Analisi del DE TRANQUILLITATE ANIMI di Seneca.


La virtù non resta mai nascosta ma manda segnali di sè: chiunque ne sarà degno la recupererà dalle tracce.
Seneca, De tranquillitate animi

La mia passione per Seneca nasce grazie a qualche discussione avuta con il mio professore di filosofia del liceo, alle lunghe chiacchierate, sulla vita e sulla morte, con un mio compagno di liceo e, infine, con la vera passione che mi ha coinvolto, oramai, da una decina di anni. Questo è, pertanto, il primo articolo di una serie che parlerà delle opere di Seneca. Giova pertanto che faccia un breve resoconto della sua vita.

Lucio Annéo Seneca, figlio di Seneca il Vecchio, nacque a Cordova, capitale della Spagna Betica, una delle più antiche colonie romane fuori dal territorio italico, in un anno di non certa determinazione; i fratelli erano Novato e Melo, padre del futuro poeta Lucano. Le possibili date attribuite dagli studiosi sono in genere tre: il 3 a.C., il 4 a.C. o l'1 a.C.; sono tutte ipotesi possibili che si fondano su vaghi accenni presenti in alcuni passi delle sue opere, in particolare nel De tranquillitate animi e nelle Epistulae morales ad Lucilium. La famiglia di Seneca, gli Annaei, aveva origini antiche ed era Hispaniensis, cioè non originaria della Spagna, ma discendente da immigrati italici, trasferitisi nella Hispania Romana nel II secolo a.C., durante la fase iniziale della colonizzazione della nuova provincia. La città di Corduba, la più famosa e grande di tutta la provincia, aveva assimilato fin dalle origini l'élite economica e intellettuale della popolazione italica; intensi erano i suoi rapporti con Roma e con la cultura latina.
Non si hanno notizie di esponenti della famiglia degli Annaei coinvolti in attività pubbliche prima di Seneca. Il padre del filosofo, Seneca il Vecchio, era di rango equestre, come attesta Tacito negli Annales, e autore di alcuni libri di Controversiae e di Suasoriae; scrisse anche un'opera storica che però è andata perduta. A Roma egli trovò il luogo ideale per realizzare le proprie ambizioni. Al fine di rendere più agile l'inserimento dei figli nella vita sociale e politica, negli anni del principato di Augusto si trasferì a Roma, dove si appassionò all'insegnamento dei retori e divenne assiduo frequentatore delle sale di declamazione. Sposò in età abbastanza giovane una donna di nome Elvia da cui ebbe tre figli:
il primogenito Lucio Anneo Novato, che prese il nome di Lucio Giunio Gallio Anneano dopo l'adozione da parte dell'oratore Giunio Gallio; intraprese la carriera senatoria e diventò proconsole sotto Claudio.
il secondogenito Lucio Anneo Seneca.
il terzogenito Lucio Anneo Mela (padre del poeta Lucano), che si dedicò agli affari.
Lo stesso Seneca parla dei suoi fratelli:
« Volgiti ai miei fratelli, vivendo i quali non ti è lecito accusare la fortuna. In entrambi hai quanto può allietarti per qualità opposte: uno, con il suo impegno, ha raggiunto alte cariche, l'altro, con saggezza, non se ne è preso cura; trai sollievo dall'alta posizione dell'uno, dalla vita quieta dell'altro, dall'affetto di entrambi. Conosco i sentimenti intimi dei miei fratelli: uno ha cura della sua posizione sociale per esserti di ornamento, l'altro si è raccolto in una vita tranquilla e quieta per aver tempo di dedicarsi a te.» (Consolatio ad Helviam, 18, 2).
Seneca, fin dalla giovinezza, ebbe alcuni problemi di salute: era soggetto a svenimenti e attacchi d'asma che lo tormentarono per diversi anni e lo portarono a vivere momenti di disperazione, come egli ricorda in una lettera:
« La mia giovinezza sopportava agevolmente e quasi con spavalderia gli accessi della malattia. Ma poi dovetti soccombere e giunsi al punto di ridurmi in un'estrema magrezza. Spesso ebbi l'impulso di togliermi la vita, ma mi trattenne la tarda età del mio ottimo padre. Pensai non come io potessi morire da forte, ma come egli non avrebbe avuto la forza di sopportare la mia morte. Perciò mi imposi di vivere; talvolta ci vuole coraggio anche a vivere.» (Epistulae ad Lucilium, 78, 1-2)
E ancora:
« L'assalto del male è di breve durata; simile a un temporale, passa, di solito, dopo un'ora. Chi, infatti, potrebbe sopportare a lungo quest'agonia? Ormai ho provato tutti i malanni e tutti i pericoli, ma nessuno per me è più penoso. E perché no? In ogni altro caso si è ammalati; in questo ci si sente morire. Perciò i medici chiamano questo male "meditazione della morte": talvolta, infatti, tale mancanza di respiro provoca il soffocamento. Pensi che ti scriva queste cose per la gioia di essere sfuggito al pericolo? Se mi rallegrassi di questa cessazione del male, come se avessi riacquistato la perfetta salute, sarei ridicolo come chi credesse di aver vinto la causa solo perché è riuscito a rinviare il processo.» (Epistulae ad Lucilium, 54, 1-4)
Seneca ricevette a Roma un'accurata istruzione retorica e letteraria, come voleva il padre, benché egli si interessasse più che altro di filosofia. Seguì quindi gli insegnamenti di un grammaticus e in seguito avrebbe ricordato del tempo perduto presso di lui (Epistulae ad Lucilium, 58,5). Egli non mostrò dunque interesse per la retorica, anche se questo tipo di formazione gli sarebbe stato utile per la sua esperienza futura di scrittore. Fondamentale per lo sviluppo del suo pensiero fu la frequentazione della scuola cinica dei Sestii: il maestro Quinto Sestio rappresentò per Seneca il modello dell'asceta immanente che cerca il continuo miglioramento attraverso la nuova pratica dell'esame di coscienza.
Ebbe come maestri di filosofia Sozione di Alessandria, Attalo e Papirio Fabiano, appartenenti rispettivamente al neopitagorismo, allo stoicismo e al cinismo.
Seneca seguì molto intensamente gli insegnamenti dei maestri, che esercitarono su di lui un profondo influsso sia con la parola sia con l'esempio di una vita vissuta in coerenza con gli ideali professati. Da Attalo imparò i principi dello stoicismo e l'abitudine alle pratiche ascetiche. Da Sozione, oltre ad apprendere i principi delle dottrine di Pitagora, fu avviato per qualche tempo verso la pratica vegetariana; venne distolto però dal padre che non amava la filosofia e dal fatto che l'imperatore Tiberio proibisse di seguire consuetudini di vita non romane:
« Sozione spiegava perché Pitagora si era astenuto dal mangiare carne di animali e perché in seguito se ne era astenuto Sestio. Le loro motivazioni erano diverse, ma entrambe nobili. [...] Spinto da questi discorsi, cominciai ad astenermi dalle carni, e dopo un anno questa abitudine non solo mi riusciva facile, ma anche piacevole. Mi sentivo l'anima più agile e oggi non oserei affermare se fosse realtà o illusione. Vuoi sapere come vi ho rinunciato? L'epoca della mia giovinezza coincideva con l'inizio del principato di Tiberio: allora i culti stranieri erano condannati e l'astinenza dalle carni di certi animali era considerata come segno di adesione a questi culti. Mio padre, per avversione verso la filosofia più che per paura di qualche delatore, mi pregò di tornare agli antichi usi: e, senza difficoltà, ottenne che io ricominciassi a mangiare un po' meglio.» (Epistulae ad Lucilium, 108, 17-22)
I precetti di tutti i maestri che ne influenzarono il pensiero e la caratteristica vocazione eclettica della filosofia romana portarono Seneca a maturare un'ideologia filosofica prevalentemente stoica, seppur contenente elementi epicurei (distacco del sapiens dal volgo per l'elevazione spirituale), cinici (stile diatribico, più che dialogico e il tema della libertà dalle passioni), medioplatonici (idea spirituale della divinità), socratici (libertà perseguibile attraverso la conoscenza) e aristotelici (importanza delle scienze). Trova anche particolare risalto nel pensiero senechiano il tema pitagorico dell'esame di coscienza, caro ai Sesti, di cui leggiamo largamente nel suo epistolario.
L'asistematicità del pensiero senechiano e la proclamata indipendenza dalle fonti, non si configurano tuttavia come un banale eclettismo. Emerge dal corpus senechiano una reinterpretazione personale delle conoscenze trasmesse al filosofo dai maestri che convive con il chiaro prevalere dello stoicismo. Proprio dallo stoicismo sono desunti i due principi di base della filosofia senechiana: natura e ragione. L'uomo, secondo Seneca, deve innanzitutto conformarsi alla natura e, parimenti, obbedire alla ragione, vista come ratio, lògos greco, divino principio che regge il mondo.
Una nota di particolare distacco rispetto alla dottrina stoica sta alla base della figura del sapiens, il saggio. Lo spirito latino pragmatico di Seneca lo porta a eliminare i tratti disumani attribuiti al sapiente. La saggezza si configura così come dominazione ragionevole delle passioni e non come apatia e immunità ai sentimenti. L'ascesi spirituale del saggio si compone di cinque tappe fondamentali:
1.Trionfo sulle passioni: innanzitutto paura, dolore e superstizione.
2.Esame di coscienza: pratica comune nella dottrina pitagorica.
3.Consapevolezza di essere parte del lògos: realizzare di essere creature ragionevoli, parte del progetto provvidenziale della ragione.
4.Accettazione e riconoscimento: il sapiente riconosce ciò che è parte della ratio e cosa no, rendendosi conto di farne parte.
5.Raggiungimento della libertas interiore: attraverso la ragione l'uomo può vivere felice.
La sapienza si configura così come un mezzo e non come un fine. Viene ad essere il mezzo attraverso il quale l'uomo raggiunge la libertà interiore e non una conoscenza fine a sé stessa.
Nell'ideologia filosofica di Seneca trova spazio anche la concezione filosofica delle scienze ispirata da Aristotele. Lo studio dei fenomeni della natura infatti consente all'uomo di conoscere la ratio, di cui fanno tutti parte, e attraverso questi, assimilarsi in essa.
Attorno al 20 Seneca si recò in Egitto, dove stette per diverso tempo, anche se non è possibile stabilire esattamente quanto a lungo. Vi andò per curare le crisi di asma e la bronchite ormai cronica da cui era afflitto. Fu ospite del procuratore Gaio Galerio, marito della sorella di sua madre Elvia.
Qui approfondì la conoscenza del luogo sia nelle sue componenti geografiche sia in quelle religiose, come racconta nelle Naturales quaestiones (IV, 2, 1-8). Il contatto con la cultura egizia gli permise di confrontarsi con una diversa concezione della realtà politica (in Egitto il principe era ritenuto un dio) e gli offrì una più ampia e complessa visione religiosa.
Probabilmente il suo allontanamento da Roma fu dovuto anche a ragioni di prudenza politica, conseguente allo scioglimento da parte di Tiberio della setta dei Sestii di cui facevano parte due dei maestri di Seneca.
Dopo essere tornato da un viaggio in Egitto, nel 31 iniziò l'attività forense e la carriera politica (divenne dapprima questore ed entrò a far parte del Senato) godendo di una notevole fama come oratore, al punto di far ingelosire l'imperatore Caligola, che nel 39 lo voleva eliminare, soprattutto per la sua concezione politica rispettosa delle libertà civili. Si salvò grazie ai buoni uffici di un'amante del princeps, la quale affermava che comunque sarebbe morto presto a causa della sua salute.
Due anni dopo, nel 41, il successore di Caligola, Claudio, istigato dalla moglie Valeria Messalina, lo condannò all'esilio in Corsica con l'accusa di adulterio con la giovane Giulia Livilla, sorella di Caligola.
In Corsica Seneca restò fino al 49, quando Agrippina minore, nipote e moglie di Claudio dopo l'esecuzione di Messalina, riuscì a ottenere il suo ritorno dall'esilio e lo scelse come tutore del figlio Nerone. Secondo Tacito sarebbero tre i motivi che spinsero Agrippina a questo: l'educazione di suo figlio, attirarsi le simpatie dell'opinione pubblica (Seneca era considerato uomo di grande cultura) e avere stretti rapporti con lui per riuscire ad impadronirsi del potere.
Seneca accompagnò l'ascesa al trono del giovane Nerone (54 - 68) e lo guidò durante il suo cosiddetto "periodo del buon governo", il primo quinquennio del principato. Assunse un grande potere politico, che gli consentì di divenire estremamente ricco. Si narra che avesse una collezione di cento tavoli di cedro. Progressivamente, a causa delle intemperanze del giovane imperatore, tale rapporto si deteriorò. Giustificò come il "male minore" l'esecuzione della madre di Nerone, Agrippina, nel 59, e se ne assunse tutto il peso morale. In seguito, il rapporto con l'imperatore peggiorò e, temendo quindi per la propria vita, Seneca si ritirò a vita privata, donando a Nerone tutti i suoi averi e dedicandosi interamente ai suoi studi e insegnamenti. Famoso il suo epistolario con Lucilio, al tempo Governatore della Sicilia, di origine pompeiana. Finalmente adottò quello stile di vita che andava insegnando, dimostrando di essere un amministratore dei suoi beni e non un amministrato.
Nerone, tuttavia, continuava a nutrire una crescente insofferenza verso Seneca e Sesto Afranio Burro, Prefetto del Pretorio, morto nel 62. Egli non aspettava che un pretesto per eliminarlo. L'occasione venne col fallimento della congiura dei Pisoni (aprile 65) contro la sua persona, della quale Seneca forse era solamente informato, ma di cui non si sa se sia stato partecipe. Ricevette quindi l'ordine di togliersi la vita. Si tagliò le vene, prima dei polsi, poi delle gambe e delle ginocchia, ma poiché il sangue, lento per la vecchiaia e la denutrizione, non defluiva, dovette ricorrere alla cicuta, veleno usato anche da Socrate. Tuttavia la lenta emorragia non gli permise di deglutire; così, secondo la testimonianza di Tacito, si immerse in una vasca di acqua calda per favorire la perdita di sangue e raggiungere una morte lenta e straziante, che arrivò per soffocamento causato dai vapori caldi.
Il togliersi la vita, d'altronde, fu in perfetta armonia con i principi professati dallo stoicismo di età imperiale, di cui Seneca fu uno dei maggiori esponenti: il saggio deve giovare allo stato, res publica minor, ma, piuttosto che compromettere la propria integrità morale, deve essere pronto all'extrema ratio del suicidio.
La vita non è, infatti, uno di quei beni di cui nessuno ci può privare, rientrando quindi nella categoria degli indifferenti, quelli sono solo la saggezza e la virtù; la vita è piuttosto come la ricchezza, gli onori, gli affetti: uno di quei beni, dunque, che il saggio deve essere pronto a restituire quando la sorte li chiede indietro. Seneca, perciò, affrontò l’ora fatale con la serena consapevolezza del filosofo: egli, come racconta Tacito (Annales, LXII), non potendo fare testamento dei restanti beni (requisiti da Nerone), lasciò in eredità ai discepoli l’immagine della sua vita, richiamandoli alla fermezza per le loro lacrime, dato che esse erano in contrasto con gli insegnamenti che lui aveva sempre dato loro. Il vero saggio deve raggiungere infatti l’apatheia, apatia, ovvero l'imperturbabilità che lo rende impassibile di fronte ai casi della sorte.

