Seneca, L'arte di essere saggi.


E' proprio di un animo mediocre risentirsi e chiudersi in se stesso per una frase o per un'azione sgarbata.
Seneca. De constantia sapientis

Il De constantia sapientis è uno dei dieci "dialoghi" lasciatici da Lucio Anneo Seneca, tre dei quali dedicati all'amico Sereno. A dispetto di tale denominazione non si tratta di veri e propri dialoghi, poiché il filosofo costituisce la voce narrante in prima persona senza che nella trattazione vi siano interventi diretti né di sostenitori né di contraddittori delle tesi esposte dalla voce narrante. L'unica eccezione è rappresentata dal De tranquillitate animi, in cui Seneca immagina un colloquio fra sé e l'amico Sereno.
Il confronto con il precedente letterario latino di dialogo filosofico, le ciceroniane Tusculanae disputationes, rende subito evidente la differenza tra la forma dialogica pienamente rispettata da Cicerone e la forma adottata da Seneca, diversa perché diverso era il modello greco di trattazione filosofica a cui Seneca fa riferime3nto.
Infatti la classica forma dialogica presente in Platone era andata via via scomparendo, riducendosi in molte trattazioni ad accenni a un avversario ipotetico con espressioni convenzionali quali: «qualcuno dirà» «tu dici» «tu dirai», dopo cui di solito si esponeva in breve e in modo più vivace, grazie all’artificio retorico del finto contraddittore, una tesi da confutare.
Questa forma schematizzata di dialogo trova la sua espressione più efficace nella diatrìba cinico-stoica, una sorta di predica o di conferenza popolare, rivolta cioè a un largo pubblico inesperto di filosofia, in cui alla trattazione sistematica d’un tema o di un problema filosofico-morale si sostituiva l’esortazione e l’invito ad accettare o abbandonare certi comportamenti che la sommaria dimostrazione di quel tema indicava come buoni o come cattivi. Erano pertanto opere brevi, sciolte, libere da una disposizione rigorosa degli argomenti, vivaci e addirittura, nei cinici soprattutto, violente nell’esposizione del tema, che deliberatamente piuttosto che alla ragione degli ascoltatori si rivolgevano di preferenza al sentimento, alla loro natura predisposta a seguire presumibilmente il bene e fuggire il male. E ampio spazio in quest’opera di accattivarsi e impressionare il sentimento era dato agli esempi da seguire o da fuggire tratti dalla storia e dalla vita di uomini famosi.
Va aggiunto peraltro che questo stile filosofico incontrava singolarmente quello delle declamazioni retoriche dell'età imperiale fino a Nerone, che, abbandonata l'organizzazione ciceroniana della perfetta disposizione degli argomenti e dell’esatto equilibrio degli ampi periodi dove il pensiero era ben bilanciato nei precisi incastri di frasi principali e subordinate, preferiva invece una più libera disposizione degli argomenti per associazione d’idee o d’immagini e periodi più brevi e distaccati tra loro, dove il chiaroscuro delle singole frasi che si susseguivano trovava la sua conclusione nella sententia, la concisa e sentenziosa frase finale che illuminava e metteva in rilievo, per la memoria, il concetto principale da ritenere.
Ora non c'è dubbio che i Dialoghi di Seneca risentano fortemente di questa forma espositiva della filosofia greca di mezzo – cioè dopo il periodo classico di Socrate, Platone e Aristotele – e che molti dei dialoghi senecani sono delle diatribe adattate a un pubblico e interlocutori romani. Del resto i circoli filosofici che Seneca frequentò da giovane coltivavano, nella loro accentuazione dei problemi morali, soprattutto questo genere di trattazione filosofica, spesso in forma direttamente orale, come si addice a una predica appunto. Giova ricordare che all'epoca di Seneca l'intellighènzia romana era imbevuta dello spirito e della lettera dello stoicismo.
Il termine greco diatrìba, però, verrà adottato a Roma solo più tardi e fu Seneca, probabilmente, a dare a questo tipo di saggi il termine di Dialogi. Del resto l’uso e l’adattamento che Seneca ne fa comportano parecchie differenze rispetto alla diatriba greca. Intanto Seneca usa come interlocutori persone reali, non ipotetiche, persone della sua cerchia, in questo similmente alle lettere epicuree, persone che oltre ad assere esortate gli sono necessarie per cercare sostegno e appoggio alle sue tesi morali. E la stretta, e a volte contraddittoria, dipendenza delle opere e dell’azione di Seneca è parte non secondaria del suo fascino. Tutti gli interlocutori poi sono equites o appartenenti a classi alte della società romana. Ciò che darà all’esposizione di Seneca, pur mantenendo spesso il vigore e la forza satirica dei modelli originali, un tono meno basso e volgare, che invece era proprio della predica popolare cinica. Seneca inoltre, sulla scia delle opere filosofiche di Cicerone, romanizzerà molti degli esempi, cioè dei comportamenti esemplari pro o contro una certa tesi morale, traendoli dalla storia romana anche recente, in cui spesso riverserà i suoi odi e le sue amicizie e stime verso figure note con cui ebbe a che fare. Infine molto tipiche di Seneca e dei suoi gusti sono le citazioni, anche queste adattate spesso al significato che a Seneca interessava dare, sparse di poeti: l’amato Virgilio soprattutto e l’“immaginifico” Ovidio.
Un po' diverse, avendo caratteristiche proprie, sono le tre Consolationes, che mantengono però, sia la forma schematica di dialogo nel rivolgersi alla persona che si cerca di consolare e confortare nel dolore, sia lo scopo d’esortazione ad abbandonare un certo comportamento falsamente morale per un altro moralmente corretto.
A ogni modo se dialoghi è termine già senecano e del suo tempo, e se queste opere hanno caratteristiche di forma, di stile e d’argomento morale simili tra loro, la compilazione in un unico volume (il codice Ambrosianus, conservato nella Biblioteca Ambrosiana di Milano) e l’ordine che lì vi hanno, si tende a escludere che sia opera di Seneca. Quanto all’ordine di composizione reale, che a grandi tratti è possibile ricostruire, esso è importante per la stretta connessione tra l’opera e il momento in cui viene scritta, riflettendosi nelle singole opere l’atteggiamento e la disposizione psicologica di Seneca nei confronti del potere e della società di Roma che egli viveva in quel dato momento. L’importanza dell’insieme dei Dialogi perciò sta anche nel fatto che la loro composizione, attraversando tutta la vita e lla carriera pubblica di Seneca, ci permette di avere uno sguardo sull’animo e i suoi cambiamenti del filosofo a seconda delle alterne fortune politiche.
I Dialogi di Seneca sono dieci:
1.De providentia;
2.De constantia sapientis;
3.De ira (in tre libri);
4.Consolatio ad Marciam;
5.De vita beata;
6.De otio;
7.De tranquillitate animi;
8.De brevitate vitae;
9.Consolatio ad Polybium;
10.Consolatio ad Helviam matrem.


