Il governo Ciampi e le grandi aspettative della sinistra.



Un nuovo amico è come un nuovo vino, invecchierà e lo berrai con delizia.
Ecclesiaste


Copertina

Con questo articolo proseguo la pubblicazione di alcuni stralci del mio libro storico-economico L'estinzione dei dinosauri di stato. Il libro racconta i primi sessant'anni della Repubblica soffermandosi sulla nascita, maturità e declino di quelle grandi istituzioni (partiti, enti economici, sindacati) che hanno caratterizzato questo periodo della nostra storia. La bibliografia sarà riportata nell'ultimo articolo di questa serie di stralci. Il libro può essere acquistato in libreria, in tutte le librerie on-line, oppure on line presso la casa editrice Mind.
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Il governo Ciampi
I risultati dei referendum del 18 aprile '93 suggeriscono un cambiamento; nelle sue trattative segrete, Scalfaro propone prima un Governo di Giorgio Napolitano, che DC e socialisti contestano, poi un Governo con Prodi premier e Segni vicepremier. Ma Segni gioca al rialzo, vuole essere primo ministro; i democristiani, che non gli perdonano di essere uscito dal partito, pongono il veto alla sua candidatura e Scalfaro affida l’incarico al governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, per un “Governo del Presidente” che sembra avere tutte le carte in regola per preparare il terreno al Governo delle sinistre. Queste, sull’onda di Tangentopoli, sono pronte a mettere in movimento l’occhettiana “gioiosa macchina da guerra” per nuove elezioni. Ciampi non ha un’origine partitica e si presenta, pertanto, come l’uomo super partes ideale per la transizione verso un Governo delle sinistre.
Ciampi, nell’aprile 1993, forma un Governo di tecnici, detto “il Governo dei professori” (28 aprile 1993-10 giugno 1994); ben dodici ministri non sono parlamentari, ma personalità della società civile. Secondo lo storico inglese Mack Smith «la loro presenza fece di questo gabinetto il più competente e rispettato nell’intero quarantennio seguito alla morte di De Gasperi» (Smith, 1997). Dell’Esecutivo fanno parte quattro progressisti: il verde Francesco Rutelli, Vincenzo Visco, Luigi Berlinguer e Augusto Barbera del Pds. Il 29 aprile 1993, il giorno stesso in cui Ciampi giura, la Camera respinge l’autorizzazione a procedere contro Craxi presentata dal pool di Mani pulite: i ministri progressisti si dimettono seduta stante e la rabbia dilaga tra gli italiani.
Il gabinetto risulta comunque costituito per lo più da personaggi della sinistra DC e dell’area Pds. Il Governo Ciampi, definito una «teocrazia bancaria», è affollato di esperti economici e bancari, che danno una marcata impronta economica e finanziaria alla maggioranza dei provvedimenti governativi, allo scopo di proseguire l’opera, avviata da Amato, di risanamento economico del Paese. Al Governo Ciampi si deve l’accordo sul costo del lavoro, stilato con sindacati e Confindustria per favorire la ripresa economica, la rinuncia parziale delle Camere all’immunità parlamentare, la nuova legge elettorale.
In maniera del tutto inaspettata, il Paese viene sconvolto da una ripresa degli atti di terrorismo: il 14 maggio 1993 un’autobomba esplode a Roma in via Fauro, resta incolume il vero obiettivo, Maurizio Costanzo. Nella notte tra il 26 e 27 maggio a Firenze esplode la Torre de’ Pulci, a un passo dagli Uffizi. Nella notte tra il 27 e il 28 luglio tre autobombe scoppiano contemporaneamente a Roma e a Milano. Ricorda Vespa che, avendo chiesto a caldo al capo della polizia Vincenzo Parisi quale legame parentela ci potesse essere tra queste bombe e le altre della storia del Paese, ne ebbe la seguente criptica risposta: «Quelle bombe stabilizzavano. Queste mi preoccupano di più» (Vespa, 1999). Il 6 giugno 1998 la Corte d’Assise di Firenze condannerà per quelle bombe alcuni mafiosi d’alto rango. Dopo le “confessioni” di Giovanni Brusca, una spiegazione a quella ripresa del terrorismo mafioso può essere ricondotta all’ipotesi: «Facevano la guerra perché volevano la pace», mettevano le bombe per “tornare amici”, tritolo e stragi per trovare un accordo con lo Stato o con spezzoni dello Stato.
