Il ruolo del petrolio sullo scacchiere geo politico.



Esiste una misura per tutte le cose, ci sono confini precisi al di là dei quali non può esservi giustizia..
Orazio, Satire


Gli Stati Uniti diventeranno il primo paese produttore di petrolio entro il 2015, per diventare irraggiungibili nel 2020, grazie allo sviluppo del petrolio da roccia, lo shale oil, grazie al quale sono state riviste al rialzo le previsionio sulle riserve. Gli Usa, nel 2020 produrranno 24,2 milioni di barili di olio eqivalenti/giorno (Mboe/d tra olio e gas), la Russia 20.4, l'Arabia saudita 12,4.
La Cina sarà la prima nazione al mondo per domanda di petrolio. E per finire, l'aumento della domanda di energia farà salire del 20% le emissioni di CO2, nonostante la crescita delle rinnovabili. E' quanto emerge dal rapporto annuale dell'Aie, l'Agenzia internazionale per l'energia nel suo World Energy Outlook 2013.
La scoperta di nuovi giacimenti di petrolio, grazie allo sviluppo delle tecniche di frantumazione - molto contestate dagli ambientalisti - sta influendo non poco sulle gerarchie mondiali. Non solo. L'andamento del prezzo del petrolio, che, secondo l'Aie, nel 2035 potrebbe toccare i 130 dollari al barile, sta spingendo gli investimenti nel settore degli idrocarburi non convenzionali come lo shale gas e lo shale oil, nonché sulle energie alternative e sul risparmio energetico. La produzione dei campi petroliferi oggi in attività registrerà, entro il 2035, un calo di 40 milioni di barili al giorno mentre la quota di petrolio non convenzionale si attesterà attorno ai 65 mln di barili al giorno. Tuttavia, rileva l'Aie, nessuna crisi energetica è in vista. Le riserve di idrocarburi sono state riviste al rialzo grazie alla scoperta di nuovi giacimenti di petrolio e allo sviluppo degli idrocarburi non convenzionali. L'aumento del petrolio non convenzionale e dello shale, rileva infatti l'Aie, permette di colmare il gap che aumenta tra la domanda petrolifera mondiale e la produzione di petrolio convenzionale.
Sempre secondo le previsioni dell'Agenzia, gli Usa saranno il primo paese produttore di petrolio al mondo entro il 2015. Uno sviluppo legato in particolare allo shale oil. Al momento gli Usa sono il terzo produttore mondiale, con 8 milioni di barili al giorno, mentre nel 2015 la produzione dovrebbe assestarsi intorno agli 11 milioni di barili. L'Aie sottolinea tuttavia che questa tendenza "non è destinata a durare". A quel punto, sottolinea l'agenzia, "sarà necessario un aumento sostanziale della produzione di petrolio del Medio Oriente, per far fronte alla forte crescita della domanda".
Nonostante quanto sta accadendo nel continente americano, ammonisce l'Agenzia, non sarà ridimensionato il tradizionale ruolo dei paesi dell'Opec nel soddisfare la domanda mondiale di petrolio nel prossimo decennio: già per la metà degli anni 2020 i produttori mediorientali torneranno ad assumere una posizione cruciale in quanto resteranno l'unica grande fonte di petrolio a costi contenuti. Anche se, ammonisce sempre l'Agenzia, lo sviluppo dello shale oil negli Stati Uniti potrebbe portare al rallentamento degli investimenti in Medioriente nei prossimi anni.
