Il fallimento dello stato unitario


Gioire e rallegrarsi sono prerogattive della virtù; l'ira, invece, si accompagna alla tristezza in cui sempre ricade dopo ogni suo atto, vuoi per rimorso, vuoi per aver fallito lo scopo.
Seneca, De ira


Copertina

Con questo articolo proseguo la pubblicazione di alcuni stralci del mio libro storico-economico L'estinzione dei dinosauri di stato. Il libro racconta i primi sessant'anni della Repubblica soffermandosi sulla nascita, maturità e declino di quelle grandi istituzioni (partiti, enti economici, sindacati) che hanno caratterizzato questo periodo della nostra storia. La bibliografia sarà riportata nell'ultimo articolo di questa serie di stralci. Il libro può essere acquistato in libreria, in tutte le librerie on-line, oppure on line presso la casa editrice Mind.
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Il fallimento dello stato unitario
Lo Stato italiano, fondato sul modello francese dello Stato-nazione, ha fallito la propria missione, mitridatizzando gli italiani all’apologetica nazionalistica, a una classe politica centralizzatrice e arrogante e a una democrazia debole e di facciata. Di fatto, in Francia il centralismo è stato costruito sulle basi della cultura liberale, nata con l’Illuminismo e affermatasi dopo i travagli della Rivoluzione, del termidoro, dell’Impero e della Restaurazione; quello italiano, invece, sull’onda di quella rivoluzione restauratrice che porterà a trasferire a livello nazionale l’ordinamento stantio del Regno sabaudo, senza rispetto per le autonomie, le pluralità, i valori dei singoli Stati preunitari. Giova osservare che anche in Francia, prima del definitivo successo della nation, vi fu lo scontro tra i girondini – che erano favorevoli a una costituzione federalista, avendo in mente sia il modello confederativo americano, sia le teorie di Kant, Locke, Montesquieu, Rousseau e degli scrittori del Federalist – e i giacobini, che vedevano nel federalismo un ostacolo all’affermarsi dell’égalité che, secondo loro, poteva essere conquistata solo con uno Stato unitario, fondato sul principio hobbesiano che la società può funzionare esclusivamente attraverso un forte controllo centrale. Le idee giacobine portavano invece il virus dell’assolutismo, che sfocerà in Francia nell’Impero e, in tutt’Europa, nel trionfo dello Stato unitario e centralista. L’ideale kantiano della valorizzazione delle autonomie locali per realizzare la “pace perpetua” e quello rousseauiano della democrazia basata sulle piccole dimensioni per l’affermazione delle qualità positive dell’uomo rimasero inattuati, mentre – grazie alla divinizzazione dello Stato, sostenuta dall’idealismo tedesco – in Europa andarono accentuandosi il concetto della sovranità dello Stato a scapito della sovranità popolare, e il metodo della sopraffazione nei rapporti tra Stato e Stato, che condurrà alle due guerre mondiali.
Con il Risorgimento, la spinta federalista s’infrange contro la politica annessionistica e centralista dei Savoia, contro la «dittatura burocratica», come dirà Augusto Monti su La Rivoluzione liberale, di Gobetti. Nel 1865 il Governo Ricasoli decreta la definitiva sconfitta dei federalisti, con l’ordinamento che limita fortemente le autonomie locali grazie al rafforzamento del potere prefettizio, alla nomina regia dei sindaci e alla ristrettezza del suffragio. Il centralismo amministrativo, nonostante la tenace resistenza dei deputati lombardi, è riconfermato nel 1888 con la riforma della legge comunale e provinciale del Governo Crispi. Il sordo malcontento che sin dall’annessione covava negli ambienti lombardi – che avevano perso l’organizzazione delle imprese pubbliche, erano stati privati di alcune istituzioni di prestigio e avevano dovuto accettare leggi ben diverse da quelle moderne e razionali dell’impero asburgico – veniva a Torino così tacciato: «Sono lombardi, municipali, politici di campanile». Per non parlare del Mezzogiorno, per il quale i piemontesi nutrivano sentimenti di tale disprezzo da sfociare in atteggiamenti di puro razzismo (Del Boca, 2011).
La stampa faceva, come d’uso, il suo mestiere. Così la descrive Cesare Cantù: «E la stampa, pronta a satollare un pubblico ghiotto di scandali e declamazioni, non dà notizie precise ma segue le ispirazioni partigianesche, esagerando, con discussione superficiale e passionata, fino a uscire dai modi della creanza. Crea virtù fittizie e chi ad esse non si conforma affligge i titoli di reazionario, clericale, austriacante, borbonico» (Cantù, 1954).
