La felicità è propria degli uomini indipendenti
Aristotele, Etica eudemia
L’articolo è il seguito di
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I passi della crisi 2008 - 2012 - Parte XIV
I passi della crisi 2008 - 2012 - Parte XV
I passi della crisi 2008 - 2012 - Parte XVI
I passi della crisi 2008 - 2012 - Parte XVII
I passi della crisi 2008 - 2013 - Parte XVIII
I passi della crisi 2008 - 2013 - Parte XIX
I passi della crisi 2008 - 2013 - Parte XX
I passi della crisi 2008 - 2014 - Parte XXI
I passi della crisi 2008 - 2014. Parte XXII.
I passi della crisi 2008 - 2014. Parte XXIII.
Con riferimento ai succitati articoli, questo prosegue, per il terzo quadrimestre del 2014, l'analisi delle performance economico-finanziarie degli stati sovrani e delle più importanti imprese del pianeta, dall'inizio della crisi economica che ha colpito il pianeta. Con particolare attenzione è analizzata la situazione italiana. Sono, inoltre, presi in considerazione tutte le più importanti iniziative degli stati e delle organizzazioni internazionali e nazionali, nonché gli andamenti delle economie di vari paesi.
MOGHERINI: UNA VITTORIA DI RENZI (1 settembre 2014).
Tra amputazioni russe dell'Ucraina, Siria, Libia, Iraq in fiamme e Medio Oriente senza pace. Tra recessione, disoccupati a milioni, deflazione in agguato e preoccupante emorragia di consenso popolare al progetto integrativo. Tra rischio secessione della Gran Bretagna, il prossimo quinquennio si annuncia come il più difficile della storia europea dalla fine della seconda guerra mondiale. Per affrontarlo, i 28 capi di Stato e di Governo dell'Unione hanno deciso ieri a Bruxelles, dopo lunghi negoziati, di mettere un polacco, il premier Donald Tusk, alla guida del Consiglio europeo e dell'Eurozona. Un'italiana, il ministro degli Esteri Federica Mogherini, come Alto Rappresentante per la politica estera. E un lussemburghese, l'ex premier Jean-Claude Juncker, a presiedere la Commissione Ue.
Matteo Renzi ha ottenuto un'indiscutibile vittoria diplomatica: malgrado le molte difficoltà iniziali, alla fine ha centrato il "suo" bersaglio e ci è riuscito nonostante l'Italia occupasse già con Mario Draghi la presidenza della Bce, cioè la poltrona europea più importante in quanto l'unica dichiarata, per statuto, indipendente dai desiderata dei governi.
Per la Polonia un risultato storico: a soli 10 anni dall'ingresso nella famiglia comunitaria, Varsavia ha coronato la sua carriera di partner-modello che, ha ricordato Tusk, ha saputo coniugare «la disciplina di bilancio con la crescita del Pil del 20% negli ultimi sette anni», con la conquista di due presidenze in un colpo solo: quella del Consiglio europeo dei 28 e del club dei 18 dell'Eurozona pur non facendone parte. Una novità assoluta per garantire l'unità, evitando che la divisione istituzionale tra le due Europe diventasse permanente, ha spiegato il premier polacco.
Sarà il nuovo triangolo del potere comunitario all'altezza delle emergenze a getto continuo che lo attendono al varco? Avrà la capacità di visione, coesione e di leadership necessaria e sufficiente per navigare in acque a dir poco molto insidiose? A prima vista si direbbe di no. Tusk è l'uomo che viene dall'Est e che per ora parla correntemente soltanto russo e tedesco, non esattamente le lingue ideali per mediare tra opposti interessi e diffidenze intraeuropee. Però ha assicurato che per dicembre colmerà la lacuna e sarà in grado di parlare inglese, la lingua franca prevalente nei negoziati Ue.
La Mogherini ha sottolineato, e a ragione, il valore aggiunto che può derivare dal ricambio generazionale ma la sua relativa inesperienza e limitata rete di contatti internazionali fanno temere a molti che, in una congiuntura difficile e per di più con una politica estera comune tutta da inventare e governata dal voto all'unanimità, non sia il regista che potrà far dimenticare la povera performance quinquennale della Ashton. In realtà proprio la scarsa statura del suo predecessore potrebbe rappresentare il suo asso nella manica. In ogni caso la Mogherini lavorerà in tandem con Tusk, altra novità di ieri, soprattutto nella gestione dei rapporti con la Russia di Putin e il fronte orientale.
Juncker è un uomo del passato, un vecchio leone dell'europeismo che non c'è più, quello sinceramente solidale, figlio di uno spirito di famiglia perso per strada. Non a caso il lussemburghese era in perfetta sintonia con Helmut Kohl, molto meno con Angela Merkel. Il cui "enfant gaté" è piuttosto Donald Tusk.
La ragione di scelte deboli, che non si discostano molto da quelle fatte per guidare le istituzioni Ue nel quinquennio che sta per terminare, è purtroppo sempre la stessa: ormai i governi, che siano dell'Unione o dell'Eurozona non cambia, preferiscono concordare tra loro le politiche europee, usando Commissione e Consiglio per avallarle legalmente. Solo l'Europarlamento finora ha provato a resistere, anche se non sempre con successo. Dunque, salvo clamorose smentite, il rischio anche questa volta è che cambino gli uomini al timone delle istituzioni Ue ma che il corso della politica europea resti sempre lo stesso: deludente, inadeguato, quando non fallimentare.
L'OCSE sulla disoccupazione (3 settembre 2014).
La ripresa del mercato del lavoro resta incompleta: nonostante un lieve calo del tasso di disoccupazione, la situazione rimane ben lontana dai livelli di sei anni fa, prima che la crisi si abbattesse con la forza di un tornado anche sull’economia reale. L’Italia è uno dei Paesi che soffre di più: la disoccupazione continuerà a salire per tutto il 2014, arrivando a quota 12,9% contro il 12,6% del 2013 e solo nel 2015 scenderà, al 12,2%. A pagare il prezzo più alto sono i giovani: il 52,5% degli under venticinque italiani ha un contratto di lavoro precario. La percentuale è in lieve calo rispetto al 2012 (52,9%), ma è quasi doppia rispetto al 2000 (26,2%). È una fotografia a tinte fosche quella scattata dall’Ocse nel suo rapporto annuale, presentato questa mattina a Parigi, soprattutto perché non basterà qualche indicatore positivo nella crescita per cambiare rotta. L’esercito dei disoccupati, scrive l’organizzazione, ha ormai perso le motivazioni, e il capitale umano si è impoverito. I numeri sono drammatici: 16,3 milioni di persone nell’area Ocse sono senza un posto da almeno dodici mesi. A conti fatti, l’85% in più rispetto al 2007. Per i governi, dice l’Ocse, è urgente «dare la priorità alle misure per l’occupazione e la formazione di disoccupati di lunga durata». Le proiezioni dell’organizzazione indicano che il calo della disoccupazione scenderà fino ad attestarsi al 7,1% nell’ultimo trimestre del 2015. I risultati più incoraggianti arriveranno da Spagna (-2,2 punti percentuali), Irlanda (-2,1), Repubblica slovacca e Stati Uniti (entrambi -1.1%). Situazione ancora critica non solo in Italia, ma anche in Portogallo, Repubblica slovacca e Slovenia. Entro la fine del prossimo anno scenderanno sotto il 5% Austria, Germania, Islanda, Giappone, Corea, Messico, Norvegia e Svizzera. Cattive notizie pure per chi è riuscito a tenersi il lavoro, spiega il rapporto: molti hanno visto rallentare o addirittura scendere il reddito reale. È dunque urgente promuovere le riforme per «la competitività, la crescita e la creazione» di nuovi posti. Soprattutto, è necessario migliorare la qualità, partendo dal livello e dalla distribuzione degli utili, passando per la sicurezza e la qualità dell’ambiente. I più svantaggiati, dice l’Ocse, sono i giovani, i precari e i lavoratori meno qualificati. Il 70% dei lavoratori vive una “sfasatura” tra la loro occupazione e il loro percorso formativo, in altre parole, hanno qualifiche troppo elevate o troppo basse per il lavoro che svolgono o svolgono una professione che non ha nulla a che vedere con l’università frequentata. «L’eccessivo affidamento al lavoro temporaneo è dannoso per le persone e l’economia» spiega l’organizzazione. «I lavoratori con questi contratti si trovano spesso ad affrontare un grado di precarietà più elevato e le imprese tendono a investire meno nei lavoratori assunti senza un contratto fisso». Un meccanismo incancrenito che rischia di «deprimere la produttività e lo sviluppo del capitale umano». Servono, dunque, politiche in grado di regolare meglio, e in modo più incisivo, il mercato dei contratti che portino a una riduzione del gap tra garantiti e non garantiti. Per esempio, una stretta sulle false partite Iva: l’Italia è il quarto paese dell’area Ocse per numero di lavoratori che sulla carta sono liberi professionisti, ma, di fatto, offrono prestazioni subordinate. Secondo il rapporto nel nostro Paese costituiscono il 3,2% circa dei lavoratori dipendenti nei settori dell’industria e dei servizi, una percentuale superata (di pochi decimi di punto) solo da Repubblica Ceca, Slovacchia e Grecia.
CALA IL COSTO DEL DANARO (4 settembre 2014).
Mossa decisa, e a sorpresa, della Bce guidata da Mario Draghi: l’istituto di Francoforte ha ridotto i tassi d’interesse allo 0,05% dallo 0,15 per cento. Il costo del denaro in Europa tocca così i minimi storici. Al contempo, la Banca centrale ha lanciato un programma di acquisto di covered bond e asset backed securities (Abs) per aumentare l’offerta di moneta. Sui tassi «ora è chiaro che abbiamo raggiunto il livello minimo», ha detto Mario Draghi, suggerendo l’idea che non ci saranno ulteriori tagli. Immediate le reazioni sui mercati: l’euro ha toccato un minimo da un anno a 1,3036 nei confronti del dollaro. Gli indici delle Borse europee sono subito schizzate in rialzo dopo l’annuncio e hanno gradualmente esteso i guadagni chiudendo sui massimi di giornata: la piazza finanziaria più intonata è stata quella di Milano, con il Ftse Mib che ha tagliato il traguardo in crescita del 2,82% a 21.419 punti. Chiusura in rialzo anche per il Cac40 di Parigi che ha mostrato una crescita dell’1,65% a 4.494,94 punti, mentre il Dax di Francoforte è cresciuto dell’1,02% a 9.724,26 punti. A Madrid l’indice Ibex balza dell’1,96% a 11.100,1 punti. Il Consiglio direttivo dell’Eurotower ha deciso di ridurre il tasso sui depositi, da -0,1% a -0,2%, e quello marginale, da 0,4% a 0,3%. Il presidente della Bce Mario Draghi nella conferenza stampa ha annunciato anche un’altra misura, l’acquisto dei cosiddetti «Abs» (Asset backed securities), «solo titoli semplici e trasparenti». In particolare, la Bce acquisterà titoli basati su prestiti di famiglie e imprese. L’acquisto comincerà a ottobre. Il ritmo di crescita dell’area euro si è «indebolito» a fronte di dinamiche monetarie e del credito che restano sotto tono, ha motivato Draghi, aggiungendo che si tratta di un andamento «inferiore alle attese». Nessuna misura che la Bce possa varare può avere effetti sufficienti sull’economia senza le riforme strutturali. «Nessuno stimolo fiscale può bastare da solo senza riforme strutturali ambiziose, importanti e forti», ha affermato il presidente della Bce, «alcuni Stati hanno fatto passi importanti, altri devono ancora emettere e applicare questo genere di misure». «È evidente che questi sforzi devono guadagnare slancio per raggiungere una crescita sostenibile dell’economia e dell’occupazione nell’area euro», ha proseguito Draghi, che ha invitato inoltre i governi a non «vanificare» i risultati conseguiti in campo di consolidamento fiscale. La Bce ha ridotto le stime sul Pil dell’Eurozona rispetto alle previsioni di giugno: l’economia dell’area è ora vista in crescita dello 0,9% nel 2014 e dell’1,6% nel 2015. Lo ha spiegato in conferenza stampa il presidente della Bce, Mario Draghi. Rivista invece al rialzo all’1,9% la previsione per il 2016. La decisione del direttivo della Bce non è stata unanime. La Bce ha anche deciso di prendere in considerazione «ulteriori misure non convenzionali nell’ambito del proprio mandato» se sarà reso necessario da un «periodo troppo prolungato di bassa inflazione», ha detto ancora Draghi. Il varo del quantitative easing «è stato discusso» nella riunione della Bce di oggi e «alcuni governatori volevano che si facesse qualcosa di più, altri meno». Una mossa da parte della Bce era largamente attesa da parte degli operatori. Le recenti indicazioni macro avevano segnalato una ripresa economica dell’Eurozona più fragile del previsto, mentre l’inflazione continua a scendere, rafforzando la minaccia di deflazione. Ma la stampa internazionale parla di taglio dei tassi a sorpresa. «La Bce taglia i tassi ad un nuovo minimo record e l’euro crolla dopo la decisione a sorpresa», scrive il Financial Times. «La Bce taglia inaspettatamente il costo del denaro ad un nuovo minimo storico per far risalire l’inflazione», dice Reuters. Anche per l’agenzia Bloomberg la decisione presa da Draghi e dal consiglio direttivo di Francoforte è «inaspettata». La Bbc fa invece un titolo secco: «La Bce taglia i tassi allo 0,05%». Per il Wall Street Journal «la Bce a sorpresa taglia i tassi».
EURIBOR VERSO QUOTA ZERO ( 5 settembre 2014).
«Nuovo record per l'Euribor, oggi il tasso interbancario a 3 mesi è salito fino al 5,39%». Sono passati quasi 6 anni da quell''ottobre del 2008, ma sembra di essere in un mondo completamente differente, e forse (sotto l'aspetto finanziario) lo siamo. Ieri infatti quello stesso tasso è scivolato allo 0,10%, si tratta di un minimo storico ovviamente, mentre l'Euribor a un mese si è spinto fino allo 0,019%: meno di due centesimi dalla fatidica «soglia zero» che appariva "fantascienza" soltanto qualche mese fa. E che potrebbe essere anche abbattuta nelle prossime giornate. La politica ultra-espansiva della Bce è la principale ragione che potrebbe portare addirittura in negativo gli Euribor (dopo averlo fatto con i rendimenti dei titoli di Stato di molti Paesi europei e con l'«overnight», cioè il tasso al quale le banche si prestano per una notte il denaro). L'ultimo deciso calo è in effetti coinciso con le ultime mosse di Mario Draghi e soci, in particolare con la riduzione a -0,20% della remunerazione dei depositi. Piuttosto che "perdere" denaro lasciando in fondi inattivi presso l'Eurotower, le banche a questo punto potrebbero rimettere in circolo la liquidità, paradossalmente anche prestandosela a termine l'una con l'altra a tassi negativi (ma superiori a quel -0,20%) : questo spiega perché il tasso interbancario potrebbe avere un segno "meno" davanti. Del resto le scadenze a una e due settimane sono già scese sotto lo zero, e quelle successive potrebbero anche seguirle a breve: «L'Euribor 3 mesi - conferma Giuseppe Maraffino, strategist sul reddito fisso di Barclays Research - dovrebbe scendere fino a 3 centesimi, ma non escludiamo la possibilità di valori negativi». La notizia non può naturalmente che allietare quanti hanno già un mutuo a tasso variabile che, come è noto, è indicizzato proprio agli Euribor. Certo, i risparmi saranno limitati perché si tratta pur sempre di variazioni infinitesime di valori che sono già molto vicini allo zero. Ma se si volge lo sguardo al recente passato l'impatto è piuttosto rilevante, soprattutto per quanti hanno contratto il prestito negli anni della tempesta finanziaria poi culminata con il crack-Lehman. L'Abi calcola per esempio che su un mutuo tipo (venti anni, capitale iniziale di 100mila euro, spread 120 punti base) acceso nel 2008, quando l'Euribor 3 mesi medio era del 4,6%, il minor esborso rispetto alla rata iniziale si aggiri sui 300 euro mensili. Il risparmio decresce tornando a ritroso nel tempo: 262 euro per i mutui accesi nel 2007, 170 euro nel 2006, 107 euro nel 2005 e 95 euro nel 2004, semplicemente perché questi erano caratterizzati da condizioni meno penalizzanti. Va però anche ricordato che questi stessi mutui sono dovuti passare dalle «forche caudine» dell'ottobre 2008 e che da quel momento le rate si sono abbattute per tutti di circa un terzo (se il finanziamento originario era a 20 anni) e per qualcuno quasi della metà (30 anni): denaro che adesso torna di sicuro utile in una fase piuttosto difficile per le famiglie italiane. Per quest'ultime potrebbe però essere ancora più confortante sapere che la politica monetaria ultra-espansiva della Bce potrebbe rendere la tregua particolarmente lunga. Allo stato attuale, più che Euribor negativi, gli analisti si attendono tassi estremamente bassi per un periodo indefinito e sufficientemente in là nel tempo visto che non si prevede un ritorno al di sopra dell'1% (che resta pur sempre un livello storicamente basso) entro i prossimi 5 anni: sollievo per chi ha un variabile; e dubbi crescenti per chi a suo tempo ha scelto la "tranquillità" del fisso, pagandola piuttosto cara.
OCCORRONO TRE ANNI PER LE RIFORME DEL PAESE (6 settembre 2014).
Qualcuno in questi giorni ha voluto vedere un contrasto fra il ministro Padoan e il premier Renzi sui tempi del progetto riformatore, ma non è così. Anche a Palazzo Chigi, come al ministero dell'Economia, ci si rende conto che gli effetti delle riforme (quali e quante, si vedrà) non saranno percepiti prima di qualche anno. Ecco perché l'ultimo Renzi ha collocato il bilancio del suo governo alla primavera del 2017: quasi tre anni. E il suo ministro del Tesoro ha ribadito che un triennio è il «tempo minimo» per valutare l'efficacia dell'impegno riformatore. La prospettiva, come si vede, differisce solo di pochi mesi e non cambia la sostanza del problema: le innovazioni, quelle vere, richiedono tempi lunghi per essere approvate e soprattutto attuate, cioè calate nei meandri di un paese complesso fino a modificare - si spera in meglio - la vita dei cittadini. È noto il pensiero di Napoleone Bonaparte, quando valutava al 5 per cento la fatica di prendere una decisione e al 95 per cento lo sforzo necessario a metterla in pratica. I tre anni previsti da Padoan vogliono quindi essere un gesto di serietà verso l'Europa che si aspetta dall'Italia azioni concrete, ossia riforme realizzate e non solo promesse. In fondo anche Renzi si muove sulla stessa lunghezza d'onda quando fissa il traguardo del 2017. Questo non significa che si sia fatta chiarezza nel governo sulle cose da fare e su come fare. C'è molto da lavorare nella maggioranza, specie sulle questioni del lavoro e sul famoso articolo 18. Le riforme, quelle autentiche e non solo annunciate, richiedono un'istruttoria tutt'altro che conclusa. Tuttavia l'orizzonte del triennio vuol dire - almeno sulla carta - chiudere la porta al populismo e alla facile tentazione di fuggire le responsabilità con un bagno nel consenso elettorale. S'intende che il problema politico di Renzi non coincide con quello del ministro dell'Economia. Se davvero l'orizzonte della legislatura si allunga fino a tre anni, ne trae vantaggio il quadro della stabilità interna che si rafforza. I mercati finanziari ne saranno contenti, al pari dell'Unione. Abbiamo sentito il ministro tedesco Schäuble ripetere che è facile sopravvivere aumentando il debito pubblico, molto più arduo è rimettere in moto l'economia con le riforme strutturali. Dunque, brava Italia che si dà una prospettiva di medio termine.
Ciò non toglie che Renzi abbia oggi un doppio problema. Da un lato, definire al più presto la qualità e la portata degli interventi, evitando in Parlamento le trappole della sua stessa maggioranza (compreso il Pd sui temi del lavoro), così da avviare sul serio un triennio riformatore che per ora è in buona misura virtuale. Dall'altro, conservare il consenso popolare fino al fatidico 2017. I sondaggi continuano a premiare il presidente del Consiglio anche in virtù dell'assenza totale di competitori credibili. È una condizione privilegiata che non durerà in eterno. Proprio perché le riforme non daranno benefici visibili prima di tre anni, il rischio di Renzi è evidente: perdere consenso e quindi slancio e quindi influenza sui vari attori politici. La prospettiva di Padoan, ministro tecnico, è più lineare. Renzi invece deve dialogare con l'opinione pubblica dimostrando di avere il passo del mezzo-fondista e ovviamente non può apparire succubo della Commissione europea e tanto meno della Germania.
I PROBLEMI ALL'INTERNO DEL PD (7 settembre 2014).
Una scadenza che non interessa praticamente nessun altro al mondo (probabilmente neppure al premier, che ha altro da fare: ieri lunga riunione con Cottarelli, Padoan, il consigliere economico Gutgeld, la Boschi e lo staff economico di Palazzo Chigi su tagli e legge di Stabilità; oggi un pranzo in Vaticano con segretario di Stato, presidente della Cei e alte gerarchie varie, domani Renzi incontrerà tutti i ministri per discutere di spending review), ma che agita molto le acque interne. Soprattutto dopo che due «grandi vecchi» come Massimo D'Alema e Pier Luigi Bersani hanno riaperto le ostilità, frenando le trattative della minoranza con Renzi e la Bindi tuona sul fatto che le ministre siano state scelte per la loro bellezza. Ma il silenzio che è seguito alle esternazioni polemiche dei due fa capire chiaramente che nelle «nuove leve» Pd, bersaniane o dalemiane o comunque anti-renziane che fossero in origine, nessuno o quasi ha intenzione di seguire i padri nobili sull'Aventino: «Vogliono tutti stare con Renzi, ormai», dice un dirigente filo-premier, «non per amore, magari, ma perché quel 40% delle Europee ha chiarito a tutti che la sua è l'unica leadership possibile, per gli anni a venire, e conviene stare con lui». Lo hanno capito anche Bersani e D'Alema, che tuttavia provano a convincere i loro a mettere almeno qualche condizione al premier pigliatutto. Così il fido bersaniano Alfredo D'Attorre si fa portavoce dell'ex segretario nel chiedere che la segreteria abbia «una funzione politica» e non sia «un semplice allargamento dello staff di Renzi». Insomma, le posizioni della minoranza devono «trovare ascolto» nel governo, e condizionarne le mosse. Sulla stessa linea anche Stefano Fassina, che avverte: «Se non risolviamo le differenze di fondo non credo sia possibile parlare di segreteria unitaria». E D'Attorre si spinge fino a chiedere una sorta di «conferenza programmatica» del Pd, nella quale si «ragioni sul ruolo e l'autonomia del partito nel momento in cui il suo segretario è anche presidente del Consiglio». È il vecchio sogno bersanian-dalemiano di recuperare un controllo sulla «Ditta» e di mettere le briglie al premier. Facile capire quanto la proposta possa essere gradita a Palazzo Chigi: Renzi non ci pensa per nulla, ovviamente. E purtroppo per Bersani, D'Alema e compagnia, non ci pensano neppure i giovani leoni delle loro correnti, pronti a entrare nella maggioranza renziana. Con la sola eccezione dei civatiani. Ma Renzi difficilmente si strapperà i capelli per l'assenza di Pippo: peraltro ha già infilato in segreteria, come responsabile economico, il civatiano Filippo Taddei, che probabilmente verrà confermato. Da sostituire ci sono Maria Elena Boschi, Marianna Madia, Lorenzo Lotti e Federica Mogherini, tutti al governo, e poi Pina Picierno emigrata al Parlamento europeo. C'è la solita grana delle «quote rosa»: il premier ci tiene a confermare il suo record di nomine femminili (ragion per cui il nome più gettonato dai bersaniani, ad esempio, è quello di Micaela Campana, molto vicina all'ex segretario), ma non è facilissimo. Per il posto della Mogherini in segreteria, ad esempio, sarebbe in pole position per competenza Enzo Amendola, giovane dalemiano e brillante capogruppo Pd in commissione Esteri. Ma la Mogherini andrà presto sostituita anche al governo, quando la sua nomina Ue diverrà ufficiale. Renzi ha già detto che non vuol fare rimpasti di sorta, e la soluzione di cui più si vocifera (sempre in ossequio alle quote rosa) è quella più «indolore» della promozione di Roberta Pinotti (assai apprezzata dal premier) agli Esteri, e del debutto di Marina Sereni, vicepresidente della Camera, alla Difesa.
NUOVE STIME SULL'ECONOMIA SOMMERSA E ILLEGALE (8 settembre 2014).
