Se la vita è un continuo passare da un affanno all'altro, la tranquillità resterà una meta irraggiungibile.
Seneca, De brevitate vitae
A ogni scelta di un nuovo capo dello Stato, i capi dei partiti politici di maggior rilievo in parlamento ripetono quel che oggi dice Matteo Renzi: serve un “arbitro”, il migliore possibile naturalmente, poiché dovrà incarnare l’unità nazionale e la più alta istituzione di garanzia. La personale interpretazione che ogni Capo dello Stato ha dato delle sue plurime funzioni mostra che invocare “l’arbitro” è solo un modo della politica per mettere le mani avanti. Farà poco piacere ai leader di partito, ma il nostro Capo dello Stato è un giocatore e non solo un arbitro, e in momenti e su temi tra i più delicati: sciogliere o non sciogliere le Camere; affidare incarichi di governo; comporre la lista dei ministri: come esercitare i poteri di promulgazione prima e dopo l’approvazione di leggi, disegni di legge e decreti legge governativi; sui problemi ordinamentali della giustizia come presidente del CSM; su difesa e sicurezza, come presidente del Consiglio Supremo.
Nella seconda Repubblica il conflitto tra il Quirinale “giocatore” e i leader di partito è diventato ancora più evidente, poiché il maggioritario porta a governi scelti da elettori senza che la Costituzione sia stata modificata quanto a forma di governo e prerogative del premier, e non è un caso che Berlusconi (ma anche Renzi, che dagli elettori non è stato scelto, si pensi alla nomina dell’attuale ministro dell’Economia voluta da Napolitano) abbiano più volte dovuto di malanimo “subire” scelte presidenziali, pur convinti di avere dalla propria un più forte e diretto mandato popolare. E non è un caso che i Capi dello Stato, vedi Napolitano da Monti in avanti, abbiano promosso governi non indicati dagli elettori preferendoli a scioglimenti anticipati.
Se dunque la politica mette le mani avanti, credendo ogni volta di scegliere un Capo dello Stato confinato a ruoli di pura rappresentanza e per il resto notaio delle decisioni prese dai capi-partito, non c’è niente di peggio che credere che allo scopo un ”tecnico” e un “tecnico-economico” si presti meglio di un politico. Due volte nei decenni la politica nei guai ha chiamato al Quirinale un super-tecnico economico, e cioè un governatore in carica di Bankitalia con Luigi Einaudi e un ex governatore come Carlo Azeglio Ciampi. Entrambe le volte la politica ha dovuto rassegnarsi: proprio il prestigio, la forte personalità e la competenza dei tecnici prescelti ha attribuito loro un ruolo incisivo e decisivo, d’intervento continuo su scelte fondamentali.
Einaudi da capo dello Stato continuò a scrivere sul
Corriere della sera e a pubblicare volumi di polemica economica, e come riconobbe in una lunga nota consegnata al termine del suo mandato all’Accademia dei Lincei, “si prese” un bel po’ di poteri che De Nicola non immaginava neanche di poter esercitare: informative accurate e preventive da parte di ogni singolo ministro prima di ogni atto legislativo, consultazione diretta e regolare dei vertici della Polizia e delle forze armate, osservazione preventiva al governo su materie e norme dei disegni di legge, rinvio al parlamento di testi approvati, in materia soprattutto di compensi dei dipendenti pubblici, militari e diplomatici. Intervenne in maniera politica ed esplicita nel dibattitto sulla cosiddetta “legge truffa” elettorale tentata dalla Dc, ottenendo la modifica del premio di maggioranza previsto. Intervenne sull’allora delicatissima questione di Trieste. E fu decisivo nel far superare alla politica le incertezze per la prima grande apertura dell’Italia ai mercati internazionali, con la liberalizzazione degli scambi nel 1953, voluta dal minoritario Ugo La Malfa quando anche la maggioranza di Confindustria nutriva molti dubbi. Del resto anche alla Consulta Einaudi era stato attivissimo su temi iper-politici: il no alla legge elettorale proporzionale, il no al centralismo statuale, no alle Province, sì al referendum abrogativo anche in materia fiscale, sì alla piena autonomia della scuola e delle Università. Senza contare la sua pervasiva azione a difesa del mercato e della concorrenza, quando tutti nell’immediato dopoguerra si rivolgevano solo allo Stato. La scelta non è tra Stato e privato, ripeteva sempre Einaudi, ma tra libera concorrenza e monopolio. Tutte scelte su cui i partiti dell’epoca non gli diedero ragione: e che sono ancor oggi, tutti e ciascuno, pezzi dell’Italia sbagliata da cambiare.