Nel De constantia sapientis Seneca definisce il concetto di "sapiente", le cui caratteristiche essenziali sono la costanza e l'imperturbabilità. Per costanza Seneca intende sia la perseveranza del saggio nei propri giudizi e intenti nonché la coerenza tra pensiero e azione, sia l'immutevolezza della virtù nel corso del tempo, che deve rimanere salda e irremovibile davanti alle difficoltà che la sorte presenta. L'imperturbabilità è invece quella proprietà del saggio di rimanere indifferente di fronte all'ingiuria e alla contumelia. L'ingiuria ha come intenzione l'arrecare un danno a qualcuno; ma il saggio non può subire alcun male, poiché dove c'è virtù non c'è male, e quindi l'offesa, pur raggiungendolo, non lo danneggia. Il saggio non è quindi inarrivabile, ma invincibile. La contumelia invece non è una vera e propria offesa, è perciò meno grave, e consiste nell'assumere un comportamento che porta disagio a un altro, il quale si sente disprezzato. Ricevere una contumelia è quindi un 'venire disprezzato'; ma il saggio è quanto di più simile ci sia a un Dio, se non fosse per la sua mortalità, è pertanto maggiore di chiunque sia l'artefice della contumelia e non può certo essere disprezzato da un essere inferiore. È così dimostrato che il sapiente non può subire né offesa né contumelia. Il saggio, infine, poiché ha riposti tutti i suoi beni in sé e non ha lasciato nulla affidato alla fortuna, non può da essa essere danneggiato. La fortuna infatti può portare via tutto ciò che ha donato all'uomo; ma la virtù non è un dono della fortuna, e non può perciò essere da essa sottratta.