L’Istat dà nuove stime sull’economia sommersa e quella illegale: secondo l’istituto di statistica insieme valgono la bellezza di 200 miliardi tondi tondi. Ovvero più del 12% del Pil. Distinguendo le due voci, l’economia sommersa vale circa 187 miliardi (l’11,5% del Pil 2011). Si tratta delle somme connesse a lavoro irregolare e sottodichiarazione. Mentre l’illegalità (droga, prostituzione e contrabbando), vale circa 15,5 miliardi, sempre secondo i dati del 2011. Queste stime sono servite all’Istat per ricalcolare il Pil dell’Italia secondo il nuovo Sistema europeo dei conti e altri cambiamenti. L’anno di riferimento è il 2011, la cui stima passa, infatti, da 1.579,9 a 1.638,9 miliardi. Arriva così il nuovo Pil e rispetto al “vecchio” dato il livello risulta aumentato di 59 miliardi, ovvero rivalutato del 3,7%. I contributi principali arrivano dai cambiamenti relativi alla voce ricerca e sviluppo, che da costo diventa investimento(20,6 miliardi) e dall’inclusione nel Pil delle attività illegali, droga, prostituzione e contrabbando di sigarette compreso l’indotto (15,5 miliardi). A ciò si aggiungono una serie di altri effetti, di minore entità, che derivano tutti dall’aggiornamento del sistema nazionale dei conti (dal Sec 95 al Sec 2010) e dalle altre innovazioni introdotte dall’Istat. Il passaggio al nuovo Sec riguarda tutta l’Unione Europea. E guardando a quanto accaduto negli altri Paesi, l’Istat riporta i casi di Germania (che ha rivalutato il Pil del 3,4%), Francia (+3,2%) e Regno Unito (+4,6%). Nel Pil è stata quindi inserita l’illegalità, come previsto dai criteri fissati dall’Eurostat. La categoria illegalità comprende droga, prostituzione e contrabbando di sigarette, che contribuiscono alla rivalutazione del Pil per un punto percentuale, ovvero 15,5 miliardi di euro (compreso l’indotto della produzione di beni e servizi legali). Il rapporto tra deficit e Pil si abbassa di 0,2 punti percentuali. È questo l’effetto sui conti nazionali delle nuove regole europee e delle innovazioni introdotte dall’Istat. L’istituto nazionale di statistica spiega anche che il rapporto tra l’indebitamento netto e il Pil passa dal 3,7% al 3,5%, con riferimento al 2011.
Montezemolo lascia la Ferrari (9 settembre 2014)
A Maranello finisce l'era Montezemolo durata 23 anni. Dal 13 ottobre Luca Cordero di Montezemolo non sarà più presidente della Ferrari «su sua richiesta», si legge nel comunicato stampa diffuso questa mattina. L'addio arriverà a conclusione del festeggiamento dei 60 anni di Ferrari in America. Al suo posto arriverà Sergio Marchionne, amministratore delegato del gruppo Fca, esattamente come ipotizzava il mercato. L'avvicendamento pone termine alla "repubblica indipendente" di Ferrari nell'ambito del gruppo torinese e la integra di fatto anche nella gestione all'interno di Fca in vista della prossima quotazione a New York. Questo permetterà al gruppo di beneficiare a pieno del valore che Ferrari potrà portare al titolo.
«Del futuro della Ferrari - ha commenta Marchionne - io e Luca abbiamo discusso a lungo. Il nostro comune desiderio di vedere la Ferrari esprimere tutto il suo vero potenziale in pista ci ha portato ad alcune incomprensioni che si sono manifestate pubblicamente nello scorso week-end. Voglio ringraziare personalmente Luca per quanto ha fatto per la Fiat, per la Ferrari e per me». E un ringraziamento al manager arriva anche dalla famiglia Agnelli attraverso le parole del presidente di Fiat John Elkann: «Desidero ringraziare Luca a nome della mia famiglia e a titolo personale per quanto ha fatto per la Fiat e per la Ferrari. Ha ricoperto diverse posizioni di responsabilità, a partire dalla presidenza di Fiat dal 2004 al 2010, condividendo con me momenti di difficoltà, ma anche di grande soddisfazione. A Luca vanno i miei auguri per il suo futuro professionale e imprenditoriale, con la speranza, certamente condivisa, di vedere presto la Ferrari tornare a vincere». Marchionne coglie l'occasione, poi, per ricordare il percorso fatto insieme negli ultimi dieci anni: «Nel 2003 Luca ed io siamo stati nominati lo stesso giorno consiglieri di amministrazione della Fiat. Un anno dopo siamo diventati presidente lui e amministratore delegato io. Abbiamo lavorato insieme nei primi anni, condividendo preoccupazioni, problemi e successi. Come presidente della Ferrari ha portato l'azienda a un livello tecnologico e organizzativo di eccellenza e ha ottenuto importanti risultati economici». Da parte sua, Luca di Montezemolo, in un comunicato della casa del Cavallino rampante, conferma il ruolo che avrà il marchio premium del gruppo nell'ambito del debutto Oltreoceano: «La Ferrari avrà un ruolo importante all'interno del gruppo Fca nella prossima quotazione a Wall Street e si aprirà quindi una fase nuova e diversa che credo giusto debba essere guidata dall'amministratore delegato del gruppo. Finisce un'epoca e ho quindi deciso di lasciare la presidenza dopo quasi 23 anni meravigliosi e indimenticabili, dopo quelli passati a fianco di Enzo Ferrari negli anni Settanta». «Il mio ringraziamento - prosegue Montezemolo - va innanzi tutto a donne e uomini eccezionali in fabbrica, negli uffici, nei campi di gara, sui mercati di tutto il mondo che sono stati i veri artefici in questi anni della grande crescita dell'azienda, delle tante memorabili vittorie e del successo del marchio diventato grazie a loro uno dei più forti al mondo. Un saluto e un ringraziamento a tutti i nostri partner tecnici e commerciali, ai dealer di ogni Paese e in modo particolare ai clienti e ai collezionisti con cui condivido la stessa passione. Ma il mio pensiero va oggi anche ai nostri tifosi che non hanno mai fatto mancare alla Scuderia il loro entusiasmo soprattutto nei momenti più difficili. La Ferrari è la più bella azienda del mondo e per me è stato un grande privilegio e onore esserne stato il leader. Le ho dedicato tutto il mio impegno ed entusiasmo e insieme alla mia famiglia ha rappresentato e rappresenta la cosa più importante della mia vita». «Auguro agli azionisti - conclude il comunicato di Montezemolo -, e in particolare a Piero Ferrari che mi è stato sempre vicino, e atutte le persone dell'Azienda ancora tanti anni di successo che la Ferrari merita».
Redditi delle famiglie fermi a trenta anni fa (10 settembre 2014).
Redditi che ormai giacciono ai livelli di 30 anni fa e sempre meno soldi da spendere a proprio piacimento. L’ennesima fotografia della crisi arriva dalla Confcommercio, che nella Nota di aggiornamento al rapporto sui consumi, insieme alla conferma della vera e propria palude in cui la crisi ha gettato il Paese, offre una chiave di lettura diversa, quella dei consumi `obbligati´ (casa, trasporti, sanità), che ormai `mangiano´ il 41% del reddito delle famiglie, lasciando appena 10.900 euro da spendere sul mercato. Il dato di partenza resta quello della difficoltà di arrivare a fine mese: il reddito disponibile delle famiglie italiane è infatti fermo ai livelli di 30 anni fa. Nel 2014 il reddito è stato pari a 17.400 euro (come il 2013), mentre nel 1986 era pari a 17.200 euro. Nel 2013, in particolare, la spesa delle famiglie ha registrato una flessione del 2,5%, con una contrazione del 7,6% in otto anni, durante i quali il reddito disponibile reale pro capite è sceso del 13,1%, pari a un ammontare di 2.590 euro a testa. Confcommercio sottolinea poi come sia in atto una vera e propria `terziarizzazione´ dei consumi, vale a dire come le famiglie siano costrette sempre di più a privilegiare i servizi rispetto ai beni. I primi, infatti, coprono ormai il 53% della spesa totale (dal 41,8% del 1992), mentre i secondi sono precipitati dal 58,2 al 47%. Non solo: i consumi cosiddetti `obbligati´ (dalla casa alla benzina, dall’assicurazione alla sanità) coprono ormai il 41% del totale, quindi la cifra che ogni famiglia ha a disposizione per tutto il resto, e su cui ha pertanto libertà di scelta, si è ridotta a 10.900 euro, dai 14.300 del 1992. Per la casa, per esempio, si è passati dal 17,1% al 23,9% del totale. Questo vuol dire, in sostanza, che la spesa ha subito importanti modifiche: nel 2013 si è speso meno per i pasti in casa e fuori casa (-4,1%) e in particolare per l’alimentazione domestica (-4,6%), i viaggi e le vacanze (-3,8%) e la cura del sé e la salute (-3,5%), al cui interno si è registrata la netta flessione della spesa per l’abbigliamento e le calzature (-6,3%). Allarmati i commenti delle associazioni dei consumatori. Il Codacons parla di «emergenza consumi, con effetti a catena sul commercio, sulle imprese, sull’occupazione e sull’economia nazionale», da combattere con un apposito decreto `salva-consumi´: ossia un provvedimento contenente misure specifiche non solo per aumentare il potere d’acquisto delle famiglie, ma anche per incentivare gli acquisti in tutti i settori. Anche Federconsumatori e Adusbef, che concordano sui numeri, chiedono al Governo «misure di rilancio immediate, a partire da un piano straordinario per il lavoro.
La nuova commissione europea (11 settembre 2014).
La nuova Commissione europea sarà strutturata a progetto, secondo quanto ha illustrato a Bruxelles il suo presidente Jean-Claude Juncker. Il nuovo esecutivo comunitario avrà sette vice presidenti, responsabili del coordinamento dei diversi commissari con l'obiettivo di mettere in pratica le priorità sulle quali l'ex premier lussemburghese ha fatto campagna elettorale in primavera. Il rapporto tra vice presidenti e commissari sarà delicato, tutto da costruire. Sul fronte economico, l'ex premier lettone Valdis Dombrovskis sarà responsabile dell'euro e del dialogo sociale, e in questa posizione dirigerà tra gli altri il commissario agli affari economici e monetari, il francese Pierre Moscovici. L'ex premier finlandese Jyrki Katainen sarà invece responsabile dell'occupazione, della crescita, degli investimenti e della competitività. Katainen dovrà mettere a punto l'annunciato piano di investimenti da 300 miliardi di euro. Gli altri vice presidenti sono l'attuale ministro degli esteri italiano Federica Mogherini (che sarà Alto Rappresentante per la Politica estera e la Sicurezza), il suo omologo olandese Frans Timmermans (primo vice presidente, responsabile dei rapporti inter-istituzionali e dei diritti fondamentali); l'ex commissaria bulgara Kristalina Georgieva (bilancio e risorse umane); l'ex premier estone Andrus Ansup (mercato unico digitale); e l'ex premier slovena Alenka Bratusek (unione energetica). «Un commissario dipenderà dal sostegno di un vice presidente perché possa introdurre nel programma di lavoro della Commissione o nell'agenda del collegio dei commissari una nuova iniziativa», si legge in un comunicato dell'esecutivo comunitario pubblicato ieri. Vice presidenti e commissari «dipendono l'uno dall'altro». Nella Commissione Barroso, i vice presidenti avevano un proprio portafoglio, ma non avevano altri compiti particolari, salvo quello di sostituire il presidente quando questi era assente. Interpellato sui reali poteri di Moscovici - che assume la responsabilità del delicato portafoglio degli affari economici a cui si aggiungono la tassazione e le dogane - Juncker ha spiegato che sarà l'ex ministro a rappresentare la Commissione nel Consiglio affari economici, e non il vice presidente Dombrovskis. Moscovici sarà colui che redigerà una decisione, ma cercando «una sintesi» con il suo superiore, secondo l'espressione di un responsabile comunitario. In caso di contrasto il nodo sarà sciolto da Juncker.
Illustrando la sua Commissione ieri qui a Bruxelles, l'ex premier lussemburghese ha spiegato che il suo obiettivo è di delegare ai vice presidenti i suoi poteri, anche di accesso alle direzioni generali: «Avranno un ruolo strategico di filtro (...) Dovranno gestire e coordinare» i commissari. Timmermans rappresenterà Juncker nel collegio quando questi non sarà presente «fisicamente e mentalmente». Sarà anche colui che vaglierà le iniziative alla luce della necessità di rispettare il principio di sussidiarietà e di proporzionalità. Nello scegliere la formula dei vice presidenti a progetto, l'ex primo ministro del Granducato vuole creare una Commissione più trasparente, attribuendo responsabilità chiare a singoli. Al tempo stesso, ha voluto probabilmente annacquare l'importanza che alcuni portafogli avevano accumulato nel tempo, fino a provocare contrasti in seno all'esecutivo comunitario, e tra Bruxelles e le stesse capitali nazionali. Ciò detto, il rapporto tra commissari e vice presidenti rischia di essere segnato da dubbi legali e incomprensioni politiche. Come minimo, sarà necessario un certo rodaggio.
DRAGHI: INVESTIRE PER CRESCERE (12 SETTEMBRE 2014).
Non ci sarà ripresa sostenibile nell'Eurozona senza una ripresa degli investimenti. Il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, ha di fatto dato il la ai lavori dell'Ecofin informale che si terrà a Milano nel fine settimana, con la sua ricetta - regole economiche favorevoli alla crescita e unione dei mercati dei capitali - per il rilancio degli investimenti, una delle «vittime illustri», ha detto, della crisi. Il tema sarà al centro del confronto di domani fra ministri e governatori e, come spesso è avvenuto in questi tre anni nel dibattito sui temi europei, Draghi non si è sottratto a indicare una linea ai Governi e alle altre autorità europee, anche al di là dei confini dei compiti della banca centrale.
Draghi ha ribadito la necessità di una combinazione di politiche monetarie, di bilancio e strutturali, che «si rafforzino a vicenda», per far ripartire l'economia dell'area euro, secondo il copione svelato il mese scorso a Jackson Hole, quello che l'economista Nouriel Roubini ha definito "Draghinomics". E il capo dell'Eurotower ha anche ripetuto che, nonostante la politica monetaria già accomodante, il consiglio della Bce è pronto a «intervenire ulteriormente» se necessario. Gli ha fatto eco da Francoforte il suo vice, Vitor Constancio, secondo cui la Bce preferirebbe non acquistare titoli pubblici, ma non lo esclude. Un passo fortemente caldeggiato dai mercati finanziari, che ritengono che inevitabilmente la Bce sarà costretta a farlo, ma sul quale il consiglio, per ammissione esplicita dello stesso Constancio, è estremamente riluttante, anche perché convinto che le misure annunciate alle riunioni di giugno e di settembre basteranno. Fra i partecipanti all'incontro di ieri a Milano con esponenti del mondo della finanza, cui è intervenuto il presidente della Bce, c'era più di una perplessità al riguardo. Il calo degli investimenti delle imprese nell'area euro dal 2008, ha ricordato Draghi, è stato molto più grave che nelle crisi precedenti, un 20% dal livello massimo a quello minimo, contro il 15 della recessione del 1992. Il miglioramento dal 2008 è stato minimo, mentre negli Stati Uniti è stato già superato il livello anteriore alla crisi. «Non ci sarà ripresa sostenibile finché la situazione non cambia», ha sostenuto il banchiere centrale italiano alla conferenza milanese organizzata dalla think-tank francese Eurofi. Gli investimenti, ha affermato, sono la domanda di oggi e l'offerta di domani, ma «in Europa sono carenti. Se non riusciamo a rilanciare gli investimenti, indeboliremo l'economia nel breve termine e ne comprometteremo le prospettive di lungo periodo».
La spending review penalizza il Nord (15 settembre 2014).
Mentre si osserva con apprensione l'evolversi della situazione geopolitica mondiale e si scruta l'orizzonte in cerca dei primi segnali di ripresa, in Italia l'orologio della congiuntura economica in molti casi sembra andare all'indietro, e anche velocemente: dal reddito ai consumi, dal mattone alla produzione, dal risparmio al lavoro l'Italia non solo risulta inchiodata a performance preoccupanti – conseguenza della crisi che l'ha investita a partire dalla fine del 2008 – ma ha decisamente innescato la retromarcia, e di parecchi anni. Un «indietro tutta» che il Sole 24 Ore lunedì 15 settembre documenta con statistiche ufficiali, dopo aver esplorato – per una decina di indicatori – qual è la situazione attuale e a quale anno occorre risalire per incontrare un valore analogo. Così si scopre che la produzione industriale è tornata ai livelli del 1988, gli investimenti nell'edilizia addirittura al 1967 e la propensione al risparmio non è mai stata così bassa fin dagli anni precedente la Seconda guerra mondiale. E sul fronte dei prezzi, ad agosto la deflazione ha toccato un prodotto su due del largo consumo. Un tesoretto per rilanciare il lavoro. Dal bonus per i ricercatori a quello per gli over 50, dagli incentivi per l'occupazione femminile alla garanzia giovani: sul piatto, per chi assume nei prossimi due anni, ci sono quasi 2,5 miliardi, sugli incentivi alle assunzioni introdotti dai governi Monti e Letta, dal 2012, per porre un freno all'emergenza lavoro e spingere le aziende a rafforzare gli organici. Mentre i ministri dell'Economia della zona euro concordano sulla necessità di ridurre le tasse sul lavoro per ritrovare la competitività, e il governo Renzi studia nuovi tagli Irap, che dovrebbero premiare i contratti a tempo indeterminato, la platea su cui si inseriranno le prossime mosse dell'Esecutivo vede un carnet di oltre 20 incentivi, in molti casi difficili da ottenere, per budget limitati, o ritardi nell'attuazione, iter complicati e requisiti stringenti. Mentre si avvicinano i giorni della verità per la nuova spending review diventa sempre più chiaro che il dazio del 3% chiesto ai ministeri non basterà a raccogliere i 20 miliardi necessari a coprire tutti i programmi, e una nuova richiesta ai Comuni si fa probabile. Resta da capire quali criteri scenderanno in campo, ma i costi standard sono ancora lontani dalla definizione effettiva e i parametri utilizzati finora si sono rivelati incapaci di distinguere «spese» da «sprechi». Lo dicono, in modo evidente, i numeri dei tagli chiesti ai Comuni dalle richieste che si sono susseguite negli ultimi quattro anni, dalla manovra Tremonti del 2010, agli inizi della crisi di finanza pubblica, fino al decreto Irpef di Renzi, passando per la prima "spending" realizzata dal Governo Monti. In totale, questo pacchetto ha cancellato il 43% dei vecchi trasferimenti su cui i sindaci potevano contare quattro anni fa (nei capoluoghi di provincia il taglio è del 46%), ma i risultati reali sono assai diversi da Comune a Comune. E' evidente che i tagli lineari e la mancata attuazione dei costi standard penalizza i comuni del Nord.
Contratto di lavoro a tutele crescenti (17 settembre 2014).
La strada per il superamento dello Statuto dei lavoratori è aperta, ma il nodo su cui da sempre è catalizzato il dibattito politico - quello dell’articolo 18 - non è ancora sciolto. Il governo ha depositato questa mattina in commissione al Senato un emendamento alla legge delega sul lavoro che prevede, «per le nuove assunzioni, il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio». Un punto a favore dei detrattori dell’articolo 18, poiché in questo modo si elimina il reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa per tutti i nuovi assunti, almeno all’inizio del rapporto di lavoro, e si sostituisce con un indennizzo crescente con il crescere dell’anzianità aziendale. Non è escluso però che il decreto attuativo del Governo, che dovrà arrivare entro 60 giorni dall’approvazione della delega, possa prevedere, tra le tutele, il ripristino del reintegro ex-articolo 18 per il lavoratore che abbia maturato un certo numero di anni di anzianità. Un’ipotesi, forse solo teorica, che per il momento consente alla maggioranza di mantenere una posizione unitaria e scongiurare l’ipotesi decreto legge minacciata ieri da Renzi. Un’altra novità introdotta dall’emendamento è la possibilità per l’azienda di demansionare un dipendente. Il testo, che modifica di fatto l’articolo 13 dello Statuto dei lavoratori, delega il Governo ad adottare «una revisione della disciplina delle mansioni, contemperando l’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della porfessionalità e delle condizioni di vita, prevedendo limiti alla modifica dell’inquadramento». Prevista anche una revisione dei controlli a distanza, al momento vietati dall’articolo 4 dello Statuto, che dovrà tener conto «dell’evoluzione tecnologica» e contemperare «le esigenze produttive ed organizzative dell’impresa con la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore». Il testo depositato al Senato introduce poi, «eventualmente anche in via sperimentale», il compenso orario minimo anche per i co.co.co e per i lavoratori subordinati che appartengono a settori non regolati da contratti collettivi. La mediazione che governo e relatore hanno individuato riguarda l’applicazione del nuovo contratto a tempo indeterminato - nel quale le tutele diventano progressive in relazione all’anzianità di servizio - alle nuove assunzioni. Soddisfatto il presidente della commissione Lavoro Maurizio Sacconi:«È evidente che nel contratto tipico che ha oggi oltre l’80 per cento degli italiani la progressività della tutela non potrà che essere un indennizzo proporzionato, o più che proporzionato, al tempo trascorso nell’impresa». Plaude anche il ministro dell’Interno Angelino Alfano, esprimendo «grande soddisfazione per il nuovo testo del Job Act che riforma lo Statuto dei lavoratori nelle sue parti più rigide, incentivando la propensione ad assumere». Critica invece Susanna Camusso, segretario generale della Cigil che parla di «articolo 18 scalpo per i falchi dell’Unione europea». La Camusso ha anche parlato della possibilità di mettere a punto un’iniziativa del sindacato sia sullo Statuto dei lavoratori sia sul mercato del lavoro, tesa a unificare il mondo lavorativo e ad allargare le tutele. Angeletti della Uil è sul piede di guerra: «Se ci sarà un intervento sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori la Uil reagirà, mettendo in campo tutte le opzioni sul tavolo: dallo sciopero fino al referendum abrogativo». Ha detto il segretario generale. E ha sottolineato che si tratta di «una delega abbastanza generale, vedremo se diventerà legge e come si tramuterà nei decreti attuativi. Se sarà toccato l’articolo 18 il sindacato non resterà inerte».
Anche l’Ugl è pronta alla mobilitazione. Il segretario generale Geremia Mancini parla di «ripetuto attacco all’art 18. L’idea di procedere unilateralmente con un decreto ha il preciso intento di abbattere un valore e una conquista del sindacato, indebolire la posizione dei lavoratori di domani e la possibilità di essere rappresentati, oltre a tradire un’assoluta assenza di politica industriale». Per Giorgio Benvenuto, ex segretario generale della Uil i problemi del lavoro esulano dai dogmi: «Sul lavoro bisogna che tutto venga fatto sul serio, ma con il sindacato. Pensare di risolvere i problemi del lavoro con una legge, con una visione dogmatica, è sbagliato». Per Stefano Fassina del Pd «nonostante la retorica, il governo segue la linea di svalutazione del lavoro delle destre dell’euro-zona. È una linea che peggiorerà le condizioni di tutti i lavoratori e aggraverà la recessione. È una linea opposta a quella sulla quale i parlamentari del Pd sono stati eletti e è anche opposta al programma congressuale e di governo di Renzi. È una linea inaccettabile». La battaglia non è finita neppure per Cesare Damiano, presidente della commissione Lavoro alla Camera che dice: «L’emendamento del governo alla delega sul mercato del lavoro lascia aperte molte interpretazioni e la “destra” ne sta facendo una lettura di “comodo”». Soddisfatta Annamaria Parente, capogruppo del Pd nella commissione Lavoro. «Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti è una buona notizia per i giovani italiani. Il risultato atteso è che gli imprenditori scelgano di assumere le ragazze e i ragazzi a tempo indeterminato, evitando il ricorso ai contratti atipici e alle finte partite Iva che costringono i giovani ad una permanenza nella precarietà».
LA SCOZIA AL BIVIO (18 settembre 2014).