L'Arabia Saudita, quasi eguagliata dagli Stati Uniti nelle estrazioni di petrolio, sta ora cercando di scaricare agli americani anche il ruolo spesso scomodo di «swing producer»: il produttore in grado di riequilibrare il mercato aprendo o chiudendo il rubinetto delle forniture di greggio, in funzione della domanda e del prezzo. La strategia di Riyadh – comunicata ora anche in modo esplicito, attraverso canali informali – si sta facendo ogni giorno più evidente. E anche l'Aie ha voluto puntare l'attenzione sulle nuove dinamiche che interessano il mercato, diffondendo cifre e commenti che hanno dato un'ulteriore spallata alle quotazioni del greggio: il Brent ha toccato gli 80 dollari al barile per la prima volta dal 2010. «Non dobbiamo aspettarci che l'Opec svolga necessariamente il suo ruolo tradizionale di swing producer», ha dichiarato alla Reuters Antoine Halff, capo della divisione Mercati petroliferi dell'Aie. «Penso che sia corretto dire che oggi il mercato sia diverso rispetto al passato, in termini di dove stanno crescendo l'offerta e la domanda e di quali siano le sfide, interne ed esterne, con cui l'Opec deve misurarsi». L'Aie, com'era scontato dopo il taglio delle stime di crescita economica da parte del Fondo monetario, ha di nuovo peggiorato le sue proiezioni sulla domanda petrolifera: ora vede un incremento di appena 700mila barili al giorno nel 2014, la metà di quanto si aspettava in giugno e la crescita più modesta dal 2009, anno di recessione globale. Tagliate, anche se meno aggressivamente, anche le stime per il 2015: +1,1 milioni di barili al giorno a 93,8 mbg. Nel contempo l'offerta sta correndo ben più veloce dei consumi. Negli Usa la produzione (tra petrolio più altri combustibili liquidi) raggiungerà tra qualche mese i 12 milioni di barili al giorno, quasi il 20% in più rispetto a un anno fa, per restare oltre quella soglia per tutto il 2015. Per l'Aie è «improbabile» che sia l'Opec a fermare le trivelle: lo faranno piuttosto i produttori di shale oil negli Usa o di sabbie bituminose in Canada, ma il prezzo del greggio dovrà scendere ancora di più per correggere gli squilibri. A 80 $/barile, stima l'agenzia dell'Ocse, solo 2,6 mbg di produzione smetterebbero di essere redditizi. Altri analisti ritengono tuttavia che per lo shale oil i nodi potrebbero venire al pettine abbastanza in fretta: secondo Wood Mackenzie con il petrolio stabile a 100 $ i principali produttori Usa avrebbero tutti un flusso di cassa sufficiente per finanziare gli investimenti dei prossimi anni, ma col barile attorno agli 80 $ l'equilibrio salta per il 30-60% delle società, che dovrebbero quindi ridimensionare i loro piani. L'Opec, ormai è certo, non arriverà in soccorso dei prezzi. Dopo l'Iran anche l'Iraq ha rincorso l'Arabia Saudita nell'abbassare i listini per l'Asia e il ministro del Petrolio del Kuwait, Ali Al-Omair, ha spazzato ogni dubbio residuo: «Se avessimo un rimedio per preservare la stabilità dei prezzi o qualcosa che possa riportarli ai livelli precedenti non esiteremmo ad attivarci – ha dichiarato all'agenzia di stampa nazionale Kuna – Ma non c'è spazio perché i paesi Opec riducano la produzione».
Vorrei ricordare, con un sorriso,che, nel 1972, I limiti dello sviluppo, ricerca commissionata all'Mit dal Club di Roma, e che fece enorme scalpore, prevedeva proprio per questo periodo, una grave crisi nell'approvvigionamento di idrocarburi, oltre agli altri catastrofici scenari. Il sottoscrtitto, come molti altri ricercatori, nell'ambito di meeting e discusioni su quel rapporto sosteneva che quella ricerca non teneva conto di un parametro fondamentale: lo svipuppo tecnologico avrebbe cambiato le condizioni sulle quali si basavano le previsioni dello studio.