"Il sapiente è al sicuro. E non può essere colpito da alcuna offesa o contumelia. [...] In realtà io non ho deciso di insignire il sapiente di un onore immaginario fatto di parole, ma di porlo in quella condizione in cui non sia permessa alcuna offesa contro di lui. «E che, dunque? Non ci sarà nessuno che lo provochi, che lo aggredisca?». Nulla in natura è tanto sacro da non trovare un sacrilego, ma non per questo gli esseri divini sono meno in alto, se esiste chi cerchi di assalire una grandezza posta di molte oltre sé, anche se non la toccherà; è invulnerabile non quel non viene colpito, ma quel che non viene leso: ti presenterò un sapiente di questo conio. E’ forse dubbio che la forza più sicura è quella che non è vinta piuttosto che quella che non viene messa alla prova, dato che sono dubbie le forze non sperimentate, mentre a ragione è considerata assolutamente salda quella fermezza che respinge tutti gli attacchi? Così sappi tu che il sapiente è di migliore qualità, se nessuna offesa gli nuoce, piuttosto che se non gliene viene fatta nessuna; e io dirò uomo valoroso quello che non è domato dalle guerre e non è impaurito dalla forza del nemico che si avvicina, non quello che si gode un pingue ozio tra i popoli inoperosi. Questo, dunque, affermo: il sapiente non è soggetto ad alcuna offesa; pertanto non importa quante frecce siano scagliate contro di lui, dal momento che è del tutto invulnerabile. Come la durezza di talune pietre non può essere vinta dal ferro nè il diamante può essere tagliato o rotto o logorato, ma – per giunta – rende spuntato ciò che lo attacca, come alcune cose non possono essere consumate dal fuoco, ma, pur essendo circondate dalle fiamme, conservano la propria durezza e il proprio stato, come certi scogli protesi verso il mare profondo fanno sì che questo vi si infranga, ed essi, pur colpiti per tanti secoli, non mostrano alcun segno della furia marina, così l’animo del sapiente è saldo e racchiude in sé tale vigore da essere al riparo dall’offesa, come lo sono quelle cose che ho citato. «Che dire, quindi? Non vi sarà qualcuno che tenti di recare offesa al sapiente?» Lo tenterà, ma essa comunque non gli giungerà; dal contatto con le cose inferiori, infatti, lo separa una distanza troppo grande perchè alcuna forza dannosa possa far arrivare fino a lui i suoi attacchi.".
"Nessuno può giovare o nuocere al saggio, perché ciò che è divino non ha bisogno di essere aiutato e non teme di essere danneggiato, e il saggio è assai vicino alla condizione divina, simile a Dio eccetto che per la mortalità. Sforzandosi con tutte le sue forze di arrivare al mondo eccelso, ordinato, intrepido, regolare, sicuro, benevolo, utile al bene pubblico, benefico a se stesso e agli altri, non desidererà niente di basso, non piangerà niente. (Chi, appoggiandosi alla ragione, attraversa le vicende umane con animo divino, non offre presa dove ricevere offesa dagli uomini: ma pensi che mi voglia limitare ad essi? No, neanche dalla fortuna, che tutte le volte che si è scontrata con la virtù, non ne è mai uscita alla pari. Se quell’estremo oltre il quale né la collera delle leggi né i più crudeli tiranni hanno niente da minacciare, in cui la fortuna consuma tutto il suo potere, noi lo accogliamo con animo pacifico e sappiamo che la morte non è un male e dunque non può essere un’offesa, con molta più facilità sopporteremo il resto, danni, dolori, ignominie, cambiamenti di sede, privazioni, conflitti, che non sopraffanno mai il saggio anche se lo circondano da ogni parte, tanto meno riescono ad affliggerlo coi loro singoli assalti. E se sopporta con misura le offese della fortuna, a maggior ragione farà altrettanto con quelle degli uomini potenti che sa essere nient’altro che il braccio della fortuna. Tutto dunque sopporta, come il freddo dell’inverno e l’inclemenza del clima, le febbri, le malattie e tutti gli altri inconvenienti che capitano per caso, e non ha di nessuno un’opinione così alta da ritenere che abbia agito con quel giudizio che appartiene solo al saggio. Tutti gli altri non hanno progetti, bensì inganni, insidie, moti scomposti dell’animo che il saggio annovera tra i casi: e tutto ciò che è casuale ci infuria attorno, così anche l’offesa.".
"La libertà non consiste nel non patire alcunché: la libertà consiste nell’innalzare l’animo al di sopra delle offese e nel formare se stesso in modo tale che soltanto da sé scaturisca tutto il bene di cui bisogna gioire, nel separare da sé le cose esterne, affinchè non si debba condurre una vita inquieta, temendo il riso di tutti, la lingua di tutti. Anche se sei incalzato e oppresso da una forza ostile, è, tuttavia una vergogna ritirarsi: difendi il posto che la natura ti ha assegnato. Mi chiedi quale sia questo posto? Quello di uomo.".

Eugenio Caruso - 3 febbraio 2015

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