziende che utilizzano in maniera preponderante il capitale intellettuale hanno capitalizzazioni di borsa enormemente superiori al valore degli asset tangibili.
  3. Nelle imprese il lavoro manuale è stato, in gran parte, sostituito dall'automazione, che, sia nella fase di progettazione, sia in quella del controllo, deve fare sempre riferimento a risorse intellettuali.

Giova sottolineare, inoltre, che gli asset legati al capitale intellettuale hanno caratteristiche completamente diverse da quelle che contraddistinguevano gli asset tangibili.

  1. Il capitale intellettuale è un bene che si rivaluta nel tempo, invece di deprezzarsi come succede con i beni materiali.
  2. Il capitale intellettuale non si consuma nel tempo, anzi tende ad aumentare con l'uso.
  3. Il capitale intellettuale, non è un bene statico, ma, come in una reazione a catena, ha una grande velocità di diffusione e di proliferazione.
  4. Il capitale intellettuale può essere detenuto da persone, verso le quali l'impresa deve inventare nuove modalità di interazione (vedi ad esempio la politica della partnership).
  5. Il capitale intellettuale, oltre che essere fonte di business in quanto tale, è anche elemento di formazione della cultura dell'innovazione nell'impresa e quindi apportatore di vantaggi competitivi su due fronti.

 
Questa atipicità degli asset intellettuali rispetto a quelli del passato recente ha, ovviamente, costretto le aziende a riorganizzarsi e strutturarsi in modo da fertilizzare e valorizzare al meglio questo capitale. In ogni caso le imprese dovranno essere gestite in modo da:

  1. creare nuovo capitale intellettuale,
  2. consolidare e diffondere la conoscenza all'interno dell'azienda,
  3. massimizzare lo sfruttamento del capitale intellettuale, acquisendo sui mercati vantaggi competitivi duraturi,
  4. quantificare il valore del capitale intellettuale dell'impresa,
  5. attraverso la comunicazione e il coinvolgimento cercare di catturare quelle eventuali conoscenze latenti che possono essere patrimonio ignorato di qualcuno tra gli stakeholder.

L'imprenditore di un'impresa tesa verso l'incremento e la valorizzazione del capitale intellettuale, oltreché avere un'ottima visibilità delle competenze che l'azienda dovrà sviluppare, non guardando al passato, ma pensando al futuro, dovrà adeguarsi a questa realtà di impresa e spostare il proprio focus sui seguenti aspetti:

  1. la gestione di persone che operano in un'ottica di empowerment,
  2. l'identificazione e l'inserimento delle competenze necessarie per ogni ruolo chiave,
  3. la creazione di una learning organization che consenta di definire un percorso di sviluppo delle conoscenze mirato e allineato alle scelte strategiche,
  4. il monitoraggio costante del livello di sviluppo del capitale intellettuale.

L'attenzione agli asset intellettuali dovrà essere molto più accurata di quella che la leadership dedicava agli asset materiali; la velocità dei cambiamenti e l'attrattività della concorrenza sono due elementi con i quali l'imprenditore dovrà avere a che fare quotidianamente pertanto la presenza costante e cooperativa con tutto il mondo degli stakeholder dovrà essere un must imperativo per l'imprenditore, sia per individuare sempre nuove fonti di capitale intellettuale, sia per evitare la perdita delle fonti già in suo possesso.

4.7 La customer satisfaction

Che lo scopo principale di un'impresa sia creare e conservare una clientela è un assioma che è oramai nel dna di tutte le aziende. In un mercato ipercompetitivo lo sforzo dalle imprese è rivolto all'ottimizzazione di due parametri:

  1. la customer retention, cioè la percentuale di clienti che compiono l'acquisto presso l'impresa, ovvero il tasso di fedeltà praticata,
  1. la customer loyalty, cioè la percentuale di clienti che, consapevolmente sono fedeli, ovvero il tasso di fedeltà voluta.