Tornando al petrolio giova rendersi conto che è esistita, esiste ed esistertà una lotta sorda tra Usa, Russia eMedio Oriente per massimizzare i ritorni dei propri investimenti nel settore energetico, ma ritengo che l'indipendenza energetica degli Stati Uniti è fondamentale in un mondo dove la situazione geopolitica è molto instabile e può creare problemi strategici di rifornimento. Fortunatamente, da tempo esiste una nuova fonte di energia, quella degli scisti e questa nuova tecnica di estrazione ha messo in discussione la convinzione che si fosse ancora lontani dal sostituire petrolio e gas convenzionali.
Il cuore della “rivoluzione tecnologica” è il North Dakota, regione nel settentrione degli Stati Uniti che, insieme al Texas, è in pole position per ridisegnare gli scenari energetici e geopolitici mondiali.
Gli Usa sono stati per anni grandi importatori di petrolio, poiché almeno fino al 2005 la loro produzione di oro nero nazionale stava inesorabilmente declinando. Tanto che tutti i presidenti, da Nixon fino a Obama, si sono sempre posti il problema di come ritornare all’indipendenza energetica. Non sono stati i loro piani ad aver funzionato, ma il mercato: il prezzo del petrolio, superata la soglia degli 80/90 dollari al barile ha stimolato nuove ricerche e la spinta innovativa ha portato alla messa a punto della tecnologia del fracking.
In North Dakota, a Williston, la capitale della nuova corsa all’oro nero, il boom petrolifero è facilmente visibile, con centinaia di lavoratori che arrivano da altri stati, attirati dai nuovi posti di lavoro pagati anche bene. La regione, infatti, ha prodotto in media poco meno di 800 mila barili al giorno nel 2013, superando i 200 mila barili giornalieri del 2012. La portata del cambiamento è stata rivoluzionaria: l’America produceva nel 2005 circa cinque milioni e mezzo di barili al giorno, oggi quasi sette. Secondo le stime degli analisti Morningstar entro il 2016 dovrebbe raggiungere i 10 milioni di barili al giorno e poco dopo il 2020 oltre gli 11 milioni e superare l’Arabia Saudita.
Massimo Nicolazzi del Centrex Europe EnergyandGas di Vienna ha spiegato che “negli ultimi dieci anni gli Usa hanno risparmiato più di due milioni di barili di greggio al giorno, diminuendo i loro consumi interni, e insieme al Canada hanno aumentato la loro produzione interna di circa 3 milioni di barili. Nello stesso periodo i consumi cinesi sono aumentati di circa cinque milioni di barili che significa che oggi il petrolio medio-orientale, ossia la vecchia geopolitica araba, è in qualche modo più sensibile alle necessità dello sviluppo cinese che non a quello americano. Qualche anno fa il dibattito era imperniato sull’esaurimento dei giacimenti di greggio, oggi le tecnologie aprono nuovi orizzonti. E non solo per il petrolio. Un discorso simile vale per il gas non convenzionale estratto con le stesse tecniche. Il prezzo di estrazione in America è diminuito negli ultimi sette/otto anni, tanto che è un terzo rispetto all’Europa. Gli Usa, secondo il parere degli analisti stanno ritornando competitivi in molti settori industriali grazie al basso prezzo dell’energia, come per esempio nei trasporti e nei tecnologici, poiché si verrebbero a creare delle economie di scala virtuose. Non solo, ma stanno diventando esportatori di gas naturale in concorrenza con Russia, paesi del Nord Africa e del Medio Oriente, sinora alla guida della grande macchina energetica.
