Il primo elemento della felicità è essere saggio
Sifocle, Antigone
Rapporto "Il futuro della città: verso la smart city".
Il nostro pianeta si sta urbanizzando a un ritmo impetuoso: oltre la metà della popolazione umana vive ormai in città, e la percentuale è destinata a aumentare. Il paesaggio urbano si sta a sua volta velocemente trasformando, attraverso l’integrazione di tecnologie digitali e reti diffuse nello spazio fisico. “L’ubiquitous computing segna la terza ondata informatica, appena cominciata”, osservava Mark Weiser, uno dei padri dello Xerox Parc (Palo Alto Research Center). “La prima fu quella dei mainframe, ognuno dei quali era condiviso da molti utenti. Ora siamo nell’era del personal computer: individuo e macchina si fissano con imbarazzo attraverso il desktop. Sarà poi il turno dell’ubiquitous computing, l’era della ‘tecnologia calma’, quando la tecnologia farà semplicemente da sfondo alla nostra vita”. L’ubiquitous computing, con il corollario dell’Internet of Everything, sta dando origine a una nuova realtà urbana: la cosiddetta smart city.
Mentre in buona parte del mondo i governi indirizzano risorse ai programmi di sviluppo delle smart city, gli Stati Uniti adottano un approccio opposto, con investimenti pubblici limitati. Pare questo il metodo migliore: l’innovazione deve essere un processo bottom-up e non top-down, e i governi devono soprattutto promuovere un ecosistema e un quadro normativo che ne alimentino lo sviluppo.
È opinione comune che le “città intelligenti” siano capaci di rispondere meglio alle esigenze dei loro abitanti e dell’ambiente che li circonda, dando vita a ecosistemi vivibili, sostenibili ed efficienti. A tal fine, in diversi paesi del mondo vediamo affermarsi un’ampia serie di modelli applicativi. Qual è, tuttavia, il ruolo del governo nel processo di sviluppo delle smart city? Come utilizzare in modo più efficiente i relativi fondi, in particolare per promuovere l’innovazione? Gli enormi stanziamenti di denaro pubblico sono davvero l’incentivo giusto?
I MODELLI NEL PANORAMA INTERNAZIONALE.
Gli Stati Uniti e – in linea generale – il resto del mondo adottano due approcci diametralmente opposti. In Sud America, Asia e Europa, a tutti i livelli governativi ci si sta rapidamente accorgendo delle potenzialità insite nelle smart city: di qui l’impegno a canalizzare importanti investimenti in tale direzione. Rio de Janeiro ha avviato la fase di sviluppo presso il centro Smart Operations, Singapore si sta imbarcando nell’ambizioso progetto Smart Nation e Amsterdam ha recentemente investito 60 milioni di euro in un nuovo centro di innovazione urbana: l’Amsterdam Metropolitan Solutions. Il programma Horizon 2020, promosso dall’Unione Europea, ha stanziato 15 miliardi di euro per il periodo 2014-2016: un investimento che dà la misura dell’impegno europeo per il progetto delle smart city, specialmente in una fase di estremo rigore di bilancio.
Negli Stati Uniti, invece, i finanziamenti pubblici sono limitati, sebbene l’idea generale di uno spazio urbano intelligente sia al centro dei progetti della presente generazione di start-up di successo.
Uno degli ultimi esempi di start-up di successo – anche se fortemente contrastato – è Uber, l’app per smartphone che permette a chiunque di prenotare un’auto con conducente e offrirsi come autista. La novità polarizza l’opinione pubblica: Uber ha suscitato proteste e scioperi in tutto il mondo (soprattutto in Europa, da parte dei tassisti), ma di recente è stato valutato alla stratosferica cifra di 18 miliardi di dollari. Oltre a Uber, il termostato intelligente Nest, il sito di house sharing AirBnB e il nuovo “sistema domotico” di Apple, solo per fare alcuni esempi, sono l’espressione dell’ultima frontiera dell’informazione digitale integrata nello spazio fisico.
Queste e altre soluzioni promettono oggi di rivoluzionare la vita urbana sotto molteplici aspetti – dal pendolarismo, ai consumi energetici, alla salute personale – e godono, di conseguenza, di un forte sostegno da parte dei fondi di venture capital.