L'impresa è consapevole che un cliente trattenuto non è un cliente fedele, mentre è fedele il cliente che vuole comprare dall'impresa e non dalla concorrenza perché non è un cliente semplicemente soddisfatto, ma molto soddisfatto.
E' evidente che monitorare costantemente il livello della customer satisfaction è forse l'attività dalla quale dipende prioritariamente la sopravvivenza dell'impresa. L'impegno non è facile, anzi ha gradi di difficoltà notevoli, specie perché la qualità della fornitura, percepita dal cliente non sempre corrisponde alla qualità che l'impresa ritiene di erogare.
La soluzione, specie se non si è in presenza di beni di largo consumo, è l'impresa degli stakeholder, nella quale, tutti e quindi anche il cliente, concorrono a definire la qualità del prodotto e l'impresa è in grado di conoscere, del cliente, i bisogni impliciti, quelli espressi, ma anche quelli latenti.

Grazie a questa conoscenza l'impresa potrà erogare la propria fornitura in base a tre tipologie di qualità.

  1. La qualità implicita che è propria delle prestazioni che i clienti considerano normale ricevere e che quando vengono erogate non producono soddisfazione ma uno stato di non-insoddisfazione.
  1. La qualità espressa deriva da quelle prestazioni che i clienti apprezzano se le riscontrano.
  1. La qualità latente è correlata a prestazioni inattese dal cliente e hanno un'influenza molto positiva sulla customer satisfaction.

Va comunque detto che la qualità latente diventa presto una qualità implicita (il cliente si aspetta quello che prima era una sorpresa) e se l'impresa vuole mantenere elevato il grado di soddisfazione del cliente dovrà inventarsi un'altra qualità latente, mantenendo il pendolo della qualità in continua oscillazione tra qualità latente e qualità implicita.

Si è detto che quantificare la customer satisfaction è un'attività molto complessa, esistono, comunque, una serie di elementi, come quelli indicati nel riquadro, la cui analisi può dare informazioni su di essa.

Effettuare consegne precise e corrispondenti agli ordini.
Rispettare i tempi di consegna.
Adottare termini di pagamento flessibili e a misura del cliente.
Avere una discreta gamma di prodotti.
Imballare i prodotti in modo razionale e funzionale.
Usare imballaggi ecologici.
Essere capaci di adattarsi alle esigenze della commercializzazione.
Sostenere i prodotti con un'efficace attività di marketing.
Organizzare azioni promozionali.
Avere personale con adeguato grado di autonomia.
Avere prodotti con ciclo di vita adeguato.
Curare i contatti interpersonali.
Avere personale cortese e gradevole nei rapporti interpersonali.
Fornire spiegazioni e materiali, esaurienti e completi.
Avere procedure di comunicazione tecnologicamente avanzate.
Proporre soluzioni di servizio innovative.
Disporre di un adeguato servizio assistenza clienti.

Questi indicatori di customer satisfaction possono essere modificati o integrati, in funzione della tipologia di business dell'azienda, ma sarebbe opportuno che ciascuna azienda compili un elenco di parametri, come quello del riquadro, e su di esso faccia, periodicamente un attento monitoraggio. Per quantificare in un dato numerico la customer satisfaction, l'imprenditore, in funzione della tipologia del proprio business, potrebbe assegnare a ciascun parametro una scala di valori e definirne, quindi, con un "voto" il valore.

