L'arte di oziare


La felicità della tua vita dipende dalla qualità dei tuoi pensieri

Marco Aurelio, Ricordi

Propongo la lettura di questo breve saggio di Lucio Anneo Seneca, che, in alcuni tratti, mi sembra di estrema modernità. Il dialogo è dedicato a Sereno un epicureo che Seneca si propone di convertire allo stoicismo, ma l'intento dell'autore è, specialmente, quello di fornire giustificazioni logiche e morali al suo ritiro dalla vita politica, sopprattutto di fronte agli stoici che sostenevano l'impegno politico del saggio durante tutto il corso della sua vita.

*** Che dire del fatto che è lecito ritirarci presso gli uomini migliori e scegliere un qualche esempio verso il quale orientare la nostra vita? E ciò non accade se non nel ritiro. Allora si può mantenere ciò che si è deciso una volta per tutte, quando non interviene nessuno che distolga, con l’aiuto della folla, un proposito ancora debole; allora la vita – che noi dividiamo in propositi tra loro divergenti – può procedere con un andamento unico e costante.
Infatti tra tutti gli altri mali il peggiore è che cambiamo anche i difetti. Così neppure questo ci tocca, di persistere in un male ormai familiare. Passiamo da una decisione all’altra, e ci tormenta anche questo, il fatto che i nostri giudizi non sono soltanto perversi, ma anche leggeri: siamo in balia dei flutti, afferriamo un appiglio dopo l’altro, abbandoniamo ciò che avevamo desiderato, desideriamo ciò che avevamo abbandonato; è tutto un alternarsi tra il desiderare e il pentirsene.
Dipendiamo totalmente dal giudizio degli altri e ci sembra la cosa migliore ciò che molti cercano e lodano, non ciò che si deve lodare e ricercare; e non consideriamo una via buona e cattiva di per se stessa, ma in base al gran numero di orme. ...
Mi dirai: «Che fai, Seneca? Abbandoni il tuo partito? Sono proprio i vostri stoici che dicono: “fino all’ultimo istante della vita saremo in attività, non cesseremo di impegnarci per il bene comune, di aiutare i singoli, di andar in soccorso anche ai nemici, pur con debole mano senile. Noi siamo quelli che a nessuna età concediamo il congedo, e, come dice quell’uomo eloquentissimo, 'anche vecchi e canuti combattiamo'; noi siamo quelli per i quali a tal punto non c’è alcun momento di inattività, che – se la cosa è possibile – non è inattiva neppure la morte stessa”. Perché esponi i precetti di Epicuro proprio nel bel mezzo dei principi di Zenone? Perché, se provi fastidio per il tuo partito, non diserti del tutto e risolutamente, piuttosto che tradirlo?»
Per il momento ti risponderò così: « Forse dovrei fare qualcosa di più che comportarmi in maniera simile ai miei capi? E dunque, quale conclusione? andrò non dove quelli mi indirizzeranno, ma dove mi guideranno».
Ora ti proverò che non mi allontano dai precetti degli Stoici; infatti neppure essi stessi si sono allontanati dai loro, e tuttavia sarei pienamente giustificato, anche se non seguissi i loro precetti, ma gli esempi. Dividerò quanto sto dicendo in due parti: innanzi tutto come possa uno, anche dalla prima giovinezza, dedicarsi interamente alla contemplazione della realtà, ricercare una norma di vita e metterla in pratica nel ritiro.
In secondo luogo, come possa farlo con pieno diritto uno quando abbia già ultimato il servizio militare, e sia giunto in età avanzata e rivolgere agli altri l’attività dell’animo, come fanno le vergini Vestali, che, ripartite le età in compiti diversi, imparano a compiere i riti sacri e, dopo averli imparati, li insegnano.
Mostrerò che questo è il parere anche degli Stoici, non perché mi sia imposto come legge di non far nulla contro il detto di Zenone e di Crisippo, ma perché la questione stessa mi consente di aderire al loro parere: e se si segue sempre quello di uno solo, non si fa parte del senato, ma di una fazione. Magari tutta le conoscenze fossero già in nostro possesso, e la verità fosse scoperta e fuori di dubbio, e non modificassimo mai nulla dei nostri principi. Ora noi ricerchiamo la verità assieme a quelli stessi che la insegnano.
Le due scuole, quella degli epicurei e quella degli stoici, sono su posizioni lontanissime anche in questo, ma l’una e l’altra indirizzano alla meditazione, pur per strade opposte. Epicuro dice: “Il saggio non si accosterà alla vita pubblica, a meno che non intervenga un fatto eccezionale”; Zenone dice: “si accosterà alla vita pubblica, a meno che un fatto eccezionale non glielo impedisca”.