La Lega Nord, durante le elezioni comunali parziali del giugno 1993 (elezioni effettuate con la nuova legge elettorale) ottiene un enorme successo nell’Italia del Nord; a Milano viene eletto sindaco il leghista Marco Formentini. I mass media continuano ad affermare che si tratta solo di un fenomeno di protesta, senza rendersi conto di come sia nato un modo nuovo, per l’Italia, di fare politica, al di fuori degli schemi politichesi o di quel parlare che Gian Luigi Beccaria così definisce: «[…] per un potente essere comprensibile e concreto significa farsi subito scoprire, giocarsi la propria forza». La Lega testimonia in quegli anni (De Marchi, 1993; Bossi, 1992; Bossi, 1993) il desiderio di una gestione dello Stato più tecnica e meno politica, che privilegi i principi della sovranità popolare e delle autonomie locali (Ciuffoletti, 1994), rispetto a quelli della sovranità nazionale e del centralismo. Essa rappresenta la ribellione della gente comune e riverbera quella svolta mondiale, in senso liberista, che rivaluta meritocrazia e spirito d’impresa, opponendosi allo Stato sociale keynesiano, svolta avviata dalle politiche di Ronald Reagan e Margaret Thatcher. La Lega e i movimenti referendari rappresentano il realizzarsi nel Paese della tendenza mondiale alla deregulation e alla contestazione delle teorie, delle ideologie, dei modelli culturali degli anni Settanta, dell’arcaismo istituzionale, con la rivendicazione del primato dello spontaneismo e dell’empirismo. Un elemento di debolezza che caratterizza il movimento leghista è la mancanza di spessore dei suoi quadri, che appaiono motivati ed entusiasti ma, per lo più, impreparati se non incolti.
Anche l’Msi consegue un discreto successo, specie nel Sud. Nel 1991 i moderati, capeggiati da Gianfranco Fini, hanno preso le redini del partito, consci che la loro unica speranza di affermazione elettorale sta nel ripudio del totalitarismo, del razzismo e dei metodi violenti che avevano relegato l’Msi ai margini della politica. Afferma Mack Smith «Ciò nondimeno, una certa misura di ambiguità rimaneva nell’Msi, perché il nuovo leader non poteva rinnegare del tutto i suoi antichi entusiasmi fascisti, e, stretto dalla necessità di tenere unite le due ali del partito, continuava, insensatamente, a parlare di Mussolini come del più grande statista del ventesimo secolo. Nell’ottobre 1992 i suoi seguaci celebrarono a Piazza Venezia il settantesimo anniversario della marcia su Roma, con tanto di camicie nere e di saluti romani. Ma Fini riuscì a convincere il grosso del partito che doveva dirsi postfascista anziché neofascista, e dissolversi in una nuova formazione politica […]».
Si costata che il Psi è stato spazzato via, la DC fortemente ridimensionata, il Pds ne esce malconcio al Nord e in lieve salita nel Centro-Sud. Questi risultati scardinano gran parte dei partiti; nel corso del 1993, scompaiono in sostanza il Partito Socialista, il Partito Repubblicano e il Partito Liberale. La DC si prepara a cambiare abito per rimettersi quello sturziano di Partito Popolare Italiano, con lo slogan «Rinnovare senza rinnegare». Nelle grandi città prevalgono i candidati presentatisi sotto la bandiera dei “progressisti”: Rutelli a Roma, Antonio Bassolino a Napoli, Massimo Cacciari a Venezia, Ferruccio Sansa a Genova, Riccardo Illy a Trieste; questi risultati confermano, in Occhetto, la convinzione della vittoria della coalizione dei progressisti alle prossime elezioni politiche. Dopo le amministrative del giugno 1993, scrive Paolo Mieli sul Corriere: «Se si era parlato di terremoto per i risultati delle elezioni del 5 aprile, come dobbiamo definire quello che è venuto fuori dalle urne domenica scorsa? Un cataclisma, un’esplosione termonucleare, un big bang […] Da un giorno all’altro abbiamo visto ridursi ai minimi termini l’insieme di forze che ha governato l’Italia per cinquant’anni».
Il 9 giugno 1993 il procuratore capo di Roma, Vittorio Mele, chiede al Parlamento l’autorizzazione a procedere contro il senatore Andreotti, come mandante dell’omicidio Pecorelli. Sullo sfondo della vicenda incombe il “memoriale di Moro”, nel quale figurano attacchi ad Andreotti per i suoi rapporti con il banchiere della mafia, Michele Sindona. L’azione giudiziaria sembra voglia mostrare che non esistono più sacrari inviolabili. Con lui, ha osservato Sergio Romano, processeranno l’Italia e 40 e più anni di vicende del Paese (Biagi, 1995). Successivamente anche il procuratore capo di Palermo, Giancarlo Caselli, al termine delle sue indagini sulle connessioni tra mafia e politica, incriminerà Andreotti. L’uomo politico, che è già passato indenne da tanti altri momenti difficili, proclama la propria innocenza, dichiarando l’illegittimità dell’accusa, alla quale attribuisce l’obiettivo di voler dimostrare l’esistenza di «una sorta di reato collettivo, compiuto dalla Democrazia Cristiana siciliana» (Andreotti, 1995).

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23 dicembre 2014

Eugenio Caruso da L'estinzione dei dinosauri di stato.



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