OPERE.
I Dialoghi di Seneca sono dieci, distribuiti in dodici libri:
1.Ad Lucilium de providentia;
2.Ad Serenum de constantia sapientis;
3.Ad Novatum De ira in tre libri;
4.Ad Marciam de consolatione;
5.Ad Gallionem de vita beata;
6.Ad Serenum de otio;
7.Ad Serenum de tranquillitate animi (questo articolo)
8.Ad Paulinum de brevitate vitae;
9.Ad Polybium de consolatione;
10.Ad Helviam matrem de consolatione.

I trattati
Il De beneficiis
Il De beneficiis risale al periodo 62-64 ed è scandito in sette libri, sviluppa il concetto di "beneficenza" come principio coesivo di una società fondata su una monarchia illuminata. Sembra che sia stato composto quando Seneca si era reso conto del fallimento dell'educazione morale di Nerone. Concetto fondamentale dell'opera è che il beneficium è un atto di generosità consapevole. Il "De beneficiis" è rivolto ad Ebuzio Liberale, un amico che Seneca frequentò soprattutto durante gli anni successivi al ritiro a vita privata. Seneca analizza il dare ed il ricevere, la gratitudine e l'ingratitudine; mette in luce i forti limiti connessi all'istituto tipicamente romano dei favori reciproci, determinati dai diffusi rapporti clientelari tra i cittadini, ed elabora una nuova concezione di beneficium - favore disinteressato, che possa basarsi su un sentimento di giustizia e non sulla speranza di essere ricambiati. Egli ricorda inoltre come il desiderio di vendetta debba essere estirpato dal proprio animo, poiché il vero sapiens è consapevole del fatto che sia bene restituire al prossimo ciò che da lui riceviamo tranne quando egli ci fa un torto. In tal caso, la patientia, sopportazione stoica derivante dalla propria superiorità alle questioni terrene, è la virtù da coltivare. In un passo di quest'opera egli paragona gli uomini ad un popolo di mattoni, che messi in coesione l'uno sull'altro si sostengono a vicenda e reggono la volta dell'edificio della società.

Il De clementia
Il De clementia ("La clemenza") fu composto tra il 55 e il 56 e ci è giunto incompleto (non è chiaro se incompiuto o mutilo). L'opera è indirizzata a Nerone, da poco divenuto imperatore, di cui Seneca elogia la moderazione e la clemenza, definita come la "moderazione d'animo di chi può vendicarsi" o l'"indulgenza", e che invita a comportarsi con i suoi sudditi come un padre con i figli. Seneca non mette in discussione il potere assoluto dell'imperatore, ed anzi lo legittima come un potere di origine divina. A Nerone il destino ha assegnato il dominio sui suoi sudditi, ed egli deve svolgere questo compito senza far sentire su di loro il peso del potere. Questa tesi trova il supporto filosofico nella dottrina politica stoica, secondo cui la monarchia è la forma di governo migliore, all'unica condizione che il sovrano sia sapiente, e trattenendo i suoi sentimenti più violenti, sappia esercitare con temperanza il suo potere.

Le Naturales quaestiones
Sviluppate in sette libri, le Naturales quaestiones furono composte nell'ultima parte della vita di Seneca. L'edizione a noi giunta non è integrale e differisce quasi sicuramente dall'edizione originale per ordine e composizione. Interessante è il fatto che, per molti versi, Seneca appare ben poco stoico e più vicino a considerazioni di tipo platonico, anche se egli non rinnegherà il suo stoicismo. Principi "platonici" possono essere ritrovati soprattutto nella prefazione al primo libro, nella quale si avverte un forte contrasto tra anima e corpo (visto come prigione dell'anima) e dalla caratterizzazione trascendentale di Dio privo di corporeità e non immanente. Questi, principalmente, sono gli argomenti su cui Seneca si sofferma:
1. libro: I fuochi - Gli specchi
2. libro: Lampi e folgori
3. libro: Le acque terrestri (completo)
4. libro: il Nilo - Neve, pioggia, grandine
5. libro: I venti
6. libro: I terremoti
7. libro: Le comete
Innanzitutto per comprendere appieno il testo è necessario capire che lo scopo che Seneca si prefigge, non è quello di raccogliere ordinatamente ogni conoscenza dell'epoca (cosa che invece possiamo intendere almeno in parte nel Naturalis historia di Plinio il vecchio) bensì quello di liberare l'uomo dalla paura e dalla superstizione intorno ai fenomeni naturali, compiendo così una operazione simile a quella di Lucrezio nel suo De rerum natura (seppur con le dovute differenze ed eccezioni). Affrontando il testo, troviamo fin dal primo libro una chiara presa di posizione di Seneca nella quale si scopre l'intento primo dell'opera: permettere all'uomo, una volta scevro dalle false credenze che avvolgono la natura, di ascendere ad una dimensione più divina. Di particolare importanza sono il paragrafo 8-9: Hoc est illud punctum quod tot gentes ferro et igne dividitur? O quam ridiculi sunt mortalium termini! ("È tutto qui quel punto [la Terra, ndt] che viene diviso col ferro e col fuoco fra tante popolazioni? Oh quanto ridicoli sono i confini posti dagli uomini!"), nel quale l'anima libera oramai dalla sua fisicità, comprende l'inutilità degli affanni, dell'avidità e delle guerre. Spesso quest'opera viene tacciata di poca scientificità, tuttavia viene da domandarsi se di scientificità si possa propriamente parlare: anche se per certi versi Seneca mostra alcuni atteggiamenti "scientifici", quali l'osservazione diretta, la riflessione razionale posteriore ad essa e la discussione di eventuali altre teorie, per Seneca la conoscenza è solo un mezzo per elevarsi sino a Dio; molto spesso, inoltre, l'autore divaga in argomentazioni e questioni di tipo morale o religioso e non sono rare le parti propriamente "filosofiche".

Le Epistole a Lucilio
Seneca, nella produzione successiva al ritiro dalla scena politica (62), volse la sua attenzione alla coscienza individuale. L'opera principale della sua produzione più tarda, e la più celebre in assoluto, sono le Epistulae morales ad Lucilium, una raccolta di 124 lettere divise in 20 libri di differente estensione (fino alle dimensioni di un trattato) e di vario argomento indirizzate all'amico Lucilio (personaggio di origini modeste, proveniente dalla Campania, assurto al rango equestre e a varie cariche politico-amministrative, di buona cultura, poeta e scrittore). È un'opera sulla quale v'è una discussione se siano vere e proprie lettere inviate da Seneca a Lucilio o una finzione letteraria. Verosimilmente si tratta di un epistolario reale (varie lettere richiamano quelle di Lucilio in risposta), integrato da lettere fittizie (quelle più ampie e sistematiche), inserite nella raccolta al momento della pubblicazione. L'opera, che è giunta incompleta e risale al periodo del disimpegno politico (62-65), sebbene l'idea di comporre lettere di carattere filosofico indirizzate ad amici venga da Platone e da Epicuro, costituisce sostanzialmente un unicum nel panorama letterario e filosofico antico, e Seneca è perfettamente consapevole di introdurre un nuovo genere nella cultura letteraria latina. Il filosofo distingue le lettere filosofiche dalla comune pratica epistolare, anche da quella di tradizione più illustre, rappresentata da Cicerone. Seneca prende come esempio Epicuro, il quale, nelle lettere agli amici, ha saputo realizzare quel rapporto di formazione e di educazione spirituale che Seneca istituisce con Lucilio. Le lettere di Seneca vogliono essere uno strumento di crescita morale. Riprendendo un topos dell'epistolografia antica, Seneca sostiene che lo scambio epistolare permette di istituire un colloquium con l'amico, fornendo un esempio di vita che, sul piano pedagogico, è più efficace dell'insegnamento dottrinale. Seneca, proponendo ogni volta un nuovo tema, semplice e di apprendimento immediato, alla meditazione dell'amico discepolo, lo guida al perfezionamento interiore; per lo stesso motivo, nei primi tre libri, Seneca conclude ogni lettera con una sentenza che offre uno spunto di meditazione. Le sentenze sono tratte da Epicuro, anche se Seneca non si dichiara suo seguace. Egli sostiene, infatti, che ogni massima moralmente valida è utile, da qualsiasi fonte provenga. Lo scrittore ritiene l'epistola lo strumento più adatto per la prima fase dell'educazione spirituale, fondata sull'acquisizione di alcuni principi basilari; più tardi, con l'accrescimento delle capacità analitiche del discente e del suo patrimonio dottrinale, sono necessari strumenti di conoscenza più impegnativi e complessi. La forma letteraria si adegua, quindi, ai diversi momenti del processo di formazione e le singole lettere, col procedere dell'epistolario, divengono sempre più simili al trattato filosofico. A tal proposito all'interno delle lettere a Lucilio si può ricavare una vera e propria istruzione sulla lettura. Seneca insegna al suo corrispondente una modalità di lettura attenta («lectio certa», Ad Luc., 45,1), che non bada al numero delle pagine lette, che approfondisce i contenuti interrompendosi spesso. Egli non vuole un lettore di molti libri, non ama le biblioteche immense, come quella di Alessandria. In conformità con la sua morale, la lettura in Seneca diventa un esercizio di virtù, da fare senza fretta (cfr Ad Luc., 2,2) e non per alimentare la curiosità (Ad Luc., 2,4), evitando di disperdersi nella moltitudine dei libri ma piuttosto cercando di cogliere la verità di sé (cfr Ad Luc. 45,4) nel controluce della verità di chi scrive.[4] Non meno importante dell'aspetto teorico è l'intento esortativo: Seneca vuole non solo dimostrare una verità, ma anche invitare al bene. Il genere epistolare si rivela appropriato ad accogliere un tipo di filosofia priva di sistematicità e incline alla trattazione di aspetti parziali o singoli temi etici. Gli argomenti delle lettere, suggeriti per lo più dall'esperienza quotidiana, sono svariati, e nella varietà, nell'occasionalità e nel collegamento fra vita vissuta e riflessione morale, sono evidenti le affinità con la satira, soprattutto oraziana. Seneca parla delle norme cui il saggio si deve attenere, della sua indipendenza e autosufficienza, della sua indifferenza alle seduzioni mondane e del suo disprezzo per le opinioni correnti e propone l'ideale di una vita indirizzata al raccoglimento e alla meditazione, al perfezionamento interiore mediante un'attenta riflessione sulle debolezze e i vizi propri e altrui. La considerazione della condizione umana che accomuna tutti i viventi lo porta ad esprimere una condanna del trattamento comunemente riservato agli schiavi, con accenti di intensa pietà che hanno fatto pensare al sentimento della carità cristiana: in realtà l'etica senecana resta profondamente aristocratica, e lo stoico che esprime pietà per gli schiavi maltrattati manifesta anche il suo irrevocabile disprezzo per le masse popolari abbrutite dagli spettacoli del circo. Nelle Epistole, l'otium è costante ricerca del bene, nella convinzione che le conquiste dello spirito possano giovare non solo agli amici impegnati nella ricerca della sapienza, ma anche agli altri, e che le Epistole possano esercitare il loro benefico influsso sulla posterità. L'opera senecana, e soprattutto le “Epistulae ad Lucillium”, si inserisce in quel momento storico durante il quale il principato con gli ultimi esponenti della famiglia Giulia stava soffocando le libertà civili e riducendo il senato, un tempo garante del diritto, a semplice strumento sottoposto alla volontà del princeps. Si capisce perciò il desiderio di Seneca di scrutare entro la propria coscienza e in essa ricercare i motivi fondamentali delle virtù, e quindi della libertà interiore, attingendo al pensiero di Platone e di Aristotele, ma soprattutto di Epicuro e della scuola stoica. Un Seneca alla ricerca del superamento delle remore negative del suo tempo per proiettarsi in un'area universale, ridiventando così padrone di sé stesso. Forse un pessimismo celato e rivolto all'inerzia? I critici, almeno in un primo momento, se lo sono chiesto; tuttavia non si può escludere che egli abbia operato negli anni della sua maturità per evitare gli equivoci, le contraddizioni e ogni forma di egoismo, proiettando nel contempo la persona, data la ricchezza dello spirito, oltre il tempo. Quasi un porsi nella dimensione divina, per cui i beni terreni, fonte di egoismi e di ingiustizie, vengono annullati. E al loro posto ecco la persona conscia della sua dignità. Di qui le tante lettere al suo discepolo e amico, Lucilio, quasi proiezione di se stesso, o almeno di come avrebbe voluto essere. A sostegno di tutto ciò la filosofia, vista come regola di vita. Molti i critici e gli studiosi che vedono negli ultimi scritti di Seneca un allineamento, inconsapevole, alle tesi fondamentali della dottrina paolina; e più tardi quasi ispiratori delle Confessioni di Sant'Agostino. Ed è significativo che il pensiero di Seneca nel tempo attuale attragga molte persone e non pochi studiosi alla ricerca di più vasti valori inerenti all'esistenza umana, così da sfuggire alle molteplici sollecitazioni che, tramite i media, cercano di spingere verso un superficiale edonismo.