Ciampi era stato presidente del Consiglio “tecnico”, ma meno politicamente caratterizzato del liberale Einaudi. Eppure, malgrado il tentativo di evitare il più possibile rotture esplicite con Berlusconi, Ciampi gli rifiutò l’autorizzazione alla presentazione di disegni di legge (nel caso di Eurojust) e decreti legge (sulla diffamazione a mezzo stampa, sui brogli elettorali). Lo scontro con Berlusconi divenne palpabile sulle dimissioni di Ruggiero da ministro degli Esteri, considerato dal Quirinale un garante internazionale della credibilità del governo Berlusconi innanzi alle maggiori istituzioni finanziarie internazionali. Ruggiero si dimise alle critiche venutegli dallo stesso centrodestra all’ingresso dell’Italia nell’euro, e Ciampi ne fu amareggiato perché all’euro teneva sopra ogni altra cosa. Aveva avuto un ruolo decisivo da Bankitalia nell’avvicinamento all’obiettivo della moneta unica (e anche un ruolo nell’accettare il cambio troppo alto impostoci dai tedeschi), e in coerenza al disegno europeo Ciampi “obbligò” Berlusconi ad assumere il portafoglio degli Esteri, invece di premiare un euroscettico. Decisione che raffreddò molto l’iniziale europeismo di Berlusconi, cambiandone per reazione al Quirinale il segno della politica estera, a favore di intese più forti con Usa e Russia. Tonnellate di articoli furono scritti sui tentativi di Ciampi di spurgare dal peggio le leggi giudiziarie ad personam, e sistematica fu la sua insistenza su temi come il conflitto d’interessi e la regolazione del sistema televisivo, temi sui quali il centrodestra reagiva sbuffando.
Se queste sono le premesse, c’è da scommettere che il successore di Napolitano NON sarà dunque Pier Carlo Padoan ( e tanto meno, e per fortuna, Draghi che sta meglio dove sta). Eppure, servirebbe qualcuno con la competenza e prestigio economici. Con la grana della Grecia a rischio di neoesplosione, e due-tre anni di fronte in cui pur con le nuove regole attenuate sul fiscal compact (che proprio a Padoan si devono) l’Italia deve uscire dalla recessione con forti riforme attuate e non solo annunciate, un Quirinale “economista” ci aiuterebbe molto, in Europa e a Washington. Anche perché il rischio di sforare il 3% di deficit è molto forte, come si vede dal 3,6% di deficit a cui si è chiuso il terzo trimestre 2014. E se da una parte i nuovi criteri di interpretazione del Patto di Stabilità europeo consentono all’Italia di evitare a breve ulteriori manovre finanziarie, è vero però che il limite del 3% è restato e che in quel caso le richieste di correzione tornerebbero a esserci avanzate.
Ma un Capo dello Stato forte in economia e finanza servirebbe non solo come garanzia internazionale. E’ su molte materie economiche che non dipendono direttamente dai saldi pubblici e non sono parte essenziale del programma di riforme già presentato in Europa, come il Jobs Act, che un Quirinale interventista sarebbe di grande utilità. Bastano alcuni esempi per capirlo.
Destra e sinistra premono per riabbassare i limiti dell’età pensionabile. Ma l’INPS nell’ultimo bilancio ha raccolto contributi per 212 miliardi euro e pagato prestazioni per oltre 100 miliardi in più, che vengono dalla fiscalità generale. Un Capo dello Stato non incline ad assecondare tendenze elettoralistiche in materia previdenziale è necessario. Idem dicasi per riabbassare il piede sull’acceleratore di alcuni disegni annunciati dal governo e lasciati allo stato di pura intenzione: l’intervento sulle 10mila società controllate e partecipate a livello locale, per chiuderne una parte, dismetterne un’altra, e accorparne radicalmente una terza; il passaggio da 35mila stazioni pubbliche di acquisto e appalto a poche decine, accorpate nazionalmente e per macroregioni; la risistemazione organica del prelievo sugli immobili, superando la discrasia attuale di 8mila diverse aliquote nel gioco incrociato di IMU-TASI-TARI.
E ancora: c’è l’intero capitolo bancario, che in questi anni è stato lasciato in un angolo ripetendo che il nostro era un sistema del credito tra i più sani al mondo. Col bel risultato che abbiamo anatre zoppe che si trascinano nell’asfissia come MPS e Carige, banche popolari quotate con una governance incoerente alla propria efficienza, e nell’intero sistema un’enorme mole di sofferenze che restringerà i prestiti a famiglie e imprese quand’anche avesse successo il QE della BCE di cui siamo in attesa. Bankitalia è inascoltata da anni, su questi argomenti, e un Quirinale che le desse sponda aiuterebbe a sbloccare i veti politici.
Infine, lasciateci esprimere un sogno. Un Quirinale muscolare in economia servirebbe anche per esercitare finalmente decisi poteri di garanzia contro la continua vessazione dei contribuenti, negando la firma a provvedimenti che introducono tasse retroattive, introducono obblighi fiscali attraverso circolari invece che per legge, aprono regimi più convenienti discrezionalmente solo ad alcuni pochi “grandi” contribuenti negandoli alla gran massa. Ma forse anche e proprio per questo, la scelta della politica sarà diversa. Sia detto tra noi, ricordate infine che la monarchia britannica costa ai tax payers 37,6 milioni di pounds, cioè 46 milioni di euro, più di quattro volte meno che a noi il Quirinale: viva la regina Elisabetta!
Oscar Giannino - 17 gennaio 2015