Rapporto SVIMEZ 2014. Aumenta il gap Nord-Sud.


Sopportiamo, dunque, copn animo generoso tutto ciò che per legge dell'Universo ci tocca patire.
Seneca, Lettere a Lucilio


1. PREMESSA
Il Rapporto SVIMEZ 2014 sull’economia del Mezzogiorno non vuole essere solo l’occasione per un mero aggiornamento delle nostre analisi alla luce dei dati più recenti sull’andamento dell’economia meridionale, ma vuole contribuire a una consapevole identificazione delle condizioni e delle sfide da cogliere per affrontare, dopo sei anni di crisi, le due grandi emergenze, quella sociale con il crollo occupazionale e quella produttiva con il rischio di desertificazione industriale del Mezzogiorno. Dal 2008 al 2013, la recessione del Sud non ha conosciuto tregua, a differenza di un Centro-Nord che nel 2010-2011 aveva partecipato ad una “ripresina”. In base alle nostre previsioni, la stessa dinamica si protrarrà nel biennio 2014-2015, con un Sud che continua la sua spirale recessiva mentre il resto del Paese si avvia verso una lenta, e forse troppo debole, ripresa. L’eredità che lascia la peggior crisi economica del dopoguerra, la cui durata nel Mezzogiorno alla fine sarà paragonabile alla Grande depressione del ’29, è quella di un Paese ancor più diviso e diseguale. Emerge un quadro non più somma di variazioni congiunturali negative. E’ invece sempre più evidente che la crisi è strutturale e di una intensità tale da stravolgere il profilo economico e sociale del Mezzogiorno. Cambia la struttura produttiva, con un peso dell’apparato industriale sempre minore; la forte riduzione degli investimenti diminuisce lo stock di capitale, che non venendo rinnovato perde in competitività; la caduta della domanda interna, con la pesante contrazione dei consumi e il crollo della spesa per investimenti, entra in una spirale negativa per effetto della drastica riduzione complessiva dei redditi da lavoro conseguente al crollo occupazionale; non vengono garantiti neppure i più elementari diritti di cittadinanza. A farne le spese sono soprattutto i giovani e le donne meridionali; si aggrava la crisi demografica del Sud, che perderà entro il prossimo cinquantennio più di un quinto della popolazione. Il Mezzogiorno si colloca ormai in un equilibrio implosivo che si caratterizza per una crescente perdita di produttività, minore occupazione, fuga dei giovani e di quanti sono più professionalizzati, minore benessere. La SVIMEZ propone alcune direttrici di intervento prioritarie che si ritengono utili ed urgenti per far fronte all’emergenza giovanile e occupazionale e all’identificazione di una politica di sviluppo e per riprendere il processo di industrializzazione del Sud. Dopo il fallimento delle politiche di austerità che hanno contribuito all’aumento delle disparità tra aree forti e aree deboli dell’UE, è giunto il momento di mettere in campo una strategia di sviluppo nazionale, che ponga al centro il Mezzogiorno, e sia capace di coniugare un’azione strutturale di medio-lungo periodo fondata su alcune ben individuati drivers di sviluppo tra loro strettamente interconnessi, con un “piano di primo intervento” da avviare con urgenza.
2. UN’ITALIA PIÙ DIVISA E DISEGUALE DOPO SEI ANNI DI CRISI
2.1. La recessione mette in ginocchio l’economia meridionale
L’economia italiana nel 2013 è, tra le principali economie europee, quella che più stenta a riavviarsi su un sentiero di crescita, restando in bilico tra due emergenze, quella produttiva e quella sociale. L’anno scorso, infatti, è stato ancora negativo, con un calo del PIL dell’1,9%, solo lievemente inferiore al -2,4% perso l’anno precedente. L’andamento produttivo rimane stagnante, e anche gli indicatori congiunturali del 2014 non mostrano segni di miglioramento. Ciò è avvenuto in un contesto nel quale l’economia internazionale non è riuscita a riprendere il passo di crescita precedente la crisi, specie nei paesi dell’Area Euro, nei quali il riposizionamento competitivo sui mercati mondiali sta avvenendo ancora con troppa lentezza. Nell’ambito della UE, infatti, è l’Area dell’Euro a soffrire di più: nel 2013 la ripresa ha tardato a consolidarsi, mentre la dinamica del PIL è rimasta ancora negativa con un calo dello 0,4% dopo il -0,7% dell’anno precedente. I divari, in particolare tra Germania e resto dei paesi dell’Area dell’Euro, si sono allargati anche nella prima parte del 2014, creando una situazione di tensione nelle economie dell’area che richiede processi di aggiustamento simmetrici di tutti i paesi coinvolti. All’origine di questi divari vi è un percorso diverso di recupero della produttività, che non può essere riequilibrato da movimenti dei tassi di cambio relativi e che solo lentamente si riadatta attraverso variazioni del costo del lavoro. Amplificando, perciò, le differenziazioni economiche e sociali dell’Area Euro: in termini cumulati, nella fase recessiva 2008-2013 vi è stata un’erosione di quasi il 2% del PIL dell’Area dell’Euro, che però è stata di tre volte più elevata in Spagna (-5,9%), di oltre quattro volte in Italia (-8,5%), addirittura del 23,7% in Grecia. Al contrario, le economie più forti dell’Area, o hanno recuperato i livelli di prodotto precedenti alla crisi, come in Francia (+0,7%), oppure sono in piena crescita, con un aumento di oltre quattro punti percentuali come in Germania. L’andamento dell’economia italiana è stato nel 2013 tra i peggiori in Europa. Solo la Grecia e Cipro sono calati in misura maggiore. La forbice della crescita con l’economia europea, che in termini cumulati, dall’inizio della crisi, ha superato i sette punti percentuali (-8,5% di PIL in Italia contro il -0,9% dell’UE a 27). L’uscita dalla crisi per il nostro Paese non sembra vicina, la ripresa rimane fragile: esiste incertezza sulle prospettive future della domanda, e, in presenza di ampi margini di capacità inutilizzata, le imprese sono ancora restie a produrre e a investire, il numero dei disoccupati è in aumento, il reddito disponibile delle famiglie si è ridotto per il quinto anno consecutivo con una flessione dell’1,1%, gli investimenti fissi lordi sono diminuiti del 4,7% con un calo complessivo dal 2007 al 2013 del 26,7%. Il 2013 si conferma anno di recessione per l’intero Paese. A pagare i prezzi maggiori è il Sud: secondo le valutazioni di preconsuntivo elaborate dalla SVIMEZ, il PIL a prezzi concatenati è calato nel Mezzogiorno del 3,5%, approfondendo la flessione del 2012 (-3,2%). Il calo è stato superiore di oltre due punti a quello rilevato nel resto del Paese (-1,4%). Non avendo beneficiato della ripresina del biennio 2010-2011, l’economia meridionale ha vissuto il sesto anno consecutivo di crisi ininterrotta: dal 2007 il prodotto dell’area si è ridotto del 13,3%, quasi il doppio della flessione registrata nel Centro-Nord (-7%). Con conseguenze, che concentrano al Sud una tendenziale desertificazione industriale, incapacità di generare reddito e posti di lavoro, prospettando il rischio di avvitamento in una spirale perversa di calo della domanda e aumento della disoccupazione. Un meccanismo di aggiustamento, non certo virtuoso, è quello demografico: i giovani emigrano e la natalità si riduce in modo allarmante rispetto al decennio precedente. Ma in questo modo, al depauperamento del capitale fisico in mancanza di nuovi investimenti si affianca il depauperamento di quello umano, riducendo ulteriormente le risorse su cui il Mezzogiorno potrà contare per uscire dalla crisi. Il divario di sviluppo tra Nord e Sud in termini di prodotto pro capite ha ripreso ad allargarsi pur in presenza di una riduzione della popolazione meridionale; nel 2013 è tornato ai livelli del 2003, con un differenziale negativo di oltre 43 punti percentuali. Purtroppo, diversamente dal Centro-Nord, non si intravedono neppure segnali di un’inversione di tendenza per il prossimo biennio, riflettendo anche il minore impatto al Sud della ripresa della domanda estera. Secondo nostre stime aggiornate allo scorso settembre con il modello di previsione della SVIMEZ-IRPET, il PIL del Mezzogiorno dovrebbe risultare ancora in calo sia nel 2014 (-1,5%), che nel 2015 (-0,7%), a fronte di una sostanziale stazionarietà (0,0%) nel 2014 e di un crescita (1,3%) nel 2015 nel resto del Paese. L’eredità che ci consegna la peggiore crisi economica del Dopoguerra è perciò un Paese ancor più diviso del passato e sempre più diseguale, con effetti che non appaiono più solo transitori ma strutturali: cambia la struttura produttiva, con un peso dell’apparato industriale sempre minore. La forte riduzione dello stock di capitale che, non venendo rinnovato, perde in competitività, le migrazioni e i minori flussi in entrata nel mercato del lavoro concorrono alla riduzione delle possibilità di occupazione. Dal 2007 al 2013 il settore manifatturiero del Mezzogiorno ha ridotto di oltre un quarto il proprio prodotto, di poco meno gli addetti (-24,8%), e ha più che dimezzato gli investimenti (-53,4%). La crisi non è stata così profonda nel Centro-Nord, dove la diminuzione di prodotto e occupazione è stata di oltre 10 punti inferiore, quella degli investimenti del -24,6%. Il Mezzogiorno ha subito tra il 2008 e il 2013 una caduta dell’occupazione del 9%, quattro volte superiore a quella del Centro-Nord (-2,4%). Dei circa 985 mila posti di lavoro persi in Italia nello scorso sessennio, ben 583 mila sono nel Sud. L’impatto della caduta di occupazione è stato così forte da provocare un crollo dei consumi delle famiglie meridionali di quasi 13 punti percentuali (-12,7%), di oltre due volte maggiore di quello registrato nel resto del Paese (-5,7%). Nel 2013, i consumi finali interni sono calati del 2% nel Centro-Nord e del 2,4% nel Sud. La differenza tra le due aree è soprattutto dovuta alla diminuzione dei consumi delle famiglie, il cui calo è risultato anche lo scorso anno maggiore nel Mezzogiorno: -3,3% a fronte del -2,3%. Più contenuto è risultato invece al Sud il calo dei consumi delle pubbliche amministrazioni, diminuiti dello 0,4% rispetto al -1,1% del Centro-Nord. La contrazione dei consumi delle famiglie meridionali è stata e continua ad essere particolarmente intensa, e maggiore che nel resto del Paese, per gli acquisti più facilmente comprimibili, come quelli di vestiario e calzature: -6,4% nel 2013, contro il -4,7% del Centro- Nord; -23,7% cumulato contro il -13,8% nel complesso del sessennio 2008-2013. Ma significativo e preoccupante il ridimensionamento della spesa delle famiglie è stato anche per gli “altri beni e servizi”, voce che comprende servizi per la cura della persona, spese per l’istruzione, che si sono ridotti al Sud nel sessennio 2008-2013 del 16,2%, tre volte in più rispetto al Centro-Nord (-5,4%). Prosegue inoltre intensa la riduzione della spesa per beni alimentari, un dato che più di tutti evidenzia il diffondersi di condizioni di povertà relativa. Nel 2013 il calo dei consumi alimentari è stato al Sud del -3,4% e di -3% al Centro-Nord. Nel complesso del sessennio 2008- 2013 il calo cumulato di questi consumi è stato al Sud del -14,6%, risultando significativamente maggiore rispetto a quello, pur grave, avutosi nel resto del Paese (-10,7%). La dinamica complessiva del sessennio di crisi ha visto una drastica contrazione del processo di accumulazione in entrambe le parti del Paese, ma di intensità decisamente maggiore al Sud. La riduzione cumulata degli investimenti è arrivata a commisurarsi nel 33% (-24,5% al Centro-Nord). La caduta ha interessato tutti i settori dell’economia, assumendo, in particolare, dimensioni “epocali” nell’industria in senso stretto, crollata al Sud nel 2008-2013 addirittura del 53,4%, più che doppia rispetto a quella, assai grave, del Centro-Nord (-24,6%). Un così massiccio fenomeno di disinvestimento ha ulteriormente aggravato la già scarsa competitività dell’area e ha comportato un forte ridimensionamento dell’estensione e delle dimensioni dell’apparato produttivo, favorendo nella sostanza un processo di downsizing e al tempo stesso di desertificazione dei territori meridionali. Anche al Centro-Nord la perdita di competitività di sistema sta imponendo una forte ristrutturazione dell’apparato produttivo di quell’area. L’avvio su un sentiero stabile di rilancio dello sviluppo appare però irraggiungibile senza un recupero della domanda interna. Da questo punto di vista tale sviluppo è legato anche a una ripresa dell’economia meridionale, data la forte integrazione tra i mercati delle due parti del Paese. Una domanda meridionale così depressa ha inevitabili effetti negativi sull’economia delle regioni centrali e settentrionali. Il rapporto funzionale tra le due aree del Paese, del resto, è ampiamente testimoniato dagli andamenti demografici: il Centro-Nord continua ad attrarre significativi flussi di popolazione che si spostano dalle regioni meridionali, principalmente giovani in età riproduttiva e dotati di elevate conoscenze e competenze professionali e intellettuali. Il che pregiudica l’evoluzione demografica dell’area meridionale e priva il Sud di competenze indispensabili per la crescita