Le tragedie
Le tragedie ritenute autentiche sono nove (qualche dubbio sussiste per l'Octavia), tutte di soggetto mitologico greco (a Roma tale genere veniva definito "cothurnata", dal "coturno", calzatura tipica degli attori tragici):
- Hercules furens: è costruita sul modello dell'Eracle euripideo: Giunone provoca la follia di Ercole. In conseguenza a ciò l'eroe uccide moglie e figli. Una volta rinsavito, determinato a suicidarsi, egli si lascia distogliere dal suo proposito e si reca infine ad Atene a purificarsi.
- Troades: è la contaminazione dei soggetti di due drammi euripidei, Le troiane e l'Ecuba. La tragedia rappresenta la sorte delle donne troiane prigioniere e impotenti dì fronte al sacrificio di Polissena, figlia di Priamo e del piccolo Astianatte, figlio di Ettore e Andromaca.
- Phoenissae: è l'unica tragedia senecana incompleta, basata sulle Fenicie di Euripide e sull'Edipo a Colono di Sofocle. La vicenda ruota attorno al tragico destino di Edipo e all'odio che divide i suoi figli, Etèocle e Polinice.
- Medea: naturalmente si rifà all'omonima tragedia di Euripide e, forse, anche a una fortunata tragedia - purtroppo per noi perduta - di Ovidio. Narra la cupa vicenda della principessa della Colchide abbandonata da Giasone e assassina, per vendetta, dei figli avuti da lui.
- Phaedra: la tragedia presuppone il celebre modello euripideo dell'Ippolito, di una tragedia perduta di Sofocle e della quarta delle Heroides ovidiane: tratta dell'incestuoso amore di Fedra per il figliastro Ippolito e del drammatico destino che si abbatte sul giovane, restio alle seduzioni della matrigna, la quale, per vendetta, ne provoca la morte denunciandolo al marito Teseo, padre di Ippolito.
- Oedipus: ispirata al celeberrimo Edipo re sofocleo, narra il mito tebano di Edipo, inconsapevole uccisore del padre Laio e sposo della madre Giocasta. Alla scoperta della tremenda verità egli reagisce accecandosi.
- Agamemnon: si ispira, assai liberamente, all'omonimo dramma di Eschilo. La tragedia rievoca l'assassinio del re, al ritorno da Troia, per mano della moglie Clitennestra e dell'amante Egisto.
- Thyestes: rappresenta una vicenda mitica già trattata in opere di Eschilo, Sofocle, Euripide, Ennio e Accio (tutte perdute). Atreo, animato da odio mortale per il fratello Tieste, che gli ha sedotto la sposa, si vendica con un finto banchetto di riconciliazione in cui imbandisce al fratello ignaro le carni dei figli.
- Hercules Oetaeus: letteralmente "Ercole sull'Eta", dal nome del monte su cui si svolge l'evento culminante del dramma, la tragedia è modellata sulle Trachinie di Sofocle, è trattato il mito della gelosia di Deianira, che per riconquistare l'amore di Ercole, innamoratosi della concubina Iole, gli invia una tunica intrisa del sangue del centauro Nesso, creduto un filtro d'amore e in realtà dotato di potere mortale: tra dolori atroci Ercole muore ed è assunto fra gli dei. Fortissime, in quest'opera, le analogie con la vita di Gesù di Nazareth. Un fatto che dà ragione a molti storici secondo i quali, già negli anni di Seneca, il Cristianesimo era diffuso nei circoli degli intellettuali e tra i patrizi romani a pochi anni dalla morte di Gesù. L'Ercole di questa tragedia, infatti, muore e risorge, è assunto tra gli dei, si rivolge a Giove come "pater", viene tradito da un amico che si suicida. Non solo: alla sua morte getta un urlo fortissimo, ne segue un terremoto, ascende al cielo ed è presente nel testo anche la trasfigurazione di Ercole. Infine, dopo la risurrezione, Ercole si identifica con Giove e ne assume i poteri.

Con questo De tranquillitate animi inizio l'analisi di uno dei massimi pensatori dello stoicismo, la cui filosofia costituisce una pietra fondante della cultura europea.
L'opera, come detto, fa parte dei Dialogorum Libri, raccolta di scritti filosofici, ciascuno relativo a singoli aspetti o problemi particolari dell'etica stoica. Il trattato, scritto attorno al 62 d.C. (quando Seneca ha ormai deciso di lasciare la politica), è dedicato all'amico Anneo Sereno, che aveva chiesto al filosofo una risposta a un problema esistenziale già dibattuto dal pensiero platonico e stoico: come risolvere il taedium vitae, ovvero l'inquietudine, il senso di vuoto e di insoddisfazione che affliggono l'esistenza umana. Sereno è combattuto tra il vivere una vita parsomoniosa (... sono preda di un grandissimo amore per la parsimonia, lo confesso: mi piace un letto non preparato per l'ostentazione, una veste non tirata fuori dal forziere. Mi piace il cibo che non debbano elaborare e sorvegliare stuoli di servi, non ordinato molti giorni prima, né servito dalle mani di molti, ma facile a reperirsi e semplice, un cibo che non ha nulla di ricercato o di prezioso, che non verrà a mancare da nessuna parte si vada, non oneroso per il patrimonio né per il corpo .... Mi piacciono il servo alla buona e lo schiavetto rustico, l'argenteria massiccia ereditata dal padre contadino che non reca norni di artigiani, e una tavola che non si fa notare per la varietà delle venature e che non è famosa in città per il frequente susseguirsi di persone eleganti, ma che sia improntata alla praticità, tale da non trattenere su di sé gli occhi di nessun commensale per il piacere né accenderli di invidia) oppure una vita circondata dla lusso (... mi attanaglia l'animo il fasto di un collegio di valletti, schiavi vestiti e adorni d'oro con più cura che per una processione solenne e una schiera di servi tirati a lucido, e poi una casa preziosa anche là per dove si cammina e persino i soffitti splendenti di ricchezze sparse per ogni angolo e la folla che fa da seguito e compagnia a patrimoni che vanno in fumo; a che dovrei parlare di profluvi di acque limpide fino al fondo tutto intorno alle stesse mense, a che di banchetti degni della loro messa in scena? Il lusso si riversa con uno splendore diffuso intorno a me che vengo dal lungo letargo della mia frugalità e mi risuona intorno da ogni parte: la vista un poco vacilla, contro il lusso levo più facilmente l'animo che gli occhi; me ne vado dunque non peggiore ma più triste, e non così a testa alta tra quelle mie povere cose e un assillo segreto mi prende e il dubbio che quelle altre possano davvero essere migliori. Nulla di queste cose mi cambia, e tuttavia non c'è nulla che non mi agiti) ... temo di scivolare giù a poco a poco o, cosa più preoccupante, di essere sempre in bilico come chi sta per cadere.
Rispondere all'amico diventa per Seneca il pretesto per esaminare e analizzare le passioni che governano l'uomo. Ogni individuo è alla costante ricerca di felicità, crede di trovarla tuffandosi negli impegni pratici, ma poi si ritrae nauseato e desidera la solitudine e la meditazione. Ma anche qui, dopo poco, sente nostalgia dei suoi simili e delle comuni occupazioni, che prima tanto lo avevano angustiato. Quale può essere il rimedio, dunque? L'unica soluzione sicura, per superare il "male di vivere", sarebbe il raggiungimento dell'imperturbabilità, del totale distacco di fronte alle vicende della vita (la famosa atarassìa degli Epicurei), anche se, nella realtà pratica, non è possibile arrivare a tanto. Perciò, Seneca consiglia non di annullare, ma di controllare le passioni umane ed esorta soprattutto a vivere in serena operosità, impegnando le proprie energie per il bene della comunità, pur senza escludere momenti di meditazione introspettiva, durante i quali "osservare" con distacco e serenità gli eventi. In sintesi, la serenità dell'animo è frutto dell'equilibrio tra la vita attiva e quella meditativa, che devono alternarsi in modo da mantenere vivo il desiderio ora dell'una ora dell'altra. Sostiene Seneca "Quanto a ciò di cui senti la mancanza, è qualcosa di grande, di eccelso, di vicino a dio, è il non essere turbato ... è quella stabilità dell'animo che io chiamo tranquillità ".

TESTO INTEGRALE

SERENO Ero immerso nell'introspezione, Seneca, ed ecco mi apparivano alcuni vizi, messi allo scoperto, tanto che potevo afferrarli con la mano: alcuni più nascosti e reconditi, altri non costanti, ma ricorrenti di quando in quando, che definirei addirittura i più insidiosi, come nemici sparpagliati e pronti ad attaccare al momento opportuno, con i quali non è ammessa nessuna delle due tattiche, star pronti come in guerra, né tranquilli come in pace. 2. Tuttavia ho da criticare soprattutto quell'atteggiamento in me (perché infatti non confessarlo proprio come a un medico?), vale a dire di non essermi liberato in tutta sincerità di quei difetti che temevo e odiavo e di non esserne tuttavia ancora schiavo; mi ritrovo in una condizione se è vero non pessima, pur tuttavia più che mai lamentevole e uggiosa: non sto né male né bene. 3. Non devi dirmi che tutti i comportamenti virtuosi hanno esordi malfermi, e che col tempo essi guadagnano consolidamento e forza; non ignoro nemmeno che anche quelle attività che indirizzano i loro sforzi a guadagnare immagine, intendo le cariche pubbliche o la fama legata all'abilità oratoria e tutto ciò che punta sul favore della gente, si rafforzano con il tempo, ma io temo che la consuetudine, che consolida le cose, mi infigga più profondamente questo vizio nell'animo: la lunga frequentazione ingenera amore sia per i difetti che per le virtù. 4. Quale sia la debolezza del mio animo in bilico tra i due comportamenti, incapace di inclinare con forza verso la retta via o verso quella sbagliata, non posso indicartela tutta insieme bensì per parti; ti dirò quel che mi accade, tu troverai un nome al mio male. 5. Sono preda di un grandissimo amore per la parsimonia, lo confesso: mi piace un letto non preparato per l'ostentazione, una veste non tirata fuori dal forziere, non pressata da pesi e mille strumenti di tortura che la costringono a ostentare una bella piega, ma ordinaria e semplice, non di quelle che si conservano e si tirano fuori con ansia. 6. Mi piace il cibo che non debbano elaborare e sorvegliare stuoli di servi, non ordinato molti giorni prima né servito dalle mani di molti, ma facile a reperirsi e semplice, un cibo che non ha nulla di ricercato o di prezioso, che non verrà a mancare da nessuna parte si vada, non oneroso per il patrimonio né per il corpo, tale da non uscire poi per la stessa via dalla quale è entrato 7. Mi piacciono il servo alla buona e lo schiavetto rustico, l'argenteria massiccia ereditata dal padre contadino che non reca norni di artigiani, e una tavola che non si fa notare per la varietà delle venature e che non è famosa in città per il frequente susseguirsi di padroni eleganti, ma che sia improntata alla praticità, tale da non trattenere su di sé gli occhi di nessun commensale per il piacere né accenderli di invidia. 8. Pienamente soddisfatto di queste cose, mi attanaglia l'animo il fasto di un collegio di valletti, schiavi vestiti e adorni d'oro con più cura che per una processione solenne e una schiera di servi tirati a lucido, e poi una casa preziosa anche là per dove si cammina e persino i soffitti splendenti di ricchezze sparse per ogni angolo e la folla che fa da seguito e compagnia a patrimoni che vanno in fumo; a che dovrei parlare di profiuvi di acque limpide fino al fondo tutto intorno alle stesse mense, a che di banchetti degni della loro messa in scena?' 9. Il lusso si riversa con uno splendore diffuso intorno a me che vengo dal lungo letargo della mia frugalità e mi risuona intorno da ogni parte: la vista un poco vacilla, contro il lusso levo più facilmente l'animo che gli occhi; me ne vado dunque non peggiore ma più triste, e non così a testa alta tra quelle mie povere cose e un assillo segreto mi prende e il dubbio che quelle altre possano davvero essere migliori. Nulla di queste cose mi cambia, e tuttavia non c'è nulla che non mi agiti. 10. Mi piace seguire gli ordini dei miei maestri e dedicarnii alla vita pubblica; mi piace riportare onori e trionfi non certo perché attratto dalla porpora e dalle insegne del potere, ma per essere più sollecito e più utile agli amici, ai parenti e a tutti i concittadini, e insomma a tutti gli uomini. Seguo pronto Zenone, Cleante, Crisippo, dei quali nessuno fece carriera politica e tuttavia nessuno mancò di indirizzarci gli altri.11. Quando qualcosa colpisce il mio animo non avvezzo a essere urtato, quando mi si presenta qualche situazione spiacevole, come ce ne sono molte nella vita di ognuno, o di quelle che procedono poco agevolmente, oppure occupazioni di non gran conto mi richiedono troppo tempo, mi concedo del tempo per me e, come succede anche ai greggi stanchi, torno più velocemente verso casa. 12. Mi piace chiudere la vita tra le sue pareti: "Che nessuno ci porti via alcun giomo, dato che non potrà renderci nulla che sia degno di tanta perdita; l'animo stia con se stesso, si coltivi, non si dedichi a nulla di estemo, a nulla che attenda il giudizio di altri; si cerchi una tranquillità priva di tormenti pubblici e privati." 13. Ma non appena una lettura più impegnativa mi innalza l'animo e nobili esempi fanno sentire il loro stimolo, mi piace corrermene nel foro, prestare a uno la mia voce, a un altro il mio aiuto, che, se anche non sarà di alcuna utilità, tuttavia cercherà di esserlo, colpire l'arroganza di chi è ingiustamente insuperbito per il favore delle circostanze. 14. Nella pratica degli studi ritengo, davvero, che sia meglio tener presenti attentamente i contenuti stessi e parlare per questi, per il resto affidare le parole ai contenuti, affinché venga fuori un discorso non artificioso nella direzione in cui essi conducono: "Che bisogno c'è di creare opere destinate a durare nei secoli? Non vuoi tu cercare piuttosto che i posteri ti passino sotto silenzio! Sei nato per la morte, un funerale silenzioso crea meno fastidi. Così, scrivi qualcosa con semplicità per occupare il tempo a uso personale, non perché si sappia in giro: occorre minor fatica a coloro che si applicano per l'oggi." 15. Ma di nuovo quando l'animo si eleva per la grandezza delle cose che pensa, si fa ambizioso anche nella ricerca delle parole e cerca di respirare e di parlare con maggiore sostenutezza e il discorso che vien fuori si conforma alla grandezza dei concetti; allora, dimentico della regola o del mio gusto più misurato mi faccio trasportare più in alto o "parlo con bocca non più mia". 16. Per non dilungarmi sui singoli aspetti, in tutte le occasioni mi accompagna questa incostanza di senno . ... Temo di scivolare giù a poco a poco o, cosa più preoccupante, di essere sempre in bilico come chi sta per cadere e che la situazione sia forse peggiore di quella che vedo io; infatti guardiamo con bonomia le cose che ci riguardano e la simpatia offusca sempre il giudizio. 17 Penso che molti avrebbero potuto raggiungere la saggezza, se non avessero ritenuto di averla raggiunta, se non si fossero nascosti qualche loro manchevolezza, se non avessero sorvolato su qualcosa chiudendo gli occhi. Infatti non c'è ragione di credere che noi andiamo in rovina più per l'adulazione altrui che per la nostra. Chi è che ha mai osato dirsi la verità? Chi è che posto tra branchi di elogiatori e lusingatori non si è fatto tuttavia egli stesso grandissimo adulatore di Sé? 18 Ti prego dunque, se hai un qualche rimedio con cui tu possa por fine a questo mio fluttuare, di ritenermi degno di dovere a te la tnia tranquillità. Che non siano pericolosi questi moti dell'animo e che non portino con sé nessun vero sconvolgimento lo so; per esprimerti ciò di cui mi lamento con una similitudine appropriata, non sono tormentato da una tempesta, ma dal mal di mare: toglimi dunque questo malessere, quale che sia, e vieni in aiuto di un naufrago che ancora tribola già in vista della terraferma.