Ansia. Paura. Tanta passione. La Scozia va al voto così. E un numero offre la fotografia di che cosa significhi questo referendum sull’indipendenza e di come lo stiano vivendo gli scozzesi, siano essi schierati per il sì o lo siano per il no: sono 4 milioni e 410.288 i residenti di età superiore ai 16 anni e ben 4 milioni e 285.323 si sono registrati manifestando l’intenzione di andare a scrivere la loro preferenza sulla scheda. Il che significa il 97 per cento, un record di partecipazione. Che poi lo facciano, che siano presi dai dubbi, che restino a casa, sarà una scelta dell’ultimo istante. Gli indecisi sarebbero ancora tanti. Ma, in ogni caso, la campagna per questa consultazione storica ha mobilitato come non mai le coscienze. Era cominciata due anni fa in modo soft, leggero, quasi distratto, dopo l’«accordo di Edimburgo» col quale Alex Salmond, first minister di Scozia, e David Cameron, premier britannico, si erano stretti la mano avviando le procedure della consultazione. Un atto di democrazia semplice e tranquillo. Si conclude con i toni che si alzano, inevitabile, con gli sgambetti e con il nervosismo che cresce, specie nel fronte del no. I sondaggi ultimi sono quattro: tre dicono 52 a 48 per i fedelissimi di Londra, uno si spinge fino alla quasi parità, 51 a 49. Cosa che costringe Alistair Darling, ex cancelliere dello scacchiere e capo di «Better Together» il comitato degli unionisti, ad ammettere: «Si decide sul sul filo di lana». È più probabile la vittoria del no ma non è certa. Lo spoglio comincia alle 23 italiane. L’esito si conoscerà venerdì in prima mattinata. I leader dei due schieramenti hanno dato fuoco alle ultime cartucce. E la febbre va su. Il Daily Telegraph, quotidiano londinese tory, parla di «intimidazioni, bugie, calunnie» dipingendo un clima da battaglia feroce. C’è chi prefigura scenari da incubo con migliaia di scozzesi in fuga nel caso di successo degli indipendentisti. Fantasie e allarmismi che sono parte del gioco. Il numero uno della polizia scozzese mette a tacere i più esagitati complottisti: «Noi scozzesi siamo persone intelligenti, non vi sono pericoli. Le voci sui disordini sono esagerate». Anche i partigiani del no e i partigiani del sì spengono i bollori più pericolosi: «È stata una bellissima competizione, aspra ma divertente. E continueremo a vivere assieme». O nel Regno Unito o in una Scozia separata. La clausola numero 30 dell’accordo di Edimburgo comunque rassicura: entrambe le parti sono d’accordo nel rispettare e onorare il risultato e di lavorare nel migliore interesse della Scozia e del Regno Unito. Il fronte del no ha chiamato a raccolta banchieri, industriali, sportivi e attori. Per ultimi anche ex generali dell’esercito e della Raf, ammiragli della Royal Navy. In 14 hanno firmato una lettera pubblicata dal tabloid Sun (che comunque resta neutrale dopo il weekend scozzese di Rupert Murdoch): «La divisione del Regno Unito indebolirà la nostra sicurezza». E non è rimasto fuori dall’arena il premier spagnolo Mariano Rajoy (oltre a Clinton) che teme l’effetto trascinamento sulla Catalogna e che si oppone perciò a una Scozia integrata nell’Europa. Sull’onda della passione ma con garbo come sempre, il leader indipendentista Alex Salmond ha risposto a Rajoy ricordandogli che la Scozia ha l’1% della popolazione europea ma il 20% della pesca, il 25% delle energie rinnovabile e il 60% del suo petrolio: possibile tenerci fuori dall’Europa? Poi ha scritto una lettera tutti gli scozzesi: «Con la testa e con il cuore, crediamo in noi stessi». Quattro milioni di schede, sì o no. La storia del Regno Unito può cambiare.
LA SCOZIA DICE NO ALL'INDIPENDENZA (19 settembre 2014).
La Scozia ha detto no all’indipendenza, e lo ha fatto in maniera decisa, al termine di uno storico referendum che ha spaccato la nazione e tenuto la Gran Bretagna e l’Europa con il fiato sospeso: 55.3% agli unionisti contro il 44.7% degli indipendentisti. Il risultato, certificato dalla commissione elettorale nella capitale Edimburgo, ha infranto il sogno di Alex Salmond, leader indipendentista che ha trascinato la Scozia alle soglie di una decisione storica. “Accetto il verdetto del popolo e invito tutti gli scozzesi a fare altrettanto”, ha detto. David Cameron ha tirato un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo: Il Regno Unito resta tale, l’unione tra Scozia e Inghilterra sancita tre secoli fa continua. “La questione è risolta per una generazione,” ha detto il Primo Ministro britannico in una dichiarazione a Downing Street. “Non ci sono discussioni, non ci sono ripetizioni”, ha aggiunto Cameron, che ha comunque salutato l’esercizio democratico degli scozzesi e ribadito la promessa di maggiori poteri non solo alla Scozia ma alle altre nazioni che compongono il Regno Unito: Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord. A scrutinio concluso il no ha preso oltre due milioni di voti contro un milione e seicentomila preferenze per il sì. Il voto ha anche fatto registrare record di affluenza per la Scozia: circa l’85% dei 4.2 milioni che si erano registrati per votare si sono recati alle urne. Mentre gli indipendentisti piangono per aver fallito un’occasione storica, gli unionisti riuniti nella sede di Glasgow esultano. Il leader del no Alistair Darling ha parlato di “notte straordinaria” e ha invitato gli scozzesi all’unità dopo una campagna elettorale che ha infuocato gli animi. Il drammatico spoglio, durato tutta la notte, è stato seguito con un misto di apprensione e speranza da tutto il Paese, con centinaia di scozzesi riuniti nei pub rimasti aperti per l’occasione. I primi dati sono arrivati dalle più piccole e remote contee della Scozia, e il trend è apparso subito favorevole agli indipendentisti. La prima vittoria per il sì è arrivata dopo sette aree scrutinate nel collegio di Dundee, roccaforte indipendentista nota come ’Yes City’, dove il sì ha registrato il 57,35% contro il 42,65% del no. Anche Glasgow vota per l’indipendenza, 53.5% contro 46.5%. Ma non basta. In mattinata arriva anche il dato di Edimburgo, che vota convintamente per gli unionisti, 61% al no contro il 39% del no. Gli indipendentisti, che promettevano un Paese sovrano, prospero e ancorato alla sterlina e alla casa reale, avevano compiuto una clamorosa rimonta e sembravano ad un passo dal successo. La loro è stata una campagna più aggressiva e intraprendente, ma alla fine ha prevalso la “maggioranza silenziosa” preoccupata per i rischi economici e l’incertezza politica che l’indipendenza avrebbe potuto comportare. In Europa tutti i Paesi in cui esistono rivendicazioni separatiste avevano gli occhi puntati sulla Scozia. Più di tutti la Spagna, dove la Catalogna ha già convocato, nonostante l’ostilità di Madrid e l’irrilevanza giuridica, un suo referendum indipendentista per il 9 novembre. Faceva il tifo per il sì anche la Lega in Italia, con il segretario Matteo Salvini arrivato in Scozia. Il quesito sulla scheda chiedeva semplicemente: “Dovrebbe la Scozia essere un Paese indipendente?” Ma il voto ha costretto gli elettori a confrontarsi con la fondamentale questione della loro identità e senso di appartenenza: Sono più le cose che ci dividono dalla Gran Bretagna o quelle che ci uniscono? Una studentessa di 18 anni al suo primo voto, Shonagh Munro, racconta: “Mia madre è inglese, mio padre scozzese, sono nata a Glasgow, studio a Edimburgo. Mi definisco scozzese ma sono orgogliosa di far parte del Regno Unito e non ci rinuncerei per nulla al mondo”. Giovedì le urne sono state aperte della 7 alle 22 ora locale, quindici ore per decidere se separarsi per sempre dalla Gran Bretagna o mantenere intatto un legame che dura dal 1707. A Edimburgo e in molte altre città le file erano cominciate ancor prima dell’apertura dei seggi, mentre volontari distribuivano bandierine e spillette agli angoli delle strade cercando di convincere gli indecisi. Per alcuni votare per l’indipendenza è stato il sogno di una vita, adesso spezzato. “Sono nazionalista da quando ho 13 anni,” aveva detto Tommy Moore, 59 anni, spilletta “YES” appuntata sulla maglietta. “Gli unionisti dicono di amare la Scozia ma sono dei traditori”.
Alla fine, salendo sul palco subito dopo l’annuncio della sconfitta, il primo ministro scozzese Alex Salmond si è lasciato scappare un sorriso. Alla fine, infatti, il leader indipendentista una cosa l’ha ottenuta: una maggiore devoluzione dei poteri, in un’ottica di un Regno Unito, “Paese di quattro nazioni”, sempre più federalista. Non che l’autonomia mancasse a Edimburgo, con un suo parlamento, un suo governo e una sua (anche se in parte limitata) gestione fiscale. Ma ora chi fino a poche ore fa sventolava felice la bandiera scozzese, sperando in un risultato che comunque non c’è stato, può sognare in una nuova era per la Scozia. Una nazione finalmente alla ribalta dei media internazionali e dell’attenzione globale e corteggiata e coccolata, negli ultimi giorni, dai movimenti indipendentisti di mezzo mondo, che a Edimburgo sono accorsi per lo spoglio dei voti. Leghisti, indipendentisti sardi e altoatesini compresi. Negli ultimi giorni, l’establishment britannico ha promesso maggiore autonomia fiscale, meno interferenze sulle politiche locali e soprattutto una House of Lords, la Camera alta del parlamento britannico, con un nuovo compito, quello di gestire le diatribe fra le quattro nazioni e soprattutto di cercare di accogliere le loro istanze a livello nazionale, tutte cose che finora erano praticamente riservate ai vari governi in carica e alle loro decisioni spesso legate al caso e agli umori del politico di turno. Il compito di ridisegnare il Paese, secondo le indiscrezioni della stampa, potrebbe essere assegnato a Gordon Brown, ex premier laburista, scozzese, storico rivale dei Tory e del premier in carica ma anche dalla “rinnovata fiducia” da parte dell’attuale esecutivo. David Cameron, intanto, ha cercato di ridimensionare una crisi che per lui può essere anche di immagine, pur considerando il successo significativo del fronte degli unionisti, con tutta questa devoluzione di poteri nell’aria. “Ora andiamo avanti”, è stato il primo commento del premier conservatore, parlando da Downing Street alle sette del mattino ora locale, le otto del mattino in Italia. Andiamo avanti, appunto, “ma con più poteri per Edimburgo”. Cameron non ci sta infatti a passare per un politico che non mantiene le promesse. E l’impegno solenne con Scozia, durante la campagna referendaria condotta insieme al leader laburista, Ed Miliband, e a quello liberaldemocratico, Nick Clegg, era appunto quello di procedere nella devoluzione delle competenze. Ma, parlando a Downing Street, Cameron è andato oltre, dicendo che “ora dobbiamo ascoltare le voci anche di Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord”. Negli ultimi tempi, infatti, da più parti sono giunte richieste di maggiori autonomie, compresa la città di Manchester che – ma qualcuno l’ha definita una “boutade” – aveva chiesto fra le righe di poter diventare una sorta di città indipendente, una città metropolitana “all’italiana” ma con molti più poteri, un qualcosa che finora, nel Regno Unito, è praticamente concesso soltanto alla capitale, Londra. Anche il leader dello Ukip, Nigel Farage, alleato del Movimento Cinque Stelle all’europarlamento, ha chiesto che la voce dell’Inghilterra “venga ascoltata”, augurandosi un maggiore federalismo di quel Regno Unito che in realtà è sempre più frammentato al suo interno. La monarchia è salva e comunque non era stata messa in dubbio anche da questo referendum, Salmond aveva promesso una nuova nazione con la sovrana Elisabetta II, comunque, come capo di Stato. La regina può stare tranquilla quindi (con la sconfitta del sì rappresentata a livello simbolico dalla vittoria con il 53% degli unionisti nelle Highlands, le terre del nord i cui abitanti i più fieri scozzesi, quelli di Braveheart – film con il quale il movimento indipendentista ebbe nuovo impulso a livello mediatico – hanno rifiutato l’indipendenza), ma è sempre più profonda la frattura fra le varie aree che compongono una delle più grandi potenze mondiali, confini che non sono solo quelli ufficiali e di seggi parlamentari, con la Cornovaglia sempre sul chi va là, il Galles che sostiene sempre di essere escluso dai grandi giochi e l’Irlanda del Nord, con quei problemi decennali di stabilità. Non c’è solo la Scozia.
Intanto, esulta la stampa britannica, schierata fin da subito per il “No” all’indipendenza della Scozia: “Restiamo assieme”, titola il Times, e manca solo un punto esclamativo. “Il Regno Unito è salvo, la Scozia rigetta l’indipendenza”, è l’annuncio del Daily Telegraph. Il Guardian, invece, rimane più neutrale, ma posta in prima pagina, nella versione online, le foto di indipendentisti piangenti e unionisti esultanti, in giro per le strade scozzesi. “La Scozia dice No!”, è il titolone del Daily Mail, con un sottotitolo ancora più in risalto: “La Gran Bretagna respira ancora”. Anche la stampa scozzese pare celebrare la vittoria del movimento per il “No”, con lo Scotsman in prima fila con il titolo “La Scozia dice No! Grazie!”. Ma forse la vera chiave di lettura arriva da The Herald, che sottolinea la nuova aria che tira a Londra e nel resto del Paese da questa mattina. Basta un titolo: “La Scozia dice di no ma cambia il Regno Unito in meglio”.
RENZI A STANFORD (21 settembre 2014).
«Cambierò l'Italia... Ci sono ostacoli difficili da superare, resistenze di interessi precostituiti, ma l'alternativa è fra apertura e chiusura e gli italiani hanno scelto di aprire il Paese». Mentre in Italia il dibattito impazza sull'articolo 18 e la riforma del lavoro, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha portato il suo messaggio nel cuore della Silicon Valley, dove si disegna il futuro. Vogliamo credere che quello di Matteo Renzi sia stato un impegno nei confronti di chi ha possibilità di investire. Oggi che il differenziale sui rendimenti si è quasi azzerato, per il nostro Paese è più importante creare condizioni favorevoli per l'investimento che non quelle per la sottoscrizione del debito. E infatti ieri sera fra i 36 invitati alla cena offerta dalla Stanford University in onore di Matteo Renzi c'erano molti potenziali investitori. C'erano Luca Maestri, il nuovo direttore finanziario della Apple Computer, che ha da pensare a una liquidità di oltre 100 miliardi di dollari; c'era Diego Piacentini, il capo dell'internazionale di Amazon.com, c'erano anche vecchie stelle come Mario Mazzola della Cisco System. Si tratta di italiani che confermano il lato positivo della "fuga dei cervelli". Perché non si tratta di fuga ma si tratta di avere delle antenne che fanno da punto di riferimento per il nostro Paese nell'economia globale.Nel pomeriggio di oggi incontri con Twitter e con Yahoo. A Stanford, a Encina Hall, uno degli istituti della grande università americana, ci sono il Freeman Spogli Institute per gli studi internazionali e il Bechtel Auditorium, dove si è tenuta la cena. Atmosfera molto californiana perché c'erano anche George Shultz, il leggendario segretario di Stato di Ronald Reagan (già alla Bechtel) e Condi Rice, segretario di Stato di George W. Bush. Atmosfera molto da incontro da vecchi amici, informale, con il Presidente dell'Università John Hennessy e Ron Spogli, ex ambasciatore americano a Roma di W. Bush, che hanno presentato Renzi al pubblico. Una curiosità? Hennessy guadagna un milione di dollari all'anno. Non solo grazie a partecipazioni in aziende dove ha investito, ha accumulato negli anni un patrimonio personale che supera i 50 milioni di dollari. E in un mese di novembre di qualche anno fa, fra dividendi e premi Hennessy ha incassato da varie aziende dove era anche membro del consiglio di amministrazione un milione di dollari! Cifre che da noi richiederebbero un processo morale pubblico, ma in America fanno parte dell'economia delle scuole. Anche questa è nuova frontiera. E Renzi l'ha potuta vedere senza filtri. Chissà che attraverso i suoi occhi non la vedano in molti in Italia, che pensano ancora a un mondo fermo agli anni Cinquanta.
BCE: non c'è crescita (8 ottobre 2014).
La crescita economica dell'area euro "si sta indebolendo", avverte la Bce nel suo ultimo bollettino mensile. E pur continuando ad attendere una "modesta ripresa", l'istituzione avverte che guardando al 2015 "occorre seguire con attenzione i fattori e le ipotesi principali" su cui si basano queste aspettative. "Guardando al 2015 - prosegue la Bce - continuano a sussistere le prospettive per una moderata ripresa nell'area euro; occorre tuttavia seguire con attenzione i fattori e le ipotesi principali che delineano questa valutazione". I rischi per le prospettive economiche "restano orientati al ribasso. In particolare - recita il bollettino - il recente indebolimento della dinamica di crescita, unitamente all'acuirsi dei rischi geopolitici, potrebbe ripercuotersi sul clima di fiducia e soprattutto sugli investimenti privati". Inoltre potrebbero farsi sentire "progressi insufficienti sul fronte delle riforme strutturali nei Paesi dell'area: rappresentano un cruciale rischio al ribasso per le prospettive economiche". Alcuni Paesi dell'area euro "devono chiaramente imprimere slancio al processo legislativo e attuativo delle riforme strutturali, per quel che riguarda i mercati dei beni e servizi e del lavoro nonché gli interventi volti a migliorare il contesto in cui operano le imprese". La Banca centrale europea ripete ancora una volta che il direttorio è determinato "all'unanimità" a ricorrere ad altre misure straordinarie, se fosse "necessario far fronte a rischi connessi con un periodo di bassa inflazione eccessivamente prolungato". Nel suo ultimo bollettino mensile, l'istituzione tuttavia ribadisce anche che ritiene che quanto già fatto dovrebbe garantire che le attese di inflazione generali - fattore chiave nella sua analisi - restino ancorare ai suoi obiettivi. La Bce punta ad avere l'inflazione inferiore ma vicina al 2 per cento, laddove attualmente nell'area euro si attesta attorno allo 0,3 per cento. L'Italia è tra i sette paesi dell'area euro - assieme a Irlanda, Grecia, Spagna, Cipro, Portogallo e Slovenia - che "spiccano per aver registrato aumenti del tasso di disoccupazione particolarmente cospicui e persistenti dall'inizio della crisi". Lo afferma la Banca centrale europea rilevando che anche i tassi di avviamento al lavoro "hanno registrato consistenti diminuzioni". Questo gruppo, il più duramente colpito dalle tensioni sui mercati finanziari, viene indicato come "economie sottoposte a tensioni" in una analisi sull'impatto della crisi sui mercati del lavoro. E "anche i tassi di avviamento al lavoro per Italia, Portogallo e Slovacchia hanno registrato consistenti diminuzioni", dice ancora la Bce. C'è "urgente necessità" di aumentare il Pil potenziale dell'area dell'euro attraverso le riforme. Il presidente della Bce, Mario Draghi, aprendo il dibattito alla Brookings Institution di Washington, spiega: "In parole povere non riesco a vedere alcuna via d'uscita dalla crisi se non creiamo più fiducia nel futuro potenziale delle nostre economie". Il numero uno della Bce ha aggiunto che "in considerazione dell'andamento demografico, l'aumento della crescita strutturale dovrà avvenire principalmente attraverso la produttività". I paesi che hanno margini di bilancio devono usarli per favorire la ripresa, ma "specialmente dove i margini non ci sono, la politica economica può comunque sostenere la crescita alterando la composizione del bilancio", afferma Draghi. "In particolare - sottolinea - intervenendo simultaneamente con tagli alla spesa improduttiva e sulle tasse distorsive".
Le acciaierie Terni (9 ottobre 2014).
Dopo un mese di trattative, di rilanci e stop inattesi, arriva la rottura. Le Acciaierie Speciali Terni hanno annunciato ufficialmente ai sindacati di categoria l’avvio della procedure di mobilità per 550 addetti. Oggi cominceranno a partire le lettere di licenziamento per i lavoratori coinvolti, anche se la procedura ha una durata di 75 giorni in cui è ancora possibile ricomporre la frattura. Cancellati, con decorrenza dal primo ottobre, anche tutti gli accordi aziendali di secondo livello per tutti i dipendenti dell’Ast e ciò significa una diminuzione netta in busta paga di circa il 20% perché tra le voci colpite ci sono le maggiorazioni dei turni festivi e di quelli notturni. In una nota l’azienda (il cui unico socio è la multinazionale tedesca ThyssenKrupp) ha spiegato che la decisione in merito al contratto integrativo è stata presa «in relazione alla nota crisi del mercato siderurgico, alle gravi ricadute produttive, all’ottimizzazione dei costi». Immediata la reazione dei lavoratori: le assemblee in fabbrica programmate dalle 12,30 si stanno trasformando in un’ora e mezza di sciopero. Delusione, rammarico, anche da parte della presidenza del Consiglio che ha tentato un’ultima mediazione, dopo i ripetuti incontri al ministero dello Sviluppo con la titolarità del dossier direttamente in carico al «ministro metalmeccanico» Federica Guidi. «Sono reduce da una trattativa andata male, ma non abbandoniamo e continueremo a insistere», ha affermato il sottosegretario Graziano Delrio. Nei giorni scorsi anche il premier Matteo Renzi si era espresso sulla vertenza, rilevando come fosse necessario tenere accesi tutti e due i forni delle acciaierie ternani, fiore all’occhiello per la produzione ad alto livello di gamma. La volontà dell’azienda è di chiuderne uno dei due, riducendo di un terzo i volumi di acciaio speciale con il rischio che ora l’Italia potrebbe essere costretta ad importarlo dall’estero visto che è il secondo mercato per consumi in Europa. Sulla vicenda è intervenuto anche il premier, Matteo Renzi. Oggi «io sono terrorizzato da Terni dove, nonostante abbiamo fatto di tutto, la negoziazione non è stata accettata dai sindacati né dall’azienda» ha detto il presidente del Consiglio ospite di Virus, su Rai2. «Noi lavoriamo nei prossimi tre mesi prima che accada irreparabile» ha assicurato il presidente del Consiglio.
Moody's promuove l'Italia (15 ottobre 2014).
La Commissione europea è pronta a bocciare la Legge di Stabilità che sarà svelata oggi dal governo Renzi, ma l'Italia non ha intenzione di cedere alle pressioni dei partner per adeguare gli obiettivi di bilancio alle regole del Patto di Stabilità. Il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, ieri ha confermato che, pur rispettando il tetto del 3% di deficit, il governo non realizzerà l'aggiustamento strutturale richiesto, rinviando di 2 anni il pareggio di bilancio. Le cifre contenute nella nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (Def) «possono sollevare interrogativi», ha ammesso Padoan, dicendosi «fiducioso», perché «le nostre relazioni con la Commissione sono molto costruttive». L'agenzia di rating Moody's ha invece certificato che dopo «molti anni di consolidamento» con un «significativo surplus primario», una «solida posizione di bilancio aiuta l'Italia ad avere favorevoli costi di finanziamento, con più tempo per attuare riforme a favore della crescita». L'agenzia di rating, in sostanza, conferma prospettive stabili per il nostro Paese e apprezza il Jobs Act definendolo «un'iniziativa significativa che rende il mercato del lavoro più flessibile». Ma fonti dell'esecutivo comunitario confermano che lo sforzo strutturale dell'Italia, come quello della Francia, è considerato insufficiente. I dati del Def prefigurano una «deviazione significativa» dal percorso verso il pareggio di bilancio, spiega una fonte: di fronte a «un'inosservanza particolarmente grave», la Commissione dovrebbe chiedere al governo di «riscrivere» la Legge di Stabilità.
Padoan ha spiegato che l'Italia intende usare «la flessibilità dentro le regole» per poi avviare un «dialogo aperto» con la Commissione. Il governo invoca le circostanze eccezionali della recessione: «Quando avevamo assunto l'impegno iniziale le proiezioni di crescita erano del 1,1%, molto più alte di quanto siamo oggi», ha detto Padoan. Inoltre, secondo il governo, le riforme potrebbero portare a uno sconto: la Legge di Stabilità è un «complemento essenziale alle riforme strutturali», ha spiegato il ministro. Ma il braccio di ferro si annuncia difficile. «Le circostanze eccezionali non si applicano, perché la recessione deve esserci in tutta la zona euro, non in un solo paese», dice un'altra fonte. Il commissario agli Affari economici, Katainen, ha annunciato che la valutazione sui bilanci nazionali sarà «un esercizio puramente aritmetico». E i conti non tornano: la posizione strutturale dell'Italia è peggiorata dello 0,3% nel 2014, mentre lo sforzo per il 2015 è limitato allo 0,1%. Per Bruxelles servirebbe un aggiustamento strutturale tra lo 0,7 e lo 0,9% del Pil. Nemmeno la flessibilità contenuta nel Patto gioca a favore del governo. L'Italia supera il margine di tolleranza dello 0,5% rispetto agli obiettivi delle raccomandazioni sull'aggiustamento strutturale. L'Italia deve inviare la bozza di Legge di Stabilità entro questa sera. La Commissione avrà poi una settimana per informare il governo di una «deviazione significativa». Se «l'inosservanza particolarmente grave» sarà confermata, entro il 29 ottobre Katainen dovrebbe emettere un parere negativo sulla Legge di Stabilità. In difficoltà, Padoan ha proposto di «aggiornare gli strumenti che misurano» l'aggiustamento strutturale perché non tengono conto dell'impatto di lungo periodo sulla crescita potenziale della crisi che attraversa la zona euro. Come presidente di turno dell'Ecofin, l'Italia ha invece incassato un accordo per istituire una «task force» sugli investimenti e un'intesa sullo scambio automatico di informazioni fiscali dal 2017.