economica. Il processo di riduzione del valore aggiunto nel sessennio ha toccato il picco nel settore delle costruzioni, che nella media cumulata del 2008-2013 hanno ridotto il prodotto del 35,3% contro il 23,8% del Centro-Nord. In particolare, nel 2013, l’edilizia ha accusato un calo del 9,6% nel Mezzogiorno, esattamente il doppio di quello del Centro-Nord (-4,8%). Nel comparto terziario la perdita è stata l’anno scorso del 2,3% nel Sud, a fronte di una sola leggera flessione (-0.4%) al Centro-Nord. Ancora in calo, pur se decisamente meno intenso che nell’anno precedente, risulta nel 2013 l’agricoltura meridionale, che perde lo 0,2% rispetto a un incremento dello 0,6% nel Centro-Nord. Il settore industriale ha perso, nel 2013, 6 punti e mezzo percentuali, più del doppio del Centro-Nord (-2,7%). Nella media cumulata del sessennio di crisi 2008-2013, la contrazione del prodotto industriale ha raggiunto quasi il 25%, dieci punti in più rispetto al Centro-Nord. La fortissima caduta registrata dal prodotto dell’industria in senso stretto nel 2008-2013 ha contribuito per quasi il 30% al negativo andamento complessivo dell’economia meridionale nel periodo, pur commisurandosi il peso strutturale del settore sul totale dell’economia solo nell’11,8%, a fronte del 20,7% nel Centro-Nord. Il calo del PIL ha riguardato nel 2013 quasi tutte le regioni italiane, con le sole eccezioni del Trentino Alto Adige (+1,3%) e della Toscana, che è rimasta stabile. Nel Centro-Nord, tuttavia, per la maggior parte delle regioni, la flessione dell’attività economica è stata nel 2013 di minore intensità rispetto all’anno precedente. La crisi resta, invece, intensa per tutte le regioni del Sud. Nel 2013, infatti, la flessione dell’attività economica si è accentuata in Basilicata, in Puglia, Calabria e Molise. Segnali di attenuazione rispetto al 2012 si sono avuti solo in Abruzzo e in Sicilia, mentre restano stabili sui livelli negativi in Campania e Sardegna. Se si esamina il dato cumulato dei sei anni di crisi, dal 2008 al 2013, la riduzione del PIL risulta per quasi tutte le regioni meridionali – ad eccezione del solo Abruzzo (-7,3%) – di entità assai forte (si va da oltre il -16% in Molise e Basilicata ad un minimo del -13% in Campania e Sardegna) e decisamente più accentuata che nella maggior parte delle regioni del Centro-Nord. In quest’ultima macroarea, cadute dell’attività economica di intensità paragonabile, ancorché minore, si rilevano infatti solo in Umbria (-12,9%) e Marche (-12,3%) nel Centro Italia e per Piemonte (-11,6%) e Veneto (-10,9%) nel Nord. L’allargamento del divario di sviluppo, in termini di PIL pro capite, rilevabile nel sessennio 2008-2013 tra le due macroaree del Paese, riflette dunque un aumento dei differenziali negativi di reddito diffuso alla quasi totalità del territorio meridionale. Nel 2013 il PIL per abitante delle due regioni più ricche, Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige, che supera i 34 mila euro, si conferma pari a più del doppio di quello delle due regioni più povere del Sud del Paese, Calabria (meno di 16 mila euro) e Sicilia (16.152 euro). La lunghezza e la profondità della crisi ha portato ad un aumento dei divari regionali in Europa. L’esperienza passata mostrava che i divari regionali tendevano ad ampliarsi nelle fasi di ripresa, mentre diminuivano, con una convergenza al ribasso, nei momenti di flessione ciclica. Questa regolarità, segnalata spesso anche dalla SVIMEZ, è però ribaltata in questa fase di flessione ciclica. Infatti, le aree deboli dell’Europa a 15, che nella fase pre-crisi, tra il 2001 e il 2007, avevano mostrato segni di convergenza, in particolare per merito di paesi come Irlanda e Grecia, con una crescita cumulata del PIL (in PPA) del 37% circa, contro poco più del 31% delle regioni Competitività, durante gli anni della crisi, tra il 2008 e il 2011, hanno, invece, subito con maggiore intensità gli effetti della recessione: il prodotto è diminuito del 2,6%, rispetto al pur modesto incremento (+1%) registrato nelle aree più sviluppate. Il confronto tra l’Area dell’Euro (18 paesi) e quella dell’Unione (27 paesi) segnala come negli anni di crisi (2008-2011) il tasso medio cumulato di crescita sia stato complessivamente inferiore in quest’ultima (1,9% rispetto al 2,1%). L’aspetto più interessante riguarda però le differenze tra aree deboli e aree forti: se nel complesso dell’Unione anche nel periodo di crisi è continuata la convergenza delle aree deboli, cresciute cumulativamente quasi quattro volte di più di quelle forti, il contrario è avvenuto nell’Area dell’Euro. In questo gruppo, le aree della Competitività sono cresciute nel complesso del 2,9%, mentre quelle della Convergenza hanno mostrato una flessione (-1,8), con un allargamento dei divari. In questo quadro, quello che colpisce è la crescita rilevante dei paesi nuovi entranti dell’Est europeo, che se, da un lato, non meraviglia data la modesta base economica di partenza, dall’altro sorprende per la vivacità di crescita conservata anche durante la fase recessiva. Questo però è vero solo per quelli non aderenti all’Area dell’Euro. Infatti, Lettonia, Estonia e Slovenia, tutti nell’Area Euro, hanno registrato tassi di crescita negativi. Al contrario, i paesi che non hanno aderito al sistema dell’Euro, come Polonia, Bulgaria, Lituania, Romania, potendo avvantaggiarsi sia di politiche fiscali meno vincolanti, sia di tassi di cambio più facilmente manovrabili, e più in generale di politiche monetarie meno restrittive rispetto a quelle alle quali sono soggetti i Paesi membri dell’Euro, hanno registrato tutti tassi di crescita positivi. Per quanto riguarda i due unici grandi paesi europei nei quali vi è ancora una quota rilevante di regioni della Convergenza, ovvero Italia e Germania, le dinamiche interne sono state molto diverse. In Italia è mancata la convergenza del Sud verso il Centro-Nord in tutto il periodo, sia pre-crisi (minore intensità di crescita, con un tasso cumulato del +19%, contro +21,7% delle aree Competitività), che soprattutto durante la crisi, quando, nel periodo 2008- 2011, a fronte di una sostanziale tenuta delle regioni più sviluppate (+1,1%), le regioni del Mezzogiorno hanno registrato un forte calo (-3,1%). Analoga tendenza è riscontrabile per l’altra grande nazione dualistica, la Germania, con però alcune marcate differenze: una minore distanza tra i tassi di crescita delle aree Convergenza e Competitività tedesche durante gli anni precedenti alla crisi (28,2% contro 29,1%), ma soprattutto, nel generale rallentamento durante gli anni di recessione, un differenziale di crescita del PIL della stessa intensità: +5,9% nel 2008-2011 contro +6,5%. A differenza del Mezzogiorno, i Laender dell’ex Germania Est stanno progredendo e si stanno sempre più avvicinando ai livelli di sviluppo delle regioni tedesche occidentali.
2.2. Le previsioni: il Centro-Nord, stazionario nel 2014, torna a crescere nel 2015; il Sud, altri due anni in recessione
Nel corso del 2014 la congiuntura si è progressivamente indebolita. Nello specifico, le tensioni emerse in diversi scenari internazionali hanno determinato, nel primo semestre dell’anno in corso, un significativo calo nel volume degli scambi a scala mondiale. A giudizio dei principali osservatori, ciò non potrà che riflettersi sfavorevolmente sul saggio di crescita della domanda mondiale previsto per l’intero 2014 e, in misura meno marcata, nel 2015. Inoltre, all’interno dell’Euro-zone, area già caratterizzata da una domanda complessivamente debole, la mancanza di politiche espansive, sul versante fiscale e, quando espansive, ben poco tempestive, come nel caso del versante monetario, ha determinato la comparsa di pericolosi segnali deflattivi all’interno di diversi importanti paesi, tra cui il nostro. In un contesto caratterizzato da una domanda modesta o stagnante, le stime SVIMEZIRPET indicano che nell’anno in corso l’attività produttiva complessiva italiana, misurata dal PIL, dovrebbe cedere quattro decimi di punto percentuale. A scala territoriale, questo dato si declina in maniera molto differente: il Mezzogiorno dovrebbe flettere dell’1,5%, a fronte di una sostanziale stazionarietà nel resto del Paese (0,0%). Tale situazione è destinata a replicarsi, con un’intensità maggiore, anche nel 2015 quando le regioni centro-settentrionali dovrebbero crescere nel loro insieme dell’1,3%, sulla scia degli orientamenti di politica economica moderatamente espansivi previsti nell’ultimo Def e di una domanda mondiale più vivace, mentre il Sud, con una flessione dello 0,7%, dovrebbe permanere in una situazione di crisi (Italia: +0,8%). Se confermate, queste previsioni portano a otto gli anni consecutivi nei quali il PIL meridionale ha conosciuto una variazione di segno negativo e ad oltre 15 punti la caduta complessiva di reddito dal 2008. I recenti dati di contabilità, pur con tutte le cautele del caso, offrono, anche se solo a livello nazionale, alcuni segnali che meritano attenzione. Nel primo semestre del 2014, rispetto all’analogo periodo dell’anno precedente, la domanda interna è calata di quattro decimi di punti percentuali; in particolare è diminuita la componente – gli investimenti (-2,1%) – che attiva più produzione dall’estero. A fronte di ciò, le importazioni di beni e servizi sono aumentate dell’1,6%. In parte, è questo un dato che risente del trend verso una maggiore integrazione che oramai da lungo tempo interessa le economie più sviluppate. Tuttavia, poiché nello stesso periodo la produzione – approssimata dal valore aggiunto – di tutte le principali macro-branche nazionali è risultata negativa, ciò può anche sottendere un qualche effetto di sostituzione di produzione interna con quella estera proprio in seguito al forte processo di disinvestimento osservato sia nel Sud che nel resto del Paese. Tornando, ora, alla disanima congiunturale, la divaricazione nel profilo temporale seguito dalle due macro-aree emerge anche in relazione alle principali componenti della domanda. I consumi finali interni meridionali dovrebbero diminuire dello 0,6% e dello 0,2%, rispettivamente nel 2014 e nel 2015, rispetto a una variazione positiva dello 0,1% e dello 0,4% nel Centro-Nord. Per quanto attiene gli investimenti, variabile di cruciale importanza nell’attuale fase ciclica, essi dovrebbero contrarsi, nel Centro-Nord, dell’1,5% nel 2014 per poi aumentare di mezzo punto percentuale l’anno successivo. Nel Mezzogiorno, invece, nell’anno in corso il processo di accumulazione dovrebbe conoscere un ulteriore pesante calo pari a oltre quattro punti percentuali (-4,2%); tendenza che dovrebbe ridursi d’intensità nel 2015 (-1,6%), ma restando sempre negativa. Anche in riferimento all’occupazione (misurata in unità di lavoro), si rinviene l’andamento dicotomico che caratterizza la congiuntura delle due macro-aree. Nel Sud, in entrambi gli anni coperti dalla previsione, vi dovrebbe essere un’ulteriore contrazione nel volume di occupazione (-1,3% nel 2014 e -0,8% nel 2015). Nel Centro-Nord, al contrario, alla caduta di sette decimi di punto percentuale prevista nel 2014 fa seguito nel 2015 una variazione di modesta entità, ma di segno positivo, pari a due decimi di punto percentuale, che interrompe la contrazione avviatasi dal 2011.

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7 aprile 2015

Eugenio Caruso



Sopportiamo, dunque, copn animo generoso tutto ciò che per legge dell'Universo ci tocca patire.
Seneca, Lettere a Lucilio



3. UN’EMERGENZA SOCIALE E DI CITTADINANZA
3.1. Una nuova geografia del lavoro
La doppia ondata recessiva che ha colpito il Paese (senza soluzione di continuità nel Mezzogiorno) ha prodotto, da un lato, effetti negativi sempre più diffusi per territorio, settore, genere, età e professioni, e dall’altro, ha ulteriormente ampliato i tradizionali divari che caratterizzano in particolare il mercato del lavoro italiano. Questo ulteriore allargamento dei divari rischia di configurare, con il perdurare dello stato di emergenza che la SVIMEZ denuncia dall’inizio della crisi, mutamenti sociali di carattere strutturale. Mutamenti che necessitano dunque di risposte organiche, che devono andare oltre la congiuntura e non possono limitarsi a qualche aggiustamento. Ben oltre la crisi, infatti, si sta ridisegnando una geografia del lavoro nel nostro Paese, che rischia di escludere “strutturalmente” il Mezzogiorno, e col Mezzogiorno soprattutto i giovani e le donne. Continua a deteriorarsi complessivamente, ma con un’accentuazione maggiore nelle regioni del Sud che si somma a gravi divari di partenza, la condizione giovanile segnata da forti perdite di posti di lavoro non compensate da flussi in entrata sempre più esigui. Connotati diversi, con esiti quantitativi meno drammatici, ma su livelli “strutturali” allarmanti e peggiori condizioni “qualitative”, caratterizzano il mercato del lavoro femminile nel corso degli ultimi anni. Questo ha determinato delle conseguenze sulle famiglie meridionali, divenute luogo principe della sofferenza sociale.