SENECA 1. Mi vado chiedendo, perbacco, già da un po', Sereno, tra me e me, a che cosa potrei assimilare tale affezione dell'animo, e non saprei avvicinarla di più a nessun esempio che a quello di quanti, usciti da una malattia lunga e grave, di tanto in tanto sono colpiti da piccoli attacchi di febbre e da episodi di leggero malessere e, quando si sono ormai sottratti alle residue manifestazioni del male, tuttavia si fanno turbare da quelli che giudicano sintomi e, ornai guariti, tendono la mano ai medici e si preoccupano per ogni rialzo di temperatura. Di costoro, Sereno, non è poco sano il corpo, ma troppo poco si è abituato alla salute, così come è presente un qualche tremolio anche nella marina tranquilla, specie quando è uscita da una tempesta. 2. C'è bisogno dunque non di quei provvedimenti più duri che oramai ci siamo lasciati alle spalle, cioè che a volte tu lotti con te stesso, altre monti in collera con te, altre ancora ti incalzi pesantemente, ma di quello che viene da ultimo, che tu abbia fiducia in te stesso e creda di procedere per la strada giusta, non facendoti assolutamente distogliere dalle orme incrociate dei molti che vagano in tutte le direzioni, di alcuni che sbandano proprio ai margini della strada. 3.Quanto a ciò di cui senti la mancanza, è qualcosa di grande, di eccelso, di vicino a dio, il non essere turbato. Questa stabilità dell'animo, sulla quale c'è quel volume egregio di Democrito, i Greci la chiamano "euthymia", io la chiamo tranquillità; infatti non è necessario imitare e traslitterare un termine secondo la forma greca: lo stesso oggetto di cui si tratta va contrassegnato con un nome, che deve avere l'efficacia, non l'aspetto della dizione greca. 4.Dunque noi ci chiediamo in che modo gli stati d'animo possano seguire un andamento sempre regolare e favorevole e l'animo sia propizio a se stesso e guardi con contentezza a ciò che lo concerne e non interrompa questa felicità, ma rimanga in uno stato di benessere, senza mai esaltarsi o deprimersi: questo costituirà la tranquillità. In che modo si possa pervenire ad essa cerchiamolo in generale: tu prenderai dalla medicina comune quanto vorrai. 5. Frattanto va esposto alla vista di tutti il male nella sua interezza, e ciascuno potrà riconoscere la parte che è sua; tu capirai subito quanto minor imbarazzo costi a te il disprezzo di te stesso rispetto a quanti, legati a una professione di immagine e affaticati dal peso della loro alta dignità ufficiale, sono costretti a recitare una parte dal pudore più che dalla volontà. 6. Tutti si trovano nella stessa condizione, sia quanti sono tormentati dall'incostanza e dal tedio e dal continuo mutamento dei propositi, ai quali sempre piace di più ciò che hanno lasciato, sia quelli che si lasciano marcire tra gli sbadigli. Aggiungi quelli che si agitano non diversamente da quanti hanno il sonno difficile e si mettono in questa o in quell'altra posizione finché non trovano pace per stanchezza: cambiando continuamente modo di vivere da ultimo si fermano in quello in cui li sorprende non il fastidio per i cambiamenti ma la vecchiaia restia ai rinnovamenti. Aggiungi anche quelli che sono poco duttili non per colpa della loro fermezza, ma per colpa della loro inerzia, e vivono non come vogliono, ma come hanno cominciato. 7. Di qui innumerevoli sono le caratteristiche, ma uno solo l'effetto del male, l'essere scontenti di sé. Questo trae origine dall'incostanza dell'animo e da desideri timidi o poco fortunati, laddove gli uomini o non osano quanto vogliono o non lo ottegono e sono tutti protesi nella speranza; sono sempre instabili e mutevoli, il che è inevitabile succeda a chi sta con l'animo in sospeso. Tendono con ogni mezzo al soddisfacimento dei loro desideri, e si addestrano e si costringono a obiettivi disonorevoli e ardui, e quando la loro fatica è priva di premio, li tormenta il disonore che non ha dato frutto, né si rammaricano di aver teso a obiettivi ingiusti, ma di averlo fatto invano. 8. Allora li prende sia il pentimento di quello che hanno intrapreso sia il timore di intraprendere altro e s'insinua in loro quell'irrequietezza dell'animo che non trova vie d'uscita, poiché non possono né dominare i loro desideri né assecondarli, e l'irresolutezza di una vita che non riesce a realizzarsi e l'inerzia dell'animo che s'intorpidisce tra desideri frustrati. 9. E tutto ciò risulta più grave, laddove per il disgusto di una vita infelice piena di impegni si sono rifugiati nell'ozio, nella vita privata, condizione che non può sopportare un animo teso all'impegno civile e desideroso di agire e per natura insofferente del quieto vivere, che si capisce trova in sé poco conforto; perciò, tolti i piaceri che gli stessi impegni dispensano a chi corre da tutte le parti, non sopporta casa solitudine pareti, a malincuore si guarda abbandonato a se stesso. 10. Di qui quella noia e quel disgusto di sé, e l'irrequietezza dell'animo che non trova mai un dove, e la triste e penosa sopportazione del proprio ozio, soprattutto quando si ha ritegno nell'ammetterne le cause e il pudore ha ricacciato dentro le ragioni del tormento, mentre le passioni bloccate in uno spazio angusto si soffocano a vicenda senza trovare sbocchi; di lì mestizia abbattimento e mille ondeggiamenti della mente incerta, tenuta in sospeso dalle speranze accarezzate, intristita da quelle abbandonate; di lì quello stato d'animo di quanti detestano il loro ozio, lamentano di non aver nulla da fare e la terribile invidia verso i successi altrui. Infatti l'inerzia infelice" alimenta il livore e desiderano che tutti cadano in rovina, perché loro non hanno potuto progredire. 11 Quindi, da questo avversare i progressi altrui e dal disperare dei propri, l'animo passa ad adirarsi contro la sorte e a lamentarsi dello spirito dei tempi e a ritirarsi negli angoli e a covare la propria pena, mentre prova fastidio e disgusto di sé. Infatti per natura l'animo umano è attivo e portato al movimento. Gli è gradita ogni occasione di muoversi e distrarsi, più gradita a tutti i peggiori soggetti che volentieri si consumano nelle occupazioni; come certe ferite vogliono il contatto con le mani che pure recheranno loro dolore e godono a sentirlo, e la turpe scabbia prova piacere da qualunque cosa la esasperi, non diversamente direi che per queste menti, in cui le passioni sono esplose come una dolorosa ferita, sono motivo di piacere il travaglio e il tormento. 12. Ci sono infatti cose che possono far piacere anche al nostro corpo recandogli un certo dolore, come voltarsi e girare il fianco non ancora stanco e rigirarsi continuamente ora in una posizione ora in un'altra, qual è quel famoso Achille descritto da Omero ora prono, ora supino, che assume varie posizioni il che è proprio di un malato: non sopportare nulla a lungo e ricorrere ai cambiamenti come a medicine. 13.Per questo si intraprendono peregrinazioni in lungo e in largo e si attraversano lidi inospitali e ora per mare ora per terra fa prova di sé la loro incostanza sempre nemica del presente: "Ora andiamo in Campania." Subito i luoghi raffinati vengono a noia: "Si vada a vedere luoghi selvaggi, visitiamo le balze del Bruzio e della Lucania." Tuttavia in mezzo ai luoghi desolati si cerca qualcosa di piacevole, in cui gli occhi abituati al lusso possano trovar sollievo dal prolungato spettacolo di squallore dei luoghi aspri. "Rechiamoci a Taranto, al suo porto elogiato e al soggiorno invernale di un clima più mite e a una terra abbastanza ricca anche per la popolazione di un tempo." "Ormai volgiamo la rotta verso Roma": troppo a lungo le orecchie sono restate libere dagli applausi e dal chiasso, ormai fa piacere godere della vista del sangue umano. Si intraprende un viaggio dietro l'altro e si alternano spettacoli a spettacoli. 14. Come dice Lucrezio, "in questo modo ciascuno fugge sempre se stesso." Ma a che gli serve, se non riesce a sfuggirsi e si incalza da solo, compagno di viaggio insopportabile. Dunque dobbiamo sapere che non è dei luoghi la colpa per cui ci tormentiamo, ma nostra; siamo incapaci di tollerare tutto, non sopportiamo la fatica né il piacere né noi stessi né nessuna cosa troppo a lungo. Questo ha portato alcuni alla morte, il fatto che spesso cambiando propositi finivano per ritornare ai medesimi e non avevano lasciato spazio alla novità: cominciarono ad esser loro motivo di fastidio la vita e lo stesso mondo e si insinuò in loro quel famoso dubbio proprio di una raffinatezza marcescente: "fino a quando le stesse cose?"
1. Contro questa insofferenza chiedi di quale aiuto io pensi ci si debba servire. Il meglio sarebbe stato, come diceva Atenodoro tenersi occupati nell'azione e nell'impegno politico e nei doveri civili. Infatti, come alcuni passano la vita all'aria aperta e nell'esercizio e nella cura del corpo e per gli atleti è di gran lunga la cosa più utile nutrire per gran parte del tempo la forza dei loro muscoli, alla quale si sono dedicati totalmente, così per voi che preparate l'animo alla lotta politica è di gran lunga la cosa preferibile darsi all'azione; infatti, avendo il proposito di rendersi utile ai cittadini e agli uomini in generale, si esercita e nello stesso tempo ne trae giovamento chi si è immerso nelle occupazioni curando - in base alle sue possibilità - il pubblico e il privato. 2. "Ma poiché - diceva - in questa così dissennata ambizione degli uomini, in presenza di tanti detrattori che distorcono in peggio le azioni oneste, la sincerità è troppo poco sicura ed è sempre più probabile si verifichi un intoppo piuttosto che un successo, è necessario ritirarsi dal foro e dalla vita pubblica, ma un animo grande anche in privato ha dove dar ampia prova di sé; e per gli uomini non è lo stesso che per i leoni e le bestie, la cui forza è soffocata dalla cattività: le loro azioni risultano anzi efficacissime nel ritiro. 3. Tuttavia starà nascosto cosi che, in qualunque luogo abbia tenuto celato il suo ritiro, voglia giovare ai singoli e alla collettività con l'intelligenza, la parola, la saggezza; infatti non si rivela utile allo stato soltanto colui che promuove i candidati e difende gli accusati e decide della pace e della guerra, ma anche colui che esorta i giovani, che in tanta carenza di buoni insegnamenti instilla la virtù negli animi, che sa bloccare e tirare indietro quelli che si gettano di corsa verso il denaro e il consumo sfrenato. 4. Ma fa forse di più colui che tra i forestieri e i concittadini o in qualità di pretore urbano a quanti gli si rivolgono pronuncia le parole di un assistente rispetto a chi dice che cosa sia la giustizia, che cosa il senso del dovere, che cosa la sopportazione, che cosa la forza d'animo, che cosa il disprezzo della morte, che cosa la nozione degli dei, che bene sicuro e incondizionato sia la buona coscienza 5. Dunque, se convertirai agli studi il tempo che avrai saputo sottrarre ai doveri pubblici, non avrai disertato né ti sarai sottratto al tuo servizio. Infatti non milita soltanto chi è sul campo e difende l'ala destra e quella sinistra, ma anche chi sorveglia le porte e si vale di una postazione meno pericolosa, ma non certo oziosa e osserva i turni di guardia e ha la responsabilità dell'arsenale; i quali compiti, benché siano incruenti, sono nel novero dei servizi militari. 6. Se saprai richiamarti agli studi, fuggirai ogni forma di fastidio della vita e e non desidererai che venga la notte per noia della luce, non sarai di peso a te stesso né di troppo per gli altri; attrarrai molti nella tua amicizia e tutti i migliori verranno da te. Infatti la virtù non resta mai in incognito, per quanto nascosta, ma manda segni di sé: chiunque ne sarà degno. 7. Infatti se eliminiamo ogni frequentazione degli altri e rinunciamo al genere umano e viviamo concentrati unicamente in noi stessi, farà seguito a questo stato di solitudine priva di ogni interesse la mancanza di cose da fare: cominceremo a costruire edifici e a distruggerne altri, e a sconvolgere il mare e a condurre corsi d'acqua contro le difficoltà dei luoghi e a distribuire male il tempo che la natura ci ha dato da impiegare. 8. Alcuni di noi ne fanno uso con parsimonia, altri con prodigalità; alcuni di noi lo spendono in modo da poterne rendere conto, altri in modo da non lasciarne alcun residuo, cosa di cui niente è più vergognoso. Spesso una persona molto anziana non ha nessun altro argomento con cui provare di essere vissuta a lungo se non l'età."