4.8 La competenza emotiva

Fino a pochi anni fa l'intelligenza di una persona veniva misurata attraverso il QI (6); da qualche anno si misura anche l'EQ, il quoziente di intelligenza emotiva, che rappresenta appunto un'altra faccia dell'intelligenza.
L'EQ comporta la capacità di avere una buona conoscenza e consapevolezza di sé, un buon autocontrollo, facilità nelle relazioni, ottime doti comunicative, capacità di trasmettere nell'interlocutore entusiasmo e fiducia, capacità di automotivazione e di comprendere i sentimenti e gli stati d'animo altrui, tutte caratteristiche che fanno il profilo ideale di un leader.
Questo spiega, anche, perché, generalmente, un alto QI, da solo, non ha mai creato un leader. La competenza emotiva nasce dalla consapevolezza della propria intelligenza emotiva; potremmo dire che la propria competenza emotiva è il prodotto tra la propria consapevolezza e la propria intelligenza emotiva.
La presenza nell'impresa della competenza emotiva risulta particolarmente importante quando l'azienda è in una fase di transizione.
Durante i cambiamenti, in azienda, è noto che si sviluppano ansia, paura e sfiducia, forze negative che possono bloccare il processo in corso; solo la presenza della competenza emotiva permette alla leadership di illustrare uno scenario positivo e di far comprendere alle persone che l'azienda richiede loro responsabilità, iniziativa, lealtà, impegno, fiducia.
Essa è altresì fondamentale quando il valore di un'impresa è il tessuto delle sue relazioni e la capacità di creare, mantenere e sviluppare relazioni interpersonali è un “dovere”aziendale.
E' opportuno notare che la competenza emotiva è l'ingrediente per ottimizzare anche i parametri visti prima.
La competenza emotiva permette di sviluppare energia positiva in situazioni ad elevato potenziale conflittuale, quando la comprensione dei sentimenti e delle aspettative altrui e la capacità relazionale giocano un ruolo importante.
La competenza emotiva, attraverso le sue doti relazionali, permette di valorizzare i processi di comunicazione interna ed esterna per la trasmissione di un insieme di valori che costituiscono l'identità e l'immagine aziendale.
Il capitale intellettuale si sviluppa, se all'interno dell'azienda cadono confini e barriere organizzative, permettendo la libera diffusione della conoscenza; questo comporta accordare fiducia ai collaboratori, operazione facilitata se esiste una sintonia, tra i soggetti dell'impresa, che scaturisca da affinità emotiva, sensibilità ed entusiasmo.
La costruzione nell'impresa della cultura dell'innovazione comporta la diffusione e l'interiorizzazione di una tensione emotiva verso nuovi modelli mentali e di una predisposizione verso la rottura di rendite di posizione e vecchi schemi.
La competenza emotiva è uno strumento fondamentale per mettere in atto i giusti comportamenti tesi al raggiungimento della soddisfazione dei collaboratori e dei clienti. Con riferimento ai collaboratori, rivestono particolare importanza le relazioni interpersonali e la percezione, da parte dei collaboratori, dell'esistenza di una particolare attenzione alle proprie esigenze, elementi profondamente influenzati da comportamenti che derivano dalla dimensione emotiva. La customer satisfaction dipende dalla capacità dell'impresa di saper cogliere i bisogni espressi e latenti dei clienti e di soddisfarli, trasformando il contatto in un'esperienza memorabile. La dimensione critica sulla quale agire per raggiungere quell'obiettivo è la relazione ad elevato tasso di intelligenza emotiva per "incantare" il cliente e convincerlo ad essere fedele.

5 Alcuni esempi di cambiamento nelle Pmi


(4) L'ipercompetizione è caratterizzata da forti accelerazioni nei cambiamenti, dall'aumento dei livelli di concorrenza, dalle repentine evoluzioni nel campo delle tecnologie, dalla trasformazione della forza lavoro in knowledge worker, dall'instabilità economico-finanziaria.

(5) Quoziente di intelligenza.


Più volte è stato sottolineato che alla base del successo di un'impresa e della sua leadership c'è una forte propensione al cambiamento del core business, particolarmente nel momento in cui i segnali premonitori, analizzati nel precedente paragrafo, possano indicare una potenziale crisi, anche non imminente. A questo punto è interessante citare come alcune Pmi, note all'autore, abbiano interpretato, in modo esemplare, il modello del cambiamento.

Un'azienda operava da una decina di anni nel campo della carpenteria su disegni costruttivi realizzati dal cliente, il fatturato era soddisfacente, i clienti fidelizzati, i dipendenti integrati. L'imprenditore (6) aveva però compreso che era necessario un cambiamento culturale perché la forte competizione sui prodotti finali avrebbe condotto i clienti a scaricare economie di spesa su fornitori e terzisti. In pochi anni l'azienda ha cambiato il proprio core business diventando un'impresa di progettazione di componenti di carpenteria, con la realizzazione relegata ad una fase secondaria ed, eventualmente, esternalizzabile nel caso di picchi negli ordinativi. La conoscenza accumulata nella lavorazione della lamiera di ferro aveva consentito di proporre al cliente soluzioni progettuali mirate alla riduzione dei costi, alle quali il cliente non sarebbe mai arrivato. Grazie a questo cambiamento il fatturato è più che raddoppiato.