Ciò non significa che il governo non debba più occuparsi di sviluppo urbano: può svolgere un ruolo importante in tale ambito, sostenendo la ricerca scientifica e promuovendo applicazioni innovative in settori meno interessanti per il venture capital, settori lontani dai riflettori ma nondimeno cruciali, come quello dei servizi idrici e di igiene urbana. Il settore pubblico può inoltre farsi promotore dell’utilizzo di standard e piattaforme aperte, favorendone così l’adozione da parte di altre città nel resto del mondo. La municipalità di Barcellona ha compiuto un passo importante in tale direzione con l’iniziativa del City Protocol, basata sulla collaborazione tra città, organizzazioni commerciali e non-profit, università e centri di ricerca, allo scopo di elaborare una serie di linee guida condivise e integrate per la trasformazione dei centri urbani. Soprattutto, tali protocolli saranno estesi a più città, culture e partner scale-free, a invarianza di scala.
Tutto questo va però inquadrato nell’ottica di un ridimensionamento del determinismo top-down: i governi dovrebbero destinare i fondi pubblici allo sviluppo di un ecosistema innovativo organico orientato verso le “città intelligenti”, simile a quello che sta fiorendo negli Stati Uniti. Si tratta di un processo di innovazione bottom-up, più che di un’imposizione top-down. Occorre andare oltre il sostegno degli incubatori tradizionali, mirando a promuovere un quadro normativo favorevole all’innovazione. In effetti, considerando le controversie legali di cui sono immancabilmente protagoniste applicazioni come Uber o AirBnB, questo tipo di sostegno è quanto mai necessario. La regolamentazione è ancora estremamente importante, ma va intesa in senso più collaborativo: il governo può monitorare l’innovazione e il suo impatto sulla società, senza però creare inutili vincoli legislativi. I governi devono muoversi con grande agilità, per far fronte alle nuove tecnologie, non appena queste si affacciano sul mercato. In tal modo, ci sarà spazio per esprimere il potenziale di sviluppo, ma sempre entro i giusti limiti.
SINGAPORE, LA SMART NATION.
Singapore costituisce un ottimo case study. La città-Stato è a un punto di svolta nel percorso verso la smart city, con l’avvio dello Smart Nation Project (snp) nell’ambito dell’Infocomm Media Masterplan promosso dal governo e beneficiario dello stanziamento dei relativi fondi. Quale futuro si prospetta per un’isola sempre più connessa e “intelligente”?
La prima fase del progetto sarà dedicata allo sviluppo delle infrastrutture materiali, con particolare riferimento alla connettività e ai sensori; seguirà poi una serie di iniziative tese ad affrontare diversi aspetti della vita e delle attività dell’isola. Le tecnologie in questione costituiscono un “sistema operativo urbano” simile ai software che supportano la maggior parte delle odierne smart technologies, dai laptop agli iPad agli elettrodomestici interattivi.
Il masterplan si estende all’intera isola, ma un quartiere in particolare diventerà il cuore pulsante della ricerca e della sperimentazione: Jurong Lake District, un’area campione nella quale le nuove tecnologie saranno sviluppate e testate, per essere poi trapiantate in altre zone della città (o in altri paesi). Nascerà così un polo di ricerca applicata meglio noto agli addetti ai lavori come “urban living lab”.
Gli obiettivi dello snp sono ambiziosi. Si tratta anzitutto di uno sforzo congiunto per migliorare l’efficienza urbana. In secondo luogo, il piano mira a promuovere un ecosistema di innovazione imprenditoriale. Le due finalità sono raggiungibili? E, soprattutto, sono auspicabili?
Il primo obiettivo è quantificabile e le strategie per ottimizzare i servizi all’interno della città possono incidere profondamente sulla vita di tutti i giorni. Chi non vorrebbe vivere in una città che consuma meno energia, o nella quale gli ingorghi stradali sono ridotti al minimo? Singapore è probabilmente uno dei migliori esempi al mondo di sviluppo urbano all’avanguardia. Il paese – piccolo, densamente popolato e ad alto livello tecnologico – può ora contare anche su un impegno formale da parte del governo. Tale approccio è all’origine delle trasformazioni di cui è stato protagonista sin dal raggiungimento dell’indipendenza.
I trasporti sono un nodo cruciale: Singapore è stato uno dei primi paesi al mondo a introdurre l’Electronic Road Pricing, un sistema poi adottato anche in altre città, grazie al quale si è drasticamente ridotto il traffico nelle strade e migliorata la viabilità, soprattutto nel principale distretto commerciale, durante le ore di punta. Anche il sistema di trasporto pubblico è un modello di efficienza: sin dall’inaugurazione, la rete metropolitana è stata considerata la migliore del continente e quella più tecnologicamente avanzata. Stando alle classifiche internazionali, inoltre, è una delle più virtuose in termini di impatto ambientale.