1. A me sembra, carissimo Sereno, che Atenodoro si sia piegato troppo ai tempi, si sia ritirato troppo presto. E io non sono qui a escludere che a un certo punto ci si debba ritirare, ma arretrando a poco a poco e con le insegne intatte, salvaguardando l'onore delle armi: risultano più rispettati e più sicun quanti si consegnano ai nemici con le armi in pugno. 2. Questo è ciò che penso sia il compito della virtù e di uno che ama la virtù: se la sorte avrà il sopravvento e reciderà la possibilità di agire, non si dia subito alla fuga volgendo le spalle e gettando le arni, cercando rifugio, quasi che esista davvero un luogo nel quale la sorte non possa raggiungerlo, ma si dedichi agli impegni pubblici con maggiore misura e scelga qualche occupazione in cui possa rendersi utile alla cittadinanza. 3. Non gli è permesso prestare servizio militare: si candidi a cariche pubbliche. Deve vivere da privato cittadino: faccia l'oratore. E' costretto al silenzio: aiuti i cittadini con una assistenza legale tacita. Gli è pericoloso anche l'ingresso nel foro: nelle case, agli spettacoli, durante i banchetti faccia il buon compagno, l'amico fidato, il convitato sobrio. Ha perduto gli incarichi del cittadino: svolga quelli dell'uomo. 4. Per questo noi, con animo grande, non ci siamo voluti chiudere nelle mura di una sola città, ma ci siamo aperti alla relazione con tutto il mondo e abbiamo affermato di avere il mondo come patria, perché fosse possibile offrire alla virtù un campo più vasto. Ti è precluso il tribunale e ti è vietata la frequentazione dei rostri o dei comizi? Guarda dietro di te che ampia estensione di vastissime terre e di popoli si apra; non ti sarà mai preclusa una parte così grande che una più grande non ti sia lasciata. 5. Ma fa' attenzione che tutto questo non sia un tuo difetto; infatti non vuoi amministrare lo stato se non da console o da araldo o da suffete.11 Che dire se tu rifiutassi di combattere se non da generale o da tribuno? Anche se altri occuperanno la prima fila, e la sorte ti avrà posto fra i triarii combatti dunque con la voce, con l'esortazione, con l'esempio, con il coraggio: anche con le mani tagliate colui che tuttavia resiste e fa opera di sostegno con le grida trova nella battaglia modo di aiutare il suo partito. 6. Fa' qualcosa di simile: se la sorte ti allontanerà dalla posizione di primo piano nello stato, resisti tuttavia e fa' opera di sostegno con le grida e, se qualcuno ti chiuderà la bocca, resisti tuttavia e fa' opera di sostegno col silenzio. Non è mai inutile l'opera di un buon cittadino: ascoltato e visto, col volto col cenno con la tacita determinazione e con la stessa andatura aiuta. 7.Come certe cose salutari giovano, indipendentemente dal gusto e dal tatto, con l'odore, così la virtù dispensa la sua utilità anche da lontano e di nascosto. Sia che possa spaziare e disporre di sé a suo piacere, sia che abbia sbocchi incerti e sia costretta a contrarre le vele, sia che si trovi in ozio e chiusa in spazi ristretti, sia che abbia libertà di espandersi, in qualsiasi condizione si trovi, giova. Ritieni forse non abbastanza utile l'esempio di chi vive bene stando appartato? 8. Dunque è di gran lunga la cosa migliore mescolare l'ozio alle occupazioni, ogni volta che verrà preclusa la vita attiva da impedimenti occasionali o dalla situazione della città; mai infatti sono a tal segno impedite tutte le possibilità che non ci sia spazio per alcuna azione onesta.
1. Ma tu ti sei imbattuto in un tipo di vita difficile e la fortuna pubblica o la tua personale ti ha imposto a tua insaputa un laccio che non sei in grado di sciogliere né di rompere: pensa che gli schiavi in ceppi in un primo tempo mal sopportano i pesi e gli impedimenti delle gambe; quindi, una volta che si sono proposti di non indignarsi per essi, ma di sopportarli, la necessità insegna loro a sopportarli con fermezza, l'abitudine con docilità. In qualsiasi genere di vita troverai divertimenti, distensioni e piaceri, se vorrai giudicare lievi i mali piuttosto di renderteli odiosi.2. A nessun titolo ci trattò meglio la natura che per questo: sapendo per quali sofferenze nasciamo, trovò come lenimento delle disgrazie l'assuefazione, ponendoci subito in familiarità con le sventure più gravi. Nessuno potrebbe resistere, se la continuità delle avversità conservasse la stessa violenza del primo colpo. 3. Tutti siamo legati alla fortuna: la catena degli uni è d'oro, lenta, quella di altri stretta e spregevole, ma che importa? La medesima custodia ha stretto tutti e si trovano legati anche quelli che hanno legato, a meno che tu non ritenga più leggera una catena nella sinistra. Uno lo tengono avvinto gli onori, un altro il patrimonio; alcuni sono schiacciati dalla nobiltà, alcuni dalla condizione umile; alcuni sono soggiogati dall'altrui potere, alcuni dal loro proprio; alcuni li confina in un unico luogo l'esilio, alcuni la carica religiosa: ogni vita è una schiavitù. 4. Occorre dunque assuefarsi alla propria condizione e lamentarsi il meno possibile di essa e afferrare tutto ciò di buono che ha intorno a sé: non c'è nulla di così aspro in cui un animo obiettivo non sappia trovare un conforto. Spesso aree esigue si sogliono aprire a molti utilizzi per l'abilità di chi le dispone e una disposizione accorta suole rendere abitabile anche il più piccolo spazio. Usa la ragione di fronte alle difficoltà: le durezze possono addolcirsi, le strettoie allentarsi, le situazioni gravi opprimere di meno chi le sopporta con accortezza. 5. I desideri non vanno indirizzati a obiettivi lontani, ma dobbiamo permettere loro uno sbocco vicino, dal momento che non sopportano di essere del tutto bloccati. Abbandonati quegli obiettivi che o non possono realizzarsi o lo possono con difficoltà, perseguiamo mete situate vicino e che arridono alla nostra speranza, ma manteniamo la consapevolezza che tutte sono ugualmente inconsistenti, e all'esterno hanno aspetto diverso, mentre all'intemo sono parimenti vane. E non invidiamo quelli che stanno più in alto: quelle che sembravano vette si sono rivelate dirupi. 6. Per converso quelli che una sorte contraria ha posto in situazione incerta saranno maggiormente sicuri togliendo superbia a cose superbe di per sé e cercando di portare il più possibile in piano la loro situazione. Ci sono molti che per necessità devono tenersi attaccati al loro rango, dal quale non possono scendere se non cadendone, ma attestano che proprio questo è il loro maggior onere, il fatto che sono costretti a essere di peso ad altri, e che non sono stati messi su un piedistallo ma ci sono stati inchiodati; con giustizia, mitezza, benevolenza, con mano prodiga e generosa dovrebbero apprestare molte difese per i momenti favorevoli, alla speranza nei quali potrebbero attaccarsi con più sicurezza. 7. Nulla tuttavia ci saprà mettere al riparo da queste fluttuazioni dell'animo quanto fissare sempre un qualche termine ai nostri successi, e non concedere alla sorte l'arbitrio di smettere, ma fermarci noi stessi decisamente molto al di qua; in questo modo, sia alcuni desideri stimoleranno l'animo, sia, delimitati, non spingeranno verso l'infinito e l'incerto.
1.Questa mia chiacchierata si rivolge a uomini imperfetti, deboli e non ragionevoli, non a chi possiede la saggezza. Costui non deve camminare con incertezza né a piccoli passi; infatti ha tanta fiducia in sé che non esita ad andare incontro alla sorte e non dovrà mai cederle il passo. Né ha ragione di temerla, perché non solo gli schiavi e i possedimenti e la posizione ma anche il suo corpo e gli occhi e la mano e tutto ciò che rende più cara la vita e persino se stesso annovera tra i beni fuggevoli e vive come se fosse stato affidato a se stesso in concessione e disposto a restituirsi senza malumore a chi lo reclamasse. 2. E non per questo si ritiene poco importante - perché sa di non appartenersi - ma svolgerà tutti i suoi compiti con tanta diligenza, con tanta attenzione quanto un uomo coscienzioso e responsabile è solito tutelare le cose rimesse alla sua coscienza. 3. E quando poi gli sarà ingiunto di restituirle, non si lamenterà con la sorte ma dirà: "Sono grato di ciò che ho posseduto e ho avuto in uso. Ho curato le tue cose con grande profitto, ma poiché così stabilisci, ecco che te le cedo, grato e volentieri. Se vorrai che io tenga ancora qualcosa di tuo, lo conserverò; se decidi diversamente, io allora argenteria, denaro, casa, servitù ti rendo, ti restituisco." Poniamo che la natura reclarni le cose che per prima ci aveva affidato: noi le diremo: "Riprenditi un animo migliore di quello che mi hai dato; non sto a tergiversare o a rifiutarmi; ho pronto da darti spontaneamente ciò che tu mi desti mentre ne ero inconsapevole: prenditelo." 4.Che c'è di grave a tornare da dove sei venuto, è destinato a vivere male chi non saprà morire bene. Dunque occorre prima di tutto togliere valore a questa cosa e considerare la vita tra le cose di poco conto. Come dice Cicerone, ci sono insopportabili i gladiatori, se vogliono in ogni modo impetrare la grazia della vita; li applaudiamo, se ostentano il disprezzo di essa. Sappi che anche a noi accade la stessa cosa; spesso infatti è causa di morte la paura di morire. 5. Proprio la sorte, che ama scherzare, dice: "A che scopo dovrei risparirtiarti, animale meschino e tremebondo? Tanto più profondamente ti farai ferire e trapassare, perché non te la senti di porgere la gola; tu invece vivrai più a lungo e morirai in maniera più rapida, tu che aspetti la spada non sottraendo il collo né mettendo davanti le mani, ma con coraggio." 6. Chi avrà paura della morte non farà mai nulla da uomo che vive; invece chi saprà che questa condizione è stata stabilita subito nel momento in cui egli è stato concepito, vivrà secondo i patti e contemporaneamente con la stessa forza d'animo si prodigherà, perché nulla delle cose che accadono sia improvvisa. Infatti guardando a tutto ciò che può avvenire come se fosse sul punto di realizzarsi, saprà attenuare la forza di tutte le disgrazie, che non portano niente di sorprendente a chi vi si è preparato e se le aspetta, mentre giungono con tutto il loro peso su chi si sente sicuro e spera solo nelle cose favorevoli. 7. Si tratta di una malattia, della prigionia, di un crollo, di un incendio: nulla di ciò è improvviso; sapevo in che albergo tumultuoso la natura mi aveva chiuso. Tante volte si sono levate grida di dolore nelle mie vicinanze; tante volte torce e ceri hanno preceduto oltre la soglia esequie immature; spesso mi è risuonato accanto il fragore di un edificio che crollava; molti tra quelli che il foro la curia la conversazione aveva messo in relazione con me una notte li ha portati via ... : Mi dovrei meravigliare che una buona volta siano toccati a me i pericoli che mi sono sempre girati attorno? 8. C'è una grande parte dell'umanità che mentre si accinge a navigare non pensa alla tempesta. lo non mi vergognerò mai di citare un cattivo autore in un caso felice. Publilio più vigoroso dei talenti tragici e comici ogni volta che ha rinunciato alle sue buffonerie da mimo e alle parole dirette alle ultime file del pubblico, tra molte altre frasi di tono più elevato di quello tragico, non solo di quello del mimo, disse anche questo: "A chiunque può capitare ciò che può capitare a qualcuno". Chi si sarà impresso questo principio nel profondo dell'animo e guarderà tutte le disgrazie altrui, delle quali tutti i giorni c'è grande abbondanza, così come se esse avessero la strada spianata anche verso di lui, si armerà molto prima di venire assalito; troppo tardi si prepara l'animo a sopportare i pericoli dopo che questi si sono presentati. 9. "Non pensavo che sarebbe successo" e "avresti mai pensato tu che questo sarebbe accaduto?" E perché no? Quali sono quelle ricchezze che non possono essere seguite da vicino dalla miseria e dalla fame e dall'indigenza? Quale carica pubblica di cui la toga pretesta, il bastone da augure e le cinghie patrizie non siano accompagnate dalla veste miserabile, dal marchio del disonore e da mille macchie fino all'estremo disprezzo? Quale regno c'è al quale non siano già preparati la rovina e l'annientamento e l'oppressore e il boia? Né queste cose sono separate da lunghi intervalli di tempo, ma intercorre un momento solo tra il trono e l'omaggio alle ginocchia altrui. 10. Sappi dunque che ogni condizione è rovesciabile e tutto ciò che si abbatte su qualcuno può abbattersi anche su di te. Sei ricco: forse più ricco di Pompeo? Eppure a lui, quando Gaio (si tratta di Gaio Caligola ndr), parente da tempo, ospite nuovo, ebbe aperto la casa di Cesare per chiudere la sua mancarono il pane e l'acqua. Pur possedendo molti fiumi che nascevano sul suo territorio, che vi sfociavano, andò mendicando qualche goccia d'acqua; morì di fame e di sete nel palazzo del parente, mentre a lui che soffriva la fame l'erede appaltava esequie pubbliche. 11. Hai ricoperto le più alte cariche onorifiche: forse tanto alte o tanto insperate o tanto totalizzanti quanto quelle di Seiano? Il giorno che il senato lo aveva scortato il popolo lo fece a pezzi; di colui sul quale gli dei e gli uomini avevano accumulato quanto era possibile accumulare, non rimase nulla che il carnefice potesse strappare. 12. Sei re: non ti rimanderò a Creso, che dovette vedere da vivo il proprio rogo e accendersi e spegnersi, fatto superstite non solo al proprio regno, ma anche alla propria morte, non a Giugurta che il popolo romano poté contemplare a spettacolo entro l'anno in cui ne aveva avuto paura: vedemmo Tolemeo re dell'Africa, Mitridate re dell'Armenia tra le guardie di Gaio; l'uno venne mandato in esilio, l'altro si augurava di esservi mandato come migliore garanzia. In tanto profondo sconvolgimento di situazioni che volgono in alto e in basso, se non consideri come destinato a succedere tutto ciò che può succedere, dai forza contro te stesso alle avversità, che sogliono essere sconfitte da chi le vede prima.