I prezzi bassi del petrolio non metteranno una croce sui progetti di produzione dello shale oil negli Usa, in quanto esiste una forte diversificazione di tecnologie tra le varie compagnie impegnate nella produzione dello shale. Una compagnia norvegese ha pubblicato un rapporto dove è stato calcolato che con il prezzo di 50 dollari al barile di petrolio Brent gli Usa potrebbero ancora per un anno non ridurre la produzione. Secondo il rapporto dei petrolieri, se il barile arriverà a costare 60 dollari, l’America potrà persino accrescere i suoi progetti. D’altronde, molti esperti ritengono poco probabile tale scenario. Più probabilmente, gli Usa continueranno a sviluppare i progetti già iniziati relativi allo shale gas, in quanto il congelamento dei lavori è un’impresa costosa e tecnicamente complessa. La sorte dei progetti che esistono ancora solo sulla carta sarà risolta un po’ più tardi: le nuove zone di estrazione saranno semplicemente congelate fino a tempi migliori. Non è questo che volevano ottenere dagli Usa i sauditi? Stando a una serie di analisti occidentali, i sauditi hanno fatto cadere intenzionalmente i prezzi mondiali per eliminare l’eventuale concorrente sul mercato del petrolio. Ma tale ipotesi sembra infondata, sostiene Roman Tkacuk, analista capo del gruppo di investimento Nord-Capital. L’Arabia Saudita è un partner strategico degli Usa. Le ultime azioni sono state intraprese dai due paesi congiuntamente. I sauditi sono venuti incontro agli Usa e hanno ridotto i prezzi del petrolio che viene esportato verso gli Usa. Non solo, ma nei prossimi anni gli Usa difficilmente si trasformeranno in un esportatore diretto. Washington può diventare autosufficiente nell’approvvigionamento di petrolio, ma non potrà trasformarsi in un esportatore attivo. Eppure, i prezzi bassi del petrolio possono anche danneggiare l'economia degli Usa. In questo caso svolgono il loro ruolo le leggi del mercato e lo status del dollaro come valuta internazionale. Quando cala il prezzo del petrolio, il cambio del dollare sale inevitabilmente. Un dollaro caro è pericoloso per l’economia americana in quanto può incidere negativamente sul potenziale dell’export del paese e sulla creazione di nuovi posti di lavoro. La FED si è già interessata del problema della crescita del dollaro ed ha promesso di seguire attentamente la situazione.

Il 27 novembre ci sarà un'importante meeting dell'Opec; se l'organizzazione deciderà di non contrarre la produzione e lasciare fare al mercato è probabile che i prezzi saranno liberi di oscillare fino al punto di equilibrio. Il Wti si adagerebbe sul prezzo di produzione dello shale oil americano, con il barile a 65 dollari, che significa una discesa di almeno una decina di dollari rispetto al livello attuale. Mentre si attendono questi sviluppi, il mondo economico prende atto del fatto che il quadro geopolitico legato ai rapporti di forza energetici sta evolvendo. Una lunga analisi di Bloomberg ricorda come proprio la galoppata della produzione domestica abbia permesso agli Usa di usare il pugno di ferro contro l'Iran e la Russia, quando Washington ha ritenuto di doverli sanzionare. Se gli Usa sono, al momento, i vincitori di fatto e di immagine, anche la Cina ha qualche carta da giocare. Visto che importa il 60% del suo greggio, sceglie di sfruttare i risparmi per accumulare riserve strategiche, piuttosto che per spese militari o di protezione dell'ambiente, spiega Lin Boqiang di PetroChina. In questo momento, Pechino può anche attivare la leva delle trattative con Mosca: alla Russia serve vendere la sua energia, diversificandosi rispetto all'Europa, e in una fase di abbondanza d'offerta e prezzi bassi il compratore cinese può tirare quanto mai sul prezzo.

Tecnologie di estrazione dello shale oil
L’estrazione del petrolio dalle sabbie bituminose mediante la coltivazione dei giacimenti a cielo aperto.