Occorre poi tener conto dell’imminente arrivo sul mercato delle auto a guida autonoma (ossia senza conducente), con tutti i benefici che ne derivano per gli automobilisti, i pedoni e la società nel suo insieme. Ancora una volta Singapore potrebbe affermarsi come leader mondiale nella sperimentazione di nuove forme di mobilità. I segnali più promettenti arrivano da aree di monitoraggio circoscritte, come il Jurong Lake District o l’isola di Sentosa, dove sono già stati lanciati diversi progetti di guida autonoma.
In che modo, però, tutti questi cambiamenti possono stimolare l’innovazione? Diversamente dall’efficienza, l’innovazione non può essere ottenuta per via istituzionale né imposta dall’alto: richiede un ecosistema complesso e delicato, basato su uno sforzo collettivo dal basso. In questo senso, Singapore ha davanti a sé un percorso più ostico. L’ex primo ministro Lee Kuan Yew esortava gli abitanti di Singapore a essere più intraprendenti, considerando il rischio una componente irrinunciabile dei tre capisaldi della competitività globale: imprenditorialità, innovazione e leadership. “L’economia americana è decollata grazie alla cultura d’impresa e alla voglia di mettersi in gioco”, dichiarò in un’intervista al New York Times del 2001. Poi, riferendosi agli abitanti di Singapore, aggiunse: “Temo che sarà molto arduo cambiare la loro mentalità”.
Nel corso della nostra attività sull’isola, abbiamo notato un fenomeno ricorrente: il governo e le imprese si lanciano con entusiasmo alla ricerca di idee originali e innovative, ma dopo un po’ si domandano sospettosi: “In quanti ci hanno già provato?” (Per definizione, se una tecnologia è già stata messa alla prova non è più originale). Siamo ben lontani dalla filosofia che anima la californiana Silicon Valley – un polo di innovazione tra i più produttivi del mondo – dove l’intraprendenza viene premiata, e il fallimento tollerato.
Singapore ha bisogno di questo sano spirito imprenditoriale per sfruttare gli strumenti all’avanguardia che saranno messi in campo nell’ambito del Media Masterplan. Non sarà facile promuovere la cultura dell’innovazione in un paese nel quale il sistema educativo è storicamente segnato dallo stigma del fallimento. L’innovazione richiede un ambiente nel quale i princìpi imposti dall’alto siano messi in discussione, affinché possano affermarsi idee nuove e migliori.
I governi impegnati nel progetto della smart city si muovono su uno stretto crinale, dovendo evitare a qualsiasi costo la tentazione del determinismo e del verticismo. Non spetta a loro individuare nuove soluzioni per lo sviluppo urbano intelligente o, peggio ancora, utilizzare il denaro dei cittadini per rafforzare la posizione delle multinazionali tecnologiche che si stanno lanciando in questo settore. Piuttosto, dovrebbero creare tutte le condizioni – economiche e normative – per favorire la crescita di ecosistemi innovativi.
È proprio qui che entra in gioco il delicato equilibrio tra efficienza e innovazione. In molti casi, lo sviluppo della smart city richiede anche una buona dose di caos: l’opposto della massima ottimizzazione delle risorse, come si evince dal caso di Singapore. Spesso le soluzioni più creative emergono e fioriscono in ambienti meno regolamentati e più “disordinati”. In altre parole, un briciolo di imperfezione è a volte indispensabile affinché smart non sia solo un’etichetta vuota.
Questo articolo è stato curato da Carlo Ratti, Matthew Claudel e Alice Birolo. Architetto, ingegnere e agit-prop, Carlo Ratti è titolare dello studio Carlo Ratti Associati di Torino e direttore del MIT Senseable City Lab di Boston. Matthew Claudel, vincitore del Sudler Prize (il premio più importante assegnato dall’Università di Yale per le arti creative e dello spettacolo), lavora al MIT Senseable City Lab. Alice Birolo è studentessa di architettura all’ultimo anno di Laurea Magistrale al Politecnico di Torino ed exchange student presso il Senseable City Lab del MIT. Con il contributo di Carlotta Sillano.
7 novembre 2014
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