LE BORSE AFFONDANO (15 ottobre 2014).
Sui mercati finanziari tornano le tensioni. Il FTSE MIB di Piazza Affari chiude con un ribasso del 4,44%. Francoforte cede il 2,59% mentre Wall Street segna un calo dell’1,5%. A scatenare le forti vendite sono stati almeno tre fattori.
1) In mattinata è stato diffuso un report dell'agenzia di rating Fitch sullo stato di salute delle banche greche, ancora gravate da consistente fardello di crediti in sofferenza in vista dei risultati degli stress test e asset quality review da parte della Bce. Immediata la reazione dei mercati con vendite insistenti su Borsa e bond sovrani di Atene. L’indice della Grecia ha ceduto il 6,3% mentre il decennale di Atene ha visto il rendimento schizzare a oltre il 7,82% dal 7% della chiusura di ieri con lo spread rispetto al bund che si è allargare a 686 punti. Le vendite si sono allargate anche ai bond di Italia, Spagna e Portogallo metre gli investitori fanno rotta sul Bund tedesco e sui decennali di Olanda, Francia e Austria. In particolare il Bund tedesco tocca il nuovo minimo storico con un rendimento sotto lo 0,80%. Considerando il tasso di inflazione allo 0,8% il rendimento reale sul decennale tedesco è appena negativo. Lo spread tra Btp e Bund si è allargata di 20 punti a 165 punti con il rendimento del decennale italiano al 2,37% con un tasso reale superiore al 2%.
2) A determinare il crollo della Borsa di Atene (che ieri ha ceduto il 5,7%) anche le preoccupazioni sul piano del governo greco per uscire dal salvataggio della Troika, scenario che potrebbe portare ad elezioni anticipate. La Grecia, sotto la tutela della comunità internazionale dal 2010, spera di uscirne in anticipo, a fine anno, quando arriverà a conclusione il piano di sostegno europeo mentre il piano Fmi giungerà a termine solo nel 2016. Sul mercato c'è il timore che la Grecia, uscendo dal controllo della Troika, possa abbandonare le misure di austerity e non sia in grado di finanziarsi autonomamente.
3) Nel primo pomeriggio sono arrivati dagli Stati Uniti dati macro deludenti: le vendite al dettaglio a settembre sono calate più delle stime (-0,3% contro un attesi -0,2%) e i prezzi alla produzione sono a sorpresa scesi nello stesso mese (-0,1% contro uno stimato +0,1%). Da non escludere poi il continuo calo del prezzo del petrolio che sta penalizzando le quotazioni di titoli minerari e petroliferi in tutto il mondo.
Sul mercato valutario si sono registrati forti realizzi sul dollaro dopo i dati americani deludenti e la previsione degli operatori su una Federal Reserve attendista nel rialzo dei tassi di interesse visto il quadro attuale. L'euro è balzato a 1,28 (da1,2646 ieri sera). «Il brutto dato sulle vendite al dettaglio Usa (-0,3% a settembre) unito all'Empire manifatturiero che dà segnali prospettici preoccupanti - spiega Vincenzo Longo di Ig Markets - ha innescato le vendite sul biglietto verde: ora si scommette sul fatto che la Fed temporeggerà sui tassi di interesse». Contemporaneamente al movimento euro/dollaro, la moneta Usa ha perso terreno anche verso lo yen: il cambio segna 106,26 ai minimi dal 10 settembre scorso (cambio euro/dollaro e convertitore di valute). Vendendo dollari, i mercati si orientano anche all’idea di nuovi stimoli. Non è da escludere a questo punto secondo alcuni operatori un nuovo quantitative easing con aumento degli acquisti di bond, se l'economia americana dovesse rallentare drasticamente e se l'inflazione si abbassasse troppo. «Se ci fosse la previsione di una disinflazione molto sostenuta, un ritorno all'aumento degli acquisti di asset sarebbe una cosa da considerare seriamente», ha detto il governatore della Federal Reserve di San Francisco John Williams. Il terzo round di quantitative easing, che in origine prevedeva l'acquisto di bond e titoli per un totale di 85 miliardi di dollari al mese, è stato progressivamente ridotto e con ogni probabilità arriverà a conclusione durante la riunione del Fomc di questo mese. Da segnalare inoltre che la divisa russa continua a segnare record dopo record in negativo: oggi, dopo aver toccato i 51,75 rubli per un euro, ha superato per la prima volta il muro dei 52 rubli.
La legge di stabilità 2014 (16 ottobre 2014).
«Diciotto miliardi di tasse in meno. La più grande riduzione mai fatta da un governo in un anno». Questo l’annuncio del premier, Matteo Renzi, al termine del Consiglio dei ministri che ha approvato la legge di stabilità. «Abbassare le tasse non è di sinistra né di destra, ma da persone normali perché si era arrivati a un livello pazzesco» ha aggiunto Renzi. Una manovra da 36 miliardi di euro, 6 miliardi in più rispetto ai 30 annunciati, coperta con 15 miliardi di spending review, 11,5 miliardi di spazio sul deficit, 3,6 miliardi di tassazione delle rendite finanziarie, 3,8 miliardi dalla lotta all’evasione, 600 milioni dalla banda larga e 1 miliardo dalle slot machine. E con «18 miliardi di tasse in meno» appunto, come ha spiegato il premier. Confermati il trasferimento del Tfr in busta paga per chi lo vorrà, il bonus da 80 euro (che diventa stabile) per rilanciare i consumi, e l'intervento sull'Irap (da cui viene cancellata la componente lavoro). Nella manovra pure gli incentivi per chi vuole assumere a tempo indeterminato, che non dovrà pagare per i primi tre anni i contributi. E il premier si è rivolto direttamente agli imprenditori: «Tolgo l’articolo 18, i contributi e la componente lavoro dall’Irap. Cosa vuoi di più. Per chi vuole assumere verranno meno tutti gli alibi» ha detto Renzi. Illustrando la legge di stabilità il premier ha aggiunto: «Passeremo dal 2,2 al 2,9 per cento di rapporto deficit/Pil. Renzi ha quindi spiegato: «Nella lettera alla commissione noi pensiamo che per l’Italia valgano la duplice categoria delle circostanze straordinarie: riforme strutturali e situazione economia. La situazione è evidente, abbiamo inserito un aggiustamento strutturale ma siamo comunque disposti a dialogare con la commissione di oggi e domani». Poi ha assicurato:«Noi siamo dentro il rispetto delle regole europee per come la Ue le ha spiegate». Secondo il Wall Street Journal però la manovra del governo «potrebbe portare l’Italia, assieme alla Francia, in rotta di collisione con i vertici dell’Unione europea». Gli 80 euro diventano stabili ma `cambiano pelle´, diventando una detrazione, non più un bonus aggiuntivo (quindi una minore entrata, non una maggiore uscita in linea con la Ue). Non cambia invece la platea. «Per il bonus 80 euro sono 9,5 miliardi. Speravo fossero 10 ma sono comunque la conferma sistematica del bonus alla faccia di tutti quelli che hanno detto che non ce la facciamo» le parole di Renzi dopo il Cdm. Intervento anche sull’Irap da cui sarà eliminata per sempre, a partire dal 2015, la componente lavoro (per 5 miliardi), che si aggiunge al taglio del 10% già operato nel 2014. Nella legge di stabilità ci sono «100 milioni di euro a garanzia» dell’anticipo del trattamento di fine rapporto «per chi vorrà averlo in busta paga» ha detto Renzi. Le banche che anticiperanno alle imprese le risorse per pagare il Tfr in busta paga avranno la stessa remunerazione che oggi viene garantita al Tfr in azienda (1,5% piu’ lo 0,75% del tasso d’inflazione). Il meccanismo prevede che, di fronte alla richiesta del dipendente, l’impresa si faccia certificare dall’Inps il diritto alla prestazione. La certificazione trasmessa alla banca porta all’erogazione del finanziamento. Alla scadenza del finanziamento, in caso di mancata restituzione delle somme da parte dell’azienda, la banca si rivolge all’Inps per recuperare le spettanze. Sull’apposito fondo di garanzia Inps ci sarà la controgaranzia dello Stato. Questo consente anche alle banche di non avere un problema con le regole di Basilea. La presenza della garanzia pubblica evita un fardello patrimoniale per i finanziamenti legati al Tfr in busta paga. Il provvedimento, previo decreto attuativo e successivo protocollo tra ministeri competenti e Abi, dovrebbe essere operativo a metà 2015 con effetto retroattivo dall’inizio dell’anno. In ogni caso, fanno sapere all'Abi, sta alle banche decidere se partecipare, visto che non è prevista un'obbligatorietà anche se fra gli istituti di credito c'è l'opinione che il provvedimento possa contribuire a ravvivare la domanda, attualmente molto scarsa. Ora la parola passa ai tecnici che dovranno definire nei dettagli la convenzione. Le imprese che assumono potranno godere anche dello sgravio sui contributi a loro carico, azzerati per tre anni sui neoassunti. Misura per cui saranno stanziati quasi due miliardi. E il premier Renzi in conferenza stampa si rivolge agli imprenditori e dice: «Che volete di più. Per chi vuole assumere verranno meno tutti gli alibi». Per sostenere i nuovi ammortizzatori sociali previsti dal Jobs Act il governo stanzia 1,5 miliardi aggiuntivi. Alle famiglie sconti per 500 milioni. Per sostenere quelle con figli arriva un sostegno fino al terzo anno di età. Per i nuclei numerosi prevista anche l’esenzione dei ticket, con la riforma che sarà pronta entro fine anno. Nella legge di stabilità anche 800 milioni per le partite Iva che hanno un reddito basso. «Chi ha come partita Iva un basso livello di reddito avrà un regime forfettario - ha spiegato Renzi - Intendiamo quelle che stanno sotto i 15 mila euro. Abbiamo stanziato 800 milioni per le partite Iva, per avere un’agevolazione che interessa 900 mila italiani». Dalla lotta all’evasione arriveranno 3,8 miliardi, una cifra «prudenziale» ha detto Renzi secondo il quale «la lotta contro l’evasione non si fa fermando i clienti che escono dai negozi, ma incrociando le banche dati». Per farlo cambiano verso i controlli fiscali, con l'obiettivo di aiutare il contribuente all'auto-correzione e concentrare il contrasto su frodi e contribuenti meno collaborativi. Di fatto l'Agenzia delle Entrate mette a disposizione nuovi flussi di dati per aiutare il contribuente ad assolvere correttamente «a monte» i suoi obblighi fiscali e consentirgli, eventualmente, una volta presentata la dichiarazione, anche di correggere in autonomia la propria posizione. Il ravvedimento operoso, che attualmente prevede la riduzione delle sanzioni a 1/8 del minimo solo entro un anno, allarga le sue porte fino a coprire i termini dell'accertamento con sanzioni minime via via rimodulate in funzione dei tempi con cui il cittadino sana l'errore. Sanzioni ancora più ridotte se la regolarizzazione, anche sui versamenti, avviene entro 90 giorni. Con la manovra arriva un aggravio da 1,2 miliardi per fondi pensione e fondazioni che si aggiungono ai 2,4 di aumento di tassazione delle rendite dell’anno scorso. Mezzo miliardo di risorse invece per il credito d’imposta sugli investimenti in ricerca e sviluppo. Per le imprese possibile anche il ‘patent box’, ovvero un meccanismo di sostegno ai brevetti, con agevolazioni sui guadagni. Nel menù della legge di stabilità anche 1 miliardo per la stabilizzazione di 149 mila precari. Il comparto darà molto in cambio, in chiave di spending review (sicuri 140 milioni che arriveranno dalla riforma delle commissioni per gli esami di maturità, composte solo da insegnanti interni). Dei 36 miliardi della manovra 2015, come detto, la metà è rappresentata da tagli di tasse. «Abbassare le tasse - ha detto Renzi durante la conferenza stampa - potremmo dire che è di sinistra, ma lascerei stare che poi ne dobbiamo parlare con Angelino (Alfano, ndr). «Mentre altrove la riduzione è ad appannaggio di alcune forze politiche, in Italia non è di sinistra né di destra, ma da persone normali perché si era arrivati a un livello pazzesco». Inoltre, ha aggiunto il premier: «le Regioni hanno tranquillamente lo spazio per abbassare le tasse, se vogliono».
Da www,corriere.it
COMMENTO DI IMPRESA OGGI
La legge di stabilità proposta da Renzi sembra buona. Occorre però fare alcune considerazioni. Come si comporterà la sinistra Pd? In fase di decreti attuativi cosa scriverà "la manina invisibile" che interviene immancabilmente per salvaguardare gli interessi di questi o di quelli? Perchè non si è tenuto conto dei suggerimenti di Cottarelli che prevedeva il taglio dei comuni al di sotto dei 15.000 abitanti? Perchè non si è tenuto conto dei suggerimenti di tutti i consulenti del governo di portare da 8.000 a 1.000 le municipalizzate, zeppe di politici di tutti i partiti? Renzi dovrà combattere su tre fronti: l'alta burocrazia della PA, il potere di quelle migliaia di politici inchiavardati sulle poltrone di comuni e municipalizzate, i burocrati dell'Ue. Se non lo farà sarà un altro politico "stile Dc/Pci" e allora saranno guai grossi per il Paese.
Marchionne compra azioni FCA (17 ottobre 2014).
Settembre positivo per Fiat Chrysler Automobiles (FCA) che con quasi 69 mila immatricolazioni ha incrementato in Europa (Ue28+Efta) le vendite del 6%, mantenendo stabile (5,4%) la quota rispetto all'anno scorso. Nel mese FCA è cresciuta in tutti i principali mercati europei: +4,7% in Italia, +8,7% in Germania, +2,9% in Francia, +4,7% nel Regno Unito e +27,9% in Spagna. Nei primi nove mesi del 2014 le registrazioni di Fiat Chrysler Automobiles sono state oltre 588 mila, il 2,6% in più nel confronto con l'anno scorso, con una quota del 5,9%, in calo di 0,2 punti percentuali. Il marchio Fiat ha registrato in settembre quasi 53 mila vetture, il 4,2% in più rispetto al 2013, per una quota del 4,1% rispetto al 4,2% di un anno fa. Nel progressivo annuo il brand ha immatricolato quasi 455 mila vetture (il 2,2% in più rispetto allo stesso periodo del 2013) e la quota è stata del 4,6%, in calo di 0,2 punti percentuali. 500 e Panda si sono confermate ancora una volta le due auto più vendute del segmento A. In settembre le due vetture hanno ottenuto insieme una quota del 25,9%, mentre dopo i primi nove mesi dell'anno la quota è stata del 28,7%. In generale, le immatricolazioni di auto in Europa sono cresciute per il tredicesimo mese consecutivo, registrando un incremento del 6,4% a settembre a 1.235.501 unità. Lo rende noto l'Acea. In aumento tutti i principali mercati: Spagna in salita del 26,2%, Francia del 6,3%, Gran Bretagna del 5,6%, Germania del 5,2%, Italia del 3,3%. Nei primi nove mesi le immatricolazioni sono cresciute del 6,1% rispetto allo stesso e periodo dell'anno scorso a 9.572.259 unità. Considerando l'Unione europea a 28 più i Paesi dell'Efta, le immatricolazioni sono salite a settembre del 6,1% a 1.269.517 punti. Nei nove mesi l'incremento è stato del 5,8% a 9.906.668 unità. Intanto Sergio Marchionne ha voluto lanciare un segnale di fiducia sulle prospettive della nuova FCA. L'amministratore delegato di Fiat Chrysler ha comprato 6,83 milioni di azioni FCA al prezzo di 7,73 euro per azione. L'operazione, resa nota dall'AFM (L'Autorità olandese per i Mercati Finanziari), è datata 14 ottobre, il giorno dopo del debutto a Wall Street e Piazza Affari del nuovo titolo FCA. Il controvalore dell'operazione è di circa 52,5 milioni di euro. Con questi acquisti le azioni FCA detenute da Marchionne sono complessivamente circa 13,3 milioni. Alla fine del primo giorno di contrattazioni a Wall Street, Marchionne si era dichiarato deluso dall'accoglienza del mercato del nuovo titolo.
Vertice Asem. Accordo per Ucraina? (17 ottobre 2014).
Nel secondo giorno del vertice Asem tenutosi a Milano a Milano, la crisi dell’Ucraina diventa protagonista. La giornata si apre subito con l’incontro ristretto tra il presidente russo Vladimir Putin e il leader di Kiev Petro Poroshenko, alla presenza della cancelliera tedesca Angela Merkel, del presidente francese François Hollande, dei premier italiano e britannico Matteo Renzi e David Cameron, del presidente della Commissione Ue, José Manuel Durão Barroso. Nella mattinata, nessun passo decisivo verso una soluzione e l’emergere di «incomprensioni e differenze», secondo quanto sostengono sia il fronte russo che ucraino. Poi, qualche spiraglio si apre nel primo pomeriggio, dopo un quadrilaterale ristretto tra Putin, Poroschenko, Merkel e Hollande. Sono stati raggiunti tre accordi principali, annuncia il presidente ucraino: seguire fermamente il memorandum di Minsk, tenere elezioni nella regione di Donetsk sulla base della legge ucraina e progressi sui parametri principali del contratto sul gas. Intorno alle 17 nuovo incontro tra Putin e Poroshenko. Il presidente russo ha incontrato quello ucraino dopo aver terminato un bilaterale con il presidente del consiglio, Matteo Renzi, durato circa un’ora e mezzo. Poroshenko ha quindi fornito qualche dettaglio in più sui tre punti dell’accordo. «Primo è quello di seguire fermamente il memorandum di Minsk» che regola la pacificazione del territorio, «concentrando gli sforzi su come implementare i 12 punti del documento» ha spiegato. «In secondo luogo le elezioni nell’Est che devono avere luogo nei territori previsti dal protocollo di Minsk come chiesto il 19 settembre», ha spiegato riferendosi a Dontesk e Lugansk. «In terzo luogo ci sono stati dei progressi sulla regolazione del gas dove abbiamo concordato i parametri principali del contratto» ha concluso. Aggiungendo che «continueremo i colloqui» sui mezzi finanziari necessari, ha aggiunto. Nella mattinata Vladimir Putin, con riferimento al colloquio con l’omologo ucraino e i vertici di Bruxelles e dei principali Paesi europei, aveva parlato di incontro «positivo», ma poco dopo il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, aveva precisato che i colloqui milanesi «sono davvero difficili, carichi di incomprensioni, disaccordi», con «una parte dei partecipanti» che hanno «manifestato il desiderio di capire lo stato reale delle cose nel sud-est dell’Ucraina». Petro Poroshenko, da parte sua, aveva detto di «non essere molto ottimista» sull’esito degli incontri, all’inizio di un meeting con il cancelliere austriaco Werner Faymann. E nella conferenza stampa di chiusura del vertice, Herman Van Rompuy aveva dichiarato che «il conflitto in Ucraina è ancora senza una soluzione politica». «Abbiamo avuto Barroso ed io un incontro con Poroshenko, Putin ed i leader europei - aveva aggiunto il presidente del Consiglio Ue-. Abbiamo concordato di riportare la pace nel sud-est dell’Ucraina con l’attuazione del protocollo di Minsk». «La parola chiave è attuazione, attuazione, attuazione», aveva sollecitato. Lo stesso Matteo Renzi, che ha coordinato l’incontro della mattinata, aveva parlato di una «discussione positiva» ma aveva sottolineato che «permangono differenze, molte differenze». Il premier italiano aveva anche annunciato che Italia, Germania, Francia, Russia e Ucraina «sono disponibili» alla possibilità di controllare i confini anche «con nuovi strumenti tecnologici», come i droni, come proposto dal presidente francese Hollande. Infine, un’analisi più generale: «Non possiamo accettare l’instabilità dell’Ucraina ma dobbiamo coinvolgere la Russia nelle grandi questioni internazionali - aveva osservato il premier-. Il ruolo della Russia potrebbe essere molto importante per Ebola Isis, Siria,Iraq, Libia e le altre crisi internazionali». Come aveva sottolineato Van Rompuy, anche Barroso aveva detto in mattinata «che la cosa più importante è l’attuazione del protocollo di Minsk», aggiungendo che dovranno esserci anche una verifica sul cessate il fuoco e elezioni locali. Barroso ha anche annunciato per la prossima settimana a Bruxelles un vertice tra i rappresentanti di Ue, Russia e Ucraina per discutere la situazione delle forniture energetiche.
Giovedì, nel primo giorno di vertice, anche il presidente della Repubblica italiano, Giorgio Napolitano, aveva incontrato in due bilaterali separate prima il presidente ucraino, Petro Poroshenko, e poi in tarda serata il presidente russo, Vladimir Putin. Parlando con i giornalisti, il capo dello Stato ha espresso le sue impressioni: «Ritengo che ci sia un più alto grado di comprensione da tutte e due le parti circa la necessità di uscire al più presto da una situazione le cui ripercussioni e i cui danni devastanti non investono solo i due Paesi coinvolti ma anche tutta l’Europa». Nella conferenza stampa finale del vertice, i leader hanno fatto il punto anche su altri temi in agenda. «Si può incoraggiare ogni sforzo in direzione della pace e del dialogo in varie parti del mondo» è intervenuto Renzi. «Il messaggio che arriva dall’Asem è chiaro, è necessario migliorare la cooperazione tra i Paesi per la risoluzione dei problemi sul tavolo - ha proseguito -. Bisogna incoraggiare gli sforzi per realizzare la pace e il dialogo nelle zone colpite dalla crisi». «La crescita è senz’altro la nostra priorità» ha ricordato Barroso, aggiungendo che le «relazioni e gli investimenti con l’Asia non sono stati mai così forti come oggi».
LA SCURE DI ROSSI SULLA SANITA' TOSCANA (20 ottobre 2014).
«AVEVO in mente questa riforma quando ero assessore alla sanità. Ora bisogna mettere le vele al vento, anche se so benissimo che tira aria di tempesta. Noi vogliamo mantenere la sanità pubblica, vogliamo continuare a tutelare le fasce di reddito più basse, offrendo servizi di alta qualità. Ma non mi sembra sbagliato chiedere un contributo in più a chi ha più soldi». Si è ritagliato il ruolo di pontiere, Enrico Rossi. Il governatore della Toscana dovrà mediare tra le ire delle altre Regioni, pronte a minacciare la rivolta fiscale, e i diktat del premier Renzi, che chiede tagli del 2% alle spese, soprattutto sulla sanità. Ma invece della cautela, Rossi alza la posta. «Ho intenzione di proporre al consiglio regionale - spiega il presidente, dopo aver anticipato l’idea a SkyTg24 - una riforma strutturale della sanità. Dopo aver razionalizzato la rete ospedaliera e aver attuato una programmazione di area vasta, chiederò di procedere a una drastica riduzione delle aziende sanitarie. Dalle 12 attuali, più 4 aziende ospedaliere, passeremo a 3 aziende sanitarie ospedaliere, concentrate nelle aree vaste e collegate alle università toscane».
Quindi ci saranno tre aziende a Firenze, Pisa e Siena?
«Preferisco chiamarle aziende del Tirreno, della Toscana del sud e della Toscana centrale. Manterremo un solo direttore generale e un direttore amministrativo per le tre aziende, mentre resterà un direttore sanitario a livello provinciale. Che dovrà raccordarsi con il territorio, con un comitato d’indirizzo formato dai sindaci delle città capoluogo o dai presidenti di provincia».
Il risparmio sarà negli stipendi dei direttori?
«No, quei tagli sono un’inezia. Il vero risparmio sarà con l’istituzione dei dipartimenti nelle varie discipline sanitarie. Qui si produrranno i guadagni veri. Non è un processo di accentramento, le specialità potranno essere collocate nei diversi punti dell’azienda, valorizzando le vocazioni specifiche. Il dipartimento sarà il vero luogo di destinazione delle risorse, dove eliminare doppioni e risparmiare sui dirigenti».
Taglierà di più di quello che le chiede il Governo?
«Io accetto la sfida sui costi e sulla qualità. Abbiamo il miglior servizio sanitario d’Europa, che costa meno rispetto alla Germania, al Regno Unito, alla Francia. E’ un servizio pubblico, già ora ha accessi differenziati per reddito. Io voglio salvare questo servizio, lottando contro gli sprechi e tutelando le fasce più deboli, le prime vittime dei tagli lineari».
Per questo pensa al superticket per i redditi sopra 50mila euro?
«Mi chiedono di eliminare quello che non è livello essenziale di assistenza. Ma la metà di quei 100 milioni va al volontariato per il trasporto socio-sanitario, un milione alle parrucche oncologiche, 10 milioni per i computer che servono ai malati di Sla. Prima di tagliare questo, preferisco chiedere un contributo a chi ha un reddito di 2.500-3mila euro netti mensili, su interventi chirurgici costosi. Chiamatelo superticket, ma è un sistema per mantenere una sanità pubblica. E con l’aiuto delle assicurazioni il sacrificio è minimo».
