Non il vivere secondo scienza permette di agire bene, né il vivere secondo tutte le possibili scienze, ma solo secondo un principio, quello del bene.
Platone, Carmide
Il 6 aprile 2013 il giudice Alberto Oggè, presidente della Terza sezione penale della Corte d’Appello di Torino, aveva condannato a 18 anni Ernst Stephan Schmidheiny, riconoscendolo colpevole per l’inquinamento da amianto che aveva causato tumori ai polmoni (mesotelioma pleurico) e asbestosi nella popolazione di Casale Monferrato, Cavagnolo, Rubiera e Bagnoli, provocando oltre tremila morti e assolvendolo solo dall’accusa di omissione volontaria di cautele antinfortunistiche. Schmidheiny era imputato assieme al suo socio, il barone belga Louis De Cartier, morto poco prima della sentenza. I due erano a capo della multinazionale Eternit, con stabilimenti in Piemonte, Emilia e Campania. Secondo la sentenza, Schmidheiny e De Cartier avrebbero continuato a mantenere operative le proprie fabbriche pur sapendo dell’alta tossicità dell’amianto e senza far usare agli operai precauzioni come mascherine e guanti per evitare che si ammalassero. Oltre al carcere, i giudici avevano condannato Schmidheiny a un risarcimento di quasi 100 milioni di euro, destinati ai sindacati, al comune di Casale Monferrato, alla regione Piemonte e alle 932 parti lese.
Ma oggi è stato tutto annullato, condanna e risarcimento. Perché è passato troppo tempo dai fatti. Peccato che non sarebbe potuto essere altrimenti, come spiega lo stesso Iacoviello. Sostanzialmente, secondo il procuratore generale che ha avallato la richiesta di prescrizione, contestare il reato di disastro ambientale è stato un errore giuridico, perché “questo tipo di accusa non è sostenuto dal diritto”. A differenza del reato per il crollo di una casa, dice Iacoviello, che è immediatamente contestabile, non è giuridicamente possibile prevedere la permanenza di un reato che causa morti a distanza di parecchi decenni. Il mesotelioma maligno, infatti, ha un’alta latenza (in altre parole, si manifesta solo molti anni dopo l’esposizione all’amianto). “Anche se oggi qui si viene a chiedere giustizia”, continua Iacoviello, “un giudice tra diritto e giustizia deve scegliere il diritto”. Eppure Cicerone, e con lui tutta la cultura giuridica romana, duemilacento anni fa sosteneva che tra diritto e giustizia occorre optare per la giustizia.
“Con questa premessa”, hanno replicato angosciati i parenti delle vittime, “non si potrà mai incriminare nessuno per disastro per le morti di amianto, perché le malattie si manifestano a distanza di molto tempo. Ed è questa latenza che protegge chi ha commesso questo crimine di cui qui noi rappresentiamo il segno più evidente della sofferenza”. Il pm Raffaele Guariniello, che aveva condotto l’inchiesta e l’accusa nel dibattimento d’appello, non demorde: “Non è un’assoluzione. Il reato c’è. E adesso possiamo aprire il capitolo degli omicidi. La Cassazione non si è pronunciata per l’assoluzione. Il reato evidentemente è stato commesso, ed è stato commesso con dolo. Abbiamo quindi spazio per proseguire il nostro procedimento, che abbiamo aperto mesi fa, in cui ipotizziamo l’omicidio”.
Attualmente, dal punto di vista giuridico, restano ancora tre inchieste aperte a Torino per il caso Eternit. La prima, quella a cui si riferisce Guariniello, è riferita all’accusa contro Schmidheiny per omicidio volontario in relazione alla morte per mesotelioma di 213 persone. Il secondo processo verte sui decessi degli italiani che lavoravano negli stabilimenti Eternit in Svizzera e Brasile. Il terzo, infine, riguarda le fabbriche di Balangero, nel Torinese, in merito alle quali uno studio epidemiologico commissionato dallo stesso Guariniello, esaminando le storie sanitarie di 1966 ex addetti dello stabilimento, ha provato 214 decessi riferibili al contatto con il cosiddetto amianto bianco. Schmidheiny è indagato perché la fabbrica di Balangero, per qualche tempo, ha fatto parte dell’azienda Eternit.