Il primo si volge all'isolamento per principio, il secondo in seguito a una causa eccezionale, ma quella causa ha un vasto campo di applicazione. Se lo stato è troppo corrotto perché gli si possa portare aiuto, se è in mano ai malvagi, il saggio non si applicherà invano, né si spenderà, sapendo di non poter essere di alcun giovamento, se avrà poca autorevolezza o forza, e lo stato non gli vorrà accordare l’accesso, se la salute lo impedirà, come non metterebbe in mare una nave sfasciata, come non si arruolerebbe, se invalido, così non si accosterà ad un cammino che saprà essere impraticabile.
Dunque anche colui per il quale tutto è impregiudicato, prima che incontri qualche tempesta, può fermarsi al sicuro, e darsi subito all’esercizio della morale, coltivando le virtù, che possono essere praticate anche da chi vive nella più profonda meditazione o isolamento.
Ebbene questo si chiede a un uomo, di giovare agli uomini, se è possibile a molti, se no a pochi, se no ai più vicini, se no a se stesso. Infatti quando si rende utile agli altri, svolge un’attività pubblica. Come chi peggiora se stesso non solo nuoce a sé, ma anche a tutti coloro ai quali avrebbe potuto giovare, se si fosse migliorato, così chiunque rende un buon servizio a se stesso, per questo stesso giova agli altri, per il fatto che prepara chi gioverà loro.
Consideriamo due repubbliche, una grande e veramente pubblica, nella quale sono compresi gli dèi e gli uomini, nella quale non rivolgiamo lo sguardo a questo o a quel cantuccio, ma misuriamo i confini del nostro stato con il movimento del sole; l’altra, cui ci ha assegnato la sorte della nascita; questa sarà o degli Ateniesi o dei Cartaginesi o di qualsiasi altra città, che non riguardi tutti gli uomini, ma un gruppo determinato. Alcuni si danno da fare contemporaneamente per l’una e per l’altra repubblica, quella maggiore e quella minore, alcuni solamente per la minore, alcuni solamente per la maggiore.
A questa repubblica maggiore possiamo servire con zelo anche nell'isolamento, anzi forse meglio, così da ricercare che cosa sia la virtù, se sia una sola o più d’una, se la natura o l’esercizio renda gli uomini buoni; se sia uno solo il corpo che abbraccia i mari, le terre, e quanto vi è all’interno di mare e terre, o se dio ha disseminato molti corpi di tal genere; se sia del tutto continua e piena la materia da cui nascono tutte le cose, o discontinua e il vuoto sia frammisto ai corpi solidi; quale sia la natura di dio, se stando immobile contempli la sua opera, o vi ponga mano, se, del tutto esterno ad essa, l’avvolga all’esterno, o sia immanente al tutto; se l’universo sia immortale o da annoverare tra le cose caduche e destinate a vivere solo per un certo tempo. Chi contempla tali cose, che servizio rende a dio? Che le sue opere tanto grandi non restino senza testimoni.
Siamo soliti dire che il sommo bene consiste nel vivere secondo natura: la natura ci ha generato per tutte e due le attività, per la contemplazione e per l’azione. Dimostriamo ora la prima affermazione.
Alcuni vanno per mare e sopportano le fatiche di un lunghissimo viaggio per il solo compenso di conoscere qualcosa di nascosto e di lontano. Questo fatto richiama le folle agli spettacoli; questo induce a scrutare cercando di penetrare ciò che è precluso, a investigare ciò che è più segreto, a srotolare i volumi del passato, ad ascoltare i racconti sui costumi dei popoli barbari.
La natura ci ha dato un animo desideroso di sapere, e – consapevole della sua abilità e bellezza – ci ha generati spettatori per così grandi spettacoli, destinata – come sarebbe – a perdere il frutto del suo lavoro se mostrasse ad un deserto opere tanto grandi, tanto luminose, tanto accuratamente elaborate, tanto limpide e, per molti aspetti, belle.