3.1.1. Il mercato del lavoro epicentro del “tracollo”
È il mercato del lavoro l’epicentro che rende evidente la portata del “tracollo” economico e sociale del Mezzogiorno. Su di esso si è abbattuta una crisi che nell’area non ha conosciuto tregua, e che oggi, con il crollo della domanda dovuto al venir meno dei redditi da lavoro, determina un avvitamento recessivo destinato, secondo le previsioni, a prolungarsi al prossimo biennio. Alla fine di una crisi che sarà durata otto anni, il profilo economico e sociale del Sud sarà stravolto. Il Mezzogiorno tra il 2008 e il 2013 registra una caduta dell’occupazione del 9%, ma anche nelle regioni del Centro-Nord (-2,4%) si interrompe un trend espansivo in atto ormai dal 1994. Delle circa 985 mila unità perse in Italia, ben 583 mila sono al Sud. Un’incidenza di quattro volte superiore che nel resto del Paese: al Sud, nella crisi, si è concentrato circa il 60% delle perdite occupazionali complessive, a fronte di una quota del totale degli occupati che ormai vale poco più di un quarto (26,3%, nel 2012 era il 27,1%). La visione di medio periodo rende ancora più evidente la divaricazione che, nel mercato del lavoro, si è prodotta a livello territoriale. Su questo quadro già particolarmente preoccupante, ha inciso in misura considerevole l’andamento dell’ultimo anno. Nel 2013 l’occupazione diminuisce, a scala nazionale, di 478 mila unità (-2,1%): con 282 mila unità perdute nelle regioni meridionali, pari al -4,6% (era stata del -0,6% nel 2012), a fronte di una perdita di 196 mila unità, pari al -1,2%, delle regioni del Centro-Nord (-0,2% nel 2012). Prosegue a scala nazionale il calo dell’occupazione maschile (-350 mila unità pari al -2,6%) e torna a ridursi quella femminile (-128 mila pari al -1,4%) che negli ultimi anni aveva sperimentato un trend moderatamente positivo. Il crollo si concentra per intero nelle fasce giovanili (-8,3% per i 15-34 anni), mentre per i 35-49enni scende del 2,2%; a cui si contrappone l’aumento degli occupati con 50 anni e più (+3,7%). C’è un dato che colpisce, e dice molto del grado di deterioramento del mercato del lavoro meridionale. Nel 2013, l’occupazione al Sud scende per la prima volta sotto la soglia – “psicologica”, ma molto reale – dei 6 milioni di unità: è intorno ai 5,8 milioni, un livello mai raggiunto nelle serie storiche ricostruite (non accadeva infatti almeno dal 1977, che è l’anno da cui partono le serie ricostruite dall’ISTAT). È una contrazione dell’occupazione peraltro non ascrivibile al tendenziale rallentamento nella crescita demografica: il tasso di occupazione che alla fine degli anni ’70 era intorno al 49-50% scende nel 2013 al 42%. Al Centro-Nord, nello stesso periodo gli occupati aumentano di 3 milioni di unità mentre il tasso di occupazione sale dal 56% a circa il 63% del 2013. Gli andamenti più recenti destano ulteriore preoccupazione per l’anno in corso. Il quadro che emerge dall’analisi dei dati “grezzi” (non destagionalizzati) evidenzia ancora un calo dell’occupazione, anche se più contenuto. Questi segnali, uniti al quadro previsionale del Rapporto SVIMEZ-IRPET, che conferma significative perdite occupazionali anche per il prossimo biennio, rafforzano la convinzione che ci troviamo di fronte a qualcosa di ben più grave di una pur fosca congiuntura negativa.
3.1.2. I giovani e le donne del Sud: il rischio di una durevole esclusione
Pur nel peggioramento complessivo, i divari territoriali, combinati con quelli generazionali e di genere, hanno ripreso ad ampliarsi ulteriormente, ridefinendo al ribasso e modificando alla radice le prospettive economiche, sociali e demografiche del Mezzogiorno, come mai avvenuto prima. Il calo dell’occupazione nel sessennio 2008-2013 è sostanzialmente ascrivibile, a scala nazionale, agli uomini (–973 mila unità pari al -6,9%), mentre il numero delle donne occupate resta sui livelli del 2008 (-11 mila unità pari al -0,1%). A livello territoriale, però, si registra un calo di 60 mila occupate meridionali, pari al -2,7%, a fronte, invece, di un incremento di 49 mila unità, pari al +0,7%, nelle regioni del Centro-Nord. L’evoluzione del mercato del lavoro più favorevole alle donne nella crisi nel nostro Paese è principalmente spiegata in termini di “segregazione” settoriale di genere, e questo risultato sarebbe connesso al fatto che gli uomini sono tradizionalmente concentrati nei settori più colpiti dalla crisi degli ultimi anni, quali il settore bancario/finanziario e i settori manifatturiero e delle costruzioni. Ciò sembra configurare un’emergenza essenzialmente “qualitativa”. I risultati quantitativi relativamente migliori rispetto ai maschi sono infatti largamente ascrivibili ad incrementi delle occupazioni precarie e nelle professioni non qualificate, che rafforzano anziché ridurre la tradizionale “segregazione” di genere che caratterizza il nostro mercato del lavoro. Il bilancio della crisi, per la componente femminile, dunque, non va guardato in termini meramente quantitativi, ma in termini di maggiore precarietà e minore qualità del lavoro e di mancate nuove opportunità e accessi. Certo, la partecipazione femminile al mercato del lavoro è aumentata sensibilmente: nel 2013 il divario tra tassi di attività maschile e femminile è sceso a 19,8 punti in Italia (27,3 nel Mezzogiorno e 15,7 nel Centro-Nord) e sotto i 12 punti nell’UE a 28. Negli ultimi anni, sono aumentate sia le donne occupate (ma non al Sud) che le disoccupate, e si è ridotto il numero delle donne inattive. Questo dato sembra fornire una certa evidenza di un possibile effetto “lavoratore aggiunto” attivato dalla crisi. Tuttavia, non va dimenticato che l’Italia, con quasi la metà delle donne fuori dal mercato del lavoro, presenta uno dei più bassi tassi di partecipazione femminile alle forze lavoro in Europa. Nel 2013, col suo 53,6%, il nostro Paese era al 27° posto nella UE a 28 (il cui tasso medio è del 66%), appena prima di Malta. Fa impressione che nella graduatoria delle 272 regioni europee (NUTS2) le otto regioni del Mezzogiorno sono tutte nelle ultime 10 posizioni, insieme con Malta e la regione Sud-Est della Romania; tra queste, solo l’Abruzzo supera il 50% di partecipazione (50,2%). Ad assumere connotati di sempre maggiore gravità, tali da rendere fuorviante limitarsi solo all’analisi della congiuntura, è il marcato dualismo generazionale del mercato del lavoro italiano, che si combina con il tradizionale dualismo territoriale. Tale combinazione, per i giovani meridionali, non determina soltanto “un’accentuazione”, ma sommandosi ai livelli strutturali pre-crisi, porta ad una situazione in cui si può dire che, al Sud, per gli under 35, il lavoro – semplicemente – è “finito”. Le dinamiche più recenti, infatti, hanno ulteriormente aggravato una condizione, specie per i giovani, che si può riassumere nei seguenti termini: le già basse opportunità di accesso al mercato del lavoro si sono ridotte, la durata della disoccupazione è aumentata, il processo di transizione dalla scuola al lavoro si è ulteriormente allungato, e si è ampliato (non solo per i giovani, anche per le donne) il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro. Tali caratteristiche, e specialmente alcune di esse, peculiari del mercato del lavoro meridionale, con la crisi si sono diffuse (almeno in parte) all’intero territorio nazionale. Nella crisi, tra il 2008 e il 2013, per i giovani l’occupazione si riduce in Italia di circa 1 milione 800 mila unità, pari al -25,4%, mentre per le classi d’età centrali ed elevate aumenta di circa 820 mila unità, pari al +5,0%. In calo, anche se più contenuto, risultano gli occupati tra i 35 ed i 44 anni mentre alle restanti classi è ascrivibile la parziale tenuta dell’occupazione. Dinamiche simili, sia pur con diverse accentuazioni, si rilevano a livello territoriale: gli occupati 15-34 anni si riducono del 29,3% nel Mezzogiorno e del 23,8% nel Centro-Nord. L’andamento negativo per i giovani e le classi d’età centrali continua anche nel 2014. Su base annua, il calo degli occupati di 15-34 anni e 35-49 anni si attesta nel secondo trimestre al -4,0% e al -1,6%, rispettivamente, parzialmente compensato dalla crescita degli occupati con 50 anni e oltre (+5,5%). Andamenti sostanzialmente simili si rilevano a livello territoriale, con cali più accentuati nel Mezzogiorno per i giovani (-6,0% a fronte del -3,3% del Centro-Nord) e incrementi meno pronunciati per gli over 50 (2,7% nel Mezzogiorno a fronte del 6,6% del Centro-Nord). Nel 2013, il calo dell’occupazione si accompagna ad un aumento dell’incidenza delle posizioni non standard che da valori di poco superiori al 30% arrivano quasi al 40% del totale. L’analisi a livello territoriale evidenzia flessioni più accentuate nel Mezzogiorno per le posizioni standard (-36%, a fronte del -32% del Centro-Nord), mentre gli occupati part time a tempo non determinato aumentano nel Mezzogiorno (+2,5% a fronte di una sostanziale stabilità nel Centro- Nord) e gli occupati atipici flettono del 25% circa nel Mezzogiorno e in misura molto meno accentuata nelle regioni del Centro-Nord (-10% circa). Il calo della componente standard continua anche nell’anno in corso. L’immagine più nitida di tali andamenti emerge dalla flessione dei tassi di occupazione giovanile: un calo che, in realtà, era iniziato molto prima della crisi economica, in parte per effetto, nei primi anni Duemila, di un significativo aumento dei tassi di scolarità e di iscrizione all’Università. Dalla seconda metà del decennio, tuttavia, l’ulteriore più decisa flessione si è verificata in presenza di una sostanziale stabilità del tasso di scolarità superiore e di un sensibile declino dei tassi di iscrizione all’Università. A destare maggiore impressione, e preoccupazione, è il confronto con l’Europa e i principali paesi, che delinea un quadro assai critico del rapporto tra giovani e mercato del lavoro in Italia, nella sua articolazione territoriale. La “fotografia” dei giovani tra i 15 e i 34 anni mostra come l’Italia abbia quote superiori a tutti gli altri paesi di giovani solo in formazione e decisamente ancora più elevate di giovani Neet. Per converso, si rileva come l’Italia si caratterizzi per le quote più basse di occupati in formazione e di solo occupati (con l’eccezione di Grecia e Spagna). A ben vedere, però, è evidente come i valori così negativi dell’Italia siano sostanzialmente ascrivibili alle regioni meridionali, mentre le regioni del Centro-Nord presentano valori tutto sommato in linea con quelli degli altri principali paesi, sia pure in tendenziale peggioramento. Il Sud si colloca in fondo ad ogni classifica europea, facendo registrare una condizione giovanile nel mercato del lavoro (e nella formazione) peggiore della Spagna, e persino della Grecia. Va detto che le difficoltà di accesso al mercato del lavoro, caratteristiche delle regioni meridionali e dei livelli di istruzione più bassi, si stanno diffondendo nelle regioni del Centro- Nord e tra i giovani con medio-alti livelli di istruzione. Nell’ambito del quadro strategico per la cooperazione europea per il settore dell’istruzione e della formazione (ET 2020), che mira a valutare le opportunità di lavoro per i giovani (20-34 anni), diplomati o laureati, si era fissato come obiettivo, già raggiunto nella media europea nel 2007, che l’82% di questi giovani fosse occupato dopo non più di tre anni dal conseguimento del titolo. Già prima della crisi i giovani diplomati e laureati italiani presentavano un tasso di occupazione più basso di circa 16 punti rispetto alla media europea. Tale divario nel 2013 sale a circa 27 punti, attestandosi il tasso di occupazione al 48,3% (la Spagna è al 59,5%), contro una media UE a 27 del 75,6%. Una valutazione più analitica di tale indicatore per l’Italia evidenzia come le difficoltà maggiori riguardino i diplomati, con un tasso di occupazione al 2013 del 40,8% a fronte del 56,9% dei laureati. Nel sessennio di crisi il tasso di occupazione dei diplomati flette di 19,7 punti, a fronte dei 13,6 dei laureati. A livello territoriale, emerge il forte divario assoluto tra tassi di occupazione del Mezzogiorno, 26,2% e 38,2% rispettivamente per i diplomati ed i laureati, contro valori del 49,6% per i diplomati e del 65,8% per i laureati del Centro-Nord. La convinzione che il progresso tecnico avrebbe dovuto favorire la domanda di lavoro istruito e, pertanto, non svantaggiare in modo particolare i giovani, il cui livello di istruzione è in forte crescita da decenni in tutto il mondo, è stata messa in discussione dagli andamenti nella crisi. Essa ha determinato una distorsione della domanda di lavoro non solo a sfavore di coloro che possiedono bassi livelli di istruzione, ma anche di coloro che sono carenti sia di esperienza lavorativa generica sia di esperienza specifica su un posto di lavoro, al di là del livello di istruzione formale conseguito nell’ambito del sistema scolastico. In questo senso, la diffusione del progresso tecnico rischierebbe di rafforzare il principio LIFO (last in - first out) spesso usato con i giovani dalle imprese in caso di assunzioni/licenziamenti. Ben oltre le rigidità del nostro mercato del lavoro e i problemi di disallineamento tra domanda e offerta, la radice di questi fenomeni va ricercata essenzialmente nella scarsa innovazione di un sistema economico, come quello italiano, scarsamente posizionato sulla frontiera competitiva e prevalentemente basato su prodotti e sistemi produttivi tradizionali, dove l’esperienza specifica sul posto di lavoro risulta più importante del capitale umano scolastico.