La lettera dell'UE sulla legge di stabilità (23 ottobre 2014).
Il gesto del governo italiano non è piaciuto a Bruxelles. «È una decisione unilaterale del governo italiano quella di pubblicare la lettera» in cui i tecnici di Bruxelles chiedono chiarimenti sulla legge di stabilità. Lo ha detto il presidente uscente della Commissione Europea José Manuel Barroso puntualizzando che «la Commissione non era favorevole a questa pubblicazione». Barroso ha poi aggiunto: «Non è stata la Commissione a spingere per la pubblicazione sennò l’avrebbe fatto direttamente». «La lettera è stata redatta perché abbiamo l’obbligo legale di comunicare ai governi quando ci sono dubbi relativi alla conformità con le regole: questo abbiamo fatto, questo ha fatto il commissario Katainen col mio pieno sostegno e con quello del nuovo presidente Juncker» ha sottolineato ancora Barroso. Arrivando al Consiglio Ue di Bruxelles, il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha commentato così le parole di Barroso: «Sono stupito che Barroso si sia sorpreso per la pubblicazione della lettera che era stata anticipata qui, su un importante quotidiano internazionale, il Financial Times, poi un importante giornale italiano ha avuto lo scoop». Il premier non ci sta e rilancia: «È finito il tempo delle lettere segrete, è il momento della trasparenza totale». Da oggi, continua Renzi, «bisogna voltare pagina. Ogni dato sensibile dev’essere pubblicato». Il presidente del Consiglio sottolinea che l’Italia chiederà che non ci sia più ambiguità e che «vengano pubblicate anche tutte le spese dei palazzi» delle istituzioni europee. Da Bruxelles il presidente del Consiglio entra anche nel merito dei contenuti della lettera inviata dall’Ue all’Italia: «Rispetto al merito credo che non ci siano grandi problemi. Si sta parlando di 1 o 2 miliardi, possiamo metterli anche domattina», ha commentato il premier riferendosi alla legge di stabilità. «In una manovra di 36 miliardi - ha aggiunto prima della riunione del Consiglio Europeo - e un bilancio da 800 milioni, con un Paese che dà ogni anno 20 miliardi all’Europa, il problema dei due miliardi che potrebbero in teoria essere necessari corrispondono veramente a un piccolissimo sforzo». Per il presidente del Consiglio, il governo ha presentato «una grande manovra per ridurre le tasse, che era quello che ci chiedeva l’Europa, e ora che lo abbiamo fatto non sarà una piccola discussione sulle virgole a fermare il nostro percorso». Poi Renzi si rivolge agli italiani: «Ai cittadini vorrei dire che non c’è da preoccuparsi. È una grande manovra per ridurre le tasse»: «Siccome dall’Europa ci hanno chiesto tante volte di ridurre le tasse - ha concluso il presidente del Consiglio -, ora che l’abbiamo fatto non sarà certo una piccola discussione sui decimali e le virgole a bloccare il percorso di cambiamento del nostro Paese». La bacchettata di Barroso era diretta al premier Matteo Renzi ma anche al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan al quale la lettera del commissario Ue Katainen era indirizzata, con la classificazione «Strictly confidential» ovvero riservata. Invece il Tesoro l’ha pubblicata sul suo sito internet insieme ad una nota di precisazione in cui si specificava che la risposta sarebbe arrivata entro 24 ore come richiesto da Bruxelles. «La Commissione non è favorevole alla pubblicazione di tali lettere: è in corso una consultazione informale e molto tecniche e noi pensiamo che debba avvenire in un clima di fiducia: il governo ha deciso di pubblicare la lettera ed è suo diritto, ma voglio dire che la Commissione non ha assolutamente spinto per la pubblicazione» ha commentato Barroso. Del resto la decisione di pubblicare la lettera sembra essere principalmente politica come la scelta dello stesso ministero dell’Economia, presa mercoledì scorso, di rendere noti alcuni chiarimenti sulla legge di stabilità mediante dei tweet. E potrebbe anche aver raggiunto il suo risultato visto che Barroso ha poi precisato che la Commissione applicherà le regole con la massima flessibilità. Poi Barroso passa ad attaccare la stampa italiana: «La maggioranza delle notizie sulla stampa italiana sono assolutamente false, surreali e non hanno nulla a che vedere con la realtà, se non a volte per caso. Sono francamente invenzioni e mi delude vedere fino a che punto organi di stampa autorevoli possano dare risonanza a queste voci». Ma è anche da parte della nuova Commissione Ue che ora si cerca di minimizzare l’importanza della missiva. La lettera inviata dall’Ue all’Italia «non pregiudica l’esito della nostra valutazione» anche perché «le consultazioni sono ancora in corso» come risulta chiaro anche dalla missiva afferma il portavoce del commissario Ue Jyrki Katainen, Simon O’Connor, rispondendo alle domande dei giornalisti a Bruxelles.
Stress test per le banche europee (26 ottobre 2014).
Sono 25 su 131 le banche europee che non hanno superato gli stress test della Bce sulla base dei bilanci 2013, con un ammanco patrimoniale di 9,7 miliardi di euro. Di queste, nove sono italiane: Montepaschi, Carige, Creval, Banco Popolare, Popolare di Milano, Popolare di Sondrio, Popolare di Vicenza, Veneto Banca. Di queste banche tuttavia, cinque hanno già realizzato operazioni di rafforzamento patrimoniale nel corso del 2014, e la Bce lo segnala. Restano carenti di patrimonio, per gli elenchi Bce, dunque Montepaschi, Carige, Bpm e Pop. Vicenza, per 3,3 miliardi: queste ultime due, a loro volta, hanno realizzato sempre nel 2014 altre operazioni computate dalla Banca d’Italia come rafforzamento patrimoniale. Di conseguenza, alla fine sono solo due le banche italiane con deficit patrimoniale, per un totale di 2,9 miliardi: Montepaschi per 2,111 miliardi (che scende a 1,35 al netto dei Monti bond) e Carige per 814 milioni. Dalla valutazione delle attività di bilancio (Aqr, asset quality review), e dagli stress test, condotti assieme all’autorità europea Eba, sulla base dei dati di bilancio al 31 dicembre 2013, è emerso che a livello europeo sono le 25 banche bocciate, con una carenza di capitale complessivamente di 25 miliardi. Come si legge in una nota, «12 di queste 25 banche hanno già coperto questo ”shortfall” con aumenti di capitale per un totale di 15 miliardi nel 2014». Ne restano, quindi, 13 con una carenza di capitale totale di 10 miliardi. Tutte le banche che presentano shortfall di capitale, chiarisce la Bce nella nota, «devono preparare piani di ricapitalizzazione entro due settimane dall’annuncio dei risultati», e cioè da oggi, e avranno fino a un massimo di nove mesi per coprire queste carenze patrimoniali. Gli esami della Bce richiedevano che negli aqr il capitale «di migliore qualità» (cosiddetto Cet1) fosse almeno dell’8%. Negli stress test invece gli scenari erano due, uno «base», in cui si richiedeva che le banche dimostrassero di avere almeno l’8% di capitale minimo, e uno «avverso» in cui si chiedeva un grado di resistenza del 5,5% calcolato sempre in base al patrimonio.
Gli stress test sono stati particolarmente severi per l’Italia. Lo sottolinea la stessa Banca d’Italia nel comunicato stampa (leggi il documento originale) in cui illustra i numeri aggiornati al 2014 per le banche italiane: «Lo scenario avverso è stato appositamente costruito in modo da costituire una vera prova di resistenza delle banche a situazioni estreme. Nel caso italiano lo scenario è molto sfavorevole perché ipotizza una grave recessione per l’intero periodo 2014-16, dopo quella già sofferta dall’economia italiana nel 2012-13, che faceva seguito a quella del 2008-09; ipotizza inoltre un riacutizzarsi della crisi del debito sovrano. Questo ipotetico scenario utilizzato nella simulazione configurerebbe quindi un collasso dell’economia italiana, con gravi conseguenze ben oltre la sfera bancaria». «Questi risultati confermano la solidità complessiva del sistema bancario italiano, nonostante i ripetuti shock subiti dall’economia italiana negli ultimi sei anni: la crisi finanziaria mondiale, la crisi dei debiti sovrani, la doppia recessione», continua la nota dell’authority guidata da Ignazio Visco. Anche perché — sottolinea la Banca d’Italia — il contraltare del deficit patrimoniale è che 13 banche hanno dimostrato di avere surplus patrimoniale pari a 25,5 miliardi. Inoltre Bankitalia ricorda il differente livello di aiuti di Stato di cui hanno potuto giovarsi le banche europee: «Secondo i dati pubblicati da Eurostat, i sistemi bancari e finanziari di vari Paesi dell’area dell’euro hanno beneficiato negli anni scorsi di cospicui interventi da parte dei governi: quasi 250 miliardi in Germania, quasi 60 in Spagna, circa 50 in Irlanda e Paesi Bassi, poco più di 40 in Grecia, circa 19 in Belgio e Austria e quasi 18 in Portogallo. In Italia il sostegno pubblico è stato di circa 4 miliardi». Per la banca senese presieduta da Alessandro Profumo, sottolinea la Banca d’Italia, «il risultato del Comprehensive Assessment (l’esame Bce, ndr) riflette il forte impatto dello scenario avverso dello stress test, che non ha considerato le ipotesi previste nel piano di ristrutturazione approvato dalla Commissione europea», essendo la banca sottoposta al controllo di Bruxelles, disponendo di aiuti di Stato sotto forma dei Monti bond, ora pari a 1 miliardo residuo. «Il fabbisogno di capitale rilevato è in parte determinato dall’ipotesi di restituzione entro l’orizzonte dello stress test della parte residua degli aiuti di Stato di cui la banca ancora beneficia in linea con l’impegno preso con la Commissione europea. Non tenendo conto di tale impegno, la carenza di capitale risulta pari a circa 1.350 milioni. La banca sottoporrà un piano di rafforzamento patrimoniale e le conseguenti modifiche del piano di ristrutturazione, rispettivamente, alle autorità di vigilanza e alla Commissione europea». Mps, che sabato sera ha già riunito il consiglio di amministrazione, «sottoporrà un piano di rafforzamento patrimoniale» alla Banca d’Italia e alla Commissione Europea. Come advisor sarebbero stati incaricati Ubs e Citi, che già avevano assistito il Monte nel mega aumento di capitale da 5 miliardi del giugno scorso (insieme con Goldman Sachs e Mediobanca). Per l’istituto si ipotizzato operazioni straordinarie come un’emissione di bond convertibili ma non è esclusa anche l’ipotesi di un’integrazione. Per quanto riguarda Carige, sottolinea la Banca d’Italia, «la carenza di capitale finale necessaria per fronteggiare gli eventi sfavorevoli ipotizzati nello scenario avverso dello stress test è di 814 milioni e riflette in parte i bassi livelli patrimoniali di partenza, non sufficientemente rafforzati dall’aumento di capitale effettuato nel 2014. La banca è guidata da una nuova compagine dirigenziale, insediatasi nell’autunno del 2013 in seguito a ripetuti interventi della Vigilanza, anche su base ispettiva, da cui emersero disfunzioni negli assetti di governo e controllo e irregolarità gestionali. La banca – che ha in fase di avanzate trattative la cessione delle compagnie assicurative del gruppo – presenterà un piano di riallineamento patrimoniale da sottoporre alle autorità di vigilanza». L’istituto guidato da Piero Luigi Montani ha comunicato di aver deciso un aumento di capitale da 500 milioni (garantito da Mediobanca fino a 650 milioni di euro), «la cessione del comparto assicurativo» e delle attività di credito al consumo e del private banking (la banca Cesare Ponti) e l’acquisto delle minorities delle banche controllate.
Occupazione in crescita (31 ottobre 2014).
Cresce, a settembre, il numero di occupati in Italia. Secondo le stime provvisorie dell’Istat, lo scorso mese, gli occupati sono 22 milioni 457mila, in aumento di 82mila unità (+0,4%) su base mensile e di 130mila (+0,6) su base annua. Il tasso di occupazione, dopo 4 mesi di stasi, torna a salire attestandosi al 55,9%. Secondo i tecnici dell’Istat, l’aumento del numero di occupati «è un primo segnale positivo dopo mesi in cui l’occupazione aveva raggiunto livelli minimi». Seppur siano aumentati gli occupati a settembre, il tasso di disoccupazione risale ai massimi (12,6%). È quanto emerge dai dati diffusi dall’Istat, secondo cui a settembre 2014 gli occupati sono 22 milioni 457 mila, in aumento dello 0,4% rispetto al mese precedente (+82 mila) e dello 0,6% su base annua (+130 mila). Il numero di disoccupati, pari a 3 milioni 236 mila, aumenta dell’1,5% rispetto al mese precedente (+48 mila) e dell’1,8% su base annua (+58 mila). Il tasso di disoccupazione è pari al 12,6%, in aumento di 0,1 punti percentuali sia in termini congiunturali sia nei dodici mesi. I disoccupati tra i 15-24enni sono 698 mila. L’incidenza dei disoccupati di 15-24 anni sulla popolazione in questa fascia di età è pari all’11,7%, in calo di 0,1 punti percentuali rispetto al mese precedente ma in aumento di 0,6 punti su base annua. Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni, ovvero la quota dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca, è pari al 42,9%, in calo di 0,8 punti percentuali rispetto al mese precedente ma in aumento di 1,9 punti nel confronto tendenziale. Il numero di individui inattivi tra i 15 e i 64 anni diminuisce dello 0,9% rispetto al mese precedente e del 2,1% rispetto a dodici mesi prima. Il tasso di inattività, pari al 35,9%, cala di 0,3 punti percentuali in termini congiunturali e di 0,7 punti su base annua.
Scontro Renzi - Landini (2 novembre 2014).
«La modifica dell’articolo 18 preoccupa più qualche dirigente sindacale e qualche parlamentare che la nostra base», dice Matteo Renzi. «Il governo non rappresenta gli interessi dei lavoratori», replica Maurizio Landini. Il duello a distanza tra il premier e il leader della Fiom continua e inaugura un mese chiave per la riforma del lavoro. Il premier questa settimana sarà in campo a Brescia, Savona, Trieste e Taranto, con un occhio attento anche alla difficile partita di Terni. E gli ultimi dati Istat che certificano la creazione di 82 mila nuovi posti di lavoro inducono a procedere spediti con la madre di tutte le riforme: il Jobs act. Tema su cui Landini conferma lo sciopero generale della Fiom e su cui la minoranza Pd è pronta a dare battaglia. Ma, Renzi sa che il cammino del jobs act può assumere pure un peso dirimente nel confronto con Bruxelles. Ecco spiegato perché il premier sta valutando che potrebbe essere conveniente “sminare” il percorso alla Camera, dando un segnale distensivo alla sinistra. E il segnale sarebbe questo: inserire nella nuova legge il reintegro con l’articolo 18 per i licenziamenti disciplinari. Uno scalpo da offrire alla sinistra Pd e alla Cgil, che servirebbe a portare a casa il jobs act in tempi brevi e soprattutto certi. La Fiom intanto alza il tiro. «L’unico modo per far cambiare l’idea al governo è di convincerlo che noi abbiamo la maggioranza dei consensi. Bisogna convincere Renzi che contro il lavoro non va da nessuna parte», tuona Maurizio Landini ospite di Lucia Annunziata a “In mezz’ora”. Il leader delle tute blu della Cgil conferma poi le iniziative contro il Jobs act: sciopero generale di 8 ore articolato con «due manifestazioni», il 14 novembre a Milano e il 21 a Napoli. Il giudizio di Landini è duro: «Su Renzi ho cambiato idea quando ho capito che lui scelse le politiche di Confindustria». A sinistra in tanti sperano in una discesa in campo del leader della Fiom, forse l’unico leader in grado di raccogliere consensi rilevanti. Ma il diretto interessato frena. «Oggi non voglio impegnarmi in politica, voglio rappresentare i lavoratori», dice Landini. E sull’ipotesi di una scissione a sinistra dice la sua (con toni perentori) anche Renzi: «A differenza del passato io non ho il complesso del “nessun nemico a sinistra”», spiega intervistato nell’ultimo libro di Bruno Vespa, «Italiani voltagabbana». «Non accetto la logica dello spostarci a sinistra anche noi per impedirlo. Se qualcuno dei nostri vuole andare con la sinistra radicale faccia pure: non mi interessa. È un progetto identitario fine a se stesso e certo non destinato a cambiare l’Italia. Lo rispetto, ma non mi toglie il sonno».
Guarda in casa il premier e parla alla minoranza del Pd: «Ho grandissimo rispetto per la piazza della Cgil e per i parlamentari che hanno partecipato a quella manifestazione. Ma io sono per il cambiamento che è nel dna della sinistra. E a casa mia la sinistra che non si trasforma si chiama destra». Quella, aggiunge, «non era la piazza del Pd, ma c’era anche gente del Pd. Se penso di perderla? È più facile perdere qualche parlamentare che qualche voto. La modifica dell’articolo 18 preoccupa più qualche dirigente e qualche parlamentare che la nostra base. Se si arrivasse a una scissione, ma non ci si arriverà, la nostra gente sarebbe la prima a chiedere: che state facendo?». Alla domanda se il fallimento del rapporto con Susanna Camusso sia anche frutto della mancanza di feeling personale, il premier risponde: «Non è una questione di feeling personale, ci mancherebbe. È un’idea del paese, della sua modernizzazione, del ruolo di governo e della rappresentanza civile, non un fatto umano o interpersonale».
Cambiare l'Europa di Marta Dassù (4 novembre 2014).
“Cambiare l’Europa”. Forte del proprio risultato elettorale, Matteo Renzi ha
usato questo motto come spinta iniziale del semestre di presidenza italiana
dell’ue. Poiché Roma ha resistito all’assalto populista che ha invece investito
in pieno Francia e Gran Bretagna (in due versioni diverse: nazional/sovranista
e isolazionista) e poiché l’Italia è comunque la terza economia della
zona euro, il nostro paese ha oggi nelle mani un peso politico rilevante. Che
il governo intende spendere per cambiare, insieme all’Italia, l’Unione Europea.
E quanto più l’Italia cambierà se stessa, continua la linea del giovane
premier, tanto più avrà le carte in regola per spingere l’ue a guardare al di là
dell’austerità. Dove Ue significa anzitutto Germania.
In questa impostazione c’è un punto centrale – da tenere sempre presente parlando
di Europa. La logica dell’Unione Europea, come Unione di Stati nazionali,
è che la capacità negoziale a Bruxelles riflette la solidità interna di
un paese. Senza tanti complimenti, l’Ue rispecchia in effetti debolezza e forza
delle sue singole componenti nazionali. Ciò significa, fra l’altro, che la politica
europea è diventata nel tempo una politica “intra-domestica”, più che
appartenere alla sfera della politica estera. Il problema è se le divergenze non
siano ormai troppo vaste – sul piano economico e politico – per consentire
un’Unione che funzioni.
La scommessa di Matteo Renzi – che deve riuscire a portare l’Italia fuori dalle secche di una lunga stagnazione – è che la Germania, il leader a mezzo cuore dell’Unione, possa essere convinta a fare la sua parte per un riequilibrio continentale. Populismi o nazionalismi di ritorno, la verità molto semplice è che l’Unione di oggi, una volta salvato l’euro, non produce comunque crescita e occupazione.
Ma esiste davvero la possibilità di un accordo europeo – una “grande coalizione” a Bruxelles – sulle riforme necessarie dell’Unione? Il tema contiene punti di partenza diversi. Per François Heisbourg, ad esempio, l’Europa sarà in grado di salvare se stessa solo prendendo atto che l’euro è ormai larga parte del problema, non della soluzione. Per altri autori, un certo grado di divergenza resterà inevitabile: il modello tedesco non può diventare il modello continentale. Ma il divario nord-sud – che ha caratterizzato la crisi dell’euro – potrà essere riassorbito andando più avanti su vie già tracciate: unione bancaria, capacità fiscale, riforme strutturali, completamento del mercato unico. In tutto ciò, economia e politica si saldano: la costruzione europea è stata e rimane, anzitutto, un progetto geopolitico.
Europa è una parola ambigua perché evoca, nel vecchio continente, percezioni diverse fra loro. Non solo: l’integrazione europea, per come si è sviluppata negli anni, ha avuto alle spalle visioni diverse. Vediamole in modo rapido.
La prima visione è quella legata al metodo funzionalista dei padri fondatori, che ha portato come logica conseguenza alla creazione dell’euro (anche se la moneta unica avrebbe potuto essere dotata di strumenti di governo diversi o migliori). Il percorso funzionalista era in realtà un progetto fortemente politico, con lo scopo principale di affrontare la sfida interna della grande Germania al cuore del continente: l’integrazione come metodo per diluire il peso tedesco in modo benigno e costruttivo. L’ipotesi che prosegue su questa linea punta così, oggi, a consolidare l’euro dopo le durissime esperienze della crisi economica globale, dei salvataggi e dei programmi di emergenza, sperando di convincere Berlino a ridurre gli squilibri che persistono. Una seconda visione complessiva ha puntato soprattutto sull’allargamento: un processo virtuoso in cui l’ampliamento dei paesi membri aumenta la capacità di attrazione dell’Unione e il suo peso aggregato. Il fatto è che questo processo – anche per le particolari modalità con cui è stato perseguito dalla fine della guerra fredda – ha accresciuto le divergenze interne, cioè il grado di eterogeneità dell’Ue. Inoltre, ha raggiunto un suo limite fisiologico rispetto alla cosiddetta “capacità di assorbimento”. La terza visione possibile dell’Europa integrata poggia su una minaccia esterna, o quantomeno su un fattore di disturbo ai confini dell’Unione che richiede politiche difensive comuni. Il problema qui è che, come ha dimostrato palesemente il caso ucraino, non si è riusciti a far coesistere le varie anime dell’Unione:
i nuovi membri, in quanto paesi dell’ex blocco sovietico, conservano un
atteggiamento ben più duro verso la Russia di quello prevalente tra i vecchi membri. Per questo, una linea comune di politica estera può solo essere un minimo comune denominatore – non abbastanza per impressionare Mosca né forse per rassicurare i paesi che sentono minacciata la loro autonomia, e che infatti ricorrono anzitutto alla nato. In altre parole, un’Europa della sicurezza finisce per essere transatlantica o per non essere affatto. In estrema sintesi, la prima visione è pragmatica e neofunzionalista, e richiede necessariamente una struttura a geometria variabile (con l’eurozona più integrata e i membri esterni parte del mercato unico) e uno sforzo notevole di riequilibrio interno sul piano economico. La seconda è un’interpretazione neogollista (Europa-potenza, oltre che
Europa-spazio), che però richiede in teoria un accordo strategico anche con la Russia per poter abbracciare il lungo arco dall’Atlantico agli Urali – che tuttavia, con la crisi ucraina, né l’Europa né la Russia di oggi possono prendere in considerazione a condizioni accettabili.
La terza visione, un’Europa della sicurezza e della difesa, ma anche dell’energia finalmente gestita in modo razionale cioè comune, è una visione transatlantica. Per rendere credibile l’integrazione della difesa a costi sostenibili non bastano probabilmente le sole risorse europee – almeno per molti anni – e dunque serve un grande accordo strategico euro-americano. Per razionalizzare gli approvvigionamenti energetici e ridurre le dipendenze più rischiose, è necessaria una decisa e lungimirante diversificazione delle fonti. E sono necessari progressi nell’accordo fra le due sponde dell’Atlantico sul commercio e gli investimenti, il ttip: giustamente una priorità, per il governo italiano.
Di fronte a queste tre “narrative” diverse dei motivi per cui l’Unione Europea dovrà avere un futuro, e non solo un passato, la prospettiva non è pregiudiziale, nel senso che esistono anche delle soluzioni ibride e varie gradazioni
possibili. Il funzionalismo, dicono anche le ultime elezioni, sembra avere toccato i suoi limiti. La dimensione transatlantica continua a essere irrinunciabile, perché le alternative implicano una rinuncia di autonomia e di peso internazionale assai maggiore di qualsiasi compromesso euro-americano. Nel mondo della Realpolitik non si danno soluzioni perfette, ma opzioni con costi e benefici differenti.
Giuliano Amato ha scritto giustamente che l’Ue si trova ormai in un collo di bottiglia: per uscire dalla crisi avrebbe bisogno di politiche solidali; ma tali politiche presuppongono una solidarietà che non c’è, vista la prevalenza degli interessi nazionali – e quindi degli interessi dei paesi più forti – rispetto a istituzioni comuni ancora troppo deboli. Riforme nazionali e riforma europea devono combinarsi.
Guardiamo allora in questa chiave agli obiettivi principali dell’Europa di oggi: quella appena uscita dalla crisi acuta dell’euro e di alcuni suoi paesi membri, con una crescita nei prossimi anni mediamente anemica e una traiettoria demografica incerta, con scarse risorse destinate alla sicurezza e molti sprechi dovuti alle duplicazioni “sovrane”, con vicini assai problematici sia a sud che a est.