In un recente passato (2009) lo sfruttamento per l’estrazione del petrolio da strati semisuperficiali di sedimenti scistosi sottostanti la coltre boscosa dei monti Appalachi aveva portato allo sventramento, mediante esplosivi, delle cime e dei pendii per mettere allo scoperto i giacimenti e sfruttarli direttamente a cielo aperto con gli impianti di estrazione del petrolio dagli scisti mediante acqua calda, senza le spese di trivellazione. Ciò aveva suscitato forti proteste degli ambientalisti per il disastro ecologico causato anche dall’accumulo di rifiuti tossici sui terreni sottostanti e nell’alveo dei fiumi Susquehanna e Delaware. L’inquinamento si aggiunge a quello secolare causato dall’estrazione a cielo aperto di carbone, oggetto di simili proteste, note anche per l’arresto dello scienziato Jim Hansen, direttore del Goddard Institute della NASA. In tutti questi casi vi sono state immissioni in atmosfera, mai valutate, di metano e altri gas serra o inquinanti. Analogamente, nell’Alberta canadese, lungo il fiume Athabaska, sono state distrutte intere praterie e boschi con l’intento di estrarre olio greggio dal bitume e si sta costruendo un apposito oleodotto per trasportare direttamente l’olio greggio verso gli impianti di estrazione e raffinazione del lontano Texas, oppure verso le più vicine coste del Pacifico, traforando le Montagne Rocciose. Questi oleodotti hanno già dato prova di scarsa tenuta su percorsi più brevi (Rapporto del Congresso Usa). Le osservazioni dai satelliti (sito della NASA) mostra come dal 1984 ad oggi la devastazione dell'ambiente si sia estesa anno per anno, interessando altri siti e creando sempre più ampi bacini di decantazione delle acque calde usate per fondere il bitume ed estrarre l’olio e contenere gli scarti di lavorazione. Alcune fosse hanno raggiunto quasi i 100 m di profondità e stanno liberando nell’aria anidride solforosa, ossidi di azoto, idrocarburi volatili e polveri fini, oltre a CO2. Solo da poco le autorità canadesi stanno ottenendo di far bonificare tali bacini.
La Fratturazione idraulica (Hydraulic Fracking).
Qui il processo di estrazione è più difficile perché i giacimenti sedimentari sono relativamente profondi, al di sotto delle falde acquifere, e racchiusi tra strati di rocce argillose impermeabili. E’ quindi è indispensabile ricorrere a tecniche di trivellazione mediante pozzi, simili a quelli per l’estrazione del petrolio. L’estrazione viene effettuata ricorrendo inizialmente a un pozzo verticale, ma che, nella parte finale sotterranea, si sviluppa orizzontalmente; lo “spillamento” (tapping) avviene attraverso la tecnica dell’“hydraulic fracking” (frantumazione idraulica) delle rocce scistose. La perforazione viene condotta per 1-3 km e man mano il pozzo viene incamiciato con una tubazione di acciaio. Le pareti del pozzo sono consolidate e cementificate fino al di sotto del livello delle falde naturali, per evitare che il gas o i fluidi di trivellazione ed estrazione risalgano all’esterno della tubazione di acciaio o finiscano nella falda stessa inquinandola. Una volta raggiunta la profondità del giacimento si fa compiere una svolta a gomito a 90° al pozzo di trivellazione e si prosegue ancora per alcune centinaia di metri continuando a incamiciarlo con la tubazione di acciaio. Quindi si inietta sotto forte pressione una sospensione di acqua e sabbia (per lo più silicea) contenente anche sostanze antiaggreganti, che servono a stabilizzarla, nonché battericidi e altri prodotti chimici. La parte terminale della camicia porta delle cariche che si fanno esplodere elettricamente, provocando sia dei fori nella tubazione che delle estese fratture, ramificate in tutte le direzioni, nelle fragili rocce circostanti. Le fratture e fenditure vengono mantenute pervie da grani di sabbia silicea opportunamente dimensionati. A volte, se la pressione