3.2. Il rischio di perdere “capitale umano”: dalla formazione, alle Università, alla qualità del lavoro
Sempre sul fronte dell’emergenza sociale, si è sviluppata una dinamica forse ancora più allarmante: una spirale di “depauperamento” del capitale umano, determinata da una lunga persistenza dello stato di inoccupazione e dallo “scoraggiamento” a investire nella formazione più avanzata fino alla scelta che l’investimento più promettente è quello di abbandonare il Sud. La debolezza della domanda di lavoro qualificato, accentuatasi durante la crisi, oltre alle specifiche difficoltà nella transizione tra scuola e lavoro, alle crescenti difficoltà economiche delle famiglie a sostenere i costi dell’istruzione e ai limiti interni del sistema formativo, contribuisce a ridurre gli incentivi a investire in formazione e conoscenza. L’impatto negativo di questa evoluzione è duplice: da un lato, induce il depauperamento del capitale umano già formato bloccato tra inattività e precarietà; dall’altro, ritarda (se non blocca) i processi di convergenza dell’Italia verso più elevati livelli di istruzione europei e gli obiettivi di Europa 2020 e, al nostro interno, delle regioni meridionali verso quelle del Centro- Nord. La progressiva emarginazione dei giovani anche istruiti dai processi produttivi determinata dalla crisi recessiva è confermata dalla dinamica crescente dei giovani Neet (Not in education, employment or training): in base ai dati ISTAT, nel 2013 in Italia hanno raggiunto i 3 milioni 593 mila con un aumento rispetto al 2008 di circa 737 mila unità (+ 25,8%). Di questi, oltre 2 milioni sono donne (56,2%) mentre quasi 2 milioni (54,6%) si trovano nelle regioni meridionali (con un’incidenza sulla popolazione di 15-34 anni del 38,5%, contro il 20,1% del Centro-Nord). La condizione di Neet, generalmente prevalente tra i meno istruiti, si è diffusa nella crisi ai giovani con titoli di studio elevati: la quota di diplomati e laureati sul totale è passata da circa il 48% del 2007 al 58% nel 2013. L’aumento complessivo del 25,8% sottende infatti incrementi del 50,5% per i diplomati e del 43,5% per i laureati (mentre crescono solo dell’8,1% i giovani fino alla licenza media). Nelle regioni meridionali, tra i Neet, la quota dei diplomati è al 37,5% e quella dei laureati al 32,4%, a fronte rispettivamente del 21% e del 17,1% del Centro-Nord. La presenza di un ampio bacino di offerta di lavoro giovanile non utilizzata o sottoutilizzata dal sistema produttivo si associa a una percezione di insicurezza per il proprio futuro, alla difficoltà di fare scelte e di formulare progetti, con forti rischi di dispersione dell’investimento che il Paese ha effettuato nella formazione dei giovani. Sono soprattutto le scelte di partecipazione all’istruzione terziaria che evidenziano la gravità di tale processo. Il calo delle immatricolazioni riflette non solo il peggioramento delle condizioni finanziarie delle famiglie (anche alla luce dell’aumento delle rette di iscrizione, spesso in mancanza di un’effettiva tutela e promozione del diritto allo studio), ma anche la percezione sempre più diffusa dello scarso vantaggio, in termini di occupazione e di reddito, dell’investimento nella formazione più avanzata. Si amplia anziché ridursi, nel frattempo, il divario dell’Italia con i principali paesi europei con riguardo all’istruzione terziaria. Con riferimento alla popolazione tra 30 e 34 anni, i laureati in Italia si attestavano nel 2013 al 22,4%, il valore minimo tra i paesi della UE (36,8% in media) e inferiore anche all’obiettivo nazionale stabilito dal Governo nel Programma nazionale di riforma di aprile del 2011 (26-27%). Nessuna regione italiana superava il 28%. Il divario con la UE che sembrava stabile nel decennio scorso ha cominciato ad ampliarsi a partire dal 2008, passando da circa 10 ad oltre 14 punti percentuali. In aumento negli anni Duemila anche il differenziale tra Centro-Nord e Mezzogiorno salito da circa tre punti nel 2000 a oltre sette nel 2013. Tali dinamiche derivano in primo luogo da tassi di passaggio dalla scuola superiore all’Università sempre più bassi. Nel A.A. 2012/2013, con il 51,7% del Sud e il 58,8% del Centro-Nord, non solo torna ad ampliarsi il divario tra le aree (che si era annullato a metà anni Duemila), ma si accentua la parabola discendente nella crisi, riportando l’intero Paese a livelli ben al di sotto di quelli di dieci anni fa. Una dinamica davvero emergenziale, che rende sempre più arduo il processo di convergenza, in termini di accumulazione di capitale umano, con il resto d’Europa. Non aiuta, da questo punto di vista, il sistema di finanziamento delle Università che, pur complessivamente sottoposto a una costante riduzione di risorse, sta determinando una vera e propria penalizzazione delle Università meridionali. Come riportato in un capitolo del Rapporto – che recepisce il lavoro e le preoccupazioni emerse nel “Forum delle Università del Mezzogiorno” presso la SVIMEZ – il nuovo e crescente meccanismo di premialità, attribuito annualmente sulla base di criteri ministeriali discutibili, ha determinato, in soli tre anni (2011- 2013), uno spostamento di circa 160 milioni di euro dalle Università del Sud a quelle del Centro- Nord. E se nulla cambiasse nei prossimi anni, le previsioni parlano di una sottrazione al sistema universitario meridionale di anche più di 100 milioni di euro all’anno, che lo renderebbe ancora più lontano dagli standard internazionali tanto agognati. Per effetto di questo spostamento annuo di risorse, per rispondere alla domanda di formazione degli studenti meridionali, la già alta migrazione studentesca dal Sud verso il Nord dovrà crescere all’incredibile ritmo di circa 30.000 studenti all’anno. Il circolo vizioso di perdita di “capitale umano” per il Mezzogiorno sembra dunque all’opera. Altre scelte del Governo sembrano concorrere nella stessa direzione. La più eclatante, nel corso del 2013, è relativa alla modalità con la quale, con riferimento al turnover, si sono imposti alle singole Università, sulla base di elementi di valutazione simili a quelli considerati per la ripartizione della quota premiale, limiti molto diversi tra loro, che penalizzano le comunità scientifiche meridionali. D’altra parte, non è certo sul fronte della tassazione che le Università del Mezzogiorno possono pensare di migliorare la sostenibilità finanziaria. Il livello di tassazione sostenibile è assolutamente connesso al livello socio-economico e infatti le differenze che si riscontrano a livello territoriale sono fortemente correlate con quelle che si registrano in termini di reddito pro capite o di contributo fiscale; esse, pertanto, si possono ridurre solo operando sulle molte distanze reali che esistono, complessivamente, tra le varie aree del Paese. In definitiva tutto concorre, con paradossale coerenza, a spostare numeri rilevanti di studenti, lavoratori e docenti dal Sud verso il Nord realizzando nel Mezzogiorno un ridimensionamento del sistema universitario che sembra essere, se non auspicata, quantomeno non contrastata da una parte del nostro sistema politico. Un ulteriore rischio di perdita di “capitale umano” è connesso al deterioramento della “qualità” del lavoro che si pone, come visto, principalmente con riferimento alle donne, la cui dinamica più recente rischia di rafforzare anziché ridurre la tradizionale “segregazione” di genere che caratterizza il nostro mercato del lavoro. Il raffronto tra i dati del 2013 e quelli del 2008 evidenzia che la sostanziale stabilità dell’occupazione femminile sottende una flessione dell’11,7% delle professioni qualificate, intellettuali e tecniche, e un incremento del 15,0% delle professioni non qualificate. L’andamento relativamente migliore dell’occupazione femminile nella crisi nasconde dunque una ricomposizione a sfavore delle professioni più qualificate e le crescenti difficoltà anche per le giovani donne italiane con medio-alti livelli di istruzione di trovare opportunità di lavoro non precarie. Chiare indicazioni sul deterioramento qualitativo dell’occupazione femminile provengono dall’analisi dei dati per tipologia contrattuale. Le donne occupate hanno, per il 19% nel Mezzogiorno e per il 13% nel Centro-Nord, un contratto a termine per quasi la totalità “involontario”. Il declino, registrato nella fase recessiva, delle professioni più qualificate dell’occupazione femminile desta preoccupazione perché rischia di arrestare il contributo specifico che le donne apportano, nonostante un sacrificio in termini di posizione e retribuzione, al miglioramento “qualitativo” del nostro sistema produttivo. Se, ben oltre l’emergenza “qualitativa”, di vera e propria “segregazione” delle donne sul mercato del lavoro si può parlare, in senso stretto, questo è dovuto essenzialmente alla condizione delle immigrate. Qui, col divario di genere, si accentua di molto quel divario di cittadinanza a cui avevamo accennato, che emerge sia dagli andamenti che dalla composizione dell’occupazione straniera per settore e professione: nel 2013, il 76,6% degli immigrati lavora nei servizi domestici e di cura (quasi 10 punti in più rispetto al 2008) e la presenza nelle professioni qualificate è minima (gli stranieri sono circa il 2%, mentre è massima in quelle non qualificate dove un occupato su tre è straniero). La crisi ha ulteriormente accentuato la segregazione professionale delle donne immigrate: nel 2013 appena due professioni (assistenti domiciliari e collaboratrici domestiche) coinvolgono più della metà delle occupate straniere (mentre nel 2008 ne erano necessarie cinque: cameriere, commesse, operaie addette ai servizi delle pulizie, erano le altre tre). Anche gli uomini sono concentrati solo su alcune professioni – sedici coinvolgono la metà degli occupati – tra cui muratori, camionisti, braccianti, facchini e ambulanti. Occorre sempre rimarcare che questa “segregazione” non si verifica – almeno non solo e non tanto – per la minore qualificazione della manodopera immigrata quanto per la maggiore disponibilità degli stranieri ad accettare lavori non qualificati e disagiati: nel 2013 circa il 35% delle donne straniere risulta infatti sovra istruita a fronte del 15% delle donne italiane.
3.3. Cambia la geografia demografica del Paese: è il Mezzogiorno che si svuota
Le “nuove emigrazioni” rischiano di determinare una grave perdita di capitale umano nel Mezzogiorno. Occorre perciò chiarire la portata più profonda delle dinamiche demografiche in atto nel nostro Paese. Cambia la geografia demografica dell’Italia. Mentre il Centro-Nord sperimenterà nei prossimi anni una crescita della popolazione alimentata dalle migrazioni dall’estero, da quelle dal Sud e da una ripresa della natalità, il Mezzogiorno invecchia: i giovani emigrano verso il Centro-Nord ma soprattutto verso l’estero, per mancanza di prospettive di lavoro; le famiglie, colpite dalla crisi, fanno sempre meno figli. Infatti, per il secondo anno consecutivo, il numero dei morti al Sud sopravanza quello dei nuovi nati. Il calo delle nascite, che riguarda l’intero Paese, è particolarmente evidente al Sud, e questo fenomeno crea un saldo negativo, che si traduce in una diminuzione della popolazione via via crescente. Il numero dei nati nel Sud ha toccato nel 2013 il suo minimo storico: 177.000, il valore più basso dall’Unità d’Italia. Mentre nel Centro-Nord i 338.000 nati sono ancora ben superiori ai 288.000 del 1987, quando si toccò il minimo storico. Negli ultimi 50 anni il Sud ha continuato a perdere popolazione anno dopo anno, diversamente dal Nord, dove, dopo il picco negativo del quinquennio 1985-1989, la popolazione aveva ricominciato a crescere, con una tendenza al rallentamento dal 2009 in poi. Nel 1861 nel Sud nascevano 331,1 mila bambini, nel Nord 441,9 mila; il tracollo dell’area meridionale è il risultato inevitabile di un aggiustamento alle situazioni socioeconomiche e la reazione alle aspettative puntualmente disattese in special modo negli ultimi decenni. La reazione della demografia come è noto è lenta ma profondamente incisiva e sfugge alla percezione immediata che si ha invece degli andamenti ciclici dell’economia, e con fare silente trasforma e adegua, ignorando anche le più “raffinate” (e astratte) leggi economiche, la struttura della società. I numeri ci mostrano una società, quella meridionale, nella quale una intera generazione non è mai nata, e i giovani nati vivono una condizione di marginalità: non studiano né si formano in altro modo e per coloro che decidono di intraprendere un dignitoso percorso formativo, professionale o intellettuale non resta, nella maggior parte dei casi, che la via dell’espatrio. Il rischio è ora dunque l’involuzione rispetto all’evoluzione che già si sta affermando nel resto del Paese, dove migliori condizioni economiche e la presenza indubbia di migliori reti sociali e di buon governo favoriscono un sia pur difficile ricambio generazionale. Tale ulteriore aspetto del dualismo interno al nostro Paese comporta che, mentre nel Centro-Nord gli andamenti demografici sono simili a quelli dei paesi del Nord Europa, in primo luogo la Germania, il Mezzogiorno si muova, invece, sulla falsariga di quelli del Sud, come Spagna e Grecia, sia come indice di vecchiaia che come rapporto tra popolazione attiva e non più attiva. Ormai al Sud la fecondità femminile è giunta a quota 1,36 figli per donna, ben distante dal livello di sostituzione, che garantisce la stabilità demografica, pari a 2,1 nati per coppia, e perfino inferiore a quello del Centro-Nord (1,46 figli per donna), dove la ripresa della natalità è stata favorita anche dai livelli riproduttivi delle donne straniere. Le ondate migratorie dall’estero potrebbero riequilibrare questa naturale tendenza alla diminuzione delle nascite. Infatti, i residenti stranieri a fine 2013 erano oltre 5 milioni, quasi 900.000 in più dell’anno precedente (un risultato dovuto prevalentemente alle rettifiche anagrafiche post censuarie), e rappresentano ormai l’8,2% della popolazione complessiva. Ma degli oltre 5 milioni, 4 milioni e 200.000 vivono nel Centro-Nord (il 10,8% della popolazione complessiva) e solo 717.000 nel Mezzogiorno (il 3,5%). La minore capacità di attrarre immigrati dall’estero da parte delle regioni meridionali rispecchia la persistenza del gap tra le due macro aree nel grado di sviluppo economico. Nel decennio 2001-2011 la popolazione italiana è cresciuta del 4,2%, un tasso che non si registrava dagli anni ‘70 del secolo scorso. Però, mentre nel Centro-Nord la crescita è arrivata al 6,3%, nel Sud si è fermata allo 0,4%. I dati del 2013 confermano la grave crisi demografica del Sud, il cui peso sulla popolazione complessiva è giunto nell’anno al 34,4% (era il 36% nel 2001). Il profondo divario tra le aspettative, soprattutto delle nuove generazioni in termini di realizzazione personale e professionale, e le concrete occasioni di lavoro qualificato nel territorio meridionale hanno determinato una forte ripresa dei flussi di emigrazione. Tra il 2001 e il 2013 sono emigrati dal Sud verso il Centro-Nord quasi un milione e 600.000 mila meridionali, a fronte di un rientro di 851.000 persone, con un saldo migratorio netto di 708.000 unità. Di questa perdita di popolazione il 70%, 494.000, ha riguardato i giovani, di cui poco meno del 40% (188.000) laureati. L’entità dei flussi migratori colpisce soprattutto pensando agli effetti che ciò avrà sulla capacità del Sud di riprendere un percorso di crescita: il fenomeno si rileva in particolare nelle aree urbane, dove, invece, si dovrebbe concentrare la ripresa di un processo di sviluppo. Oggi uno dei problemi centrali del Mezzogiorno è proprio la progressiva rarefazione delle giovani generazioni: da un’area giovane e ricca di menti e di braccia, il Sud si sta via via trasformando in un’area anziana, economicamente sempre più dipendente dal resto del Paese. In definitiva, se questa tendenza alla perdita di peso demografico non sarà sollecitamente contrastata, il Mezzogiorno rischia di persistere in uno “tsunami” dalle conseguenze imprevedibili. Una tendenza destinata ad accentuarsi nei prossimi anni: in base alle previsioni ISTAT, in un cinquantennio il Mezzogiorno perderà 4,2 milioni di abitanti, oltre un quinto dell’attuale popolazione, rispetto al resto del Paese che ne guadagnerà, invece, 4,6 milioni. Lo spopolamento del Sud fino al 2065 riguarderà soprattutto i più giovani, con una conseguente erosione della base della piramide dell’età, una sorta di rovesciamento rispetto a quella del Centro-Nord. A fine periodo, la popolazione meridionale, oggi pari al 34,3% di quella nazionale, si ridurrà complessivamente al 27,3%, in parallelo ad un accentuarsi del suo tasso di dipendenza.
