Prima sconfitta per Tsipras


Gli altri vizi eccitano gli animi, l'ira li travolge precipitosamente
Seneca, De ira

L'Eurogruppo e la Grecia hanno raggiunto un accordo di compromesso per l'estensione per quattro mesi del programma di aiuti alla Grecia, che sarebbe altrimenti scaduto il 28 febbraio. L'intesa, per ora di principio, dovrà essere riempita di contenuti, ma la strada è tracciata. Entro lunedì Atene dovrà presentare un primo elenco delle riforme che realizzerà. Se la lista sarà approvata, i ministri delle Finanze dell'Eurozona si riuniranno in teleconferenza martedì per dare il via libera definitivo. Se invece il piano greco venisse bocciato, servirebbe un nuovo Eurogruppo straordinario. Il presidente dell'Eurogruppo, Jeroen Djsselbloem, ha elencato i punti principali dell'accordo: la Grecia dovrà presentare entro lunedì una lista delle riforme, basata sugli accordi attuali, e le istituzioni (ex Troika, ndr) valuteranno se sono sufficienti per una conclusione della 'review'" e "solo la sua conclusione porterà all'esborso degli aiuti". Djsselbloem ha ricordato che la richiesta greca era di una proroga di sei mesi, mentre è stato deciso di concederla di quattro. L'estensione servirà anche a discutere un possibile nuovo accordo, che potrebbe essere pronto entro l'estate. Nel testo dell'Eurogruppo si legge che "la Grecia si impegna ad astenersi dal ritirare qualunque misura o da modifiche unilaterali delle politiche e delle riforme strutturali che possano avere un impatto negativo sugli obiettivi di bilancio, la ripresa o la stabilità, come valutato dalle istituzioni". Inoltre "le autorità greche si impegnano a portare avanti riforme da tempo necessarie per far fronte alla corruzione e all'evasione fiscale e per migliorare l'efficienza del settore pubblico". I greci si impegnano poi a "onorare i loro obblighi finanziari verso tutti i creditori pienamente e per tempo," si legge nella nota. Inoltre le autorità greche "si sono impegnate a garantire surplus primari adeguati" per garantire "la sostenibilità del debito". Secondo il ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis, è "il primo passo nella direzione giusta di un lungo viaggio", per cui "ci sono volute tre riunioni per girare pagina". Poi ha aggiunto: "Abbiamo combinato due cose di solito ritenute contraddittorie, l'ideologia e la logica, ossia la democrazia e il rispetto delle regole".