di pompaggio è sufficientemente forte, bastano dei fori nella camicia di acciaio, senza bisogno di ricorrere a cariche esplosive. Il gas compresso, fuoriuscente dalle fratture, entra controcorrente nel pozzo, risalendolo fino alla superficie, dove viene incanalato verso gli impianti di stoccaggio e poi di raffinazione. Mentre continua il pompaggio forzato, l’acqua a sua volta risale e viene raccolta in ampi bacini aperti per far decantare i detriti e degassarsi parzialmente, quindi viene riutilizzata. Finora le principali contestazioni avevano riguardato il pericolo di inquinamento delle falde superficiali, vuoi per fratture nelle pareti di cemento dei pozzi, poco accuratamente colate, vuoi per la cattiva impermeabilizzazione del fondo dei bacini di raccolta delle acque di risalita dai pozzi (in qualche caso hanno traboccato a causa di piogge torrenziali). In un recente passato vi sono state aspre polemiche con le popolazioni della Pennsylvania, del Texas, del Colorado e altri Stati federali. Nel caso del Wyoming l’Agenzia per la Protezione Ambientale (EPA) ha riscontrato la presenza di additivi chimici, provenienti dal processo di fratturazione, nella falda acquifera. Talvolta dai rubinetti domestici sono fuoriusciti gas infiammabili o fanghi maleodoranti. Le Autorità dello Stato di New York hanno quindi proibito l’estrazione, con questo metodo, nei bacini idrografici utilizzati per l’approvvigionamento idrico. New York e Syracuse e hanno chiesto in generale di utilizzare solo serbatoi stagni per lo stoccaggio. Ciò potrebbe esser dovuto alla propagazione della rete di fratture fin nello strato argilloso che contiene in basso la falda di acqua potabile o al cedimento della camicia di cemento che protegge la parte più superficiale della tubazione di acciaio. Il metodo dell’Hydraulic Fracking comporta comunque un grande consumo di acqua: ogni pozzo nella sua vita estrattiva richiede da 7.5 a 15 milioni di litri di acqua, di cui il 75% risale nei bacini di raccolta e deve essere alla lunga depurata e smaltita, mentre il 25% rimane sottosuolo insieme alla sabbia. Inoltre vengono impiegati da 60 a 230 litri di agenti chimici (antiaggreganti, pesticidi etc.).

Revisione del 27 novembre 2014
MATTINO. Il calo dei prezzi del petrolio continua a preoccupare la finanza internazionale, nel giorno della riunione Opec che dovrà decidere se tagliare o meno la produzione. I dodici Paesi del cartello, che pesa per il 40% circa delle estrazioni al mondo e ha la sua guida nell'Arabia Saudita, avranno sul tavolo la possibile modifica dell'accordo di estrazione fissato a 30 milioni di barili al giorno. Dalle pre-riunioni di Vienna stanno però emergendo le intenzioni di non toccare quell'asticella. Sia l'Arabia Saudita che l'Iran, ad esempio, pensano che il mercato si regolerà da solo, attraverso il livellamento dei prezzi. Il problema è che nessuno vuole tagliare la produzione, per la paura di perdere quote di mercato in corrispondenza con la crescita della produzione Usa basata sullo shale. "La riunione Opec è l'evento principale" di giornata, spiega lo strategist di Cmc Markets, Michael McCarthy, a Bloomberg. "Le recenti prese di posizione saudite lasciano intendere che difficilmente il cartello accetterà tagli alla produzione, e se lo farà il mercato dubiterà delle reali possibilità che sia concretamente rispettato". Il panel di venti economisti dell'agenzia Usa è esattamente spaccato in due sul possibile esito del summit austriaco, ma ormai il mercato scommette su un nulla di fatto. Secondo l'Aie, con l'attuale livello di produzione Opec il prossimo anno si andrà verso un eccedenza di 1-1,5 milioni di barili al giorno. In un recente report, SocGen ha stimato che se i prezzi venissero lasciati oscillare sul mercato si potrebbe presto arrivare a circa 65 dollari al barile per il Wti. Ad ora, il valore del