Un'azienda ha una posizione di leadership nella produzione di motori elettrici, settore nel quale la concorrenza in tutta Europa e fortissima. L'imprenditore aveva analizzato per anni soluzioni che potessero proteggere l'azienda da possibili crisi ed era arrivato alla conclusione che sarebbe stato opportuno entrare in qualche settore nel quale l'uso dei propri motori elettrici avrebbe consentito di operare in una sorta di captive market. L'imprenditore ha individuato nel motoscooter elettrico un prodotto con ottime prospettive e ha creato una joint venture con un fabbricante di motoscooter convenzionali. Le prospettive economiche sono molto interessanti, anche per gli incentivi del governo a favore dell'uso di mezzi a trazione elettrica.

Un'azienda nasce quarant'anni fa per la produzione di resistori di precisione a filo avvolto; questa produzione di nicchia consente all'imprenditore di entrare in contatto con società multinazionali che, lavorando con elevati standard di qualità, hanno bisogno di componenti che rispondano a quegli standard.  A questo punto avviene il primo cambiamento del core business, l'impresa avvia la produzione di schede elettroniche ad elevatissimo standard qualitativo. Questo tipo di produzione consente all'azienda di acquisire, come clienti, multinazionali operanti nel settore elettromedicale, in particolare la società leader mondiale nella produzione di macchine per anestesia. L'incontro con questa grande società fa compiere all'imprenditore il secondo cambiamento del core business, la progettazione e realizzazione, per conto della multinazionale, di apparecchiature per anestesia. Da piccola impresa artigiana, l'azienda citata è diventata un'impresa moderna, fortemente knowledge based, e con un fatturato di tutto rispetto.

Due imprenditori operanti nel settore delle macchine utensili e della saldatura hanno sentore di una crisi della propria impresa per i continui attriti, con un terzo socio, nella definizione delle strategie aziendali. Operando nel settore della lavorazione meccanica si rendono conto che in Italia non ci sono molte aziende che lavorano nel campo delle applicazioni laser per i trattamenti superficiali e per la marcatura e fondano una seconda azienda per entrare in questo core business. Una volta acquisite le competenze sui laser e approfondite le potenzialità del mezzo si rendono conto che gli impianti acquisiti per lavorazioni per conto terzi possono essere utilizzati per la realizzazione di prodotti artistici in cristallo, prodotti che consentono margini più elevati delle lavorazioni per conto terzi, lavorazioni d'altra parte insidiate da tecniche a minor costo. Avviene quindi una seconda trasformazione del core business e gli imprenditori sono in una fase di forte espansione della produzione.

Un'impresa opera da più di trent'anni nel campo della produzione di matrici per rotocalco; la nuova leadership aziendale si rende conto che gli indicatori del settore mostrano competitor sempre più agguerriti, ritorni sul capitale calanti, crescita zero. Gli imprenditori, convinti che «la molla del progresso consiste nell'accumulazione della conoscenza e che il cambiamento è vita», avviano una nuova stagione creando una società alla quale affidare il compito di sviluppare R&S per l'individuazione di nuovi prodotti, partendo dal capitale iniziale di un know-how trentennale nel settore. Nel giro di tre anni la nuova struttura realizza un nuovo cilindro, scardinando l'antico giudizio secondo il quale "il cilindro di qualità deve essere pesante", l'azienda di produzione registra un incremento di fatturato del 30%; dopo due anni viene inventato un cilindro ancora più rivoluzionario, che consente di ridurre del 50% i costi di produzione, il fatturato registra un altro 30% di incremento. In questo caso si può affermare che il cambiamento di business è consistito nel passare dalla cultura dell'ottimizzazione delle performance attraverso miglioramenti incrementali dei processi di produzione alla cultura dell'innovazione di prodotto.