Questa Europa ha bisogno di aumentare la propria competitività e rilanciare il dinamismo economico, con crescita e occupazione; ha bisogno di completare e allargare il mercato interno; ha bisogno di rispondere con più fermezza ai rischi di instabilità ai suoi confini, oltre che di monitorare e gestire i flussi umani attraverso quegli stessi confini. Sono obiettivi possibili solo se i vari livelli di governo riusciranno a coesistere in modo virtuoso. Uscire dal collo di bottiglia significa rivedere le competenze. Non abbiamo bisogno di “più Europa”, genericamente; abbiamo bisogno di un’Unione che funzioni
dove serve davvero (la governance dell’economia, tanto per cominciare) e di un’Europa meno intrusiva in altri settori. A questa condizione, l’eurozona e l’Ue nel suo complesso possono diventare assai più efficienti; e se lo facessero davvero conquisterebbero probabilmente il forte consenso di una maggioranza di cittadini. L’ascesa populista, alle scorse elezioni europee, non va demonizzata ma neanche minimizzata: per la prima volta dal 1979, il peso di forze a vario titolo euroscettiche o antieuropee – per quanto molto differenziate fra loro – è rilevante.
Ciò è destinato a influenzare il clima politico in una parte dei paesi chiave: se il vecchio asse franco-tedesco sembra ormai parte della storia, non sarà semplice costruire attorno alla Germania nuovi allineamenti – la scommessa dell’Italia, appunto – e non sarà facile legittimare e rafforzare la prossima Commissione europea. Anche i dibattiti strategici dei prossimi mesi ne verranno fortemente condizionati, in una fase in cui i poteri del Parlamento europeo sono comunque maggiori rispetto al passato.
Non basterà ignorare l’euroscetticismo per liberarsene. Dopo la guerra dell’euro, il rapporto di fiducia fra Bruxelles e una parte dei cittadini europei si è spezzato. Va ricostruito su basi diverse. La fase in cui l’integrazione europea poteva essere – è stata – un progetto fortemente elitario, si è conclusa una volta per tutte. Oggi, va dimostrato in che modo democrazia ed Europa possano rafforzarsi a vicenda, invece che indebolirsi reciprocamente.
È la sfida di fondo che l’Italia e l’Ue, nel semestre post elettorale, devono cominciare ad affrontare: è l’ultima occasione per farlo. Cambiare Europa è indispensabile.
Elezioni di mid-term. Batosta per Obama (5 novembre 2014).
I repubblicani hanno inflitto una dura umiliazione ai democratici e alla presidenza Obama: hanno riconquistato dopo otto anni la maggioranza al Senato, passando da 45 a 52 seggi, hanno rafforzato le posizioni alla Camera toccando quota 240 seggi contro i 226 della precedente legislatura e hanno offerto buone performance nella battaglia per le 36 poltrone da governatore. E' vero, due degli stati più importanti New York e la California, sono rimasti rispettivamente ai democratici Andrew Cuomo e Jerry Brown. Ma si tratta di una magra soddisfazione per questa tornata elettorale che ha di fatto chiuso ufficialmente l'epoca Obama, ha rivoluzionato gli equilibri politici della Capitale ed ha aperto la strada alla corsa più dura, la Casa Bianca del 2016. La vittoria a queste elezioni del Midterm è giunta quando i conteggi in molte circoscrizioni erano ancora aperti ed è giunta prima del previsto. Quando si è saputo già verso le 11 che i repubblicani avevano conquistato cinque seggi dei sei di cui avevano bisgno per la maggioranza, si è capito che la partita era chiusa. Poi è arrivato puntuale il sesto seggio: Tom Tillis si è aggiudicava la vittoria in North Carolina e chiudeva la partita. Abbiamo avuto anche molti altri risultati e curiosità locali: Washington D.C., la Capitale e l'Oregon hanno votato per legalizzare la Marijuana. In Texas spunta un altro George Bush, è il figlio di Jeb, possibile candidato alla Casa Bianca. Ma la sua seconda iniziale è P.: ha vinto la posizione di commissario per le terre demanialie ha 38 anni. I conteggi ci dicono che finora ci saranno almeno 100 donne in Congresso. Un record? Sembra di si, nel 2011 e nel 2009 le donne in Parlamento erano 90, nel 2003 74, nel 1991 soltanto 32, Gli elettori della Carolina del Sud hanno mandato al Senato il primo afroamericano eletto nel Sud degli Stati Uniti dai tempi della guerra di Secessione. Tim Scott, repubblicano di 49 anni, era già senatore dal gennaio 2013, per aver sostituito il suo predecessore che si era dimesso, ma ora ha la forza del voto. Ma su tutto, sulle mille curiosità di elezioni in 50 stati americani, prevale il passaggio dei poteri in Parlamento. Barack Obama, il profeta del “Yes We Can” è stato dunque sconfitto. Sconfitto malamente. Eppure l'economia va bene, il costo del carburante ai distributori è crollato. L'occupazione è risalita. Ma il segnale del malessere degli americani lo abbiamo proprio da questo risultato elettorale che ci conferma quanto la classe media sia in crisi, quanto sia faticoso per tutti arrivare alla fine del mese, quanto le tasse restino elevate, la qualità dei posti di lavoro sia insoddisfacente e la diseguaglianza aumenti. Non è chiaro come i repubblicani possano raddrizzare la situazione, ma intanto promettono e vincono. Per questo l'era di Obama ufficiosamente è finita ieri, 4 novembre. Con questo risultato elettorale Barack Obama sarà ancora più debole. si troverà a governare per gli ultimi due anni del suo mandato con un Parlamento schierato contro di lui. Cercherà rifugio in politica estera. Già nel fine settimana partirà per la Cina e l'Australia. Ma se vorrà chiudere la presidenza con almeno qualche riforma importante dovrà lavorare coi repubblicani e dovrà cedere su molte delle sue prerogative. Impossibile? Niente affatto: questi ultimi due anni saranno turbolenti perché con oggi si chiude di fatto l'epoca Obama e si apre la battaglia per la Casa Bianca del 2016. Sarà soprattutto nel 2015 che si dovranno trovare accordi su tematiche dove entrambi i partiti sanno di poter lavorare, per spazzare il campo elettorale da questioni che potranno già essere archiviate e per tenere alto il muro contro muro su temi cari a ciascuno dei partiti, utili a mobilitare le basi militanti sia repubblicane che democratiche. Un tema su cui si cercherà di lavorare ma quasi certamente non si troverà soluzione è quello della riforma fiscale. Obama e John Bohener, il capo della maggioranza alla Camera, ci avevano già provato prima delle presidenziali del 2012, ma il risultato è stato distrasoso perchè ciascuno accusava l'altro di voler strumentalizzare politicamente il negoziato. Obama avrà anche a disposizione gli “ordini esecutivi”, con cui cercherà di imporre riforme in materia di ambiente, di diritti dei gay e di alcune tematiche economiche come lo stipendio minimo che vorrebbe aumentare da 7 a dieci dollari l'ora. Ma alla fine il Presidente dovrà puntare su tre cose più concrete di politica interna se vorrà lasciare il segno della sua presidenza nella storia americana: immigrazione, accordo per un mercato transatlantico libero e riforma sanitaria. Cominciamo dalla sfida più difficile. I repubblicani vorrebbero abolire la riforma sanitaria di Obama e sostituirla con un'altra riforma di fattura alquanto diversa. Ma non possono farlo perché, al di là della vittoria, non riusicranno mai a raggiungere un vantaggio di 60 voti al Senato, il numero minimo necessario per evitare l'ostruzionismo che organizzerebbero i democratici. Ma la riforma così com'è non funziona. Lo stesso Barack Obama ha dovuto ammettere che dei cambiamenti saranno necessari e dunque tanto vale per entrambi cambiare le regole più controverse e sgombrare il campo della battaglia presidenziale da un tema difficile. Questo potrà succedere se i repubblicani si convinceranno che le chance di vittoria per Hillary Clinton sono molto elevate. Altrimenti potranno chiudere ogni spiraglio e usare la riforma di Obama come cavallo di battaglia antidemocratico, come esempio di una burocrazia rampante che ingigantisce lo stato e riduce i diritti per i cittadini.
ITALIA PENULTIMA DEL G 20 PER CRESCITA (6 novembre 2014)
L'Ocse ha alzato le stime del Pil dell'Italia nel 2015 a +0,2%, dal +0,1% comunicato lo scorso settembre. Ma questo lieve miglioramento non smuove il nostro Paese dalla penultima posizione tra le nazioni del G-20, davanti alla sola Russia, ferma a zero. Queste le proiezioni preliminari dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico diffuse in vista del G-20 previsto il 15 e 16 novembre in Australia. Per l'area euro, l'Ocse conferma le stime di settembre a +1,1% per il Pil 2015, mentre prevede un +1,7% nel 2016. In Eurolandia la crescita ha rallentato il passo, spiega l'Organizzazione, in quanto «la debolezza di Germania, Francia e Italia ha annullato i miglioramenti nei Paesi periferici e l'inflazione è continuata a calare». Quanto a Usa e Cina, l'Ocse stima un progresso rispettivamente del 3,1% (come a settembre) e del 7,1% quest'anno (dal precedente +7,3%) e del 3% e del 6,9% nel 2016. L’«Economic Outlook» nella sua forma definitiva sarà pubblicato il 25 novembre. Soffermandosi su Eurolandia, l'Ocse indica che il previsto rallentamento del ritmo del consolidamento fiscale, condizioni finanziarie più forti (legate in parte al progresso dell'unione bancaria) e ulteriori stimoli monetari dovrebbero aiutare la ripresa, ma ritiene che in assenza di questo sostegno macroeconomico «la crescita di Eurolandia sarà molto più debole delle nostre stime». La domanda resterà sotto il potenziale a causa della continua debolezza del credito e della riduzione dell'indebitamento del settore privato, aggiunge l'Ocse, la disoccupazione resterà alta e l'inflazione sotto i target. Considerando i diversi Paesi di Eurolandia, l'Ocse stima per la Germania un progresso dell'1,1% del Pil nel 2015 (+1,5% la stima di settembre) e dell'1,8% nel 2016, mentre per la Francia sono attesi rispettivamente +0,9% (era +1% a settembre) e +1,5%. Per la Gran Bretagna previsto +2,7% nel 2015 (da +2,8% a settembre) e +2,5% nel 2016. L'Organizzazione rileva che in Eurolandia la crescita ha «fortemente deluso negli ultimi anni con le spese pro capite dei consumatori sotto i livelli di 10 anni fa». Inoltre «gli investimenti dei privati sono deboli, i Governi hanno ridotto le spese e aumentato le tasse, mentre la fiacca domanda ha contributo a mantenere l'inflazione di gran lunga sotto i target della Bce per un po' di tempo e l'ha spinta continuamente in calo». Fino a poco fa, prosegue l'Organizzazione, la disoccupazione ha continuato a crescere e resta a livelli elevati. Questo lascia a Eurolandia «il rischio di un periodo ancora più prolungato di stagnazione con bassa occupazione e investimenti, il che sarebbe ancora più oneroso se provocasse ulteriori cali delle attese sull'inflazione e ulteriore debolezza dei consumi». L'Ocse rileva che la crescita globale «dovrebbe accelerare dalla seconda metà di quest'anno con il miglioramento delle condizioni finanziarie, continui stimoli di politica monetaria e un rallentamento del ritmo del consolidamento fiscale. I tassi di crescita del Pil mondiale nel 2015 e nel 2016 resteranno comunque modesti rispetto alla forte espansione precrisi e un po' al di sotto della media nel lungo termine. Le economie emergenti continueranno a superare quelle avanzate, ma meno che nei decenni scorsi». Guardando ai diversi Paesi, l'Ocse indica che si stanno ampliando le differenze. «Negli Usa esiste uno slancio sostenuto verso le spese private grazie al robusto aumento dell'occupazione, a condizioni finanziarie favorevoli, al sostegno da parte della politica monetaria e al rallentamento del consolidamento fiscale» e anche Regno Unito, Corea e Australia dovrebbero crescere a un ritmo «relativamente robusto». In Giappone, dove l'Organizzazione stima un Pil 2015 pari a +1,1% (analoga stima a settembre) e +0,8% nel 2016 «la crescita ha rallentato il passo nel 2014 riflettendo l'impatto dell'aumento della tassa sui consumi. Malgrado l'ulteriore consolidamento fiscale si prevede una continuazione dell'espansione, anche se a un ritmo più lento, sostenuta da un miglioramento delle condizioni del mercato del lavoro, un allentamento monetario e una crescita dell'export, che riflette il calo dello yen. Questi fattori contribuiranno a mantenere l'inflazione al target del 2% in modo duraturo». Quanto alla Cina l'Ocse osserva che l'economia è alla ricerca di un ribilanciamento verso un modello di crescita basato maggiormente sui servizi, mentre misure di incentivazione dovrebbero facilitare la transizione a una crescita più debole nei prossimi anni. In India, dove l'Ocse stima +6,4% per il Pil 2015 e +6,6% nel 2016, la ripresa dovrebbe migliorare dopo il sensibile rallentamento del 2012-2013 con gli investimenti considerati il motore principale di espansione. In Brasile, la crescita dovrebbe riprendere dopo la breve recessione nella prima metà di quest'anno, ma resterà lenta con un'inflazione attesa a circa il 5% entro il 2016, da quasi il 7% attuale. Per il Brasile l'Ocse prevede un Pil su dell'1,5% nel 2015 (+1,4% la stima di settembre) e del 2% nel 2016. Infine l'Organizzazione ritiene che la crescita resterà «molto debole» in Russia riflettendo il calo dei prezzi del petrolio e flussi commerciali depressi. Per il Paese l'Ocse stima una crescita zero nel 2015 e pari al 2% nel 2016.
Mandato BCE per nuove misure (7 novembre 2014).
Grazie agli acquisti di covered bond, Abs e ai prestiti Tltro, la Bce si aspetta di far salire il suo bilancio «verso i livelli d'inizio 2012». E?per essere più precisi: il bilancio continuerà a espandersi nei prossimi mesi «mentre quelli degli altri istituti centrali tenderanno a contrarsi perché ci troviamo in fasi differenti del ciclo economico». Lo ha detto il presidente della Bce, Mario Draghi, dopo le indiscrezioni secondo cui tale indicazione quantitativa era stata oggetto di forti critiche nel Consiglio direttivo dell'Eurotower.
Di più, il numero uno della banca centrale ha sottolineato l’unanimità del Consiglio stesso nell’orientamento a «implementare misure non convenzionali, se necessarie». Necessarie perché i rischi geopolitici «possono pesare su fiducia e investimenti» e in questa fase «prevalgono» nel rabbuiare l’outlook dell’economia. «Sappiamo bene che ci sono rischi al ribasso (con le conseguenze del caso sul quadro già negativo che segna i dati sull’inflazione, ndr) e che dobbiamo essere pronti».
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Ecco allora che la Bce, ha ribadito Draghi, è «unanimemente» pronta a «ulteriori misure non convenzionali, se necessarie», anche se quelle già prese dovrebbero portare l'inflazione «gradualmente verso il 2%». Il Consiglio ha quindi «dato mandato allo staff» dell’istituto centrale di Francoforte di mettersi all’opera per approntarle.
Il presidente è anche tornato sul problema dei conti pubblici che zavorrano le economie e ha ripetuto, come in altre numerose occasioni, che i Paesi dell'Eurozona dovrebbero risanare i propri bilanci per non rendere vani gli sforzi fatti finora. Quanto al Patto di stabilità europeo, deve «rimanere l'ancora di fiducia nelle finanze pubbliche» europee.
Perché non un vero quantitative easing in Europa? «Le lezioni degli altri - ha risposto Draghi in conferenza stampa - sono utili per rendere più efficaci le nostre nel caso in cui misure non convenzionali siano davvero necessarie». Non tutti i Qe sono uguali, ha detto Draghi. Non si possono paragonare le condizioni che hanno determinato le scelte della Banca d’Inghilterra, della Federal Reserve o, ancora di più, della Banca del Giappone.
Quanto ai rumor sugli attacchi interni al suo stile di conduzione della Bce? «La miglior risposta - è la versione di Draghi - è che le decisioni di cui parlo oggi sono state sottoscritte in maniera unanime».
Il presidente ha parlato di una cena, mercoledì sera, andata «anche meglio del previsto», caratterizzata da una «discussione molto interessante, costruttiva e franca» sulle nuove misure da prendere, tutt’altro che segnata dalle tensioni descritte da alcune fonti di stampa e in cui ciascun componente del Consiglio direttivo ha liberamente e fattivamente esposto il suo punto di vista.
Il che pone oggi la Bce, ha detto in sintesi Draghi, nelle condizioni di trovarsi in uno stadio avanzato di maturazione per poter decidere. Cosa che potrebbe accadere già dal mese prossimo (ma più probabilmente dal successivo), anche perché lo scenario potrebbe peggiorare. «A dicembre saremo pronti a una discussione ad ampio raggio sulle decisioni da prendere, su questo siamo in una fase avanzata».
E allora, gli attacchi del numero uno della Bundesbank, Jens Weidmann? L’alleanza fra la BuBa e le banche centrali del Nord Europa contro quelle dei Piigs, dei Paesi debitori? Se ci sono stati temi su cui non era manifesto un accordo fra i protagonisti del confronto di ieri, di sicuro, questo il messaggio di Draghi, non hanno preso la forma di schieramenti geopolitici particolari.
«Non c’è una linea che divide Nord e Sud. Non esistono coalizioni», ha tagliato corto, per nulla innervosito, il presidente italiano della Banca centrale europea, uno degli uomini più potenti del mondo, come ha certificato ieri la classifica di Forbes.
Renzi vs Berlusconi (8 novembre 2014).
A Berlusconi serve un accordo sulla legge elettorale che non sappia di resa, e su questo punto Renzi è disposto ancora a trattare. Ma Renzi vuole una risposta «entro domani sera», e su questo punto Berlusconi non può più trattare. Il patto del Nazareno è una cambiale che va a scadenza. Se il premier chiede al Cavaliere di onorare l’impegno, è perché l’Italicum non è più (solo) la legge che serve per le prossime elezioni, ma è diventato lo strumento con cui si misurano la forza e la debolezza dei due leader. Per quanto finora sia stato paziente, Renzi non ha mai inteso affidare il proprio destino nelle mani di un Berlusconi che ha temporeggiato per non rendere manifeste le difficoltà tra le sue stesse file. Ma dopo il voto sulla Consulta, dopo che l’ennesimo candidato di Forza Italia non è stato eletto, Renzi ha avuto una plastica rappresentazione della drammatica condizione in cui versa il Cavaliere. Quella «figura di m...» - così testualmente definita da Berlusconi - ha indotto Renzi a porsi una domanda: «Se Forza Italia non è capace di essere determinante per se stessa, come potrà esserlo sulla legge elettorale, quando si dovrà votare anche a scrutinio segreto?». Più dei sospetti per le trame politiche del suo interlocutore, ha potuto la dura realtà delle cose. Ecco il motivo per cui il premier ha reso pubblico il suo «piano B», approntato per tempo: le aperture di credito ai Cinquestelle - infatti - non sono state estemporanee, così come la concessione ad Alfano di un vertice di maggioranza sull’Italicum, autentica novità politica del suo gabinetto. «Se salta il patto del Nazareno, l’accordo lo faremo con i partiti alleati di governo», aveva preannunciato il leader del Pd. A quel punto l’intesa - calata nei dettagli - incrocerebbe nelle Aule di Camera e Senato anche il consenso di M5S e Sel. «E noi faremmo la fine dei bischeri», si lamentava l’altro giorno in Transatlantico Verdini: «Non solo verremmo tagliati fuori politicamente, ma consegneremmo a Renzi una vittoria senza avversari. Perché con le soglie di ingresso basse per entrare in Parlamento, la futura maggioranza si troverebbe contro un’opposizione polverizzata in tanti piccoli gruppi». C’è un motivo però se Renzi ha concesso un’ultima chance a Berlusconi, se ieri - attraverso il ministro Boschi - gli ha offerto ancora una linea di credito: il punto è che Renzi non vuole trovarsi a pagare a sua volta cambiali alla minoranza del suo partito, che mira a uno scambio tra Italicum e Jobs act. Ecco allora che è partita una nuova e faticosa trattativa con il Cavaliere, desideroso di chiudere ma timoroso di non mostrarsi arrendevole verso il premier. «Non possiamo pagare un prezzo troppo alto», è stato il messaggio giunto a palazzo Chigi, a cui si chiede - magari - di non inserire il premio alla lista nel patto e di lasciarlo semmai a un emendamento da approvare in corso d’opera in Parlamento. Ma davvero Renzi può accettare che l’intesa si chiuda senza un accordo sul punto cruciale dell’Italicum? E Berlusconi può davvero immaginare di superare così gli ostacoli interni a Forza Italia? «Immagino che avremo occasione di discuterne prima negli organismi dirigenti», chiede minaccioso Fitto. La verità è che, per il Cavaliere, dire oggi sì al premier sarebbe come dire no al suo partito, che sembra ormai l’ex Jugoslavia. Stretto tra il pressing di Renzi, il tentativo di Opa di Salvini e il processo di disgregazione dei suoi gruppi parlamentari, Berlusconi ieri non avrà avuto certo voglia di festeggiare il primo anno di vita della nuova Forza Italia: quello che doveva rappresentare il primo step per il suo rilancio si sta rivelando un’intrapresa a saldo negativo. Il patto del Nazareno per il Cavaliere è una cambiale che va in scadenza, «e di Renzi invidio la sua cattiveria». In vista del vertice di partito convocato per oggi, questa considerazione sul premier serve a Berlusconi anche per tirare una riga rispetto a quanto gli sta accadendo attorno, per pensare all’affronto di Salvini che vuole i suoi voti e non la sua leadership, per meditare sugli errori commessi nella gestione di ciò che un tempo è stato il centrodestra. Perché in fondo l’ex premier è più arrabbiato con se stesso che con il capo dei leghisti, e c’è un motivo se ha fatto votare contro la mozione di sfiducia ad Alfano e formalmente ha cambiato tono. Due settimane fa diceva: «Nessun accordo con i traditori». Due giorni fa ha detto: «Quelli di Ncd si diano una mossa». Ma la prima mossa tocca a lui...
Secondo la CGIA le tasse nel 2014 sono diminuite (15 novembre 2014)
Sebbene la pressione fiscale rimanga ancora molto elevata (43,3%), nel 2014 i contribuenti italiani hanno beneficiato del saldo fiscale positivo: + 3,1 miliardi di euro. In altre parole, i tagli (pari a 11,8 miliardi di euro) sono stati nettamente superiori agli aumenti di imposta (8,7 miliardi di euro). A darne notizia è l'Ufficio studi della Cgia, che ha messo a confronto i principali aumenti e le diminuzioni fiscali che hanno esperito i loro effetti economici nel 2014. Tra le riduzioni di imposta avvenute nel 2014, la Cgia segnala il bonus di 80 euro voluto dal governo Renzi (misura pari a 6,6 miliardi di euro), il 'bonus Letta', che ha incrementato le detrazioni Irpef per i lavoratori dipendenti a basso reddito (sgravio da 1,5 miliardi di euro), l'eliminazione della maggiorazione Tares (1 miliardo di euro), la riduzione dell'aliquota della cedolare secca (1 miliardo di euro) e la deduzione del 30% dal reddito di impresa dell'Imu applicata sugli immobili strumentali (714 milioni di euro).
Per contro, invece, tra i principali aumenti fiscali avvenuti quest'anno la Cgia registra l'introduzione della Tasi (3,8 miliardi di euro di gettito), la crescita della tassazione delle rendite finanziarie (720 milioni di euro di gettito), l'incremento dell'imposta di bollo sul dossier titoli (627 miliardi di euro) e la riduzione della deduzione forfetaria dei redditi derivanti dai contratti di locazione (627 milioni di euro). "La stabilizzazione del bonus Renzi, gli sgravi contributivi per i neoassunti a tempo indeterminato e il taglio dell'Irap - è la conclusione della Cgia - dovrebbero avere il sopravvento sugli aumenti di imposta previsti sui fondi pensione, sull'incremento della tassazione sul Tfr, e sull'incremento delle accise sui carburanti che scatterà dal prossimo 1° gennaio".
"Era da molto tempo che ciò non accadeva - osserva il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi - A far pendere l'ago della bilancia a favore dei contribuenti italiani è stato il bonus fiscale introdotto nella primavera scorsa dal Governo Renzi. In linea di massima possiamo affermare che i maggiori benefici economici, come era giusto che fosse, sono andati ai redditi medio bassi, mentre quelli superiori non hanno ancora fruito di nessun sollievo fiscale. Nonostante ciò, il carico fiscale complessivo rimane ancora molto elevato e anche nei prossimi anni è destinato a rimanere su questi livelli. Purtroppo, la contrazione del Pil continua ad essere superiore alla diminuzione del gettito: pertanto, la pressione fiscale non si abbassa".