La sentenza Eternit rivela due paradossi: quello di una politica colpevolmente latitante sul fronte della prescrizione, che però non rinuncia a cavalcare un dolore collettivo per continuare a promettere quanto finora non ha saputo mantenere; quello di una magistratura che reclama nuove norme sulla prescrizione ma, in assenza di una sponda normativa, rinuncia alla legittima duttilità interpretativa della propria funzione anche se ciò confligge con il senso di giustizia imposto dall'esercizio della funzione stessa.
Di riforma della prescrizione (i cui termini erano stati dimezzati nel 2005 con la legge ex Cirielli) si è ricominciato a parlare fin dall'uscita di scena di Silvio Berlusconi, con i governi Monti, Letta e Renzi. Parole. Il dibattito politico non è mai decollato. Inutili le sollecitazioni di Europa e Ocse, scomodate per cambiare il reato di concussione, sebbene fosse l'ultima delle preoccupazioni nella lotta alla corruzione, ma pervicacemente ignorate sulla prescrizione, considerata invece da sempre la «priorità» per rendere efficace quella lotta. Ignorati anche i vertici della Cassazione (Ernesto Lupo e Giorgio Santacroce) e la loro richiesta ai governi di turno di farsi carico della specificità di alcuni reati che spesso vengono scoperti soltanto dopo anni da quando sono stati commessi, sicché buona parte della prescrizione si è già consumata. È il caso dei reati contro la pubblica amministrazione ma anche di altri, compreso il «disastro ambientale» contestato nel processo Eternit: proprio sul momento della sua consumazione si sono divisi i giudici di appello e della Cassazione. Così quel processo va ad aggiungersi ai 113mila fulminati dalla prescrizione.
Ma se le norme vigenti non sembrano coerenti al senso di giustizia, altrettanto deve dirsi della sentenza della Cassazione. Che ha ribaltato l'interpretazione dei giudici di merito sul momento consumativo del reato di «disastro ambientale», anticipandolo alla data di fallimento dell'azienda (mentre gli altri giudici lo hanno stabilito con riferimento alle morti da amianto). Era la prima volta che si affrontava questo tema rispetto a un reato che è silente e progressivo. E la Cassazione forse aveva i margini interpretativi per non dichiarare la prescrizione. Ieri Vladimiro Zagrebelsky ha ricordato una sentenza della Cassazione francese del 7 novembre, che, modificando l'interpretazione prevalente, ha stabilito un principio innovativo per evitare la prescrizione di un orrendo omicidio rimasto nascosto per anni, e cioè che i termini decorrono da quando il magistrato ne ha notizia. La Corte ha usato fino in fondo il suo potere interpretativo per dare una risposta di giustizia, nel rispetto del diritto. La legge francese prevede termini di prescrizione molto brevi (che decorrono da quando il reato è commesso) compensati, però, da un sistema di interruzioni molto elastico, per cui a ogni atto dell'autorità giudiziaria la prescrizione riparte da zero. Ciò nonostante, ci sono casi in cui il reato si scopre dopo talmente tanti anni che la giustizia ha le mani legate. Ebbene, secondo la Corte la prescrizione è sospesa allorquando un «ostacolo insormontabile» rende impossibile che il giudice proceda. Peraltro, nel 2004 sempre la Cassazione francese aveva stabilito che per alcuni delitti (abus des biens sociaux, abus de confiance eccetera) il termine decorre da quando la condotta è stata accertata, quindi anche a molta distanza dalla commissione del reato. Non è giurisprudenza creativa e tanto meno eversiva. Ma un esempio di come, nel rispetto del diritto, il giudice possa rispondere all'esigenza di giustizia che la sua funzione gli impone.