Il progetto federalista rimane però vivo, sostenuto principalmente da repubblicani come Alberto Mario, Arcangelo Ghisleri, Napoleone Colajanni, Aurelio Saffi, o socialisti come Filippo Turati, Leonida Bissolati, Claudio Treves e dal comitato lombardo per il decentramento (Cecchini, 1974; Colajanni, 1879; Saffi, 1902; Turati, 1900; Casali, 1985). Verso la fine del XIX secolo anche alcuni intellettuali meridionali iniziano a proporre istanze di tipo federativo. Lo Stato unitario, che era stato difeso anche con l’illusione di permettere una crescita del Mezzogiorno, aveva sortito effetti contrari, con un flusso netto di ricchezza da Sud a Nord, come aveva dimostrato Francesco Saverio Nitti (Nitti, 1958), tanto da far dire alla pubblicistica dell’epoca che «il matrimonio dell’unificazione si era trasformato in stupro», e al grande meridionalista Giustino Fortunato (Fortunato, 1926): «[…] i milioni dati in premio a un gran numero di fabbriche e di cantieri dell’Alta Italia sono estorti, nella massima parte, alle povere moltitudini del Mezzogiorno». D’altra parte il Meridione non era come pensava Luigi Carlo Farini, che scriveva a Cavour: «Altro che Italia, signor conte! Questa è Africa […] I beduini, a riscontro di questi cafoni, sono un fior di virtù civile!». Occorre ricordare che il primo piroscafo a vapore, il primo ponte di ferro, la prima ferrovia fecero la loro apparizione a Napoli, non in Piemonte.
La tesi della necessità di un decentramento per favorire l’economia del Sud è difesa da un altro grande meridionale, Gaetano Salvemini (Salvemini, 1900), il vero erede di Cattaneo. Egli si batte per una riforma dello Stato centrata su federazioni regionali di Comuni, un federalismo ascendente. Appartenente, all’inizio, alle fila del Partito Socialista, Salvemini in seguito lo abbandona per condurre più liberamente la propria battaglia dalle pagine della rivista L’Unità. Anche tra le forze cattoliche ritroviamo fautori del decentramento, quali Luigi Sturzo e Romolo Murri. L’istanza federalista riemerge con forza dopo la prima guerra mondiale, perché si fa strada l’idea kantiana che la causa della guerra vada cercata nella logica della sovranità assoluta degli Stati e del nazionalismo. Inoltre i problemi sorti dall’annessione all’Italia di Trentino, Alto Adige, Istria, Trieste, Gorizia e, dall’altra parte, il gigantesco ingorgo burocratico creatosi a Roma sono motivazioni molto forti per l’avvio di una riforma dello Stato. Nel 1919, per associare i fautori dell’autonomismo, Salvemini costituisce una Lega, alla quale aderiscono gli amici dell’Unità, e che vede protagonisti Ugo Ojetti, Gino Luzzatto, Angelo Cecconi, Alessandro Levi, Piero Gobetti. La discussione su quale federalismo scegliere – se quello dal basso o quello dall’alto, se radicale o gradualista, se amministrativo o anche legislativo, se repubblicano o monarchico – era in atto, quando il fascismo, distillato di centralismo ad alta gradazione, pone fine in Italia a ogni dibattito, segnando la definitiva sconfitta dei progetti autonomistici. La centralizzazione e il dirigismo fascisti, e il processo di modernizzazione della società degli anni Venti e Trenta, finiscono con lo stratificare e fossilizzare gli irrisolti problemi del rapporto tra potere e libertà, e con il creare una rigidità nell’ordinamento e nella gestione dello Stato che si protrarrà anche dopo la caduta del fascismo.
Con il Manifesto di Ventotene, redatto nell’estate 1941 da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, riprende il discorso per un programma d’azione federalista ed europeista, da attuarsi dopo il crollo delle dittature in Europa. Il Manifesto, che si rifà all’insegnamento di Einaudi, propone il superamento dello Stato accentratore, con la costituzione di un’Europa di popoli federati. Il progetto federalista viene quindi portato avanti dal Partito d’Azione, nel quale erano confluiti Spinelli e Rossi, ma anche altri movimenti (a eccezione del Pci e dello Psiup) considerano positivamente proposte di federalismo interno ed esterno. In particolare Sturzo ed Einaudi riprendono la loro battaglia. Anche Piero Calamandrei, soprannominato “l’ultimo mohicano”, si batte per il federalismo come strumento di pace.
Ancora una volta però le spinte federaliste cozzano contro un muro; con la fine della Seconda guerra mondiale, infatti, inizia la guerra fredda e con essa nasce la necessità degli Stati di chiudersi a testuggine per la difesa delle sfere d’influenza. In Italia, inoltre, la presenza del Pci, potenziale quinta colonna del blocco sovietico, tarpa definitivamente le ali a qualunque ipotesi di pluralismo amministrativo.
Le radici del pensiero federalista sono radicate nelle opere di grandi filosofi ed economisti: Kant, che vedeva nel federalismo lo strumento di negazione delle guerre; Proudhon, con il suo federalismo integrale, quale unico strumento per il trionfo della sovranità popolare; Hamilton, il più importante federalista americano, che ebbe la fortuna di vedere realizzate negli Usa le sue proposte; Rousseau, come Tocqueville, sostenitore della democrazia di piccole dimensioni, che resta più sensibile alla tensione umana e sociale e che meglio consente di realizzare quella “volontà generale” nella quale confluiscono le “singole volontà”; Cattaneo, l’unico degli intellettuali risorgimentali che teorizzò il federalismo in un’Europa federale e per il quale l’autogoverno era lo strumento più forte per la difesa della democrazia. Oggi quelle radici si sono irrobustite grazie all’esperienza di molti Paesi federalisti, e adeguate alle esigenze di una società moderna.

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30 marzo 2015

Eugenio Caruso da L'estinzione dei dinosauri di stato.



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