3.4. Le crescenti disuguaglianze ostacolo alla crescita
La recessione ha prodotto effetti assai differenziati sul livello e sulla distribuzione del reddito disponibile delle famiglie dei paesi dell’UE. In quelli dove il reddito è distribuito in modo più egualitario, attraverso misure specifiche e universali di contrasto della povertà e della disuguaglianza, vi sono non solo maggiori livelli del prodotto per abitante, ma anche più elevati tassi di crescita. Quasi tutti i paesi dell’Europa a 15 (Germania, Austria, Svezia, Olanda, Belgio e Lussemburgo) in cui il prodotto è aumentato durante la crisi, appartengono al gruppo più egualitario. In quelli, invece, meno egualitari (tra cui Grecia, Portogallo, Spagna e Italia), nei quali la maggior parte del reddito è detenuta da una minoranza di percettori, il PIL pro capite è andato via via diminuendo. La tendenza all’approfondimento degli squilibri nella distribuzione del reddito rischia di trasformare le inevitabili conseguenti disuguaglianze in una forza destabilizzante del sistema economico e sociale con prevedibili forti cadute del processo di accumulazione e degli stimoli ai settori economici in misura tale da comprimere la crescita economica. L’Italia, in particolare, è il solo paese nel quale la caduta del reddito disponibile sia risultata di intensità più vicina a quella del PIL, un risultato particolarmente negativo determinato anche da politiche di bilancio meno incisive. Il divario di sviluppo tra Centro-Nord e Mezzogiorno si riflette sia sul livello dei redditi che sulla sua distribuzione. Il dualismo territoriale ha un peso rilevante nel determinare il grado complessivo di disuguaglianza. L’ultimo sessennio di crisi ha accentuato ulteriormente questo divario: i più a rischio sono quanti debbono ancora entrare nel mercato del lavoro, i precari, gli occupati in micro imprese, categorie per le quali non esiste un sistema universale di tutela dei redditi, per cui risultano maggiormente esposte al rischio povertà. Nel 2013 l’approfondirsi della crisi nel Mezzogiorno ha comportato, come detto, un drastico ridimensionamento dell’occupazione che ha contribuito a determinare un innalzamento del livello della povertà assoluta, di intensità mai sperimentata prima: +2,8% a fronte di meno di mezzo punto nel Centro-Nord. Lo scorso anno le famiglie assolutamente povere nel Mezzogiorno erano pari a un milione e 14 mila unità, come nel Centro-Nord, con un’incidenza sul totale delle famiglie del 12,6%, più che doppia rispetto al Centro-Nord (5,8%). Ciò che più colpisce è il rapido approfondimento della gravità del fenomeno nel Mezzogiorno, dove il numero delle famiglie assolutamente povere è aumentato nei sei anni della recessione di quasi due volte e mezzo, a fronte di poco meno del raddoppio nel resto del Paese. Nel Sud, in particolare, quasi il 40% della crescita si è concentrato nell’ultimo anno. Nel 2012, appena il 5% delle famiglie del Centro-Nord è risultato incluso nella classe a più basso reddito, con meno di 1.000 euro al mese, contro quasi tre volte tanto nel Mezzogiorno (il 13,4%). All’estremo opposto, il 44,1% delle famiglie del Nord e solo il 25,4% di quelle meridionali hanno più di 3.000 euro al mese: una distanza di quasi venti punti percentuali, che offre una chiara evidenza delle marcate differenze strutturali tra le due parti del Paese. In particolare, nel Mezzogiorno sono le famiglie monoreddito, quelle numerose e quelle composte da anziani soli ad essere esposte al rischio povertà. Nel Sud risulta, inoltre, molto elevata la povertà tra le famiglie composte da due o più nuclei (circa il 41%). Si tratta di un fenomeno, quello della “ricomposizione” dei nuclei familiari, che è rinato nel corso della crisi come soluzione per sfruttare le economie di scala dovute alla condivisione dell’abitazione e di tutti i costi ad essa legati. Gli squilibri nel mercato del lavoro si sono riflessi in modo significativo sulle famiglie meridionali: infatti, nel 2012 (ultimo anno per il quale si dispone di informazioni) in una su cinque era presente almeno un disoccupato, contro 1 su 10 nel Centro-Nord, ed è molto alta la frequenza di famiglie con più persone a carico, soprattutto minori: quelle con almeno un minore sono il 30,1% nel Sud e il 25,4% nel Centro-Nord; quelle con due o più soggetti a carico sono il 32,6% nel Mezzogiorno, contro poco più della metà nel resto del Paese. I bassi tassi di occupazione, soprattutto giovanile e femminile, e l’insufficiente numero di percettori di reddito rispetto alla persone a carico, costituiscono gli elementi decisivi di disuguaglianza e di vulnerabilità delle famiglie meridionali rispetto al resto del Paese. Profonde differenze nelle opportunità di occupazione caratterizzano, anche a parità di qualifica professionale, i giovani rispetto agli adulti e le donne rispetto agli uomini (e, tra le donne, quelle con figli rispetto a quelle senza). Il fattore territoriale, cioè la residenza nel Mezzogiorno, agisce sistematicamente come un amplificatore di queste differenze. Se è indubbio che solo una maggiore equità possa contribuire positivamente alla crescita, allora ciò postula con tutta evidenza una politica fiscale e di bilancio che sia coerente con quest’obiettivo. Cosa che finora non è avvenuta: sia l’erosione della base imponibile che l’evasione delle imposte hanno operato e continuano ad operare in senso contrario all’equità. Non solo, perché in Italia vi sono anche esenzioni fiscali generalmente maggiori per i contribuenti a più alto reddito, così come avviene per la tassazione separata dei redditi da capitale. A ciò si aggiungono l’insufficiente sostegno ai carichi familiari, un sistema tributario che penalizza le famiglie monoreddito, l’assenza di ammortizzatori sociali universali contro la disoccupazione, che invece esistono in tutti gli altri paesi europei.
3.5. Gli indicatori di benessere: altra misura del divario
In Italia, ai significativi divari territoriali tra Centro-Nord e Mezzogiorno nel PIL pro capite si accompagnano evidenti disparità nell’offerta di servizi ai cittadini. Anche quest’anno, così come lo anno scorso, la SVIMEZ, traendo spunto dai risultati del secondo Rapporto sul BES curato dal Comitato di indirizzo CNEL-ISTAT, ha costruito, a partire dagli indicatori pubblicati, delle misure dei differenziali di benessere tra Mezzogiorno e resto del Paese, sia per i diversi domini, sia a livello aggregato, confrontando i risultati ottenuti con quelli desumibili utilizzando solo misure economiche. Come atteso, in generale il Mezzogiorno ha performances inferiori a quelle medie nazionali: la differenza media di benessere con l’intero Paese risulta pari all’85,8%, ovvero segnala che il Mezzogiorno ha un gap socio-economico di circa il 14,2% rispetto all’intero Paese, inferiore a quello misurato rispetto ai consumi (delle famiglie) pro capite (-23%) e la metà di quello misurato attraverso il PIL pro capite (-32,2% circa). Il benessere è comunque una misura per molti versi soggettiva e relativa allo stato di sviluppo economico raggiunto. Ad esempio, in un paese a basso reddito, benessere può significare mangiare ogni giorno, in uno ad alto reddito potrebbe indicare il vivere in un’area verde con l’aria pulita. Questa soggettività trasforma l’esercizio di misurazione del benessere nell’individuazione di quali siano gli elementi che formano il benessere stesso e il progresso di un determinato paese. La misurazione del benessere cattura quindi aspetti non più tecnici ma squisitamente politici, perché confronta diverse visioni, non tutte assimilabili e integrabili, della società e, in sostanza, della propria vita. Questo significa che qualsiasi misura o indicatore del benessere è necessariamente contestualizzato nella società e nel periodo a cui si riferisce. L’analisi condotta dalla SVIMEZ mostra comunque che esiste una forte correlazione positiva tra PIL pro capite e benessere percepito, rilevato dalle indagini dell’ISTAT presso i cittadini: il PIL pro capite spiega circa il 50% di tale relazione. Il Trentino Alto Adige mostra livelli di soddisfazione molto più elevati di quanto attribuibili dal prodotto pro capite. Analogamente, nel Mezzogiorno, il gruppo Sardegna-Abruzzo-Molise si colloca al di sopra della relazione identificata. Nel Centro-Nord appare molto inferiore a quanto atteso il benessere percepito nel Lazio e, forse inaspettatamente, in Toscana. Su livelli chiaramente inferiori a quanto atteso è il benessere percepito in Campania. Nel complesso, l’analisi svolta dalla SVIMEZ indica, da una parte, che il divario socioeconomico appare di dimensione lievemente inferiore a quello identificato dai consumi o dal PIL pro capite; dall’altra, che, in molti casi, la direzione e l’ampiezza del gap appare diversa dall’aneddotica corrente. Risultati analoghi e in parte inattesi si rilevano guardando le differenze regionali di benessere percepito. Inoltre, l’analisi segnala una notevole eterogeneità tra gli indicatori: divari molto ampi tra il Sud e il resto del Paese risultano nei domini legati alla salute, istruzione, ricerca e sviluppo, qualità dei servizi pubblici. Non è ovviamente una novità, ma la valutazione quantitativa delle differenze segnala come queste siano superiori a quelle puramente economiche. L’analisi mostra quindi i settori su cui appare necessario orientare le politiche pubbliche di riduzione dei divari sociali e civili del Paese.