petrolio sta di nuovo scivolando verso il basso: sui mercati asiatici i future sul Light crude arretrano di 89 cent a 72,80 dollari e quelli sul Brent cedono di 1,22 dollari a 76,56 dollari. Il maggior livello di estrazione registrato negli Usa da trent'anni e la crisi economica che avvolge l'Europa sono stati gli elementi determinanti nel crollo dei prezzi, che hanno alimentato a loro volta la deflazione serpeggiante. Alcuni analisti prevedono un calo del wti a 50$ al barile e un concomitante rafforzamento del dollaro fino a 1,2 dollari per euro. Da giugno, le quotazioni hanno perso quasi un terzo del valore e i rischi di questa situazione - oltre che per i bilanci dei Paesi produttori, fortemente dipendenti dall'export di oro nero, e per i titoli del settore - iniziano a farsi sentire anche nella finanza. Come scrive il Financial Times, infatti, Barclays e Wells Fargo potrebbero incontrare forti perdite su un prestito da 850 milioni di dollari a due società petrolifere. Si tratta, per il quotidiano della City, di un segnale di come la flessione dei prezzi del greggio si stia facendo sentire sull'economia. D'altra parte la diminuzione del costo del peterolio si fa sentire favorevolmente sul costo dei trasporti e quindi sui prezzi dei beni di consumo, attenuando lo stato di deflazione dell'economia europea.

POMERIGGIO. Come da previsione non ci sarà il taglio della produzione di petrolio da parte dell'Opec. Lo ha annunciato il ministro del petrolio saudita, Al-Naimi, che così conferma quanto già anticipato. Il vertice dell'Opec si è concluso con la decisione di lasciare la produzione petrolifera invariata a 30 milioni di barili al giorno. Come ampiamente atteso, il cartello dei Paesi esportatori non è riuscito a trovare una intesa su una riduzione dell'offerta in risposta alle recenti cadute delle quotazioni. All’uscita della riunione, il ministro del Petrolio del Kuwait, Ali al-Omair, ha detto ai giornalisti che non c'è stato «nessun mutamento» degli obiettivi produttivi. Dopo la decisione dell’Opec, il prezzo del petrolio registra un nuovo minimo pluriennale. Sia il barile di Brent che il Wti americano hanno segnato minimi dall'agosto del 2010, rispettivamente a 74,36 e 70,87 dollari. Il Wti segna poi un ulteriore calo -6 per cento a 69,36 dollari. Il ministro del petrolio saudita ha lasciato il summit affermando che il cartello dei Paesi produttori ha preso una «grande decisione». A chi gli chiedeva se fosse vero che l'Opec ha deciso di non tagliare la produzione, al-Naimi ha risposto «esatto». La linea morbida di Riad è quindi prevalsa sui falchi come Venezuela e Iran, che premevano per una riduzione in modo da far risalire i prezzi. La decisione dell'Opec pesa sulle monete di due importanti esportatori come Russia e Norvegia. Il rublo arretra a quota 47,60 sul dollaro mentre la corona norvegese cede l'1% a quota 8,62 sull'euro. Il vertice di Vienna sancisce una novità nella vita dell’organizzazione: per la prima volta presidente dell’Opec sarà una donna, Diezani Alison-Madueke, attuale ministro del Petrolio nigeriano che entrerà in carica il prossimo anno. Si tratta della prima donna alla guida dell'organizzazione dei paesi produttori di petrolio. Nata il 6 dicembre 1960, Alison-Madueke, è nominata ministro dei Trasporti il 26 luglio 2007, per poi passare nel 2008 al dicastero delle miniere, dall’aprile 2010 è ministro delle Risorse Petrolifere. Come presidente Opec succede al libico Abdourhman Ataher Al-Ahirish.

Integrazione del 29/11/2014

Quando si parla di petrolio, è forte la tentazione di immaginare chissà quali retroscena geopolitici torbidi e perversi. Qualche volta ci sono, beninteso, ma stavolta no: l'Opec si trova davvero spiazzata".
Leonardo Maugeri, docente ad Harvard e fra i massimi esperti internazionali di energia, smorza le teorie complottiste sul ribasso del greggio.