1. Principio derivante da questi sarà che non ci tormentiamo in preoccupazioni superflue o che derivano dal superfluo, cioè o che non desideriamo le cose che non possiamo ottenere o che ottenuto quel che volevamo non comprendiamo tardi dopo molta fatica la vanità dei nostri desideri, cioè che non sprechiamo fatica vana senza risultato o che il risultato non sia degno della fatica; infatti da queste cose per lo più scaturisce tristezza, se non c'è stato successo o se ci si vergogna del successo ottenuto. 2. Bisogna limitare l'andare in giro di qua e di là, che è proprio di gran parte degli uomini che vagano per case per teatri e per fori: si offrono di occuparsi degli affari degli altri, sembra che abbiano sempre qualcosa da fare. Se chiederai a qualcuno di questi mentre esce di casa: "Dove vai? che pensi?", ti risponderà: "Non lo so, per Ercole; ma vedrò qualcuno, farò qualcosa." 3. Vanno vagando senza un proposito cercando occupazioni e non fanno le cose che avevano deciso ma quelle in cui si sono imbattuti; è insensata e vana la loro corsa, quale quella delle formiche che si arrampicano su per gli alberi, che vanno su fino alla cima e poi di nuovo giù in basso senza frutto: in modo simile a queste conducono la loro vita molte persone, per le quali non senza motivo qualcuno parlerebbe di inoperosità inquieta. 4. Commisererai alcuni quasi che stessero correndo verso un incendio: tanto spingono quelli che si parano loro davanti e travolgono sé e altri, mentre sono corsi o a salutare qualcuno che non ricambierà il loro saluto o a seguire il funerale di un uomo ignoto o al processo di uno che è spesso in contesa o alle nozze di una che si sposa spesso e, dopo aver seguito la lettiga, in alcuni luoghi l'hanno persino portata; quindi, tornando a casa con la loro stanchezza inutile, giurano che non sanno loro stessi perché sono usciti, dove siano stati, già pronti il giorno dopo a girovagare su quegli stessi passi. 5. Dunque ogni fatica deve riferirsi a qualche scopo, deve riguardare qualche scopo. Non è l'operosità che li agita rendendoli inquieti, ma sono le false immagini delle cose che li agitano come pazzi; infatti nemmeno i pazzi si muovono senza una qualche speranza: li attrae l'aspetto di una cosa, la cui inconsistenza la mente, presa nel suo delirio, non è riuscita a cogliere. 6. Allo stesso modo ognuno di costoro che escono senza scopo per ingrandire la folla viene condotto in giro qua e là da motivi futili; non avendo niente a cui applicarsi, il sorgere della luce lo caccia fuori e, dopo che, calcate invano le soglie di molti, ha salutato i nomenclatori, da molti lasciato fuori, a casa non si incontra con nessuno, tra tutti, con più difficoltà che con se stesso.7. Da questo male deriva quel vizio tristissimo, l'origliare e il curiosare tra gli affari pubblici e privati e il venire a conoscenza di molte cose che né si raccontano né si ascoltano senza rischi.
1. lo penso che seguendo quest'idea Democrito abbia iniziato così: "Chi intenderà vivere nella tranquillità non faccia molte cose né privatamente né pubblicamente" chiaramente riferendosi alle cose superflue. Infatti, se sono necessarie, si devono fare sia privatamente che pubblicamente non solo molte ma innumerevoli cose, ma laddove nessun compito importante ci spinga, va saputo contenere l'agire. 2. Infatti chi fa molte cose spesso dà potere su di sé alla sorte, che è norma, del tutto sicura, sperimentare di rado, mentre per il resto occorre sempre riflettere su di essa e non ripromettersi nulla sulla sua affidabilità: "Navigherò, a meno che non capiti qualche incidente" e "Diventerò pretore, a meno che non si frapponga un qualche ostacolo" e "Mi riuscirà l'affare, a meno che non intervenga qualcosa". 3. Questo è il motivo per cui diremmo che all'uomo saggio non accade niente di inaspettato: non lo abbiamo esentato dalle vicende umane, ma dagli errori, né a lui capitano tutte le cose come le ha volute, ma come le ha pensate; e prima di tutto egli ha pensato che qualcosa potesse far resistenza ai suoi propositi.
1. Dobbiamo anche rendere noi stessi disponibili a non indulgere a un'eccessiva programmazione delle cose, a rivolgerci a quelle nelle quali ci avrà fatto imbattere il caso e a non temere né un cambiamento di programma né di condizione, a patto che non finiamo preda della volubilità, difetto nemicissimo della quiete interiore. Infatti è inevitabile che l'eccessivo attaccamento sia fonte di ansie e di infelicità, poiché spesso la sorte gli strappa qualcosa, come è molto più grave la volubilità che non sa contenersi in nessun luogo. L'uno e l'altro difetto sono nocivi per la tranquillità, non poter mutare nulla e non sopportare nulla. 2. In ogni modo l'animo va richiamato da tutte le sollecitazioni esterne a se stesso: si affidi a se stesso, gioisca di sé, rivolga lo sguardo a se stesso, si ritiri quanto può dalle cose degli altri e si applichi a sé, non patisca i danni, interpreti favorevolmente anche le avversità. 3.Alla notizia del naufragio il nostro Zenone venendo a sapere che erano andati sommersi tutti i suoi averi, disse: "La fortuna mi impone di dedicarmi più agevolmente alla filosofia." Un tiranno minacciava di morte il filosofo Teodoro e per di più di negargli la sepoltura: questi gli disse: "Hai di che compiacerti con te stesso, è in tuo potere un mezzo litro di sangue; infatti per quanto riguarda la sepoltura, povero te se pensi che mi interessi l'imputridire sopra o sotto terra." 4. Giulio Cano uomo tra i primi per grandezza, all'ammirazione del quale non si oppone neppure il fatto di essere nato nel nostro secolo, avendo a lungo discusso con Gaio, dopo che quel famoso Falaride gli disse, mentre se ne andava: "Perché per caso tu non ti faccia allettare da una vana speranza, ho dato ordine che tu sia accompagnato al supplizio," rispose: "Ti ringrazio, ottimo principe." 5. Non so che cosa abbia pensato; infatti mi vengono in mente molte ipotesi. Volle essere offensivo e mostrare quanto grande fosse la crudeltà in cui la morte rappresentava un beneficio? Oppure gli rimproverò la follia quotidiana? - infatti rendevano grazie sia coloro i cui figli erano stati uccisi, sia coloro i cui beni erano stati portati via. 0 accolse l'annuncio volentieri come se si trattasse della libertà? Qualsiasi sia la soluzione, diede una risposta coraggiosa. 6. Qualcuno dirà: "Dopo questo, Gaio avrebbe potuto dare ordine che fosse lasciato in vita." Cano non ebbe paura di questo; era nota la affidabilità di Gaio in tali ordini. Credi forse che egli abbia trascorso i dieci giorni che mancavano al supplizio senza alcuna occupazione? è incredibile che cosa riuscì a dire quell'uomo, che cosa riuscì a fare, quanto tranquillamente sia vissuto. 7.Giocava a dama, mentre il centurione che trascinava la schiera dei condannati a morte gli ordinò di seguirlo. Chiamato, contò i sassolini e al suo compagno disse: "Bada dopo la mia morte di non mentire, dicendo che hai vinto"; poi, facendo segno al centurione, disse: "Sarai testimone che vincevo io di una mossa." Pensi tu che Cano con quella scacchiera abbia davvero giocato? Si prese gioco. 8. Erano tristi gli amici che sapevano di perdere un tale amico: "Perché siete tristi?" disse. "Voi vi chiedete se le anime siano immortali: io lo saprò tra poco." E non smise di scrutare la verità nemmeno alla fine e di fare della sua morte un argomento di discussione. 9. Lo accompagnava il suo filosofo e ormai non era lontano il tumulo sul quale tutti i giorni si svolgeva un sacrificio in onore del nostro dio Cesare: egli disse: "Che pensi ora, Cano? o che intenzione hai?" "Mi sono proposto", disse Cano, "di osservare in quel momento fuggevole se l'animo avrà la sensazione di uscir fuori" e promise, se avesse sperimentato qualcosa, che avrebbe fatto il giro degli amici e avrebbe loro indicato quale fosse lo stato delle anime.10. Ecco la tranquillità nel mezzo della tempesta, ecco l'animo degno dell'eternità, che chiama la sua morte a testimonianza del vero, che collocato su quell'ultimo fatale gradino interroga la sua anima mentre questa esce dal corpo e si mette a imparare non solo fino alla morte ma qualcosa anche dalla stessa morte: nessuno ha filosofato più a lungo. Non dimenticheremo frettolosamente un grand'uomo e ne dovremo parlare con cura: ti consegneremo alla memoria di tutti i tempi, o uomo insigne, tu parte così importante della strage di Gaio.
1. Ma non giova per nulla rimuovere le cause del dolore privato; infatti ci prende talvolta l'odio per il genere umano. Quando avrai pensato quanto sia rara la franchezza e quanto sconosciuta l'innocenza e come la realtà non si trovi se non quando conviene, e vengono in mente la massa di tanti crimini felici e guadagni e perdite derivanti dal piacere parimenti insopportabili, e l'ambizione che ormai fino a tal punto non si contiene nei suoi limiti che splende attraverso la vergogna, l'animo è spinto nella notte e come fossero stati sconvolti i valori, che né è lecito sperare né conviene avere, spuntano le tenebre. 2.A questo dunque dobbiamo rivolgerci, a che tutti i vizi della gente ci sembrino non odiosi ma ridicoli ed ad imitare piuttosto Democrito che Eraclito. Costui infatti, ogni volta che era stato in pubblico piangeva, quello invece rideva, a costui tutto ciò che facciamo sembravano disgrazie, a quello sciocchezze. Occorre dunque saper sdrammatizzare ogni cosa e sopportarla con animo indulgente: è più degno di un uomo ridere della vita che piangerne. 3. Aggiungi che acquista meriti maggiori per il genere umano chi ride piuttosto che chi piange: quello lascia ad esso una qualche speranza, costui invece piange stoltamente delle cose che dispera possano essere corrette; e per chi contempla le cose nel loro insieme è di animo più forte chi non trattiene il riso di chi non trattiene le lacrime, dal momento che suscita un'emozione piacevolissima e in mezzo a tanto apparato non ritiene nulla grande, nulla serio, nemmeno misero. 4. Ciascuno si ponga davanti agli occhi ad una ad una le cose per le quali siamo lieti e tristi e saprà che è vero ciò che disse Bione che tutte le cose che riguardano gli uomini sono del tutto simili a inizi e che la loro vita non e più sacra o seria del loro concepimento, e che nati dal nulla sono ricondotti al nulla. 5. Ma è meglio accettare le abitudini comuni e i difetti umani serenamente senza cadere né nel riso né nelle lacrime; infatti tormentarsi per le disgrazie altrui significa infelicità infinita, provar piacere delle disgrazie altrui un piacere disumano, 6. così come quell'inutile atto di compassione che è piangere perché qualcuno porta a seppellire il figlio, e adattare a questa circostanza la propria espressione. Anche nelle proprie disgrazie occorre comportarsi in modo da concedere al dolore solo quanto la natura richiede, non quanto le convenzioni; molti infatti versano lacrime per ostentazione e hanno gli occhi asciutti ogni volta che manca il pubblico, poiché giudicano vergognoso non piangere quando lo fanno tutti: tanto profondamente si è consolidato questo vizio, quello di dipendere dall'opinione altrui, che diventa finzione anche un sentimento tra i più naturali, il dolore.