Tra i molti altri esempi che l'autore potrebbe portare, pur nella limitatezza del suo campo d'osservazione, esiste una trasformazione del core business che è comune a moltissime aziende. Imprese commerciali, agenti di produttori esteri, che, costituendo strutture per l'assistenza tecnica ai clienti, gradualmente acquisiscono le competenze per realizzare in proprio il prodotto commercializzato, eventualmente privo di quei difetti che richiedevano la presenza di un centro di assistenza. In questi casi il cambiamento di core business è la transizione da attività prettamente commerciali ad attività di produzione.

Da questo piccolo gruppo di casi esemplari si comprende come il cambiamento, fonte di longevità delle imprese, nasce, fondamentalmente, da due elementi chiave per l'eccellenza imprenditoriale, la capacità di anticipare una potenziale crisi e la creatività nel modificare completamente il core business dell'impresa.

6. Come un'azienda si avvia verso il proprio declino

All'autore è capitato di assistere al declino e alla scomparsa di una gloriosa Società, una volta fiore all'occhiello di un grande gruppo industriale italiano.
Nel 1992, nulla faceva, apparentemente, presagire l'evoluzione futura. I ricavi industriali erano oltre i 130 miliardi di lire, il margine operativo di 12 miliardi, il risultato operativo di 3 miliardi,  il totale delle immobilizzazioni di poco inferiore a cento miliardi, i dipendenti oltre seicento, secondo un trend di dati positivi che risaliva ad almeno una decina d'anni. La capogruppo non chiedeva alla Società forti utili perché poteva godere della funzione d'immagine che la controllata le arrecava; l'unico aspetto negativo era nella composizione dei ricavi, che per l'87% derivavano da commesse provenienti dall'interno del gruppo, percentuale che da anni la controllante chiedeva di ridurre, a fronte, viceversa, di costanti aumenti.

Il top management non fu in grado di recepire una serie di segnali, anche forti, che avrebbero dovuto imporre, in un periodo di perdurante floridezza, un violento rilancio dell'impresa. Per indicare i segnali che già erano emersi da qualche anno si può far riferimento agli otto indicatori citati precedentemente.