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4. EMERGENZA PRODUTTIVA: SI AGGRAVA LA DESERTIFICAZIONE INDUSTRIALE
Nel 2013, per il secondo anno consecutivo, la dinamica del valore aggiunto dell’industria in senso stretto dell’Italia è stata largamente negativa: pari al -3,2%, dopo il -3,0% del 2012. La flessione dell’attività industriale nel nostro Paese è stata molto più ampia rispetto a quella che si è registrata negli altri paesi dell’Unione europea, che nel loro insieme hanno invece evidenziato un leggero miglioramento rispetto all’anno precedente (dal -1,1% del 2012 al -0,2% del 2013). Il dato complessivo italiano riflette una forte divaricazione tra gli andamenti territoriali: nel Centro-Nord si conferma una dinamica recessiva del prodotto industriale, ma più contenuta rispetto al 2012 (-2,6% nel 2013, contro il -3,9% dell’anno precedente); di converso, nel Mezzogiorno la variazione tendenziale è stata del -6,7%, in deciso peggioramento rispetto alla modesta flessione dell’anno precedente (-0,7%). A Sud il prolungarsi della crisi economica colpisce maggiormente l’apparato manifatturiero, rendendo sempre più estesi e profondi i fenomeni di desertificazione industriale. Considerando tutto il periodo 2008-2013, si rileva che mentre nelle regioni centrosettentrionali l’andamento del valore aggiunto dell’industria in senso stretto è notevolmente correlato a quello complessivo dei paesi dell’UE a 27 – seppure con un divario che è andato decisamente allargandosi nell’ultimo biennio –, nel Mezzogiorno la caduta del prodotto industriale ha assunto un’intensità e una persistenza che sembrano ormai prescindere dal ciclo europeo. In prospettiva, è dunque sempre più forte il rischio che l’industria del Sud non riesca ad agganciare il treno di un’eventuale ripresa europea. Da un’analisi che ha preso in considerazione le dinamiche del settore industriale nelle aree della Competitività e della Convergenza della UE a 27, il dato del Mezzogiorno appare particolarmente preoccupante. Nel periodo della crisi 2007-2011, le aree Convergenza dell’Italia – tutte meridionali – hanno fanno registrare una caduta del valore aggiunto dell’industria in senso stretto (a prezzi costanti) pari al 6% in media d’anno, a fronte di un incremento dell’1,5% per il complesso delle aree della Convergenza dell’UE a 27. Non solo, mentre queste ultime hanno mantenuto, prima e dopo la crisi, un differenziale di crescita positivo rispetto all’insieme delle aree Competitività, in Italia, al contrario, si osserva un divario negativo a svantaggio delle aree meno sviluppate: piuttosto contenuto negli anni 2000-2007 (-0,8% contro -0,3%), ma che con la crisi si è fortemente ampliato (-6% contro -2,5%). Il maggiore dinamismo complessivo delle aree Convergenza europee è riconducibile principalmente ai processi di catching up che hanno caratterizzato le regioni meno sviluppate dei 12 paesi entrati nell’UE nel 2004 (quasi tutti appartenenti all’ex blocco sovietico): durante il periodo 2007-2011 queste ultime hanno infatti fatto registrare una crescita media annua del valore aggiunto industriale pari al 4,6%, contro il +0,7% delle rispettive aree Competitività. Più specificatamente, tale elevata performance è dovuta essenzialmente al sottogruppo dei 7 paesi non aderenti all’Euro (tra cui la Polonia, la Romania e l’Ungheria), che nel loro insieme segnano, per le aree Convergenza, una crescita del 5,2%; nello stesso periodo, il tasso di incremento nelle aree meno sviluppate dei paesi aderenti all’Euro è stato, invece, molto più debole, pari allo 0,9%. In definitiva, osservando gli andamenti del valore aggiunto dell’industria in senso stretto nei diversi aggregati europei, nell’arco di oltre un decennio, emergono chiaramente le difficoltà specifiche del Mezzogiorno non solo nel recuperare il ritardo strutturale nei confronti delle regioni del Centro-Nord, ma più in generale nel competere con le altre regioni europee meno avanzate, tra le quali brillano per dinamicità le aree Convergenza dei paesi dell’Europa dell’Est non ancora aderenti all’Euro, che oltre ad essere avvantaggiati da un più basso costo del lavoro, possono utilizzare liberamente i maggiori margini di libertà delle leve fiscale e monetaria. La maggiore debolezza dell’industria del Sud rispecchia un’evoluzione più sfavorevole non solo della componente interna della domanda, ma anche di quella estera. In concomitanza con la crisi economica, in particolare, si è accentuato il calo tendenziale della quota delle esportazioni di beni del Mezzogiorno (al netto dei prodotti energetici), anche rispetto a una quota dell’export italiano a sua volta declinante. Nell’area meridionale, infatti, la capacità di operare sui mercati internazionali appare circoscritta a un numero esiguo di imprese. Inoltre, il confronto tra le quote del Mezzogiorno sul valore delle esportazioni e sul numero delle imprese esportatrici rivela che la dimensione media degli esportatori meridionali è minore che nel resto d’Italia. Nel Sud, dunque, assume maggiore gravità rispetto al Centro-Nord il problema della relativa scarsità di imprese di medie e grandi dimensioni, capaci di superare più agevolmente i costi e i rischi aggiuntivi connessi all’accesso ai mercati internazionali. Le difficoltà delle imprese manifatturiere meridionali ad adeguarsi ai cambiamenti dello scenario competitivo internazionale, che inizialmente hanno interessato principalmente i sistemi locali di piccole e medie imprese, con il prolungarsi e l’acuirsi della crisi hanno colpito anche una parte rilevante delle grandi imprese a controllo esterno – relativamente concentrate in settori ad alta intensità di lavoro qualificato, eredità preziosa delle politiche regionali passate –, tanto da far temere che alcune di esse possano scegliere di abbandonare l’area, in cerca di localizzazioni più competitive. In tale scenario, un segnale positivo può tuttavia essere colto nella recente dinamica del numero degli esportatori, che è tornato a crescere nel Mezzogiorno più rapidamente che a livello nazionale, interrompendo la tendenza negativa che era emersa nella prima fase della crisi (tra il 2008 e il 2011). Il crollo della domanda interna, più pesante che nel resto d’Italia, ha probabilmente spinto molte piccole imprese meridionali a cercare nei mercati esteri nuovi sbocchi per le proprie produzioni. Un compito importante delle politiche industriali, al cui interno vanno inquadrate le misure di sostegno all’internazionalizzazione delle imprese, sarebbe proprio quello di assistere tale ampio gruppo di imprese, che si affacciano per la prima volta sui mercati esteri, al fine di rafforzare la loro competitività e fare in modo che la loro proiezione esterna si consolidi progressivamente. La caduta del valore aggiunto industriale si è trasmessa alle dinamiche dell’occupazione e degli investimenti. Complessivamente, come già richiamato, nel periodo 2008-2013 il settore manifatturiero del Mezzogiorno ha ridotto di oltre un quarto il proprio prodotto (-27%), di poco meno gli addetti (-24,8%) e inoltre ha più che dimezzato gli investimenti (-53,4%). Si tratta di flessioni nettamente superiori a quelle del Centro-Nord, dove il valore aggiunto e gli addetti manifatturieri sono diminuiti di circa il 16% e gli investimenti del 24,6%. A livello nazionale, l’unico per il quale si dispone di dati, tra il 2007 e il 2013 lo stock di capitale netto del settore manifatturiero si è ridotto in termini nominali del 5%: considerata la più forte caduta degli investimenti fissi lordi nel Mezzogiorno, va da sé che anche la diminuzione del capitale netto sia stata nettamente più marcata nell’area. Non essendo rinnovato, lo stock di capitale diventa sempre più obsoleto e determina una progressiva perdita di competitività. Il processo di accumulazione dell’industria meridionale aveva peraltro già vissuto una tendenza alla riduzione anche nel periodo precedente la crisi (-5,9% tra il 2001 e il 2007) in presenza, invece, di un andamento positivo nel Centro-Nord (+8,3%). Un così massiccio fenomeno di disinvestimento ha ulteriormente aggravato la già scarsa competitività dell’area e ha comportato un forte ridimensionamento dell’estensione e delle dimensioni dell’apparato produttivo, favorendo nella sostanza un processo di downsizing e al tempo stesso di desertificazione dei territori meridionali. Il ridimensionamento della base industriale del Mezzogiorno è particolarmente evidente considerando che il peso dell’industria sul valore aggiunto del totale economia è sceso, nell’area, dal 13,7% del 2007 all’11,8% del 2013, valore di gran lunga inferiore al 20,7% del Centro-Nord e sempre più distante dall’obiettivo del 20% fissato dalla Commissione europea nella nuova strategia di politica industriale. Un dato che, per il Sud, è sintesi di valori che in alcune regioni, come la Sicilia e la Calabria, si attestano appena all’8,2% e al 7,6% e che, in Campania, in passato la regione più industrializzata del Sud, non arriva al 12%. La riduzione del peso del settore industriale nel Mezzogiorno è altrettanto palese se si considera la caduta del suo tasso di industrializzazione, che dai 43,6 addetti nell’industria in senso stretto per 1.000 abitanti del 2008 è sceso ai 37,4 del 2013 (nel Centro-Nord, nello stesso periodo di tempo si è passati da 106,2 a 93,9). La crisi degli ultimi anni ha accentuato le maggiori fragilità strutturali delle imprese manifatturiere meridionali, in particolare sul fronte delle tecnologie e della capacità innovativa che – insieme al grado di internazionalizzazione – costituiscono i principali fattori che determinano la capacità di competere con successo sui mercati. Bassa capacità innovativa e limitata internazionalizzazione sono strettamente correlate all’inefficienza dinamica del modello di specializzazione prevalente nel Mezzogiorno, sbilanciato su produzioni a basso valore aggiunto, maggiormente esposte alla concorrenza dei paesi emergenti, ma soprattutto alla maggiore frammentazione del suo sistema industriale. Sotto quest’ultimo aspetto, da uno specifico approfondimento condotto nel Rapporto di quest’anno sui dati del Censimento dell’Industria e dei Servizi, emerge come, nel 2011, le micro imprese (ovvero le unità locali con meno di 10 addetti) localizzate al Sud impieghino una quota di addetti di poco inferiore al 38% del totale degli occupati del settore manifatturiero, contro il 24% del Centro-Nord. Confrontando i dati più recenti con quelli del Censimento del 2001, si conferma inoltre, nel quadro di un calo generalizzato dell’occupazione manifatturiera (-19,2% nel Centro-Nord e -20,2% nel Mezzogiorno), il progredire di un processo di downsizing. La dimensione caratteristica delle unità locali (misurata con la media entropica), pari nel 2001 a 28 addetti (il 77% di quella del Nord), è scesa nel 2011 a 25 addetti (il 67% del Nord), a fronte invece di un sia pur limitato incremento della dimensione media dell’apparato manifatturiero del Nord. A livello settoriale, i decrementi occupazionali che si sono registrati tra il 2001 e il 2011 non sembrano aver modificato in maniera sostanziale il modello di specializzazione del settore manifatturiero meridionale, che anzi sembra aver accentuato il suo sbilanciamento, rispetto al resto del Paese, verso i settori produttivi meno avanzati. In particolare, sebbene alcuni segmenti rilevanti del made in Italy abbiano subito un forte ridimensionamento – hanno registrato una vera e propria emorragia di addetti sia il settore del “Tessile e abbigliamento” (-45% degli occupati), sia il comparto dei “Mobili” (-39%) –, la manifattura meridionale ha infatti notevolmente rafforzato la sua specializzazione nei prodotti “Alimentari”, nei “Prodotti non metalliferi” e nei “Mezzi di trasporto”. Quest’ultimo settore, in particolare, nel passato si è caratterizzato per le elevate economie di scala e un livello medio di innovazione, elementi tipici delle attività industriali cosiddette “mature”. Negli ultimi anni a livello internazionale il settore è stato interessato da forti spinte verso un sostanziale upgrading tecnologico, che richiederebbe però elevati investimenti, di cui finora si è avuta scarsa traccia in Italia (v. le controverse vicende degli impianti FIAT). Al momento è dunque difficile valutare se l’elevata specializzazione nei “Mezzi di trasporto” potrà rappresentare un elemento di forza per il Mezzogiorno, o se invece si trasformerà nell’ennesimo fattore di debolezza. Infine, si conferma il deciso sottodimensionamento del Sud nell’ambito della “Meccanica”, tradizionale punta del sistema industriale del Centro-Nord. I dati censuari, inoltre, nel porre in luce il persistente forte peso dei grandi impianti manifatturieri localizzati nel Mezzogiorno in alcuni dei settori più importanti per l’economia nazionale, – il cui insediamento può essere fatto risalire alla fase di industrializzazione degli anni ’60 e ’70 – mostrano altresì come la numerosità degli impianti di grande dimensione presenti nell’area si sia fortemente ridotta nell’ultimo decennio. Tra il 2001 e il 2011, il numero delle unità locali con oltre 249 addetti presenti al Sud è sceso da 203 a 134 (-34%). Il calo è stato ancora più netto nella classe dimensionale più elevata, quella degli impianti con oltre 1.000 addetti, che si sono pressoché dimezzati (dai 27 del 2001, ai 14 del 2011). E’ dunque evidente che la crisi economica, a causa della sua persistenza, continuità e ampiezza, sta producendo, soprattutto nel Sud, effetti strutturali di ridimensionamento della base industriale – sia in termini di numerosità degli impianti, sia di addetti in essi impiegati – che richiederebbero urgenti misure di policy.