La sovranità democratica nazionale non è la vittima del negoziato tra Atene e Bruxelles. La dura alternativa imposta al governo greco – e in futuro potenzialmente ad altri paesi - tra uscire dall'euro o tradire le promesse elettorali, ha solo reso espliciti i limiti della sovranità di un paese ad alto debito. Un paese la cui retorica elettorale proiettava sull'Europa il ruolo di antagonista anziché di partner. Tuttavia un negoziato tanto acrimonioso, che poco si è occupato di obiettivi condivisi di crescita e molto di rapporti di forza, resta politicamente debole e getta una grave ombra sul futuro rispetto di qualsiasi accordo. Alexis Tsipras ha vinto le elezioni sulla promessa unilaterale di revisione degli accordi in atto con le istituzioni europee. Nel pieno del duro scontro con i partner, il primo ministro greco ha ribadito che il suo governo terrà fede alle promesse elettorali. Già in queste ore, il Parlamento di Atene sta votando misure che derogano agli impegni presi. Il contrasto con le condizioni poste dai partner, attraverso l'Eurogruppo, è enorme: Atene era chiamata a non revocare le riforme; a concordare ogni nuova misura senza ampliare il deficit; ad assicurare che ripagherà i debiti; a cooperare con la Troika (anche dovesse cambiare nome); e a portare a compimento il programma concordato. In molti casi durante la crisi, le democrazie nazionali hanno dovuto fare i conti con le compatibilità europee: referendum (in Irlanda e in Grecia), elezioni (in Spagna e in Italia), sentenze delle corti costituzionali (in Germania e in Portogallo) sono stati oggetto di un tiro alla fune con Bruxelles. L'Italia lo sa meglio di altri: nell'ottobre 2011 arrivarono a Roma una ventina di tecnici della Commissione europea e della Bce. Al successivo vertice di Cannes, il governo accettò l'invio degli esperti del Fondo monetario. Anche noi, come oggi i greci, abbiamo taciuto il nome della “Troika”. Ma l'Italia ha poi reagito, bene o male, con le proprie forze e con tre anni di severi sacrifici e graduali riforme. La fine della sovranità è un alibi: nei paesi dell'euro, il 50% del Pil resta intermediato dagli stati; i divari nei livelli di tassazione sono molto ampi. Ci sono i margini fiscali per realizzare politiche nazionali che assecondino le preferenze dei cittadini. Il vero discrimine è tra politiche – nazionali ed europee - favorevoli alla crescita e politiche, in tal senso, inefficienti a fronte di debiti eccessivi. Tra minacce e inesperienza, la strategia negoziale di Atene aveva dei limiti fondamentali. Nella trattativa Atene ha utilizzato due leve: la prima era il punto di principio di agire in base a un mandato sancito da elezioni democratiche; la seconda, che l'uscita della Grecia dall'unione monetaria avrebbero aperto la strada alla reversibilità dell'euro per altri paesi. Una posizione negoziale basata su questi due cardini era impervia: il 70% dei greci si dichiara contrario a lasciare l'euro. Il mandato democratico non giustificava quindi l'unica opzione che rendeva temibile la posizione negoziale greca. Il potenziale della minaccia inoltre era ridotto dalla stabilità dell'euro-area assicurata dalla Bce e dall'adesione ai programmi di aggiustamento da parte di paesi contrari a deroghe per altri stati. Tagliare un debito su cui Atene paga pochi oneri, infine, avrebbe comportato pochi benefici ai greci, ma elevati e immediati costi politici per gli altri governi. Ma anche se la maggioranza dei greci preferisse abbandonare l'euro piuttosto che accettare accordi che, comprensibilmente, ritiene ingiusti e squilibrati, si potrebbe parlare di una battaglia per la difesa della democrazia dalla tecnocrazia europea? In fondo la posizione di Atene si fonda sulla promessa elettorale di far pagare cittadini di altri paesi. La sostanza democratica di una simile promessa, effettuata unilateralmente senza consultare gli interlocutori che ne pagherebbero l'onere, è dubbia. Il negoziato ha messo in luce però il punto nodale di un'unione monetaria in cui alcuni requisiti democratici sono visibili nel quadro nazionale e sfuggenti in quello europeo. L'Eurogruppo è una sede in cui si dovrebbero comporre interessi di governi, tutti legittimati da elezioni democratiche, a cui però non è chiesto individualmente di perseguire l'interesse comune, se non forse quello del minor danno. L'interesse comune poteva essere rappresentato invece dalla Commissione europea, che però non è un interlocutore negoziale. La contraddizione è tale che nel vertice di lunedì un documento attribuito alla Commissione è stato diffuso maliziosamente da Atene come se fosse un pre-accordo, ma è stato subito accantonato dopo la diffusione di un documento molto più severo espresso dall'Eurogruppo. La vaghezza del documento della Commissione, privo delle condizioni indispensabili per il consenso degli altri governi, ha rafforzato l'intransigenza dell'Eurogruppo e, malauguratamente, ha fatto sembrare inefficace la mediazione comunitaria rispetto a quella basata su rapporti di potere tra governi forti e governi deboli. Il braccio di ferro sotterraneo tra Bruxelles e Berlino ha visto quindi Merkel prevalere, nonostante la maggiore legittimazione europea della nuova Commissione. La questione della legittimità d'altronde è resa complessa dal fatto che l'accordo è sottoposto ad approvazione di vari Parlamenti, a cominciare da quello finlandese che ha programmato due sedute straordinarie per il 9 e 14 marzo. Inoltre, la richiesta greca di modificare la sostanza degli accordi in atto avrebbe richiesto una nuova base giuridica da sottoporre anche al parlamento tedesco. La strategia di Tsipras avrebbe quindi dovuto tener conto dei diritti di tutti.

IMPRESA OGGI - 21-02-2015

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