  1. La soddisfazione dei collaboratori. Tra i dipendenti della fascia "eccellenti", serpeggiava da tempo un forte malumore per una politica del personale che tendeva a privilegiare ex-sindacalisti, persone indicate da lobby esterne, amici del top management, tutti, per lo più, di una fascia "medio-bassa". Il risultato più evidente era stato un elevato numero di dimissioni tra gli elementi con le migliori qualità professionali e manageriali. Il top-management aveva sempre cercato il consenso e la concertazione, ma, sempre, in un rapporto prioritario con il sindacato, limitando il rapporto con dirigenti, quadri e impiegati ad una sterile riunione di fine d'anno. Quei pochi che nell'assemblea di fabbrica prendevano la parola per criticare la direzione si ripromettevano solo ritorni di tipo politico.
  1. L'energia. Non esisteva più nessun ritegno a passare delle buone mezz'ore al bar, a chiacchierare nei corridoi, a leggere il giornale in ufficio o nei gabinetti, a trasformare gli uffici in piccoli mercatini dove si poteva trovare un'ampia varietà di mercanzia, dai gioielli agli orologi, dalla biancheria intima ai preservativi, dalle pentole alle scarpe. Il tutto sotto lo sguardo severo, ma tollerante del management che non rinunciava, di tanto in tanto, a qualche acquisto interessante. Qualche giovane brillante, che sprigionava energia positiva, riusciva a creare isole di imprenditorialità, ma la mancanza di una valida politica di incentivazione basata sui risultati portava il collaboratore alla resa e all'abbandono. La corsa alle macchine della timbratura, a fine giornata, era sintomo di un senso di liberazione da parte dei dipendenti che all'uscita  dall'azienda iniziavano, forse, finalmente, a vivere.
  1. L'identità dell'impresa. Rispetto ad una decina di anni prima si era perso lo spirito di appartenenza e l'orgoglio di essere in quella Società. L'attaccamento al lavoro era rimasto solo apparente e fortemente legato alla promessa della gratifica, dell'aumento o del passaggio di categoria da parte dei capi. Disaffezione, noncuranza, trascuratezza nel lavoro, posizione critica rispetto agli obiettivi aziendali e perdita completa dell'allineamento tra mission aziendale e propria visione dell'impresa erano la norma. L'azienda aveva ancora un notevole potere di attrazione tra i neolaureati, molti dei quali, i migliori, dopo pochi anni lasciavano, però, l'impresa.
  1. L'immagine. Il top management viveva nell'illusione che l'immagine aziendale fosse ancora quella di una decina di anni prima, ma la realtà era diversa. Molti dei clienti del captive market (7) vedevano l'impresa come un inutile carrozzone al quale affidare attività che venivano effettuate a prezzi al di fuori di qualunque logica di mercato. Operare in condizioni di captive market tarpa a chiunque le ali della creatività e dell'efficienza, cosicché i clienti esterni al gruppo pretendevano prestazioni che l'impresa non era più in grado di effettuare. Per soddisfare le loro richieste si scaricavano costi e inefficienze sul captive market offuscando ulteriormente l'immagine dell'impresa nei riguardi di quel key-client, che, comunque, consentiva all'impresa di sopravvivere. Mentre il top-management nelle riunioni con il personale e con i sindacati decantava le sette meraviglie della Società, forte dei risultati di bilancio, il personale era perfettamente conscio che la realtà era, oramai, completamente diversa. Si era creato un assoluto disallineamento tra l'immagine aziendale vista dal top-management, quella della maggior parte di dirigenti e dipendenti e quella dei clienti.
  1. L'innovazione. Nel corso degli anni il top-management aveva sperimentato diverse ristrutturazioni organizzative, ma la molla di questi cambiamenti non era mai stata la volontà di innovazione, quanto la necessità di dimostrare come l'organizzazione proposta fosse più moderna e avanzata del sistema organizzato dal precedente management. La certificazione Iso 9000 fu vissuta dall'azienda come un male contagioso e gli addetti alla qualità, considerati degli appestati da tenere il più possibile lontani da reparti e laboratori. Il gusto del cambiamento per la creazione di valore a favore del complesso degli stakeholder non sfiorò mai la stragrande maggioranza di dirigenti, quadri e impiegati. Il piacere dell'innovazione restava circoscritto ai laboratori di R&S, dove peraltro allignava il virus dell'intoccabilità del ricercatore, con grave pregiudizio della soddisfazione del cliente. Nella R&S la tendenza ad operare era più rivolta al raggiungimento di prestigiosi obiettivi tecnologici, piuttosto che alla realizzazione di nuovi prodotti di facile uso per il cliente e, fondamentalmente, realizzati per risolvere bisogni reali. Piccoli miglioramenti incrementali si ebbero con l'introduzione dell'information technology, ma, anche in questo caso, scelte molto conservative limitarono l'efficacia di questa tecnologia che in quel tipo di azienda avrebbe potuto creare enormi potenzialità di business; la logica della parrocchia, adottata dagli addetti all'informatica aziendale, tarparono le ali a molte proposte e iniziative provenienti da parte delle altre divisioni.
