Chi aspira alla felicità non può cercare il guadagno a qualsiasi prezzo, ma con giustizia e moderazione.
Platone, Leggi
Il fisco è una delle frontiere pubbliche più delicate, sulla cui linea libertà e diritti dei cittadini e giusta pretesa dello Stato devono stare in equilibrio. O l’equilibrio c’è, riconosciuto bilateralmente per consenso e in quanto tale cristallizzato in norme chiare. Oppure delle due l’una: i cittadini tenderanno più o meno estesamente a sottrarsi alla pretesa dello Stato; oppure lo Stato, confidando sull’obbligo coattivo che grava sui cittadini, senza contrappesi rischierà di smarrire l’equilibrio e di degenerare nella sua pretesa.
E’ in larga misura il rischio aperto oggi, dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha bocciato come illegittimi 767 dirigenti dell’Agenzia delle Entrate, e altri in quella del Territorio e delle Dogane. Un problema serio accumulatosi negli anni, non creato dagli attuali freschi vertici delle Agenzie ma dovuto alla forma organizzativa che le Agenzie si sono date, scegliendo di nominare troppi dirigenti facenti funzione a tempo determinato e senza concorsi. Un problema più volte sollevato negli anni pubblicamente davanti ai vertici dell’Agenzia, che non ascoltavano. Oppure confidavano su sanatorie come quella intrapresa dal governo nel 2012, bocciata dal Tar del Lazio prima e ora dalla Corte costituzionale.
Non solo non c’è spazio per sanatorie, come le Agenzie speravano. E dunque si dovrà procedere a concorsi, che vinceranno molti dirigenti bravi, retrocessi oggi a funzionari con tagli retributivi anche di 50mila euro lordi, mentre altri non li supereranno. Ma, soprattutto, c’è anche un problema aperto sulla possibilità e fondatezza delle impugnative degli atti sottoscritti da quei dirigenti. Una facoltà che la Corte Costituzionale limita, ma che a un’attenta lettura della sentenza non sembra esclusa affatto almeno per quegli atti di cui sono ancora aperti i termini per l’impugnativa amministrativa.
E’ un problema serio, al quale i vertici dell’Agenzia delle Entrate hanno replicato con toni duri, quasi con disprezzo, dicendo che le impugnative sarebbero addirittura vergognose. Un errore di tono, e un errore di merito. Primo perché di sicuro non spetta all’Agenzia delle Entrate pronunciarsi sull’accoglibilità di eventuali impugnative, ma al giudice. E poi perché sarebbe il caso di usare una volta per tutte un tono diverso, nei confronti dei contribuenti: soprattutto quando come in questo caso è il fisco a essere in torto conclamato.
C’è una tesi per la quale l’illegittimità varrebbe solo a effetti interni, per i funzionari delle Agenzie discriminati rispetto a chi invece veniva nominato dirigente senza concorso. Non ci convince. La legittimità del titolo proietta un’ombra inevitabile su quella dell’atto sottoscritto e divenuto esecutivo, e dunque sulla cartella erariale indirizzata al contribuente Non è che si possono fare prediche sulla legalità tributaria agli italiani da una parte, e dire che al contempo che, se chi gliele rivolge non è in regola, allora valgono comunque. Ne va della fiducia di milioni di contribuenti verso la macchina tributaria. Macchina che, proprio perché lo Stato di tasse ne incassa tante, dovrebbe essere più monda della moglie di Cesare.
Il problema è purtroppo ancor più ampio. Da anni, ormai, la politica ha delegato di fatto il proprio compito di indirizzo in materia tributaria alle Agenzie fiscali. Le Agenzie scrivono loro le bozze delle norme, e sono loro a darne per circolare l’interpretazione autentica. Mentre non dovrebbero fare né l’una né l’altra cosa. L’Agenzia delle Entrate scrive lei i testi del ministro quando questi risponde della politica tributaria nelle audizioni parlamentari, e sia riconosciuto merito al ministro Padoan che pochi giorni fa ha almeno usato una clausola per la quale le opinioni venivano chiaramente attribuite all’Agenzia, senza che però ne esprimesse di proprie.
E’ venuto allora il momento di applicare la cura Renzi alla politica tributaria. Il premier vuole tornare a una politica che si assuma apertamente le sue responsabilità di fronte ai cittadini, senza delegare tutto a tecnici come alle Infrastrutture avveniva con Incalza. E ha ragione. Ma allora, visto che al MEF da anni ormai il ministro si occupa più che altro dell’agenda europea e dei monitoraggi internazionali ai quali sono sottoposti i nostri non brillantissimi conti pubblici, per riappropriarsi degli indirizzi politici tributari serve una scelta. Se non la separazione tra Tesoro e Finanze, almeno attribuire a un viceministro la responsabilità del fisco, come avvenne con Vincenzo Visco viceministro di Padoa Schioppa.
Usciremmo così dall’equivoco di capi delle Agenzie che danno giudizi politici e interpretazioni di legge, non perché vogliano far male ma perché spinti o costretti a riempire a modo loro il vuoto lasciato dalla politica. Come la guerra è cosa troppo seria per farla decidere ai generali, il fisco in Italia è troppo pesante per lasciarlo decidere da chi incassa bonus su quanto ne raccoglie: ed ecco un’altra bella riforma necessaria, che solo un ministro ad hoc può imporre all’apparato delle entrate, modificandone i criteri di incentivazione dei dirigenti. Oggi serve un politico che dica agli italiani magari anche che i ricorsi saranno discutibili, ma che per consentire al giudice di valutarli l’Agenzia delle Entrate pubblicherà subito i nomi dei 767 dirigenti illegittimi, in modo che i contribuenti possano sapere se è loro la firma sotto gli atti che vogliono contestare. La trasparenza a doppio senso è l’unica che può rafforzare la credibilità dello Stato, che ne chiede tanta ai contribuent. Il segreto e l’opacità sono il segno delle amministrazioni fiscali dei re assoluti, e non devono avere nulla a che vedere con quella della Repubblica.
Oscar Giannino da www.leoniblog.it - 31-03-2015