La cultura dello sciopero è dura a morire (19 novembre 2014)
Lo sciopero generale di Cgil e Uil sarà il 12 dicembre. La Cisl non aderirà perché, ha spiegato la segretaria Anna Maria Furlan, «l’ipotesi non è mai stata valutata». La confederazione di via Po conferma, invece, lo “stop” degli statali: sarà il 1° dicembre per tutte le categorie, dalla scuola alla sanità passando per i trasporti pubblici. Insomma, sullo sciopero generale i sindacati sono divisi mentre per il pubblico impiego è stata trovato l’accordo per una mobilitazione unitaria. Giuliano Poletti, ministro del Lavoro, è critico sull’iniziativa di Cgil e Uil e dice che «non ci sono valide motivazioni per una decisione così importante». Il ministro nel pomeriggio ha fatto sapere di rinunciare ad intervenire al congresso della Uil. «In considerazione del mutato contesto nel quale si svolgono i lavori congressuali, rispetto al momento nel quale lo avevamo programmato, ritengo opportuno rinunciare ad intervenire», ha spiegato il ministro. Il messaggio è stato letto dal palco e dalla platea sono partiti fischi.
La neo-segretaria della Cisl in un’intervista rilasciata a Repubblica ha spiegato «che non ci sono motivazioni valide per fermare il Paese». Dura la risposta di Susanna Camusso: «Trovo scortese che qualche minuto prima di fare un incontro unitario si indichi la soluzione. Sono prima per fare un incontro unitario». A chi le chiedeva se ci sono ancora margini per convincere la Cisl, il numero uno della Cgil ha aggiunto: «Mai rinunciare». Dopo il vertice arriva la conferma della Furlan: «Noi non ci siamo sfilati, non abbiamo mai valutato di dichiarare lo sciopero generale». «Confermiamo lo sciopero unitario del pubblico impiego, che sarà deciso dalle categorie». Oggi pomeriggio, fa inoltre sapere, si riunirà l’esecutivo nazionale e lì «la Cisl deciderà le sue forme di mobilitazione». A innescare una sorta di reazione a catena sotto l’insegna “sciopero” è stato l’incontro di lunedì sera a Palazzo Chigi sulla Pubblica amministrazione. La prima a farsi sentire è proprio la Cisl, ma a incrociare le braccia sono solo le categorie del pubblico impiego, che rivolgono anche alle altre sigle l’invito a definire insieme l’iniziativa, da far cadere sempre nel mese di dicembre. Passano poche ore quando irrompe la Uil, che non restringe più il campo della protesta agli statali ma allarga i confini, proclamando così lo sciopero di tutti i lavoratori. Un richiamo forte all’unità, che il candidato a segretario generale della Uil, Carmelo Barbagallo, ha cercato fino all’ultimo di sostenere. Il sindacato di Susanna Camusso conferma invece «la giustezza dello sciopero generale». E dopo il vertice il segretario dichiara: «Sui temi della legge di stabilità, del Jobs act» con la Uil «abbiamo registrato un importante convergenza e abbiamo convenuto di fare uno sciopero generale in una giornata con manifestazioni territoriali il 12 dicembre, avendo fatto verifiche sulla data». Il segretario era intervenuto anche sul Jobs Act: «Bisognerebbe avere un testo per poterlo vedere», ma «continuiamo ad esprimere grande preoccupazione e soprattutto la convinzione che non c’era nessun bisogno di ridurre le tutele rispetto ai licenziamenti». Alla fine ieri, dopo un lungo tira e molla nella maggioranza di governo, cambia l’articolo 18. Si dicono soddisfatti Pd e Ncd, mentre il premier Matteo Renzi insiste sul fatto che, messo da parte il «dibattito ideologico», il Jobs Act «non toglie diritti, ma toglie solo alibi, ai sindacati, alle imprese, ai politici». Con le novità della delega, si fissa il solo indennizzo economico «certo e crescente» con l’anzianità di servizio per i licenziamenti economici, mentre il reintegro sul posto di lavoro resta per i licenziamenti discriminatori (mai stati in discussione) e viene limitato a «specifiche fattispecie» di licenziamento disciplinare ingiustificato, che verranno dettagliate nei decreti legislativi che arriveranno dopo l’ok definitivo al ddl delega sul lavoro. Decreti che saranno operativi, come nelle intenzioni del governo, già a inizio gennaio.
Scontro Renzi Camusso (20 novembre 2014)
«Il Paese è diviso in due: tra chi si rassegna e chi va avanti. Ma chi oggi in Italia continua a tener duro sta ottenendo risultati. Non mi preoccupo: possono far scioperi ma noi abbiamo promesso che cambieremo e, piazza o non piazza, le cose le cambiamo». Il premier Matteo Renzi torna a parlare, in un’intervista radiofonica e Rtl 102.5, sulla riforma del lavoro e gli scioperi annunciati dai sindacati. Poco dopo, non si fa attendere la risposta di Susanna Camusso: «Il problema ormai sempre più evidente del presidente del Consiglio è che lui dialoga solo con chi gli dà ragione» attacca il segretario generale della Cgil. «Non si pone invece il problema - prosegue - che se i lavoratori hanno riempito la piazza il 25 ottobre a Roma, e se continua la mobilitazione forse bisognerebbe ascoltare le ragioni di quel disagio nel mondo del lavoro e dare risposte positive».
Renzi: «Più scioperi che con gli altri governi»
Il tema dello sciopero viene più volte ribadito dal premier. «Profondo rispetto per chi vuol fare sciopero - dice Renzi - però il governo sta cercando di mettere in piedi azioni per ripartire con l’occupazione e con il lavoro, questo è quello che dobbiamo fare». Il presidente del Consiglio sottolinea inoltre che in queste settimane «si sono fatti più scioperi che durante i governi precedenti». «Ma il governo sta cercando di mettere in piedi tutte le azioni necessarie per far ripartire il lavoro. Se coloro i quali non hanno mai scioperato in passato, oggi scioperano sempre, gli faccio i miei auguri». «Voglio provare a rimettere in moto la macchina Italia a cui si è scaricata la batteria. Perché la macchina Italia funziona bene e lo dimostreremo quando avremo fatto le riforme che stiamo facendo», sottolinea ancora il premier. Poi un accenno diretto al passaggio in Parlamento delle riforme e del Jobs Act. «Sì, siamo pronti a mettere la fiducia se servisse, lo valuteremo al momento giusto, a ieri sembrava non vi fosse bisogno di mettere la fiducia. Vedremo».
Cgil: «Non è vero che si vuole creare lavoro»
«Se fosse vero che il governo ha intenzione di creare posti di lavoro, allora le norme contenute nella legge di Stabilità rispetto ai precari sarebbero tutte diverse e confermerebbero e stabilizzerebbero i posti di lavoro senza distribuire fondi a pioggia alle imprese, ma vincolandoli alle assunzioni» replica ancora la leader della Cgil, Susanna Camusso, parlando da Bologna nel corso di una manifestazione.
Infine, tornando a Renzi, il premier dedica un passaggio dell’intervista lla radio anche al capo dello Stato. «Invece di tirare Giorgio Napolitano per la giacchetta è meglio varare le riforme per rispondere ai suoi appelli», dice in sintesi Renzi, tornando a commentare le possibili dimissioni al Quirinale. «Il presidente della Repubblica è un galantuomo di grande levatura - sottolinea-, nel 2013 tutti i partiti politici nell’incapacità di trovare un successore lo hanno pregato di avere un nuovo mandato, lui ha accettato, ha fatto un discorso durissimo sulla necessità di fare le riforme e tutti hanno applaudito. Quando dico che bisogna fare la legge elettorale e le riforme velocemente è perché se quel messaggio di Napolitano deve essere preso sul serio, il presidente della Repubblica ha il diritto di vedere il Parlamento discutere le riforme». «Che prima o poi decida di lasciare sta nelle cose, deciderà lui -aggiunge il premier - nessuno ha il diritto di tirargli la giacchetta, nemmeno io anche se spero che resti il più a lungo possibile. Ma quando deciderà dovrà avere ila gratitudine di tutti perché in alcuni momenti senza Napolitano il Paese sarebbe stato in difficoltà».
Il Jobs Act passa alla Camera (25 novembre 2014).
Sì della Camera al Jobs act, che ora torna al Senato. Poco prima della votazione finale, tutti i deputati dell'opposizione - Forza Italia, lega e M5S oltre alla minoranza del Pd - hanno lasciato l'aula e non hanno partecipato alla votazione. Il provvedimento è passato con 316 sì e 6 no. Quaranta deputati del Partito democratico (su un gruppo di 307 componenti) non hanno votato il Jobs act, due hanno detto no al testo, altri due si sono astenuti. I no sono quelli di Giuseppe Civati e Luca Pastorino. Astenuti i civatiani Paolo Gandolfi e Giuseppe Guerini. Hanno votato no rimanendo in Aula anche Francesco Saverio Romano di Forza Italia e Gianni Melilla di Sel, mentre Massimo Corsaro, di Fratelli d'Italia-An, ha votato sì in dissenso dal gruppo. Nel provvedimento sono stati precisati i termini delle tutele previste per i casi di licenziamenti per motivazioni economiche o disciplinari. Innovazioni, rispetto a quanto previsto dallo Statuto dei lavoratori, che riguardano le nuove assunzioni a tempo indeterminato, "a tutele crescenti" e che dovranno essere declinate nei decreti attuativi che, secondo gli impegni assunti dal Governo, dovranno entrare in vigore con l'inizio del 2015. È stata così esclusa «per i licenziamenti economici la possibilità di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l'anzianità di servizio» e limitato «il diritto di reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato. Trenta deputati del dem hanno firmato un documento in cui spiegano le ragioni per cui non hanno partecipato al voto finale. Nonostante le modifiche apportate alla Camera, l'impianto della delega sul lavoro, viene spiegato, non è soddisfacente. Tra i firmatari figurano Cuperlo, Bindi, Boccia, Zoggia, D'Attorre. Pippo Civati ha invece ha ribadito in aula il «profondo dissenso al voto del gruppo di cui faccio parte». «Il tema era dare un segno che si capisse all'esterno. Secondo me o si vota contro o si esce il messaggio è uguale». «Nella delega non vi è alcun disboscamento dei contratti precari: i punti sul lavoro dipendente sono punti di arretramento rispetto al diritto dei lavoratori», ha affermato Fassina. «Si continua - ha aggiunto - a insistere sulla precarizzazione del lavoro per favorire la crescita: questo è disarmante, dopo tutto quello che è successo in questi anni non si capisce che è una ricetta fallita».
Fassina ha riconosciuto che la mediazione ha migliorato il testo «ma - ha sottolineato - restano valutazioni negative sui punti decisivi». Mancano ad esempio le risorse per le politiche attive e passive, e gli stessi fondi per gli ammortizzatori nel 2015 sono meno di quelli per la cassa integrazione in deroga nel 2014. Critiche anche alle norme sui licenziamenti, sul demansionamento e sui controlli a distanza. «Non parteciperò al voto - ha detto D'Attorre - perché nonostante il lavoro meritevole della commissione l'impianto della delega non è ancora soddisfacente ed è irrisolto il nodo delle risorse per gli ammortizzatori sociali». Cartelli in Aula di M5S durante il dibattito finale. Al termine dell'intervento di Davide Tripiedi tutti i colleghi di gruppo hanno esposto dei fogli con la scritta «Licenziact». La presidente Laura Boldrini ne ha ordinato la rimozione ai commessi. «Il Jobs Act è contro i diritti dei lavoratori e inutile per l'occupazione. Serve posizione netta di tutti quelli che non lo condividono. Lo scrive su twitter il coordinatore nazionale di Sel Nicola Fratoianni rivolgendosi ai parlamentari del Pd.
RENZI AL CNA: CE LA POSSIAMO FARE (30 novembre 2014).
«Ciascuno di voi è un imprenditore, un artigiano, un lavoratore. Sa perfettamente che partire la mattina con il grido “tanto non ce la faremo mai”, non è soltanto frustrante, rende impossibile l’impresa. Chi la mattina si alza e prova a fare il suo mestiere, e lo fa mettendosi in gioco tutto, è un eroe dei tempi nostri, è un eroe della quotidianità». Così il premier Matteo Renzi nel messaggio inviato questa mattina all’assemblea della Cna, la confederazione dell’artigianato e della piccola e media impresa. «Ed è a queste persone che io rivolgo il mio saluto e anche il mio appello: dateci una mano a cambiare l’Italia». «Ce la faremo perché siamo più forti della crisi, più forti della paura, più forti anche delle debolezze che ha il sistema Paese. Questo non significa negare i problemi. Quelli che dicono “Ah, ma dobbiamo nascondere la polvere sotto al tappeto” sbagliano. Però sbaglia profondamente tanto chi punta sulla rassegnazione, sul pessimismo, chi dice tanto non ce la faremo mai ... Per la prima volta lo Stato dimagrisce anzichè ingrassare. La riduzione delle tasse come un inizio di un processo rivoluzionario, questo è il nostro obiettivo» dice il presidente del Consiglio parlando di «una riduzione di 18 miliardi di tasse». «Non soltanto gli 80 euro per i lavoratori dipendenti, pubblici e privati, ma anche un abbassamento dell’Irap, una semplificazione delle procedure, la possibilità per chi dal primo gennaio creerà posti di lavoro a tempo indeterminato per i primi tre anni di non pagare i contributi. Un investimento cioè sul futuro, sul domani del nostro Paese ... La nostra parte - rileva - la facciamo semplificando il sistema fiscale rendendolo più semplice, anche perché vorrei vedere come si fa a renderlo più complicato il sistema fiscale italiano. Modificando il sistema della giustizia civile con il tribunale delle imprese, per dire “sì sì” o “no no” senza farla troppo lunga, intervenendo su una burocrazia, vi parla un ex sindaco, che stritolerebbe anche un leone». «L’Italia oggi è divisa tra chi pensa che di fronte ad un problema si debba urlare più forte e alimentare il problema per creare ancora più tensioni e chi invece, rimboccandosi le maniche, facendo il proprio pezzo di strada questo paese lo rimette in gioco. Quelli siamo noi, quelli siete voi, quella è l’Italia che porterà il Paese fuori dalle sabbie mobili dal pantano». «Siamo a Palazzo Chigi a lavorare anche noi. Meno male, potrete dire; era ora, dirà qualcun altro. In ogni caso quello che caratterizza noi e voi e quello che è molto semplice, è l’idea che questa volta ce la facciamo e non è un problema di gufi o di pessimismo», conclude Renzi.
Camusso a Renzi: «Imprenditori eroi? Renzi lo dica ai lavoratori»
«Il futuro di un Paese non può essere fatto da eroi, ma da persone normali. Quando si indicano degli eroi, bisogna indicare persone che fanno cose straordinarie». Lo ha detto il segretario Cgil, Susanna Camusso: «Il premier dovrebbe ricordarsi che se gli imprenditori hanno attraversato questa crisi è perché c’erano i lavoratori con i loro sacrifici».
«Penso che gli eroi siano i lavoratori che continuano a lavorare nonostante ogni giorno si sentano più ricattati e tutti quelli che non prendono lo stipendio da mesi e mesi, ma continuano a recarsi sul posto di lavoro», ha aggiunto Camusso, sottolineando poi: «Definire eroi coloro che da tanto tempo in questo paese hanno smesso di essere la spinta propulsiva, non hanno investito, continuano a chiedere risorse, fanno poca iniziativa, mi sembra sbagliato».
RUSSIA: in vista crisi economica (3 dicembre 2014).
Recessione»: per la prima volta lo ammette anche il governo russo. La missione di dare la notizia negativa, dopo il lunedì nero del rublo, è stata affidata al viceministro per lo Sviluppo economico Alexey Vedev: per il 2015 si stima di una flessione del Pil dello 0,8%, addio alla vecchia previsione di crescere dell’1,2%. La revisione si deve al «calo dei prezzi del petrolio e alla svalutazione del rublo, che hanno prodotto effetti inflazionistici». Tutte le stime girano al peggio: il rublo nel 2015 ha una prospettiva di 49 per un dollaro (invece di 37,7), la fuga dei capitali accelera (90 miliardi di dollari contro i 50 previsti), l’inflazione corre (al 7,5% invece del 5,5%). E sono valutazioni ancora troppo prudenti, basate su un prezzo medio del barile tra 100 e 80 dollari: siamo già sotto i 70. Il rublo ieri ha segnato un nuovo minimo storico (54 per un dollaro Usa), 2,78 punti in meno in un solo giorno, il 35% in meno dall’inizio dell’anno nonostante la Banca Centrale abbia speso quasi 100 miliardi per sostenere il cambio. Il ministero del Tesoro aggiunge un altro dato inquietante: si metterà mano al Fondo di riserva. «È già deciso, resta da capire quanto», dice l’alto responsabile del Tesoro Maxim Oreshkin, che non esclude di spendere più di 10 miliardi di dollari del “tesoretto” accumulato negli anni del superbarile. Sono già partiti ulteriori tagli al bilancio, e il Kommersant rivela che il governo ha deciso di non inviare alle regioni aiuti per adempiere ai “decreti di maggio”, aumenti di salari e welfare ai dipendenti pubblici varati da Putin nel 2012. Il tempo delle vacche grasse è finito, e mentre dalle province russe arrivano le prime notizie di tagli di stipendi a medici e insegnanti: anche Putin è costretto ad adeguarsi e ieri ha bloccato l’indicizzazione delle retribuzioni dei dipendenti del Cremlino. Che sono comunque cresciute del 18% quest’anno, contro la media nazionale del 6%. Le istituzioni internazionali già a gennaio davano la Russia intorno allo zero, e la recessione era stata pronosticata dall’allora ministro dell’Economia Andrey Belousov nel 2013: il motore della spesa pubblica basata sul petrolio si era esaurito, aveva detto, e la mancanza di riforme di un’economia monopolizzata, arretrata, corrotta e burocratizzata impediva un rilancio. Le sanzioni per l’Ucraina e il calo del greggio hanno solo accelerato il declino di un Paese che si scopre ancora una volta un emirato con la neve. E il trend è aggravato da quella che Konstantin Sonin, della Scuola superiore di economia di Mosca, chiama «una catena di errori politici», come le contro-sanzioni sugli alimentari occidentali: «Non avevano - dice- alcun senso economico e hanno colpito il consumatore nazionale molto più del produttore estero». La fine dell’era del barile d’oro mette a rischio anche il consenso sul quale si fondava il regime putiniano. I grandi marchi occidentali, da Ikea a Apple - che ha fermato per due giorni il suo online store russo per riscrivere i cartellini - hanno aumentato i prezzi fino al 20% per contrastare la svalutazione, un colpo allo shopping natalizio dei più abbienti. Intanto i poveri pagano l’embargo alimentare: mentre gli oligarchi riescono comunque a procurarsi il fois gras e il parmigiano, la carne e i latticini europei - meno costosi di quelli russi, garantiscono un terzo del mercato - sono spariti. Perfino il governo stima l’aumento dei prezzi del cibo, al 12%. Una «tempesta perfetta», dice Anders Aslund, uno dei maggiori esperti mondiali di economia russa, che profetizza una recessione addirittura del 4-6%. La dichiarazione ufficiale circa il raffreddamento del PIL russo nel prossimo anno arriva peraltro a poche ore di distanza da un altro annuncio non meno importante, ovvero la "ritirata" della Russia dalla guerra del gas, con la sospensione dei lavori per il celebre gasdotto da 45 miliardi di dollari South Stream a causa dei veti europei e bulgari. Il viceministro dell'Economia Alexei Vedev ha dichiarato ai giornalisti che il governo spenderà 40 miliardi di rubli (circa 600 milioni di euro, ovvero lo 0,036% del PIL) per tamponare i problemi di OAO Gazprombank, la terza banca russa e obiettivo chiave delle sanzioni occidentali, stando a quanto scrive Business Week. A causa dei conflitti in corso con l'Ucraina, l'Unione Europea e gli Stati Uniti hanno entrambi bloccato certe importazioni russe e hanno congelato asset di alcuni oligarchi russi, mentre gli Stati Uniti hanno anche bloccato gli affari delle maggiori sei banche russe e le quattro maggiori compagnie energetiche, stando al dipartimento di Stato USA. La Russia ha risposto a queste bloccando l'importazione di prodotti dall'Europa. Un funzionario del Dipartimento di Stato USA ha dichiarato a Reuters che il Segretario di Stato John Kerry avrebbe discusso ulteriori sanzioni contro la Russia con i partner europei nel corso di questa settimana nel caso in cui la violenza in Ucraina dovesse continuare ad aumentare. Dopo due mesi di relativa calma a seguito di un cessate il fuoco firmato tra il governo ucraino e i separatisti a Minsk, in Bielorussia, i combattimenti si sono riaccesi di recente nei territori sotto controllo separatista nell'Ucraina orientale. È notizia di martedì, tuttavia, che un altro cessate il fuoco è stato accettato "in linea di principio" da Kiev e dai separatisti sotto la supervisione dell'OSCE. La NATO ha ripetutamente accusato la Russia di essere direttamente coinvolta nelle ultime esplosioni di violenza in Ucraina e i leader occidentali hanno fatto pressioni sul presidente russo Vladimir Putin affinché si muova per raffreddare la situazione o, per dirla come il primo ministro canadese Stephen Harper, "ad andarsene dall'Ucraina". Come già detto continuano le pressioni sul rublo, fomentando la possibilità che il Paese possa assistere a fiammate inflazionistiche, anche considerando che la Banca Centrale russa, dopo aver praticamente bruciato diverse decine di miliardi di dollari delle riserve nel tentativo di sostenere la moneta, ha praticamente rinunciato alla sua difesa.
Si tratta infatti di miliardi preziosi, nel caso in cui lo stand-off con l'Occidente dovesse protrarsi a lungo e se i prezzi del petrolio, come si ritiene, dovessero rimanere bassi per un periodo di tempo relativamente lungo.
JOBS ACT CHIESTA LA FIDUCIA AL SENATO (3 dicembre 2014).
Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha posto la fiducia in Aula al Senato sulla delega al governo per la riforma del lavoro, il cosiddetto Jobs act. L’avvio della prima chiama è previsto per le 19 e l’esito del voto entro le 20.30. Con l’ok del Senato senza modifiche al testo già approvato dalla Camera, il Jobs act diventa legge.
Dal Pd la senatrice Lucrezia Ricchiuti ha già annunciato ieri il suo «no» alla fiducia, contro cui si erano espressi diversi senatori dem della minoranza. In 27 oggi hanno annunciato che voteranno sì, ma soltanto per «senso di responsabilità» e che saranno «vigili» sui decreti attuativi. «Abbiamo rilevato - ha spiegato il senatore Federico Fornaro - che il testo ha avuto alcuni miglioramenti, pur rimanendo però tante criticità. Ma voteremo la fiducia anche con la consapevolezza che un comportamento diverso avrebbe determinato una crisi di governo. Perché il mancato voto alla fiducia ha un peso maggiore rispetto a uscire dall’aula sul voto del provvedimento».
«Il testo che arriva a conclusione è stato significativamente cambiato e migliorato», ha detto il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, nell’aula di Palazzo Madama. «Si tratta di «un dato che va assunto e riconosciuto. Questo è il riconoscimento del lavoro fatto dal Parlamento e che il Governo accoglie positivamente».
Il ministro ha poi assicurato che «il Governo nei decreti delegati terrà nella giusta considerazione il lavoro del Parlamento e le considerazioni espresse». Poletti ha inoltre sottolineato «l'importanza essenziale» che il Governo annette al Jobs act. E ha poi ammesso che si tratta di un «passaggio difficile, pieno di tensioni e di difficoltà, consapevoli che su molti contenuti, come gli ammortizzatori, c'è consenso e condivisione». Per il ministro, le risorse nella legge di Stabilità sono «fondamentalmente vicine alle esigenze per affrontare il tema che abbiamo di fronte» della estensione degli ammortizzatori sociali. Poletti ha ricordato che ci sono 2 miliardi in legge di Stabilità cui sono stati aggiunti 200 milioni nel 2015 e nel 2016 a cui si sommano 1,4 miliardi del fondo occupazione. Di questi 700 milioni sono per gli ammortizzatori sociali in deroga sui quali c'è, ha ricordato, un decreto che ha «stretto la loro utilizzabilità».
Un corteo contro il Jobs act stamattina ha più volte tentato di forzare il cordone degli agenti per arrivare al Senato. La polizia ha caricato i manifestanti parlando di «intervento di contenimento». I tafferugli sono continuati nel pomeriggio, con lanci di uova contro gli agenti e nuove cariche.
Standard and Poor’s declassa l'Italia (6 dicembre 2014).