  1. Il capitale intellettuale. Gli asset intellettuali avrebbero dovuto costituire un elemento di osservazione fondamentale per una società che operava nel settore delle tecnologie avanzate; società che era stata, almeno fino ad un decennio prima, una fucina di talenti, alcuni migrati per altre sponde in Italia e all'estero e molti rimasti per la crescita e lo sviluppo di altro capitale intellettuale. Eppure nulla fu tentato per arrestare la fuga di cervelli che andava verificandosi da qualche anno, ad ogni accenno di ripresa dell'economia nazionale. L'azienda era diventata un'area di addestramento di giovani dotati, pronti ad intraprendere l'attività lavorativa in un'altra impresa. L'incapacità di creare una corsia preferenziale, formativa e remunerativa, per le risorse intellettuali e l'impossibilità dell'opzione dirigenziale in un ambito saturato da scelte di convenienza politica, allontanava i giovani di talento da un'azienda che non era in grado che di formulare vaghe promesse; l'impoverimento culturale era evidentissimo. Il monitoraggio sulle esigenze delle risorse intellettuali era fiacco, estemporaneo e lasciato a persone più adatte alla mediazione che alla proposta o a consiglieri di comodo.
  1. La customer satisfaction. Il monitoraggio della soddisfazione del cliente non era stata mai presa in considerazione, perché il top-management partiva dalla convinzione (o fingeva di essere convinto) che tra i responsabili delle divisioni produttive e il key-client esistessero dei rapporti improntati alla normale pratica imprenditoriale «Io acquisto questo prodotto perché ritengo che mi serva e che abbia un prezzo giusto». Nella realtà il ragionamento del cliente era diverso «Io acquisto questo prodotto pur sapendo che è ancora in fase sperimentale, che non è stato ingegnerizzato, che forse non funzionerà e del quale non sento un bisogno reale, ma che mi consente di giustificare la tua e la mia presenza nel gruppo». Al top-management, di tanto in tanto, arrivavano voci dall'interno dell'azienda o da parte del key-client che la situazione richiedeva forti interventi di rinnovamento, ma la filosofia del management era «Raglio d'asino non sale in cielo».  Se fosse stato fatto qualche tentativo di valutazione concreta della customer satisfaction con il cliente stesso si sarebbero potuti prendere provvedimenti drastici, prevalentemente nella direzione di trasformare la filosofia del conseguimento di traguardi tecnologici, con quella più pratica della realizzazione di prodotti rispondenti a reali bisogni. Questa strategia avrebbe aperto, maggiormente, all'azienda la strada della committenza esterna al gruppo, alleggerendo il peso nei riguardi della controllante. In vista di un possibile tracollo il top-management creò una struttura di marketing senza, però, darle il potere di incidere, né sulla tipologia dei prodotti, né sui rapporti con il key-client. La nuova struttura trovò un forte ostracismo all'interno dell'azienda, impreparata ad un cambiamento culturale; ognuno si ritenne investito del potere di avviare una propria politica di marketing, creando competizione tra le varie divisioni e quindi sconcerto e  definitiva sfiducia tra i clienti.
  1. La competenza emotiva. Questo aspetto era stato sicuramente quello più pregnante all'epoca della nascita e dello sviluppo della società. L'entusiasmo, la passione, il gusto della sfida, le idee più pazze avevano reso possibile la nascita dell'azienda attraverso infinite difficoltà, specialmente dovute ad un'incredulità sulla possibilità di costituire in Italia un'impresa orientata sulle tecnologie avanzate. La competenza emotiva fu senz'altro la chiave che aprì molte porte e convinse una serie di finanziatori a credere in quell'idea. L'entusiasmo durò ancora parecchio, ma iniziò a scemare. Questo fu sicuramente il segnale più forte, un urlo che l'impresa  lanciò al proprio management, in una sorta di visione profetica della propria fine. La competenza emotiva scomparve del tutto, stritolata dal tran tran quotidiano e dal morbido atterraggio tra le braccia di un importante gruppo industriale che somministrò all'azienda un'adeguata dose di sonnifero per portarla, lentamente, ad una "dorata" fine indolore.

Il top management di fronte a tanti segnali che coerentemente reclamavano un drastico cambiamento culturale si facevano scudo di bilanci in ordine e ritenuti soddisfacenti dalla controllante, ma, dal 1992, l'anno del massimo splendore in termine di bilanci, nel giro di sei anni l'impresa fu portata, come era corretto e fisiologico, alla definitiva scomparsa.

Eugenio Caruso

Tratto da L'eccellenza nelle imprese


6) In tutto il testo si cita imprenditore intendendo imprenditore uomo o donna.

(7) Si intende per captive market quel mercato acquisito all'interno di un gruppo in modo quasi automatico, senza concorrenza e quindi senza un serio controllo dei prezzi.



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