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5. UNA LOGICA DI SISTEMA PER LA RIPRESA DELLO SVILUPPO
I dati e le analisi forniti nei paragrafi precedenti evidenziano come, dopo sei anni di crisi, il Mezzogiorno rischi di veder depauperati talvolta in modo irrevocabile i propri asset di capitale, materiale e immateriale, e le proprie risorse umane. L’imperativo, oggi, è tornare a crescere: l’Italia cresce ormai da troppo tempo meno degli altri Stati dell’UE e, nell’ambito del Paese, il Sud, a sua volta, cresce molto meno del Centro-Nord. Di fronte alla grave crisi di competitività che da oltre un decennio è una caratteristica della nostra economia, si impone l’esigenza di una strategia nazionale. Così come la SVIMEZ va ribadendo con forza dal febbraio del 2013, quando, insieme agli altri Istituti meridionalisti, pubblicammo il Documento Una politica di sviluppo del Sud per riprendere a crescere, nel quale ponemmo tra le condizioni di una ripresa del Sistema Italia durevole nel tempo, la necessità di riavviare nel Paese una dinamica di convergenza, affinché il Mezzogiorno realizzi nei prossimi anni tassi di crescita più elevati rispetto a quelli del Centro-Nord, che, a sua volta, deve rimettersi anch’esso su un robusto sentiero di crescita. Invece, nel corso degli ultimi anni, in Europa come in Italia, si è privilegiato un approccio di politica economica attento solo al risanamento dei conti pubblici e alla possibilità di una ripresa congiunturale della crescita, nell’ambito di una politica dell’austerità fine a se stessa. Si tratta di condizioni e sfide che possono trovare risposta nel campo dello sviluppo, presupposto di qualsiasi ipotesi di crescita. Finora, invece, c’è stato nel Paese un grande silenzio su questo tema, mentre l’attenzione è stata rivolta prevalentemente verso i pallidi segnali di una ripresa congiunturale. Ripresa congiunturale che, come le previsioni che abbiamo illustrato mostrano, inizierà a manifestarsi non prima del 2015. Riguarderà inoltre in tale anno solo il Centro-Nord, con il Mezzogiorno ancora in recessione. E, soprattutto, si profila di intensità tale da rendere non facile né scontato il recupero della caduta strutturale della nostra economia rispetto ai livelli pre-crisi. Il filo conduttore di una necessaria strategia nazionale, non può che essere una politica attiva di sviluppo, nell’ambito di un disegno di cui lo Stato divenga responsabile come “regista”, e non come pura entità di spesa o di sola regolamentazione dei mercati. Una politica che, in particolare nel Mezzogiorno, punti prioritariamente sull’industria, come elemento catalizzatore della crescita, consolidando e adeguando l’attuale sistema produttivo e riqualificandone il modello di specializzazione, e che, al tempo stesso, favorisca la penetrazione in settori in grado di creare nuove opportunità di lavoro. Tale politica deve essere parte di un progetto di crescita differenziato, ma integrato, per le due macro-aree del Paese; e richiede di essere alimentata da una necessariamente elevata massa critica in termini di risorse, e da una recuperata, strutturale continuità e coerenza degli interventi. Ciò che serve, dopo diversi decenni, è tornare a riproporre con forza una “logica di sistema”, sia dal punto di vista dei soggetti che dei territori, che richiede investimenti strategici anche a redditività differita e una progettazione a lungo termine. Per realizzare questa politica, è fondamentale ripristinare a scala nazionale il ruolo degli investimenti pubblici per la crescita. Ciò è tanto più necessario in attesa che l’Unione Europea divenga finalmente un significativo fattore della ripresa, con un mutamento di approccio al quale l’Italia deve autorevolmente concorrere in tema di coordinamento delle politiche fiscali e di destinazione delle risorse destinate allo sviluppo e alle grandi infrastrutture. Un primo passo in questa direzione sarebbe l’effettivo, rapido sblocco dei 300 miliardi promessi dal nuovo Presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, che siano davvero aggiuntivi rispetto all’attuale esiguo budget UE, a favore di grandi investimenti pubblici. Invece, finora, il Sistema Italia, e specificamente il Mezzogiorno, sta subendo uno svantaggio concorrenziale, conseguenza degli squilibri acuitisi con l’ingresso nell’UE nel 2004 dei paesi ex comunisti, che godono di regimi fiscali molto più vantaggiosi, di un costo del lavoro più contenuto e dell’ulteriore leva competitiva offerta dall’eventuale svalutazione della propria moneta. Alla distorta pressione competitiva alla quale è sottoposto il sistema produttivo italiano, e meridionale in particolare, si aggiunge anche l’attuale meccanismo di funzionamento dei Fondi strutturali, che per quasi il 50% sono appannaggio dei paesi non aderenti all’euro, i quali aggiungono questo sostanzioso sostegno al richiamato duplice vantaggio della loro fiscalità e della loro relativa autonomia valutaria. Pertanto va ribadita con forza la proposta di introdurre forme di fiscalità compensativa per gli investimenti al Sud. Sul piano interno, le politiche di coesione vanno ripensate nel senso di un maggiore sforzo strategico, in coerenza con una rinnovata azione pubblica che possa offrire una reale garanzia dei diritti di cittadinanza. Occorre dare un’impronta meridionalistica alle politiche generali nazionali, dal funzionamento della P.A. a servizi essenziali come la scuola, la sanità e la giustizia, fino ad arrivare a una nuova politica “attiva” del lavoro, considerando ex ante l’impatto differenziato degli interventi a seconda delle condizioni di partenza dei territori. Allo stesso modo, sono urgenti e indifferibili politiche di welfare, che abbiano effetti non solo redistributivi di carattere sociale ma anche di sostegno anticiclico dell’economia, volte a favorire l’inclusione sociale e l’ampliamento delle opportunità, anche introducendo uno strumento specifico e universale di contrasto alla povertà estrema, che già esiste in tutta Europa e manca solo in Italia e in Grecia. L’accento sulle politiche ordinarie ha infatti un duplice risvolto: da un lato, è essenziale per offrire una garanzia reale dei diritti, che possa far fronte all’emergenza sociale che si è diffusa in tutto il Paese, ma che nel Mezzogiorno è davvero giunta a un punto di non ritorno; dall’altro, per offrire quei servizi alle imprese che sono una precondizione dello sviluppo. Una rinnovata azione pubblica, per il Mezzogiorno e per il Paese, non può che partire infatti da una rinnovata politica di investimenti pubblici tesi al superamento dei divari e al raggiungimento dei migliori standard qualitativi. Investimenti necessari ad attivare quelli privati, anche rendendo più “attrattivo” il territorio meridionale e puntando sulle potenzialità che esso può esprimere in una prospettiva di medio-lungo periodo, che assicuri uno sviluppo durevole. La persistente debolezza dell’azione pubblica al Sud è testimoniata dall’andamento della spesa pubblica nazionale in conto capitale. Più volte, la SVIMEZ, nel corso degli anni, ha messo in evidenza il nesso tra politiche speciali e aggiuntive e politiche ordinarie, come pilastri di una strategia complessiva. Se la politica di coesione deve essere un tassello – fondamentale, ma certo non sufficiente – di questa strategia, volta al riequilibrio economico, sociale e territoriale, è soprattutto la strategia complessiva che è venuta meno, essendo le risorse ordinarie un vero e proprio “buco nero” dello sviluppo del Mezzogiorno. In questo contesto appaiono particolarmente preoccupanti i tagli effettuati agli investimenti in infrastrutture: i livelli di spesa per opere pubbliche hanno avuto, infatti, una sostanziale tenuta nel Centro-Nord mentre al Sud il crollo è evidente e tali investimenti valgono attualmente poco più di un quinto rispetto a quelli degli anni ‘70. Ciò che la SVIMEZ propone, dunque, è un complesso di politiche e di interventi legati da un’unica strategia di sistema, in cui gli interessi del Mezzogiorno, che resta la grande opportunità da cogliere per riavviare un percorso di sviluppo dell’economia italiana, siano coniugati in una prospettiva che guardi al riposizionamento competitivo dell’intero Sistema Italia.

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6. LE POLITICHE PER IL SUD NEL CONTESTO NAZIONALE ED EUROPEO
6.1. Un rinnovato contesto europeo per favorire lo sviluppo
La crisi che ancora attraversa l’UE – e in particolare la sua periferia – ha riportato alla luce i limiti di un progetto di integrazione che viene ormai comunemente definito “incompiuto”. L’allargamento del mercato unico e l’introduzione dell’euro in 18 dei 28 attuali paesi membri non hanno saputo in definitiva garantire né una crescita complessiva di medio termine paragonabile a quella degli altri blocchi economici continentali, né una distribuzione uniforme dei benefici – che pure sono stati rilevanti – del processo di integrazione economica e monetaria tra centro e periferia dell’Unione. Da un lato, la relativa solidità delle politiche di bilancio nazionali non ha creato l’attesa convergenza delle finanze pubbliche degli Stati membri. Dall’altro, le politiche di svalutazione reale che hanno progressivamente sostituito le svalutazioni esterne, hanno finito per inasprire i divari competitivi interni all’Unione. La crisi iniziata nel 2008 ha infine riportato alla luce tutte le criticità dei divari strutturali tra economie nazionali, a suo tempo sottovalutate, determinando l’attuale situazione di «asimmetrie sistematiche» tra centro e periferia. L’attuale contesto delle politiche europee è improntato al modello delle svalutazioni reali e delle riforme strutturali, in primo luogo nel mercato del lavoro, proposto come via maestra al riequilibrio delle economie reali degli Stati membri. Al di là dei piani di investimenti pubblici comunitari annunciati di recente, il coordinamento delle politiche fiscali si limita ancora al rispetto del dogma dalla stabilità e del rigore, mentre si continua a ignorare la necessità di meccanismi di aggiustamento fiscale finanziati da un budget federale comunitario, di ben diversa entità. È questo il segno più evidente della continuità di una visione che, fin dalla nascita del progetto europeista, ha conferito all’autorità fiscale un mero ruolo di regolatore, disconoscendogli il ruolo di regista nel raggiungere l’obiettivo della piena e buona occupazione. In questo quadro, l’Unione resta strutturalmente votata alla divergenza, si sottovalutano i costi sociali associati alle moderazioni salariali sottese alle politiche di svalutazione reale, e si affida la ripresa ai tempi lunghi del dispiegarsi degli effetti delle riforme strutturali. È in tale contesto europeo che l’economia italiana vive il paradosso di economia nazionale ancora «forte» che trova i suoi competitors naturali nelle economie maggiori, con al suo interno un Mezzogiorno che si trova invece a competere con le aree «marginali» dell’Unione. Il che colloca la nostra economia all’intersezione tra centro e periferia, con il rischio, ormai concreto, di scivolare «unitariamente» ai margini dell’Unione. Le politiche per il Sud devono essere necessariamente collocate nel contesto europeo, ma le politiche di coesione intervengono in una cornice di politiche «ordinarie» caratterizzate dalla mancanza di armonizzazione dei sistemi fiscali nazionali e dalla convivenza tra paesi dell’Eurozona ed economie che hanno conservato la propria sovranità monetaria. Entrambe le circostanze creano rilevanti asimmetrie interne alle regioni periferiche dell’Unione, a tutto vantaggio di quelle appartenenti a paesi con sistemi fiscali più leggeri e/o nella condizione di utilizzare lo strumento del cambio. Questo stato di cose si è venuto a creare a partire dal 2004 con l’allargamento ad Est dell’Unione, passaggio che ha significato l’introduzione di un’ulteriore forma di «asimmetrie strutturali», questa volta interne alla sua periferia, che acuisce il problema della non ottimalità dell’area. Da quel momento il Mezzogiorno ha sofferto in misura crescente la concorrenza del dumping fiscale e della mancanza degli obblighi valutari dei nuovi Stati membri. Tutto ciò incide sulla possibilità di riuscita delle politiche di coesione e, più in generale, delle politiche nazionali per il Sud. Del resto, la dinamica del PIL reale e della produzione industriale negli anni della crisi mostrano come la competizione impari interna alla periferia dell’Unione abbia già determinato andamenti differenziati favorevoli ai nuovi paesi nuovi entranti dell’Est non aderenti all’Euro come Polonia, Bulgaria, Lituania e Romania. A queste performances fanno da contraltare la depressione economica e il processo di desertificazione industriale nel Mezzogiorno. Un aspetto non secondario che spiega la migliore performance delle economie dell’Est è il ruolo svolto dalle politiche di coesione nel contenere gli effetti recessivi indotti dall’austerità. Per paesi come Polonia, Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Lituania, Ungheria, Polonia e Romania, le risorse europee rappresentano a tutti gli effetti risorse aggiuntive conferite ai bilanci nazionali. Ciascuno di questi paesi, ricevendo i Fondi strutturali perché nel suo complesso viene considerato in ritardo di sviluppo, ha potuto usare questo canale di finanziamento per attenuare la caduta degli investimenti pubblici indotta dalle politiche di austerità. Diverso è il caso italiano, dove è una parte del Paese, il Mezzogiorno, a soffrire del ritardo di sviluppo per cui, in base al principio di addizionalità, lo Stato è chiamato a garantire uno sforzo finanziario nazionale. Ma, come si vedrà più avanti, nella scorsa programmazione 2007-2013, il principio di addizionalità è stato sistematicamente disatteso, e il Mezzogiorno è stato sostanzialmente affidato alla “tutela” dei soli Fondi strutturali, mentre le risorse nazionali per la coesione sono state dirottate su altri capitoli di emergenza. Tutto ciò si è inserito nel generale trend decrescente degli investimenti pubblici, pesando negativamente sulla congiuntura. Non è difficile prevedere che gli effetti sfavorevoli per il Mezzogiorno di un eventuale mancato rispetto del principio di addizionalità nel periodo di programmazione 2014-2020 saranno ancor più gravi. Ciò in considerazione del fatto che la distribuzione delle risorse comunitarie è sbilanciata a favore dei 10 paesi non aderenti all’Euro (53,3% del totale contro il 49,5% del 2007-2013), e di un’economia dell’area in particolare, la Polonia (22% contro il 19,8% del 2007- 2013). In definitiva, l’Unione si trova di fronte alla necessità di invertire la rotta tanto sulle politiche ordinarie, abbandonando l’illusione che si possa tornare a crescere perseguendo la logica dell’austerità, quanto sulle politiche della coesione rispetto alle quali va aperto un confronto sui necessari meccanismi “compensativi” degli squilibri interni alla sua periferia. Una prospettiva di questo tipo, pur rimanendo ambiziosa nel quadro dell’equilibrio dei diversi interessi nazionali, dovrebbe essere costruita intorno a tre proposte. La prima riguarda la predisposizione di adeguati strumenti di fiscalità di compensazione da attuare in attesa di un’armonizzazione delle politiche fiscali che non è prevedibile arriverà a breve. Del resto, la competizione fiscale al ribasso è da ritenere sia addirittura auspicabile da Istituzioni Europee affezionate al dogma dell’austerità, nella logica che il contenimento del gettito fiscale porti con sé necessarie politiche di riduzione di spesa. In secondo luogo, va intrapresa la strada del rilancio degli investimenti pubblici e di quelli privati, depressi, rispettivamente, dalle politiche di consolidamento fiscale, e da condizioni del credito e aspettative di crescita della domanda ancora non favorevoli. Tra il 2009 e il 2013, gli investimenti pubblici sono caduti del 20% in termini reali nell’UE, mentre crescevano in maniera consistente negli Stati Uniti. In Italia, il rapporto tra investimenti lordi e PIL è sceso di 4 punti percentuali dal 2007 al 2013, raggiungendo il 17%, record negativo dal dopoguerra. Da questo punto vista, diventa cruciale che la annunciata nuova stagione di investimenti pubblici europei, con i 300 miliardi promessi dal nuovo Presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, partano al più presto, con una destinazione territoriale che miri a ridurre gli squilibri e compensare le diverse forme di “asimmetrie” regionali; pertanto, dovrà trattarsi di risorse davvero aggiuntive rispetto all’attuale esiguo budget UE, e non di un semplice rimescolamento delle poste di bilancio. In assenza di una politica di questa genere, infatti, il rispetto dei vincoli europei e dei rapporti di forza ancora condizionati dalla posizione rigorista dei paesi del Nord Europa, lascerebbero molti dubbi sulla possibilità di intraprendere un percorso di ripresa dell’economia nel quale la ripresa degli investimenti pubblici faccia efficacemente da traino alla ripresa di quelli privati, potendo contare sostanzialmente sull’unica leva di spesa dei Fondi strutturali. In terzo luogo, è auspicabile che tutti i margini di flessibilità sui rapporti di finanza pubblica concessi dai Trattati europei vengano utilizzati per consentire il rilancio degli investimenti. Infatti, le politiche nazionali sono attualmente orientate all’introduzione di riforme coerenti con il modello suggerito dalle Istituzioni Europee di recupero della competitività dal lato dell’offerta, mentre le misure di sostegno ai consumi interni non sembrano aver sortito gli effetti attesi: il nodo fondamentale da sciogliere resta l’arresto del crollo degli investimenti pubblici e privati particolarmente intenso al Sud. In questa direzione andrebbe la proposta di escludere dal computo del rapporto deficit/PIL il cofinanziamento nazionale per le spese di investimenti. In definitiva, se è vero che non si può prescindere dal contesto delle politiche comunitarie e dal rispetto dei vincoli esterni dati, vista la peculiarità del dualismo italiano è auspicabile che la flessibilità concessa dai Trattati Europei insieme alle occasioni offerte dal prossimo periodo di programmazione delle Politiche di Coesione siano sfruttate appieno e nel rispetto del presupposto che il Paese crescerà se la sua parte più debole si ricollocherà su un sentiero di sviluppo. In assenza di una visione di questo tipo, il Mezzogiorno sarà destinato a soffrire ancora a lungo del limitato raggio di azione delle politiche economiche nazionali imposto dall’austerità europea, trovandosi nell’impossibilità di competere ad armi pari con la straordinaria dinamicità delle aree emergenti dell’Est Europa. Il che non potrà che condizionare la crescita del sistema Paese, avvicinandolo ancor di più alla sua periferia.