Schiaffo di Standard and Poor’s all’Italia. Ed è uno schiaffo che fa male, perché il downgrade deciso dall’agenzia finanziaria statunitense porta il rating del nostro Paese quasi al livello «spazzatura»: BBB- da BBB. Solo un gradino più in alto del livello “junk”. L’outlook sulle prospettive economiche è invece «stabile».
Un colpo duro da incassare in un momento di massimo sforzo del governo Renzi sul fronte delle riforme. «Non è una bocciatura del Jobs Act», si appresta a commentare Palazzo Chigi: «Ci dicono che le riforme vanno bene, ma che bisogna andare più veloci», che ci sono «elementi buoni nelle riforme ma non tali da compensare il debito e risvegliare a breve l’economia». Ma al di là delle reazioni ufficiali, chi ha avuto modo di sentire Matteo Renzi dopo che la scure di SandP si è abbattuta sul nostro Paese parla di un premier amareggiato, che non avrebbe nascosto la sua delusione per il trattamento inflitto a un’Italia che sta tentando in tutti i modi di imboccare con decisione la strada del cambiamento.
«Lo spread è sceso sotto i 120 punti - aveva detto il premier in giornata - ma essendo una buona notizia, non va oltre i trafiletti. Solo per ricordare: eravamo a 200 nove mesi fa. Duecento».
Standard and Poor’s spiega come a pesare sulla sua decisione sia stato un mix di preoccupazioni tra una crescita molto bassa e un debito pubblico ancora enorme. «Secondo i nostri criteri - scrivono gli analisti dell’agenzia - un forte aumento del debito, accompagnato da una crescita perennemente debole e da una bassa competitività non è compatibile con un rating BBB». Certo, lo sforzo sul fronte delle riforme viene riconosciuto: «Prendiamo atto che il premier Renzi ha fatto passi avanti col Jobs Act», si spiega nel rapporto di SandP, in cui però si esprime un certo scetticismo: «Non crediamo che le misure previste creeranno occupazione nel breve termine’’. E i «decreti attuativi» della riforma - si aggiunge - potrebbero «essere ammorbiditi», e ciò «potrebbe accadere alla luce di una opposizione crescente».
Dal Tesoro non arrivano commenti ufficiali. Ma in realtà il ministro Pier Carlo Padoan aveva già detto la sua in giornata: «Il nostro debito è sostenibile», e per capirne la sostenibilità «occorre guardare al surplus primario, che solo la Germania con l’Italia ha mantenuto positivo». E se il nostro debito dovesse salire - spiega Padoan - non è colpa dell’Italia. Se ci fosse un’inflazione in equilibrio all’1,8%, una crescita reale dell’1% e una crescita nominale di circa il 3%, il debito pubblico sarebbe in un sentiero di discesa rapidissimo».
LA RUSSIA IN GRAVE CRISI (17 dicembre 2014).
La situazione del rublo è «critica» e «nemmeno nel peggiore degli incubi ci si sarebbe potuti aspettare un anno fa quello che sta avvenendo ora». A dirlo il numero due della Banca centrale russa, Sergey Shvetsov, secondo quanto riporta l’agenzia russa Interfax. «Dopo la misura di aumentare i tassi - ha aggiunto Shvetsov - seguiranno altre misure». Ma assicura Dmitri Medvedev: «La Russia dispone delle risorse monetarie necessarie per arrestare la crisi determinata dal crollo della moneta, senza minare i principi dell’economia di mercato». Il primo ministro ha convocato un vertice ministeriale con i capi delle maggiori società esportatrici illustrando un «pacchetto di misure» straordinarie.
Nel tardo pomeriggio arriva un deciso recupero per la borsa di Mosca e per il rublo dopo la tempesta degli ultimi due giorni. L’indice Rts dell’azionario di Mosca mette a segno un balzo del 15%, ai massimi di seduta, compensando il tonfo di ieri del 13%. In buon recupero anche il rublo. La valuta recupera quasi l’11% nei confronti dell’euro con un cross che torna sotto quota 80. Anche il cambio con il dollaro migliora a 62,50.
Le borse europee chiudono contrastate, ma in deciso recupero rispetto ai minimi di giornata. A risollevare gli indici hanno contribuito le nuove misure annunciate dalla banca centrale russa per contrastare il crollo del rublo e l’esplicita apertura all’acquisto di titoli di Stato manifestata dal consigliere esecutivo della Bce Benoit Coeure. Salgono sopra la parità l’indice Cac 40 di Parigi (+0,46% a 4.111,91 punti), l’Ftse 100 di Londra (+0,07% a 6.336,48 punti) e l’Ibex di Madrid (+0,05% a 10.086,6 punti). Restano negative Francoforte (Dax -0,2% a 9.544,43 punti) e Milano, che indossa la maglia nera con l’indice Ftse Mib in calo dello 0,54% a 18.569,03 punti per via dei forti ribassi del comparto bancario.
Code di sovietica memoria ieri nei grandi centri commerciali per spendere il maggior numero possibile di rubli nel timore che perdano ulteriore valore, come successe nel 1998, alla vigilia del default. La gente ha assaltato gli shopping center affrontando file anche di cinque ore nella notte, lasciando molti scaffali vuoti. Secondo il quotidiano Vedomosti, a causa del crollo del rublo i grandi distributori di auto straniere hanno sospeso la fornitura ai concessionari, che a loro volta hanno congelato le vendite.
Come riporta Interfax non ci sono più euro né dollari in alcune banche minori e i rappresentanti degli istituti di credito ritengono «improbabile che tali valute ritornino nelle prossime 24 ore». Un dollaro, alla cassa della banca Bks, costa 92,99 rubli e un euro 107,99 più una commissione del 2% su acquisti fino a mille dollari o mille euro. Solo nelle banche maggiori, come Sberbank e Vtb 24, le valute estere si possono trovare ancora senza problemi e limitazioni. A Khabarovsk, al confine con la Cina, un certo numero di bancomat con valuta, ieri, hanno bloccato le operazioni di ritiro e si è registrato un deficit non solo di dollari ed euro, ma anche di yuan e yen. Nel «martedì nero» del rublo, il quotidiano Kommersant ha fatto una ricognizione in una decina di sportelli degli istituiti di credito sparsi per Mosca e ha riportato limiti alle operazioni non in contanti e alla vendita di dollari ed euro. In una filiale di Rosbank, ad esempio, non si davano oltre i 100 euro o i 300 dollari. Le banche - scrive sempre Kommersant - hanno iniziato a rivedere a rialzo i tassi di interesse sui prestiti, anche retroattivamente, mentre c’è chi parla di situazione «vicina all’isteria».
Intanto la crisi del rublo colpisce anche Apple. Il colosso americano ha bloccato le vendite online a causa della fluttuazione eccessiva della moneta. «Il nostro negozio online in Russia non è raggiungibile mentre stiamo cambiando i prezzi - ha detto Alan Hely in una nota -. Ci scusiamo con i clienti per l’inconveniente». Apple aveva già cercato di gestire il deprezzamento del rublo. Il mese scorso aveva aumentato il prezzo dell’iPhone 6 del 25%.
A causa della forte svalutazione del rublo, i grandi distributori di auto straniere in Russia hanno sospeso la fornitura ai concessionari, dove le vendite sono state messe in standby per alcuni giorni. A riferirlo è il quotidiano economico Vedomosti. Secondo il personale di alcuni dei principali rivenditori, le operazioni di vendita sono «completamente sospese» e i concessionari hanno smesso di comprare Bentley, Volkswagen e Jaguar Land Rover. Tutte e tre le case automobilistiche avrebbero congelato le consegne fino a una revisione dei prezzi. Per ora non ci sono commenti ufficiali alla notizia. Molti russi si sono precipitati a comprare elettronica, abbigliamento e automobili straniere nella paura che i prezzi possano aumentare drasticamente con l’avvicinarsi dei giorni di festa e che il rublo possa scivolare ancora più in basso.
La situazione è critica e rischia di avere ripercussioni drammatiche sulla popolazione. E a lungo andare potrebbe addirittura mettere sotto pressione il leader del Cremlino Vladimir Putin, la cui popolarità in patria resta comunque altissima. Lo “zar” è infatti il fautore della politica aggressiva che ha portato alle sanzioni occidentali contro la Russia. Ma è anche colpevole di non aver diversificato nei 15 anni in cui è stato al potere l’economia russa, ancora troppo dipendente dalle esportazioni di petrolio e gas. E quindi messa letteralmente ko dal crollo del prezzo del greggio. L’attuale contesto finanziario a Mosca e dintorni desta preoccupazione - se non addirittura panico - tra i risparmiatori, che si affrettano a comprare valute straniere temendo un tracollo del rublo che polverizzi i loro risparmi. L’uomo forte di Mosca ieri non ha pronunciato una sola parola sulla crisi economica, ma i russi si attendono da lui delle risposte concrete in una conferenza stampa fissata per giovedì.
LA FORZA DELLA RUSSIA (18 dicembre 2014).
La Russia è un orso che sta proteggendo il proprio territorio. «Vogliono che stia seduto tranquillo a mangiare bacche e miele, ma tentano di metterlo in catene, di togliergli denti e artigli. Questo è il deterrente nucleare». Vladimir Putin non lo accetta. «Se gli strappano denti e artigli, l’orso non sarà più in grado di fare nulla, sarà solo un animale impagliato. E invece noi cerchiamo di mantenere la nostra sovranità».
Putin al contrattacco a tutto campo, alla sua maniera. Non pronuncia la parola crisi ma parla solo di «turbolenze sui mercati» e di «situazione difficile», provocata da «cause esterne» - prima tra tutte il calo del petrolio - da cui il Paese uscirà ancora più forte. Non è certo un uomo al centro di una “tempesta perfetta” quello che ieri si è presentato a Mosca davanti a più di mille giornalisti, alle telecamere e ai propri concittadini per rassicurarli, dopo essere rimasto in silenzio nei giorni in cui il rublo crollava. Non ha chiarito bene come intende uscirne, non ha fatto marcia indietro sull’Ucraina, non si è mostrato più morbido per ottenere qualche sconto sulle sanzioni occidentali. Ai russi dovrebbe bastare la sua parola e vederlo al comando della situazione, finora sono stati abituati così:?«Una svolta positiva è inevitabile», ha ripetuto lo zar.
Senza neanche aspettare la prima domanda della tradizionale, lunga e attesissima maratona televisiva che concede a ogni fine d’anno, il presidente russo si è messo a elencare una serie di dati economici per sminuire la portata di quelli negativi. Il petrolio a 60 o 40 dollari, non è quello che importa. Se dovesse andare avanti così, ha concesso Putin mettendo le mani avanti, all’economia russa occorreranno due anni per adattarsi a livelli simili del greggio, per diversificare e ridurre la dipendenza.
Quanto al presente, Putin ha definito «adeguato» l’intervento della Banca centrale, che nella notte di lunedì ha aumentato drasticamente i tassi di interesse dal 10,5 al 17% per difendere il rublo. Se però si fosse agito prima in modo più decisivo, ha detto Putin chiamando in causa anche il governo (frase in cui qualcuno legge un brutto segnale per il premier Dmitrij Medvedev), ci si sarebbe potuti risparmiare un aumento così drastico dei tassi. Mercoledì la Banca centrale ha annunciato una serie di misure a sostegno del sistema bancario (iniezioni di liquidità, allentamento dei requisiti sui capitali, la prospettiva di una ricapitalizzazione). Parallelamente, il governo ha chiesto ai grandi esportatori di ridurre entro marzo le loro disponibilità in dollari e in euro, riportandole ai livelli di inizio ottobre. Convertendole dunque in rubli. Ma «non li costringeremo con dei decreti», ha sottolineato Putin.
Qualcuno tra i giornalisti gli ha chiesto se non teme un colpo di Stato:? «Il Cremlino è ben difeso!», ha sbottato Putin che in più di tre ore di chiacchierata si è lasciato andare anche a “confidenze” sulla propria - felice - vita affettiva. E si è detto certo di avere l’appoggio dei russi, là dove molti temono invece che le difficoltà economiche stiano iniziando a intaccare la sua popolarità. «La stabilità - ha detto il presidente russo - è basata - e non c’è base più forte - sul sostegno del popolo russo alla nostra politica estera e interna. Sanno che agiamo nel loro interesse».
Se l’economia è stata al centro della conferenza stampa, il tema dell’Ucraina non le era mai troppo lontano. E su questo fronte Putin ha voluto dimostrare che nessuna crisi lo piegherà di fronte all’Occidente. Gli Stati Uniti, ha detto, si servono del conflitto in Ucraina per contenere la Russia, così come hanno fatto dalla fine della guerra fredda. «Il muro di Berlino è crollato - ha detto Putin - ma si costruiscono nuovi muri nonostante i nostri tentativi di cooperare. L’espansione della Nato non è forse un muro, un muro virtuale?».
«I?nostri partner - ha continuato - si vedono vincitori, un impero. Tutti gli altri sono vassalli che devono essere sottomessi». Non piace loro che l’orso russo intenda difendere i propri interessi nazionali. «Noi non attacchiamo nessuno - ha detto Putin -. Ci sono basi Usa in tutto il mondo, noi ne abbiamo solo due all’estero, in Khirghizstan e Tajikistan. Spendiamo dieci volte meno del Pentagono, il budget del nostro ministero della Difesa per l’anno prossimo è di 50 miliardi di dollari in totale. E gli aggressivi saremmo noi?».
Approvata la legge di stabilità (20 dicembre 2014).
Via libera del Senato al maxi emendamento alla legge di stabilità: alla fine di una maratona notturna e poco prima delle cinque della mattina il governo ha ottenuto il voto di fiducia con 162 sì e 37 no. Una notte a Palazzo Madama scandita dalla proteste accese delle opposizioni, che accusano il governo di aver presentato un testo pieno di errori. Il M5S chiede il rinvio in commissione del provvedimento e alla fine non partecipa al voto («ci chiedete di votare Topolino», attacca Giuseppe Vaccaro) mentre Forza Italia abbandona i lavori dell’Aula di Palazzo Madama. «Non possiamo partecipare - dice il capogruppo azzurro intervenendo in Assemblea - ad una delle pagine peggiori della vita parlamentare italiana». Poi però i senatori azzurri rientrano nell’emiciclo annunciando voto contrario.
Stanotte il Senato ha fissato in aula il calendario della riforma elettorale, la cui discussione generale inizierà mercoledì 7 gennaio alle ore 16. La decisione è stata presa dopo l’approvazione della legge di stabilità. Il numero uno del governo Matteo Renzi ha ringraziato i senatori con un tweet, poi si è lasciato andare ad alcune considerazioni: «Abbiamo stoppato l’assalto alla diligenza e messo in cantiere la legge elettorale. Indietro non si torna» spiega a proposito di «una partita che era davvero difficile perché erano tornati in campo vecchi appetiti e li abbiamo lasciati a bocca asciutta». Il presidente del Consiglio esprime soddisfazione per una manovra che «toglie 18 miliardi di tasse ai cittadini» e l’”incardinamento” dell’Italicum. Poi un ringraziamento particolare a «Sergio Zavoli, 91 anni, rimasto al suo banco per tutto il tempo».
Oggi il ministro dell’Economia Padoan ha commentato il voto dicendo che il ddl sulla Stabilità è «equilibrato ed efficace. Sostiene la crescita e l’occupazione e rafforza la sostenibilità dei conti». Nel 2015 - ha rassicurato Padoan - «i conti pubblici miglioreranno e questo consentirà di dimostrare ai partner europei e ai mercati che l’Italia è un Paese affidabile». Allo stesso tempo, ha commentato il ministro, «con questa legge abbiamo messo in campo un significativo abbattimento delle tasse che ha pochi precedenti nella storia del Paese, il sostegno allo sviluppo, le risorse per il mercato del lavoro, il finanziamento degli ammortizzatori sociali e degli interventi per l’innovazione».
Stanotte imprecisioni, discrasie, refusi sono stati riconosciuti dallo stesso viceministro all’Economia Enrico Morando: «Il governo accetta e si scusa per gli errori commessi anche nella relazione tecnica ma abbiamo cercato di rendere più leggibile il testo». Sotto accusa infatti finisce il dossier che correda la manovra ma anche lo stesso testo del maxi emendamento che, almeno in parte, viene rivisto durante i lavori dell’Assemblea come spiega il presidente del Senato Pietro Grasso: «si tratta - è la tesi - di drafting e la presidenza si assume dunque la responsabilità di fare correzioni».
Polemiche che fanno slittare di qualche ora il via libera finale al testo (che arriva all’alba). La manovra torna così alla Camera: la giornata di domani sarà dedicata a riordinare le misure e solo nel tardo pomeriggio, alle 19, ci sarà un ufficio di presidenza della commissione Bilancio di Montecitorio che deciderà l’ordine dei lavori. Quello alla Camera, che sarà il terzo e l’ultimo passaggio, si annuncia comunque come un esame lampo: già lunedì è atteso l’ok finale ai documenti di bilancio.
Tra le novità più importanti “blindate” con la fiducia dal Governo nel passaggio parlamentare al Senato ci sono: il blocco della Tasi e il congelamento del canone Rai nel 2015, il credito d’imposta Irap per gli autonomi, il bonus per i fondi pensione e per le casse di previdenza da utilizzare per gli investimenti, l’anticipo della gara di aggiudicazione del gioco del Lotto e le nuove regole sulla tassazione oltre a nuove regole sul patto di stabilità interno per gli enti territoriali. E ancora: la proroga del 55% per le ristrutturazioni e del 65% per il risparmio energetico, la conferma del bonus Irpef da 80 euro anche nel 2015 e detrazioni per le famiglie numerose; la liquidazione del Tfr su base volontaria nella seconda metà del prossimo anno; la cancellazione per tre anni dei contributi per le nuove assunzioni.
Facciamo come gli usa (24 dicembre 2014).
Gli Stati Uniti crescono nel terzo trimestre 2014 del 5% su quello dell’anno precedente, l’Europa stenta a raggiungere l’1%, l’Italia chiuderà il 2014 con un Pil tra -0,3% e -0,4% , e oggi nessuno si azzarda a credere che nel 2015 potrà andare oltre il mezzo punto. Facciamo come gli States, verrebbe da dire. Renzi lo ha twittato subito, dicendo che l’Europa in quanto tale deve cambiare verso, sposando la via della crescita e degli investimenti al posto di quella del rigore. Sembra facile. Fare come l’America significa infatti alcune cose che alla politica antirigorista piacciono ormai per definizione. Ma soprattutto tante altre che alla politica europea, e soprattutto italiana, non piacciono per niente.
Cominciano da quelle “popolari”. Da destra a sinistra in Italia oggi molttissimi ripetono che la cosa che più ci manca per “fare come l’America” è una bella banca centrale che usi il torchio monetario e batta moneta a palate, e quando non basta compri carrettate di titoli privati, bancari e pubblici per sostenerne il prezzo e il reddito che ne ricavano i possessori. Ah, se la BCE di Mario Draghi lo capisse e decidesse di fare come la FED!
E’ facile? Non si tratta di volontà della BCE, visto che gli statuti e gli obiettivi delle due banche centrali sono diversi. La FED ha come obiettivo il miglior tasso di crescita non inflazionistico con la più elevata occupazione e utilizzo degli impianti ottenibile rispetto a quella potenziale ma tale da non arroventare i prezzi. La BCE ha invece come obiettivo la stabilità dell’euro e un’inflazione non oltre il 2%. Bisognerebbe dunque modificare l’obiettivo della BCE cambiando il Trattato europeo e lo statuto. E passare dall’inflazione annua al 2% – che la BCE come si vede non riesce a garantire – a un obiettivo costituto dal prodotto nominale, cioè dalla somma dell’andamento del Pil reale più l’inflazione anzi oggi meno, visto che il rischio deflazionistico è realtà. Solo in quel caso, potremmo avere una BCE iper interventista sui mercati come la FED, che è arrivata ad avere asset per 4 trilioni di dollari nel suo bilancio mentre la BCE stenta oggi a passare da 1 trilione di euro a 2.
Praticamente si ferma a questo, il ritornello anti-euro che indica il modello americano come quello da seguire. Ma la crescita “reale” americana si deve solo in minima parte all’euforia di Borsa grazie agli acquisti FED, con l’indice DOW che sfonda il tetto di quota 18mila e macina massimi storici ogni 3 mesi. Se osserviamo che cosa spinge verso l’alto gli Stati Uniti nel terzo trimestre, la componente più significativa sono i consumi. Quelli delle famiglie crescono più del 3% (e la componente più elevata si deve alla spesa per regolarizzarsi nello schema sanitario Obamacare). E quelli delle imprese crescono stellarmente in alcuni settori “sensibili” alla fiducia in una ripresa ormai solida, come attesta il +11% nei nuovi macchinari e il +8,8% in ricerca, sviluppo e software.
Il fatto che negli States i consumi “tirino” il Pil molto più che da noi dipende storicamente dal fatto che è quella la molla essenziale per ogni paese-impero, non l’export come nel nostro caso di piccola nazione trasformatrice. Ma quel che conta di più è l’assenza di alcuni potenti disincentivi che invece da noi frenano velocità e intensità con cui i consumi possono ripartire. Quei disincentivi sono essenzialmente il maggior peso dello Stato del nostro modello economico europeo, e massime poi di quello italiano.
La media delle entrate federali sul PIL USA è del 17,4% tra il 1974 e il 2014 (sommando quelle statali e locali si supera il 30%), e quella delle spese federali è del 20,5% con una punta fino al 25% nel 2009 per effetto della crisi (nel 2009-2010, sommando spese degli Stati e locali si è giunti al 37%). In Italia il totale delle entrate è tra il 48 e il 49% del Pil, e la spesa tra il 50 e il 51%.
Da noi per preservare il rientro del deficit pubblico scattano automaticamente aumenti di tasse, e anche il governo attuale tra 2016 e 2018 prevede 30 miliardi di IVA e accise aggiuntive. Negli Stati Uniti, il debito pubblico non può aumentare a piacere come da noi ma c’è un limite quantitativo votato dal Congresso: se si sfora, scatta automaticamente non l’aumento delle tasse ma il cosiddetto sequester della spesa pubblica, cioè voci intere per punti di Pil della spesa pubblica vengono in alcuni casi congelate, e in tanti altri si riducono automaticamente e drasticamente. Nel 2013 è accaduto: statalisti e keynesiani dissero che in quel modo l’America si sarebbe piantata. Invece grazie a secche riduzioni di spesa automatiche il deficit federale è sceso da oltre l’11% a meno del 5%, e oggi scenderà ancora, grazie alla ripresa travolgente del Pil che è seguita ai tagli di spesa senza aumenti di tasse.
Al contempo, se in questi ultimi mesi grazie alla creazione di oltre 250 mila nuovi posti ogni 4 settimane il tasso di disoccupazione USA è sceso sotto il 6% cioè meno della metà del nostro (un tasso che la FED aveva indicato come soglia oltre la quale tornare a rialzare i tassi, e la scommessa e quando lo farà nel 2015), è anche vero che il tasso di occupazione è sceso al 65% cioè ai minimi dai primi anni Settanta, quando superava il 72%. La nuova occupazione è soprattutto a tempo e a basso costo, e in questo modo le imprese hanno ricostruito i loro margini prima di riscattare in avanti: ma questo fenomeno riguarda tutto il mondo del lavoro USA tranne i settori hi-tech e le posizioni apicali, perché il mercato del lavoro non è ingessato come il nostro tra garantiti e non garantiti. Col risultato che nelle crisi in America si aggrava la differenza di reddito tra chi sta in alto e chi in basso, ma si riparte prima tutti perché le imprese hanno margini di manovra sul costo reale e sul miglioramento del CLUP che a noi sono sconosciuti, per il peso del cuneo fiscale e l’asimmetria delle tutele. Siamo per finta più egualitari degli americani – per finta visto che autonomi e giovani continueranno a non godere delle tutele di chi aveva il vecchio articolo 18 – ma siamo enormemente più lenti a creare nuovi posti di lavoro, perché le imprese sono appesantite da piombo che in America manca.
Infine: gli States hanno lo shale gas e shale oil che in 6 anni ha fatto crescere di 5 milioni di barile-giorno la loro produzione di petrolio equivalente e noi non ce l’abbiamo, e non hanno un fisco rapinoso come il nostro sui carburanti visto che all’altroieri il prezzo medio in USA di un gallone di benzina era di 2 dollari e 39 centesmui, cioè 50 centesimi di euro al litro.
E soprattutto: gli States hanno mercati del lavoro, dei beni e dei servizi con le stesse regole, che funzionano da vasi comunicanti consentendo ad attività e lavoratori di spostarsi a seconda del ciclo e dei prezzi laddove è più vantaggioso. Esattamente ciò che i politici anti-euro, nazionalisti e autarchici come sono, da noi non vogliono neanche se li spari.
.......... settembre - dicembre 2014
Eugenio Caruso