1.Segue la parte che non senza motivo suole rattristare e mettere in ansia. Laddove la sorte dei buoni è cattiva, laddove Socrate viene costretto a morire in carcere, Rutilio a vivere in esilio, Pompeo e Cicerone a offrire il collo ai loro clienti, e proprio Catone, ritratto vivente della virtù, gettandosi sulla spada, a rendere chiaro il destino suo e della repubblica, è inevitabile tormentarsi per il fatto che la sorte paga compensi tanto iniqui; e allora che cosa potrebbe sperare ognuno per sé, vedendo che i migliori subiscono il peggio? 2. Che significa dunque? Guarda come ciascuno di loro abbia saputo sopportare e, se furono forti, impara a rimpiangerli con il loro stesso animo, se morirono con la debolezza di una donna, non andò perso nulla: o sono degni della tua ammirazione per la loro virtù, o sono indegni del tuo rimpianto per la loro ignavia. Che c'è infatti di più vergognoso che se gli uomini più grandi morendo con coraggio rendono gli altri vili? 3.Lodiamo chi è degno tante volte di lodi e diciamo: "Tanto più sei forte, tanto più sei felice! Sei scampato a ogni disgrazia, all'invidia, alla malattia; sei uscito di prigione; tu non sei apparso agli dei degno di una cattiva sorte, ma indegno di essere ormai soggetto a un qualche colpo della sorte." Bisogna invece costringere coloro che cercano di sottrarsi e in punto di morte si voltano a guardare la vita. 4. Non piangerò nessuno che è lieto, nessuno che piange: quello mi ha terso di sua iniziativa le lacrime, questo con le sue lacrime si è reso indegno di alcuna altra. lo dovrei piangere Ercole, per il fatto che viene bruciato vivo, o Regolo perché è trafitto da tanti chiodi, o Catone, perché ferisce le sue ferite? Tutti costoro trovarono col sacrificio di un breve spazio di tempo in che modo diventare eterni, e con la morte pervennero all'immortalità. 1. Anche quella è materia non trascurabile di inquietudini, se tu ti affatichi a darti una posa e non ti mostri a nessuno nella tua schiettezza, così come fanno molti, la cui vita è finta e costruita per l'esibizione; infatti è fonte di tormento la continua osservazione di se stessi, e alimenta il timore di essere scoperti diversi da come si è soliti presentarsi. Né mai ci liberiamo dall'ansietà, se pensiamo di essere giudicati ogni volta che siamo guardati; infatti, da una parte accadono molte cose che contro la nostra volontà ci mettono a nudo, dall'altra, per quanto abbia successo tanta cura di sé, tuttavia non è piacevole o sicura una vita che si nasconde sempre sotto la maschera. 2. Al contrario, quanto piacere possiede quella schiettezza sincera e di per sé priva di ornamenti, che non si serve di nulla per coprire la propria indole! Tuttavia, anche questa vita va incontro al pericolo del disprezzo, se tutto è scoperto a tutti; ci sono infatti persone che provano fastidio per tutto ciò a cui si sono potute accostare troppo da vicino. Ma per la virtù non c'è il pericolo di avvilirsi se è posta sotto gli occhi ed è meglio essere disprezzati per la schiettezza che tormentati da una continua finzione. Usiamo tuttavia misura nella cosa: c'è molta differenza tra il vivere con semplicità o con trascuratezza. 3. Occorre sapersi ritirare molto anche in sé; infatti la frequentazione di persone dissimili turba il buon equilibrio raggiunto, rinnova le emozioni ed esaspera ciò che nell'animo è ancora debole e non pienamente guarito. Tuttavia queste condizioni vanno mescolate e alternate, la solitudine e la compagnia: quella genererà in noi nostalgia degli uomini, questa di noi stessi, e l'una sarà rimedio dell'altra; la solitudine guarirà l'insofferenza della folla, la folla la noia della solitudine. 4. Nemmeno bisogna tenere la mente uniformemente nella stessa applicazione, ma occorre richiamarla agli svaghi. Socrate non si vergognava di giocare coi fanciulli, Catone rilassava col vino l'animo provato dalle fatiche politiche" e Scipione muoveva a tempo di musica quel corpo avvezzo ai trionfi e alle fatiche di guerra, non snervandosi in mollezze, come ora è abitudine di quanti ondeggiano persino nell'andatura superando la mollezza femminica, ma come quegli antichi uomini erano soliti tra lo svago e i giorni di festa danzare in modo virile, non andando incontro a una perdita di dignità, anche qualora venissero guardati dai loro nemici. 5. Occorre concedere una pausa agli animi: riposati, rinasceranno migliori e più combattivi. Come non si deve essere impositivi coi campi fertili, infatti una produttività mai interrotta li esaurirà in fretta, cosi una fatica continua indebolirà gli slanci degli animi, e questi riacquisteranno le forze se per un po' risparmiati e lasciati a riposo; dal protrarsi delle fatiche nascono un certo qual torpore e un infiacchimento degli animi. 6. E a ciò non tenderebbe un tanto grande desiderio degli uomini, se lo svago e il gioco non possedessero un certo naturale piacere; però il ricorso frequente a questi toglierà ogni gravità e ogni forza dagli animi; infatti, anche il sonno è necessario a ridare forze, tuttavia qualora tu lo continui giorno e notte, diventerà la morte. C'è molta differenza tra l'allentare una tensione e dissolverla del tutto 7. I legislatori istituirono i giorni festivi, perché gli uomini fossero costretti pubblicamente a divertirsi, come interponendo la necessaria moderazione alle fatiche; e come ho detto alcuni grandi uomini si concedevano in determinati giorni feste mensili, alcuni non c'era giorno che non dividessero tra l'ozio e gli impegni. Tra questi ricordiamo il grande oratore Asinio Pollione che soleva non farsi trattenere da nessuna occupazione oltre l'ora decima; non leggeva nemmeno le lettere dopo quell'ora, perché non gliene derivasse una qualche nuova preoccupazione, ma si liberava della stanchezza di tutta una giornata in quelle due ore. Alcuni sogliono fare pausa a metà della giornata e rimandare alle ore pomeridiane una qualche occupazione più leggera. Anche i nostri antenati vietavano che in senato ci fosse una nuova mozione oltre l'ora decima. I soldati si dividono i turni di guardia, e la notte è libera dalla ronda per coloro che ritornano da una spedizione. 8. Bisogna essere indulgenti con l'animo e concedergli ripetutamente il riposo che funga da alimento e forze. Bisogna fare anche passeggiate all'aperto, affinché l'animo si arricchisca e si innalzi grazie all'apertura degli orizzonti e all'abbondanza di aria pura da inspirare; talvolta un viaggio o un cammino e il cambiare luoghi e le cene e le bevute più generose daranno energia. Talvolta è opportuno arrivare anche fino all'ebbrezza, non perché ci sommerga, ma perché abbia effetto tranquillante; infatti dissolve gli affanni e muove l'animo dal profondo e come cura alcune malattie così anche la tristezza, e Libero non è detto così per la libertà di parola ma perché libera l'animo dalla schiavitù delle preoccupazioni e gli dà indipendenza e forza e lo rende più audace verso ogni impresa. 9. Ma nella libertà come nel vino è salutare la moderazione. Si crede che Solone e Arcesilao abbiano accondisceso al vino, a Catone fu rinfacciata l'ebbrezza: chiunque gliela rinfacci, potrà rendere più facilmente onesto un vizio che turpe Catone. Ma non bisogna farlo nemmeno spesso, in modo che l'animo non prenda una cattiva abitudine, e tuttavia talvolta occorre spingerlo all'esultanza e alla libertà, e la triste sobrietà va per un po' abbandonata. 10. Infatti sia che diamo retta al poeta greco:" "Talvolta è piacevole anche fare follie", sia a Platone: "Invano chi è padrone di sé bussa alla porta della poesia", sia ad Ari stotele: "Non ci fu nessun grande ingegno senza un pizzico di follia": 11.non può esprimere qualcosa di grande e superiore agli altri se non una mente eccitata. Una volta che ha disprezzato le cose usuali e comuni e per divina ispirazione si è elevata più in alto, allora infine suole cantare qualcosa di più grande delle capacità umane. Non può attingere qualcosa di sublime e di elevato finché rimane in sé:" è necessario si stacchi dal consueto e scarti verso l'alto e morda i freni e trascini il suo auriga e lo conduca là dove da solo avrebbe avuto paura di salire. 12. Tu hai, carissimo Sereno, i mezzi che possono difendere la tranquillità, che possono restituirla, che resistono ai mali striscianti; sappi tuttavia che nessuno di loro è sufficientemente efficace per coloro che salvaguardano una situazione di debolezza, a meno che una cura sollecita e assidua non circondi l'animo vacillante. 1. Puoi forse trovare una città più infelice di quanto lo fu quella degli Ateniesi, quando la dilaniavano i trenta tiranni? Avevano ucciso milletrecento cittadini, tutti i migliori, e non per questo si fermavano, ma era la stessa crudeltà che si fomentava da sola. Nella città in cui si trovava l'Areopago il più sacro dei tribunali, nella quale si trovavano un senato e un popolo simile al senato, si raccoglieva ogni giorno un tristo collegio di carnefici e la curia infelice si faceva stretta per i tiranni che la affollavano: avrebbe forse potuto vivere in tranquillità quella città in cui c'erano tanti tiranni quanti avrebbero potuto essere gli sgherri? Non si poteva presentare agli animi nemmeno un barlume di speranza di riacquistare la libertà, né si profilava spazio ad alcun rimedio contro tanta violenza di mali; da dove infatti recuperare tanti Armodii per la povera città? 2. Eppure c'era Socrate e consolava i senatori affranti, esortava quanti disperavano della repubblica, ai ricchi che temevano a causa delle loro ricchezze rimproverava il tardivo pentimento di una cupidigia foriera di pericolo e a quanti erano desiderosi di imitarlo andava portando un grande esempio, col suo incedere libero fra i trenta dominatori. 3.Tuttavia quest'uomo la stessa Atene lo uccise in carcere, e la Libertà non tollerò la libertà di colui che aveva sfidato la schiera compatta dei tiranni: sappi pure che anche in uno stato oppresso c'è la possibilità per un uomo saggio di manifestarsi, e in uno fiorente e felice regnano la sfrontatezza l'invidia e mille altri vizi che rendono inerti. 4.Dunque, comunque si presenterà la repubblica, comunque lo permetterà la sorte,così o esplicheremo le nostre possibilità o le contrarremo, in ogni modo ci muoveremo e non ci intorpidiremo paralizzati nel timore. Anzi, sarà davvero un uomo colui che, mentre incombono pericoli da tutte le parti, mentre intorno fremono armi e catene, non infrangerà la virtù né la occulterà; nascondersi infatti non significa salvarsi. 5. A buon diritto, a quel che penso, Curio Dentato diceva di preferire la morte alla vita: è l'estremo dei mali uscire dal novero dei vivi prima di morire. Ma, se ti sarai imbattuto in un periodo meno agevole della vita politica, dovrai fare in modo di rivendicare più spazio per l'ozio e gli studi letterari, e da dirigerti immediatamente verso il porto non diversamente che in una navigazione pericolosa, non aspettando che sia la situazione ad allontanarti ma facendo in modo da separarti tu da essa, di tua volontà. 1.Dovremo poi osservare attentamente dapprima noi stessi, poi i compiti che intendiamo intraprendere, poi coloro per i quali o con i quali intendiamo farlo. 2. Prima di tutto è necessario che uno valuti se stesso, perché a noi sembra di potere quasi più di quello che possiamo: uno cade in rovina per fiducia nell'eloquenza, un altro ha chiesto al suo patrimonio più di quanto potesse sostenere, un altro ha schiacciato il suo corpo debole con un compito gravoso. 3.Il riserbo di alcuni poco si addice alla politica, che richiede sicurezza di atteggiamenti; la fierezza di altri non si confà alla vita di corte; alcuni non sanno governare la collera e una qualsiasi occasione di indignazione li trascina a parole temerarie; alcuni non sanno trattenere l'ironia e non si astengono da pericolose battute salaci: a tutti costoro la vita ritirata è più utile delle occupazioni pubbliche; una natura indomita e ribelle eviti le sollecitazioni di una franchezza destinata a nuocerle. 4. In secondo luogo occorre valutare i compiti che intraprendiamo e confrontare le nostre forze con le imprese che vogliamo tentare. Infatti devono esserci sempre più forze nell'esecutore che nell'opera: è inevitabile che schiaccino i pesi che sono maggiori di chi li sostiene. 5. Inoltre alcuni compiti non sono tanto pesanti in sé quanto fecondi e recano con sé molti altri compiti: sono da evitare anche questi, dai quali scaturirà un nuovo e multiforme impegno, e non bisogna accostarsi a un compito dal quale non sia facile ritirarsi; bisogna mettere mano a quelle faccende cui si può porre una fine o di cui si può almeno sperarla, tralasciare quelle che si spingono sempre più in là con l'azione e non finiscono là dove ci si era proposti. 1.Bisogna comunque scegliere i destinatari, se sono degni che noi dedichiamo loro una parte della nostra vita, o se sono toccati dal sacrificio del nostro tempo; alcuni infatti ci ascrivono di loro iniziativa i nostri doveri. Atenodoro dice che non andrebbe nemmeno a cena da chi per questo non si sentisse per nulla in debito con lui. Comprendi ? penso che si recherebbe tanto meno da coloro che si sdebitano dei favori degli amici con un pranzo, che contano le portate come fossero donativi, quasi che fossero smodati in onore degli altri: togli a costoro testimoni e spettatori, non piacerà loro gozzovigliare in segretezza. Devi riflettere 39 se la tua natura sia più adatta all'attività o a un ritiro dedito agli studi, e devi volgerti là dove ti condurranno le capacità del tuo ingegno: Isocrate portò via dal foro con le sue stesse mani Eforo, giudicandolo più idoneo a stilare memorie storiche. Infatti daranno cattiva risposta gli ingegni forzati; la fatica è vana, se la natura vi rilutta. Nulla tuttavia delizierà tanto l'animo quanto un'amicizia fedele e dolce. Che bene prezioso è l'esistenza di cuori preparati ad accogliere in sicurezza ogni segreto, la cui coscienza tu debba temere meno della tua, le cui parole allevino l'ansia, il cui parere renda più facile una decisione, la cui contentezza dissipi la tristezza, la cui stessa vista faccia piacere! Questi li sceglieremo naturalmente liberi, per quanto sarà possibile, da passioni; infatti i vizi serpeggiano e si trasmettono a chiunque sia più vicino e nuocciono per contatto. 