Nessuno può dirsi felice se è fuori dalla verità.
Seneca, De vita beata.
Nei giorni scorsi l’Italia ha caldeggiato progressi più rapidi del negoziato sul TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) – l’accordo UE/USA su commercio e investimenti – e intanto ha firmato con la Cina accordi finanziari anche in settori sensibili. La spiegazione di Palazzo Chigi è molto semplice: crediamo fermamente nel rapporto strategico con gli Stati Uniti ma intanto abbiamo bisogno di soldi cinesi. Roma fa il suo balancing act, sotto l’impatto della crisi economica. Il risultato, tuttavia, si profila abbastanza difficile da gestire. L’Italia comincia infatti a diventare, più che un crocevia – così si diceva in passato – un incrocio rischioso. Sulla nostra penisola – che il principe prussiano Klemens von Metternich definiva in modo sprezzante una pura “espressione geografica” - si scarica ormai l’impatto di quattro grandi flussi esterni:
* migrazioni e materie prime dall’Africa;
* petrolio e gas dalla Russia;
* investimenti in crescita dalla Cina;
* basi militari degli Stati Uniti.
Sul piano geopolitico, l’Italia è sovraesposta: verso Est, come conseguenza della crisi Ucraina; verso Sud, come risultato delle onde d’urto provocate dall’abbattimento dei vecchi regimi mediterranei. L’implosione della Libia si svolge nel nostro cortile di casa e ci coinvolge; la nascita dell’ISIS, Califfato dell’estremismo sunnita, avviene non molto più in là, ai confini con un paese - la Turchia – cui ci legano interessi notevoli. Va aggiunto, per l’Italia, un livello di dipendenza energetica assai più alto della media europea, così come più alta – per ragioni geografiche evidenti – è la permeabilità del nostro paese ai flussi migratori. Se usiamo le categorie dell’ultimo libro di Henry Kissinger (le “regioni” in competizione), l’Italia è un paese di faglia. Di faglie, anzi. Gente e risorse energetiche dall’Africa; petrolio e gas dalla Russia; soldi dalla Cina; appoggio militare dagli Stati Uniti. E alle spalle un’Europa che un tempo funzionava come vincolo ma anche come antidoto a collocazioni troppo incerte; oggi è rimasta soprattutto un vincolo, che in qualche modo l’Italia è anzi spinta a forzare cercando sponde esterne. In una sorta di circolo vizioso, quanto più l’Europa di centro guarda con diffidenza alle fragilità dell’Italia, tanto più le faglie si allargano. Gestire un incrocio rischioso del genere, o perfino trasformarlo in opportunità, richiederebbe una visione strategica certa. L’alternativa è un alto tasso di pragmatismo: è questa seconda opzione a prevalere, oggi, ma ricordiamoci che in futuro verrà messa alla prova.
Marta Dassù - 1 novembre 2014 - Da Aspenia on-line