Perché tu sappia che essa ha voluto che la contemplassimo, e non le rivolgessimo solamente uno sguardo, considera che posto ci ha asse gnato: ci ha posti al centro di sé, e ci ha concesso di vedere tutt’attorno ogni cosa; e non ha dato solamente la postura eretta all’uomo, ma – per renderlo adatto alla contemplazione, perché potesse seguire il corso degli astri dal sorgere al tramontare, e volgere intorno il suo sguardo insieme con tutto l’universo – gli ha fatto una testa rivolta verso l’alto e l’ha posta su un collo flessibile; quindi, facendo apparire sei costellazioni di giorno e sei di notte, non c’è parte di sé che non gli abbia dispiegato, per fargli nascere il desiderio di conoscere anche tutte gli altri fenomeni, attraverso questi che aveva posto sotto ai suoi occhi.
Non le vediamo infatti tutte né tanto grandi quanto sono, ma la nostra vista si apre la via per investigare e getta le fondamenta per la verità, in modo che la ricerca passi da ciò che è evidente a ciò che è oscuro, e scopra qualcosa di più antico del mondo stesso: da dove sono venuti fuori questi astri; quale fosse la condizione dell’universo prima che i singoli elementi si separassero per formare diverse aggregazioni; quale principio razionale abbia separato le cose ammassate e confuse, chi abbia assegnato il loro posto alle cose; se per loro natura i corpi pesanti sono scesi verso il basso, e quelli leggeri si sono sollevati verso l’alto, o se, indipendentemente dalla spinta e dal peso, una qualche forza superiore abbia stabilito una legge per i singoli corpi; se sia vera l’affermazione – con la quale si proverebbe che gli uomini sono di spirito divino – che una parte e per così dire delle scintille di astri sono cadute sulla terra e si sono fissate in un luogo a loro estraneo.
Il nostro pensiero si apre un passaggio attraverso i baluardi del cielo e non si accontenta di conoscere ciò che si mostra: «Scruto» dice «ciò che si trova al di là dell’universo, se è una profondità sterminata, o se anch’esso è racchiuso all’interno dei suoi confini; qual è l’aspetto delle cose che stanno al suo esterno; se sono informi e confuse, se occupano in ogni direzione la stessa quantità di spazio, o se sono organizzate a costituire un qualche cosmo; se sono unite a questo nostro mondo, o si sono ritirate lontano da questo, ed esso si volge nel vuoto; se atomi indivisibili costituiscono tutto ciò che è nato e che sarà, oppure la loro materia è un tutto unico, e soggetta a cambiamenti nel suo insieme; se gli elementi sono contrari tra di loro, o se invece non lottano tra di loro, ma per vie opposte tendano ad un medesimo fine».
Nato per queste ricerche, considera quanto poco tempo abbia ricevuto l’uomo, anche se lo rivendica interamente per sé. Quand’anche egli non lasciasse che a questo tempo fosse sottratto neppure un attimo per troppa condiscendenza, non fosse portato via neppure un momento per trascuratezza, custodisse le sue ore con la più grande avarizia, e giungesse al limite estremo concesso all’uomo, e la sorte non gli scuotesse via nulla di ciò che la natura ha posto per lui, tuttavia, per la conoscenza delle realtà immortali l’uomo è troppo mortale.
Dunque vivo secondo natura, se mi sono dato tutto ad essa, se l’ammiro e la contemplo. La natura infatti ha voluto che io mi dedicassi ad entrambe le attività, all’azione e alla contemplazione: io mi dedico ad entrambe, poiché neppure la contemplazione è senza azione.
«Ma è importante» tu dici «se ti sei accostato ad essa per trarne piacere, senza richiedere ad essa altro che una contemplazione continua, senza risultati; è infatti dolce e ha la sua attrattiva». A questa obiezione ti rispondo: importa ugualmente con quale spirito vivi la vita politica, se sei sempre inquieto, e non ti prendi mai del tempo in cui sollevare lo sguardo dalle cose umane a quelle divine.
Come il ricercare obiettivi materiali, senza alcun amore per le virtù e senza cura dell’intelligenza e il limitarsi ad azioni pure e semplici, non sono in alcun modo degni di approvazione (infatti questi aspetti si devono mescolare e intrecciare fra di loro), così una virtù che è abbandonata in un isolamento privo di azione, e che non mostra mai ciò che ha appreso, è un bene incompiuto e fiacco.
Chi dice che essa non deve provare nell’azione i suoi progressi, e non limitarsi a riflettere su ciò che si deve fare, ma anche, una buona volta, darsi da fare, e portare a realizzazione quanto è stato meditato. E se l’impedimento non è dovuto al saggio stesso, se non è chi fa a mancare, ma che cosa deve essere fatto, non gli permetterai forse di starsene con se stesso?