In questo caso la Corte Costituzionale si è limitata a un ruolo di routine, quello dell'osservanza della forma, essa non ha mostrato alcuna duttilità, né culturale, né etica, soddisfatta e tronfia di aver fatto trionfare il diritto sulla giustizia. Rimando quei giudici alla lettura di questi passi del De officiis di Cicerone che già allora stimolava i magistrati a invertire, invece, le priorità. Ma quella era l'era dello stoicismo, che imponeva di anteporre il bene pubblico alle proprie convinzioni e alle norme codificate, questa è invece l'epoca nella quale i giudici difendono innanzitutto stipendi e ferie.
De officiis 1, 10. Ma si danno spesso circostanze in cui, quelle azioni che sembrano più degne di un uomo giusto si mutano nel loro contrario; e così, il trasgredire e il non osservare le leggi della sincerità e della lealtà, diventano talvolta cosa giusta. Conviene, infatti, riportarsi sempre a quelle norme fondamentali della giustizia che ho posto in principio: primo, non far male a nessuno; poi, servire alla utilità comune. Mutano col tempo le circostanze? Muta di pari passo il dovere e non è sempre lo stesso.
Può darsi infatti che qualche promessa sia di natura tale che il mandarla a effetto procuri danno, o a chi è stata fatta o a chi l'ha fatta. In verità, se Nettuno, come raccontano i miti, non avesse mantenuto la promessa fatta a Teseo, Teseo non avrebbe perduto il figlio Ippolito. Di quei tre desideri , come si narra, gliene restava da chiedere uno, il terzo, ed ecco che, accecato dall'ira, chiese la morte d'Ippolito: poichè il desiderio era stato esaudito, egli piombò nei più atroci dolori. Dunque non si debbono mantenere quelle promesse che sono dannose alle persone a cui son fatte; se quelle promesse recano maggior danno a chi le ha fatte che vantaggio a chi le ha ricevute, non è contrario al dovere anteporre il più al meno. Così, per esempio, se tu avevi promesso a qualcuno di recarti in tribunale per assisterlo in giudizio, e nel frattempo un tuo figliuolo fosse caduto gravemente malato, non sarebbe contrario al dovere non mantener la parola, anzi mancherebbe ben di più l'altro al suo dovere, se si lamentasse dell'abbandono. Inoltre, chi non s'accorge che non bisogna mantenere le promesse che si son fatte o costretti da paura o tratti in inganno? E appunto la maggior parte di questi obblighi è annullata dal diritto pretorio; alcuni di essi anche dalle leggi.
Si commettono spesso ingiustizie anche per una certa tendenza al cavillo, cioè per una troppo sottile, ma in realtà maliziosa, interpretazione del diritto. Di qui il comune e ormai trito proverbio:
somma giustizia, somma ingiustizia
(rende meglio in latino summum ius, summa iniuria).
A questo riguardo, si commettono molti errori anche nella vita pubblica; come, per esempio, quel tale che, conclusa col nemico una tregua di trenta giorni, andava di notte a saccheggiar le campagne, col pretesto che il patto parlava di giorni e non di notti. Non merita lode neppure, - se il fatto è vero -, quel nostro concittadino, sia egli Quinto Fabio Labeone o qualcun altro (io non ne so più che per sentito dire). Il senato l'aveva mandato ai Nolani e ai Napoletani, come arbitro per una questione di confini. Venuto egli sul luogo, parlò separatamente agli uni e agli altri, raccomandando che non trascendessero in atti di avidità e di prepotenza, anzi volessero piuttosto retrocedere che avanzare. Così fecero gli uni e gli altri, e un bel tratto di terreno rimase libero nel mezzo. Allora egli fissò i confini dei due popoli come essi avevano detto; e il terreno rimasto nel mezzo, l'assegnò al popolo romano. Questo si chiama ingannare, non giudicare. Perciò, in ogni circostanza, conviene evitare simili furberie.
Eugenio Caruso - 21 novembre 2014