"Il problema è un altro: negli ultimi anni è stato avviato un gran numero di investimenti di sviluppo che ora stanno dando i loro frutti per cui c'è sovrabbondanza di offerta di petrolio in un momento in cui l'economia globale stenta a riprendersi".
Ma non era facile per l'Opec tagliare la produzione prezzi?
"Qui entra in gioco un problema psicologico dell'Opec e dell'Arabia Saudita in particolare, che teme di fare un regalo ad altri produttori mondiali con un taglio unilaterale. E' sempre successo che quando l'Opec ha provocato un rialzo dei prezzi tagliando la sua produzione, ne hanno tratto vantaggio tutti gli altri produttori del pianeta, soprattutto fuori Opec, che hanno costi di produzione alti. Ho parlato in questi giorni con alti dirigenti e ministri dell'Opec: da anni cerco di convincerli che il mercato sta cambiando, ma incontro resistenze difficili da spiegare. E sulla questione della shale oil americano non riescono a capacitarsi".
Che è tanto, che potrebbe essere in futuro esportato?
"Anche, e in quel caso avrebbero l'amara sorpresa che costa meno di quanto loro pensino. Non si capacitano del fatto che in America le raffinerie utilizzino lo shale oil anziché il petrolio del Golfo, che in teoria andrebbe meglio essendo molto pesante. Ma il vantaggio è azzerato dallo sconto dello shale oil rispetto ai prezzi internazionali. Inoltre gli Usa non esportano greggio ma prodotti raffinati, il che è lo stesso. L'America ha esportato nell'ultimo mese 4,5 milioni di barili al giorno, il terzo produttore mondiale dopo Arabia Saudita e Russia. Ed è in grado di reggere una concorrenza fino a 50 dollari al barile".
Si arriverà così in basso?
"Non lo escludo, viste le dinamiche di mercato e il non intervento dell'Opec".
Lei citava la Russia, e proprio Mosca è al centro di diverse spy-story, si parla di un complotto saudita-americano per abbatterne le entrate. Cosa c'è di vero?
"L'unica cosa probabilmente vera riguarda l'Iran. L'Arabia Saudita non vede di buon occhio il reingresso di Teheran nella comunità globale per motivi di potenza regionale. Quindi tende ad abbatterne gli introiti petroliferi rischiando però di abbattere i suoi. Ma Ryadh preferisce ricorrere ad altre insidie per ridimensionare l'Iran, per esempio facendo pressioni sull'America perché non gli conceda nulla sul piano nucleare ".
Una domanda inevitabile: perché il collasso del petrolio ha effetti marginali sul prezzo della benzina in Italia?
"In parte c'è il fattore-cambio, con il dollaro che sta apprezzandosi sull'euro. Secondo i calcoli più attendibili, se il cambio arriverà a 1,17 dollari, sarà annullato l'effetto-ribasso. Poi c'è il discorso della fiscalità, che in Europa e in Italia in particolare è molto più pesante che in America. Negli Usa conta per il 20%, in Europa per il 60%, oltretutto con una massiccia presenza di accise, tasse fisse che non risentono di alcuna variazione della materia prima. Poi c'è l'Iva, la tassa sulla tassa. In comune c'è la sensibilità politica della materia: negli Stati Uniti se Obama provasse a rialzare le tasse sulla benzina, si troverebbe schierato contro un agguerritissimo Congresso, per non parlare del malcontento popolare che susciterebbe. Infine, ci sono da considerare due fattori specifici dell'Italia: la rete di distribuzione che è la più estesa e costosa d'Europa, e poi il fatto che il singolo benzinaio è pagato molto di più che nel resto del continente".

shale oil

Schema di estrazione dello shale oil

LOGO

24 novembre 2014

Eugenio Caruso (con la collaborazione di Cristiano Caruso).



www.impresaoggi.com