Con che spirito il saggio si ritira nella vita appartata? Sapendo che compirà anche allora azioni attraverso le quali possa essere di giovamento ai posteri. Siamo noi certo che affermiamo che sia Zenone sia Crisippo hanno compiuto azioni più grandi che se avessero guidato eserciti, ricoperto cariche, presentato leggi; queste le hanno presentate non per una sola città, ma per tutto il genere umano. Per quale motivo dunque non dovrebbe confacersi all’uomo virtuoso un isolamento tale da consentirgli di dare norme alle generazioni future, e di rivolgere i suoi discorsi non a pochi uomini, ma a tutti gli uomini di tutti i popoli, quelli che sono e quelli che saranno?
Insomma, ti chiedo se Cleante, e Crisippo e Zenone sono vissuti secondo i loro precetti. Senza dubbio risponderai che sono vissuti così come avevano detto che si deve vivere: eppure nessuno di loro governò uno stato. «Non ebbero» tu dici «né quella condizione, né quel rango sociale che solitamente sono richiesti per essere ammessi ad amministrare gli affari pubblici». Ma ugualmente, nondimeno, hanno condotto una vita non inattiva: hanno trovato il modo in cui il loro isolamento potesse giovare agli uomini di più dell’agitarsi e del sudare di altri. Dunque, nondimeno, hanno dato l’impressione di aver avuto una vita molto attiva, pur senza dedicarsi ad alcuna attività pubblica.
noltre tre sono i generi di vita, tra i quali si suole cercare quale sia il migliore: il primo si dedica al piacere, il secondo alla contemplazione, il terzo all’azione. Innanzi tutto consideriamo se tutti questi tre generi pervengono allo stesso risultato ora sotto questa, ora sotto quella etichetta: né chi si dichiara a favore del piacere è privo di contemplazione, né chi si pone al servizio della contemplazione è privo del piacere, né colui la cui vita è dedicata alle azioni, è privo di contemplazione.
«C’è una grandissima differenza» tu dici «se qualcosa è posto come fine, o se è un elemento accessorio di un altro fine». Ammettiamo pure che ci sia una grande differenza, tuttavia l’una cosa non si verifica senza l’altra: né quello contempla senza agire, né questo agisce senza contemplare, né quel terzo, del quale siamo stati d’accordo a dare un giudizio negativo, approva un piacere inerte, ma quel piacere che con la ragione egli rende stabile per se stesso: così anche questa scuola dedita al piacere è attiva.
E perché non dovrebbe essere attiva, dal momento che lo stesso Epicuro afferma che talora si distaccherà dal piacere, e ricercherà anche il dolore, se sul piacere incomberà il pentimento, o ci si farà carico di un dolore minore al posto di uno più pesante?
A che mira questo discorso? A che sia chiaro che la contemplazione è un precetto condiviso da tutte le scuole; altri la ricercano come una meta, per noi essa è una sosta, non un porto.
Aggiungi ora che secondo la scelta di Crisippo è lecito vivere ritirati: non intendo che uno la subisca, ma che la scelga. I nostri maestri affermano che il saggio non si dedicherà a qualsiasi specie di stato; ma che differenza fa il modo con cui il saggio giunge alla vita ritirata perché lo stato viene meno a lui o perché è lui a venir meno allo stato, se lo stato mancherà a tutti? Mancherà sempre a chi indagherà con attenzione.
Domando a quale stato si dedicherà il sapiente. Forse a quello degli Ateniesi, in cui Socrate viene condannato, Aristotele fugge per non essere condannato? Dove l’invidia travolge le virtù? Risponderai che il saggio non si dedicherà a questo stato. Dunque il saggio si dedicherà allo stato dei Cartaginesi, in cui c’è continua rivolta e libertà nemica dei migliori, un assoluto disprezzo per il bene e il giusto, una crudeltà inumana nei confronti dei nemici, ostile anche verso i propri concittadini? Fuggirà anche questo.
Se vorrò passare in rassegna gli stati uno a uno, non ne troverò nessuno che possa sopportare il sapiente o che il sapiente possa sopportare. Giacchè, se non si trova lo stato che ci rappresentiamo, la vita ritirata comincia ad essere per tutti necessaria, perché non esiste da nessuna parte la sola cosa che poteva essere preferita alla vita ritirata.
Se uno dice che la cosa migliore è darsi alla navigazione, poi afferma che si deve navigare in quel mare in cui spesso avvengono naufragi e ci sono tempeste improvvise che trascinano con violenza il timoniere in direzione contraria, credo, costui mi invita a non salpare, benché faccia l’elogio della navigazione. ***

1 ottobre 2014

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