2. Dunque, come in una pestilenza occorre badare a non sedersi accanto a chi è già stato aggredito ed è divorato dal male, perché ne trarremo pericolo e lo stesso respiro ci farà ammalare, così nello scegliere gli amici faremo in modo di prendere quelli il meno possibile contaminati: è l'inizio della malattia mescolare sano e malato. Né vorrei consigliarti di non seguire o attrarre a te nessuno che non sia saggio. Dove troverai infatti costui che cerchiamo da tante generazioni? Valga per ottimo il meno cattivo. 3.Difficilmente avresti la possibilità di una scelta più felice, se tu cercassi i buoni tra i Platoni e i Senofonti e quella generazione di discepoli di Socrate, o se tu avessi la possibilità di scegliere nell'età catoniana, che vide numerosi uomini degni di nascere nella generazione di Catone (così come molti peggiori di quelli mai nati in nessun'altra e promotori dei più gravi crimini; infatti c'era bisogno dell'una e dell'altra schiera perché potesse essere compreso Catone: egli doveva avere sia i buoni da cui farsi approvare, sia i cattivi in mezzo ai quali far prova della sua forza): ora invece in tanta povertà di buoni la scelta deve essere meno selettiva. 4.Tuttavia si evitino soprattutto quanti sono malcontenti e si lagnano di tutto, per i quali non c'è un solo motivo che non sia buono per lamentarsi. Se anche abbia fedeltà e benevolenza accertate, tuttavia è nernico della tranquillità un compagno profondamente turbato e che geme di tutto. 1. Veniamo ai patrimoni, massimo motivo delle preoccupazioni umane; infatti, se confronti tutte gli altri mali per i quali ci angustiamo, morti, malattie, timori, rimpianti, sopportazione di dolori e fatiche, con quei mali che ci procura il nostro denaro, questa parte sarà molto più gravosa. 2.Dunque, dobbiamo pensare quanto più lieve dolore sia non avere che perdere: e comprenderemo che la povertà ha tanto meno materia di sofferenze quanto minore ne ha di danni. Sei in errore infatti se ritieni che i ricchi sopportino le perdite con animo più saldo: il dolore di una ferita è uguale per i corpi più grandi e per quelli più piccoli. 3. Bione disse con eleganza che farsi strappare i capelli non è meno doloroso per i calvi che per chi calvo non è. Puoi ritenere la stessa cosa per quanto riguarda i poveri e i ricchi, il loro tormento è uguale; ad entrambi infatti il loro denaro sta attaccato né può esser loro strappato senza che lo sentano. Inoltre è più sopportabile, come ho detto, e più facile non acquistare che perdere, e perciò vedrai più felici coloro che mai la fortuna si è voltata a guardare di quelli che ha abbandonato. 4. Se ne avvide Diogene uomo di grande animo, e fece in modo che nulla potesse essergli tolto. Tu chiama questo povertà, miseria, indigenza, da' alla mancanza di preoccupazioni quel nome vergognoso che vorrai: penserò che costui non sia felice, se mi saprai trovare qualcun altro che non perda nulla. 0 io mi sbaglio o essere re significa, tra avidi, circonventori, ladri, ricettatori di schiavi, essere il solo a cui non si possa nuocere. 5. Se qualcuno mette in dubbio la felicità di Diogene, può allo stesso modo dubitare anche della condizione degli dei immortali, se vivano poco felicemente per il fatto che non hanno né poderi né giardini né campi resi preziosi dal lavoro di coloni mercenari né grandi proventi dall'usura. Non ti vergogni di ammutofire, chiunque tu sia, davanti alle ricchezze? Guarda dunque l'universo: vedrai gli dei nudi, che dispensano tutte le cose, non possedendone nessuna. Giudichi tu povero o simile agli dei immortali chi si è spogliato di tutti i beni legati alla sorte? 6. Chiami forse più felice Demetrio Pompeiano, che non si vergognò di essere più ricco di Pompeo? A lui, per il quale già avrebbero dovuto costituire ricchezze due schiavi vicari e una cella un po' più grande, ogni giorno veniva rifatto l'elenco degli schiavi come a un generale quello delle truppe. 7. A Diogene invece scappò via l'unico schiavo ed egli non ritenne cosa così importante riportarlo indietro, mentre gli veniva mostrato. "t vergognoso" disse "che Mane possa vivere senza Diogene, e Diogene senza Mane non possa." Mi sembra che abbia detto: "Occupati dei tuoi affari, fortuna, ormai da Diogene non c'è più nulla di tuo: mi è scappato lo schiavo, anzi me ne sono andato io, libero. " 8. La servitù chiede il vestiario e il vitto, occorre prendersi cura di tanti ventri di animali avidissimi, bisogna comprare la veste e sorvegliare mani rapacissime, e utilizzare i servigi di gente che piange e maledice: quanto più felice colui che non deve nulla a nessuno, se non a chi può rifiutare nel modo più facile, a se stesso ! 9. Ma dal momento che non abbiamo tanta forza, almeno dobbiamo limitare i patrimoni, per esser meno esposti ai capricci della sorte. Sono più adatti alla guerra i corpi che possono rannicchiarsi al riparo delle loro armi di quelli sovrabbondanti e che la loro stessa grandezza ha esposto da ogni parte alle ferite: la migliore misura del denaro è quella che né precipita in povertà né si allontana molto dalla povertà. 1.E a noi piacerà questa misura, se prima ci sarà piaciuta la parsimonia, senza la quale non ci sono ricchezze bastanti e con la quale invece tutte sono abbastanza estese tanto più che il rimedio è vicino e la stessa povertà può, chiamata in aiuto la frugalità, tramutarsi in ricchezza. 2. Abituiamoci a rimuovere da noi lo sfarzo e a misurare l'utilità, non gli ornamenti delle cose. Il cibo domi la fame, le bevande la sete, il piacere sia libero di espandersi entro i limiti necessari; impariamo a sostenerci sulle nostre membra, ad atteggiare il modo di vivere e le abitudini alimentari non alle nuove mode, ma come suggeriscono le tradizioni; impariamo ad aumentare la continenza, a contenere il lusso, a moderare la sete di gloria, a mitigare l'irascibilità, a guardare la povertà con obiettività, a coltivare la frugalità anche se molti se ne vergogneranno ad apprestare per i desideri naturali rimedi preparati con poco, a tenere come in catene le speranze smodate e l'animo che si protende verso il futuro, a fare in modo di chiedere la ricchezza a noi piuttosto che alla sorte. 3.Tanta varietà e ingiustizia di accidenti non può mai essere allontanata cosà che molte tempeste non irrompano su chi dispiega vele ampie; bisogna restringere le nostre sostanze affinché gli strali della sorte cadano nel vuoto, e in questo modo talora gli esili e le calarnità si sono mutati in rimedi e i danni più gravi sono stati sanati da quelli più lievi. Laddove l'animo dà poco ascolto ai consigli e non può essere curato in modo più dolce, non si provvede forse al suo bene, ricorrendo alla povertà e alla privazione degli onori e al rovescio di fortuna, opponendo male a male? Abituiamoci dunque a essere capaci di cenare senza una folla e ad adattarci a un numero minore di servi e a farci apprestare vesti per lo scopo per cui sono state inventate e ad abitare in spazi pù ristretti. Non soltanto nelle corse e nelle gare del circo, ma in questi spazi della vita occorre serrare il giro. 4. Anche la spesa più grandiosa per gli studi conserva un senso finché conserva una misura. A che scopo innumerevoli libri e biblioteche, il cui proprietario in tutta la sua vita a stento arriva a leggere per intero i cataloghi? La massa di libri grava sulle spalle di chi deve imparare, non lo istruisce, ed è molto meglio che tu ti affidi a pochi autori piuttosto che tu vada vagando attraverso molti. 5.Ad Alessandria andarono in fiamme quarantamila libri;" altri loderebbe il magnifico monumento di opulenza regale, come Tito Livio, che ne parla come di un'opera insigne di stile e buona amministrazione dei re: non fu un fatto di stile o di buona amministrazione quello, ma un'esibizione di lusso per gli studi, anzi non per gli studi, dal momento che l'avevano apprestata non per lo studio ma per l'apparenza, così come per molti ignari anche di sillabari per l'infanzia i libri non rappresentano strumenti di studio ma ornamento delle sale da pranzo. Dunque ci si procurino libri nella quantità necessaria, non per rappresentanza. 6."Più dignitosamente" dici tu "i soldi se ne andranno per questo che per bronzi di Corinto e quadri." Ciò che è troppo è sbagliato ovunque. Che motivo hai di giustificare un uomo che si procura librerie fatte di legno di cedro e di avorio, che va in cerca di raccolte di autori o ignoti o screditati e tra tante migliaia di libri sbadiglia, a cui dei suoi volumi piacciono soprattutto i frontespizi e i titoli? 7.Dunque, a casa dei più pigri vedrai tutte le orazioni e le opere storiografiche che esistono, scaffali che arrivano fino al soffitto; ormai infatti tra i bagni e le terme si tiene lustra anche la biblioteca come un ornamento necessario della casa. E lo potrei giustificare, certo, se si sbagliasse per troppa passione per gli studi: ora codeste opere di sacri ingegni ricercate e suddivise con i loro ritratti vengono procurate per abbellire e decorare le pareti. 1. Ma tu ti sei imbattuto in un tipo di vita difficile e la fortuna pubblica o la tua personale ti ha imposto a tua insaputa un laccio che non sei in grado di sciogliere né di rompere: pensa che gli schiavi in ceppi in un primo tempo mal sopportano i pesi e gli impedimenti delle gambe; quindi, una volta che si sono proposti di non indignarsi per essi, ma di sopportarli, la necessità insegna loro a sopportarli con fermezza, l'abitudine con docilità. In qualsiasi genere di vita troverai divertimenti, distensioni e piaceri, se vorrai giudicare lievi i mali piuttosto di renderteli odiosi.2. A nessun titolo ci trattò meglio la natura che per questo: sapendo per quali sofferenze nasciamo, trovò come lenimento delle disgrazie l'assuefazione, ponendoci subito in familiarità con le sventure più gravi. Nessuno potrebbe resistere, se la continuità delle avversità conservasse la stessa violenza del primo colpo. 3. Tutti siamo legati alla fortuna: la catena degli uni è d'oro, lenta, quella di altri stretta e spregevole, ma che importa? La medesima custodia ha stretto tutti e si trovano legati anche quelli che hanno legato, a meno che tu non ritenga più leggera una catena nella sinistra?" Uno lo tengono avvinto gli onori, un altro il patrimonio; alcuni sono schiacciati dalla nobiltà, alcuni dalla condizione umile; alcuni sono soggiogati dall'altrui potere, alcuni dal loro proprio; alcuni li confina in un unico luogo l'esilio, alcuni la carica religiosa: ogni vita è una schiavitù. 4. Occorre dunque assuefarsi alla propria condizione e lamentarsi il meno possibile di essa e afferrare tutto ciò di buono che ha intorno a sé: non c'è nulla di così aspro in cui un animo obiettivo non sappia trovare un conforto. Spesso aree esigue si sogliono aprire a molti utilizzi per l'abilità di chi le dispone e una disposizione accorta suole rendere abitabile anche il più piccolo spazio. Usa la ragione di fronte alle difficoltà: le durezze possono addolcirsi, le strettoie allentarsi, le situazioni gravi opprimere di meno chi le sopporta con accortezza. 5. I desideri non vanno indirizzati a obiettivi lontani, ma dobbiamo permettere loro uno sbocco vicino, dal momento che non sopportano di essere del tutto bloccati. Abbandonati quegli obiettivi che o non possono realizzarsi o lo possono con difficoltà, perseguiamo mete situate vicino e che arridono alla nostra speranza, ma manteniamo la consapevolezza che tutte sono ugualmente inconsistenti, e all'esterno hanno aspetto diverso, mentre all'intemo sono parimenti vane. E non invidiamo quelli che stanno più in alto: quelle che sembravano vette si sono rivelate dirupi. 6. Per converso quelli che una sorte contraria ha posto in situazione incerta saranno maggiormente sicuri togliendo superbia a cose superbe di per sé e cercando di portare il più possibile in piano la loro situazione. Ci sono molti che per necessità devono tenersi attaccati al loro rango, dal quale non possono scendere se non cadendone, ma attestano che proprio questo è il loro maggior onere, il fatto che sono costretti a essere di peso ad altri, e che non sono stati messi su un piedistallo ma ci sono stati inchiodati;" con giustizia, mitezza, benevolenza, con mano prodiga e generosa dovrebbero apprestare molte difese per i momenti favorevoli, alla speranza nei quali potrebbero attaccarsi con più sicurezza. 7. Nulla tuttavia ci saprà mettere al riparo da queste fluttuazioni dell'animo quanto fissare sempre un qualche termine ai nostri successi, e non concedere alla sorte l'arbitrio di smettere, ma fermarci noi stessi decisamente molto al di qua; in questo modo sia alcuni desideri stimoleranno l'animo sia, delimitati, non spingeranno verso l'infinito e l'incerto.

Eugenio Caruso - 29 novembre 2014

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