6.2. La spesa e le politiche ordinarie al Sud: garantire i diritti e porre le basi per lo sviluppo
6.2.1. Il crollo della spesa in conto capitale, a danno del Sud

I dati relativi alla spesa pubblica nel nostro Paese mostrano che il contenimento del disavanzo è stato ottenuto attraverso una progressiva compromissione del conto capitale, di particolare intensità nel Mezzogiorno. L’importo della spesa pubblica complessiva, corrente e in conto capitale, per gli anni dal 2007 al 2013, varia, complessivamente, da 748 a 799 miliardi (+6,8%). Dal 2012 al 2013 l’importo in questione si riduce all’incirca di 2 miliardi (-0,2%). Sul lato delle entrate risulta, nei sei anni, un incremento del 4% (da 723 a 752 miliardi): nell’ultimo anno considerato, la riduzione è dello 0,1%. Persiste, dunque, una situazione di disavanzo, che è peraltro mostrata dall’incremento del debito, di poco inferiore al 5% per anno. Se, sulla base dei dati Banca d’Italia, prendiamo a riferimento soltanto la parte corrente dei bilanci delle Amministrazioni pubbliche, risulta per gli anni dal 2007 al 2013 un incremento della spesa del 10,4% (da 685 a 756 miliardi), a fronte di un incremento delle entrate correnti del 3,3% (da 719 a 743 miliardi). Dal 2012 al 2013 le spese correnti crescono del 0,4%, allorché le entrate correnti si riducono dello 0,5%. Tutto ciò è accaduto malgrado il forte contenimento delle spese per interessi delle Amministrazioni pubbliche prodotto dagli interventi della BCE e che ampiamente ha compensato l’incremento – assoluto e relativo – del debito. Questo incremento è pari, nei sei anni dal 2007 al 2013, complessivamente al 29,2%; rispetto al PIL, risulta un valore di 103,1% nel 2007 e di 132,6% nel 2013. Ciò nonostante, l’importo degli interessi è pari a 77 miliardi nel 2007 (11,2% della spesa corrente) e ad 82 miliardi nel 2013 (10,8% delle spese correnti). Al netto degli interessi, la spesa corrente cresce da 608 miliardi del 2007 a 674 miliardi di euro del 2013 (+10,9%). E’ la spesa in conto capitale a subire una straordinaria contrazione. Rispetto al totale consolidato delle spese delle Amministrazione pubbliche – pari, come detto, a 748 miliardi nel 2007 ed a 799 nel 2013 – le spese in conto capitale valgono l’8,4% nel primo anno e il 5,4% nel secondo. Tra i due anni, le spese correnti crescono del 10,4% e le spese in conto capitale si riducono del 31,7%. Questa contrazione si è particolarmente concentrata al Sud. I dati dei Conti Pubblici Territoriali forniti dal DPS ci dicono che la spesa complessiva in conto capitale per l’Italia in rapporto al PIL è passata dal 4,1% del 2001 al 3,1% del 2012. Un calo che si è realizzato quasi interamente a danno del Mezzogiorno che, infatti, passa nello stesso periodo dall’1,7% all’1,1%. Negli anni della crisi, si è registrato un crollo della spesa in conto capitale nell’intero Paese, ma con un’accentuazione relativamente più marcata nel Mezzogiorno, che, infatti, sempre sulla base dei dati dei C.P.T., perde il 33,5% a fronte del 30,2% del Centro-Nord. In particolare si registra una drammatica caduta della spesa in conto capitale aggiuntiva (comprensiva delle erogazioni dell’ex FAS e di quelle della programmazione comunitaria e relativo cofinanziamento nazionale). L’importo di essa, nel Mezzogiorno, per cassa e in euro a valore costante, passa dai 13,3 miliardi del 2007 (era 16,5 miliardi del 2001) ai 6,9 del 2012. Un calo largamente ascrivibile al minore apporto del cofinanziamento nazionale e alla drastica caduta delle spese a valere sul FSC (ex FAS). La quota di spesa in conto capitale del Mezzogiorno, in percentuale dell’Italia, nel quadro di peggioramento complessivo di cui abbiamo detto, resta nell’ultimo biennio intorno al 35% (dopo aver toccato appena il 33% nel 2010): una percentuale assai distante da quella soglia del 45% a suo tempo individuata come essenziale per garantire un impatto addizionale destinato a innescare una dinamica di convergenza, e che ormai è del tutto scomparsa da ogni documento di programmazione pubblica. Una quota, va ricordato, che scenderebbe di molto se si considerasse il settore pubblico allargato. In termini di valori pro capite, nel 2012, le spese in conto capitale nel Mezzogiorno sono pari a 847 euro per abitante; esse sono finanziate per 330 euro da fondi aggiuntivi specificamente destinati. Al netto di questi fondi, pertanto, la spesa ordinaria in conto capitale è pari a 517 euro nel Mezzogiorno, a fronte di 705 euro per abitante nel Centro-Nord. Tale sperequazione rivela, con ogni evidenza, l’ampio effetto di sostitutività dei fondi cosiddetti aggiuntivi. Una sostitutività, va detto, comunque insufficiente, oltre che del tutto illegittima: è ben noto, infatti, che ben prima delle norme europee sulle politiche di coesione, a sancire la natura addizionale e aggiuntiva, e non sostitutiva, delle risorse destinate alle aree meno sviluppate, vi sia l’art. 119, comma 5, della Costituzione. Vi è, dunque, anzitutto, per il Mezzogiorno e per il resto d’Italia, la necessità urgente di recuperare livelli degli investimenti del tutto essenziali D’altro canto, nel Rapporto è ampiamente mostrato che l’“importo” di capitale di cui si tratta riguarda per parte largamente prevalente prestazioni ascrivibili ai livelli essenziali dei servizi “che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. Tutto ciò induce a ritenere, come la SVIMEZ ha negli anni documentato, che il c.d. “federalismo fiscale” (non per caso del tutto inattuato nella sua codificazione della legge 44 del 2009) si sia risolto ampiamente in una vera e propria frode, a danno dei cittadini del Mezzogiorno. Tale considerazione risulta ancor più evidente per quanto concerne il livello territoriale dei Comuni. Nel 2001, all’inizio della storia del c.d. federalismo fiscale, le entrate correnti dei Comuni del Centro-Nord erano pari a 944 euro per abitante, mentre quelle dei Comuni del Mezzogiorno ammontavano ad 815 euro (- 13,7%): al 2013 i valori corrispondenti sono 1.018 euro per i primi e 756 euro per i secondi (- 25,7%). Questo tracollo è prodotto da scelte in materia di tributi comunali; dall’assenza di meccanismi plausibili di effettiva perequazione e dall’andamento dei trasferimenti erariali. Ricordiamo ancora una volta, al riguardo, che la Costituzione della Repubblica, vorrebbe che i trasferimenti siano soggetti a una “perequazione” a fronte della minore capacità fiscale dei territori (art. 119, comma 3, che si somma alle risorse aggiuntive o interventi dell’art. 119, comma 5): è perciò difficile capire quale ragione “federalistica” giustifichi un maggiore importo pro capite dei trasferimenti erariali nelle zone forti d’Italia. La conseguenza di questo quadro è che fatto pari a 100 il fabbisogno standard riferito al finanziamento dei servizi LEP – fabbisogno stimato con criteri analoghi a quelli impiegati per la sanità – i valori riscontrati per i Comuni meridionali sono non superiori a 50.
6.2.2. Una rinnovata azione pubblica per garantire servizi adeguati ai bisogni dei cittadini e delle imprese
L’analisi condotta nel Rapporto su domanda e offerta di servizi della PA evidenzia il generale divario dell’Italia rispetto all’UE a 27 paesi nell’erogazione di servizi di assistenza sanitaria e socio-sanitaria, istruzione, formazione e capitale umano, protezione ambientale e servizi pubblici locali, cui si sommano le inefficienze proprie del Mezzogiorno. Il risultato è che in Italia la qualità dei servizi sociali non è sempre adeguata alla domanda e, in particolare, il Mezzogiorno permane (per il doppio motivo del taglio differenziato dei fondi e per la specifica inefficienza propria) in una situazione peggiore rispetto al resto del Paese. Più in generale, nonostante lo sforzo sinora prodotto, la situazione rilevata dal Rapporto Doing Business 2014 della Banca Mondiale segnala un persistente ritardo competitivo dell’Italia rispetto al resto del Mondo. In particolare, l’Italia è segnalata al 23° posto su 28 tra i paesi UE. In questo quadro d'analisi obiettivamente sconfortante, ancora una volta la questione della riforma della Pubblica Amministrazione è tornata al centro dell’Agenda politica del Governo. L'approccio adottato mostra segni di discontinuità rispetto al passato; si è voluto evitare una nuova riforma monolitica e onnicomprensiva della PA privilegiando, al contrario, un approccio progressivo e puntiforme che mira a intervenire in settori specifici con obiettivi facilmente documentabili. Altro carattere originale della nuova riforma è l'esplicito intento di voler coinvolgere tutti i livelli di governo nel processo di riforma, con l'obiettivo ultimo di semplificare il generale rapporto tra amministrazione pubblica e cittadini e imprese. Non mancano naturalmente le criticità, e i tempi di attuazione risultano piuttosto vaghi. Il decretolegge 90/2014 è stato convertito in legge solo ad agosto e il disegno di legge delega per la riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche presentato in Consiglio dei Ministri il 10 luglio 2014 non ha ancora visto una effettiva attuazione. Dal nostro punto di vista, il tentativo di riforma sconta un difetto originario. Ancora una volta non si sono volute tenere nella giusta considerazione le specificità, e quindi le criticità, proprie di ogni territorio, in particolare del Mezzogiorno. I dati presentati nel Rapporto evidenziano una qualità dei servizi erogati eterogenea nelle diverse Regioni. Adottare un approccio unico getta seri dubbi sulla reale efficacia degli interventi proposti: sarebbe stato forse più opportuno attuare un effettivo coinvolgimento dei territori e dei diversi livelli di governo già nella fase di disegno della riforma e non solo nella fase di attuazione. Diversamente il rischio è che, ancora una volta, il coinvolgimento tanto pubblicizzato possa tradursi in una operazione poco incisiva. Gli strumenti a disposizione per muoversi in questa direzione ci sono, manca, probabilmente una reale volontà. L'immagine di una PA italiana "elefantiaca" non trova riscontro nei dati. Infatti, secondo quanto rilevato dall'OCSE, la presenza della PA, misurata come quota dei dipendenti pubblici sul totale delle forze lavoro, in Italia è largamente più modesta (13,7% nel 2011) di quella dei maggiori paesi europei (tra il 26% della Svezia e il 18,3% del Regno Unito), ad eccezione della Germania (10,6%). Nel corso dell'ultimo decennio, poi, contrariamente a quanto avvenuto nei principali paesi europei, tale quota è diminuita sensibilmente (era il 15,4% nel 2001). Una tendenza al ridimensionamento è del resto desumibile dai risultati del Censimento 2011, dai quali emerge, rispetto al Censimento 2001, una PA “dimagrita” in termini di personale negli enti locali e nelle aziende erogatrici di servizi del 6,1% nel Mezzogiorno e del 14% nel Centro-Nord. In aggiunta, diversamente da quanto spesso si crede, la presenza della PA, se rapportata alla popolazione, resta comunque significativamente più elevata nel Centro-Nord: 31 addetti ogni 1.000 abitanti, contro i 26 del Mezzogiorno (dieci anni prima erano rispettivamente 38 e 28). Nel valutare la qualità e l'efficienza dei servizi pubblici nelle due aree del Paese è opportuno tener presente, oltre ad una struttura e ad una dimensione della PA più modesta che nei paesi più avanzati dell’UE, un più contenuto livello della spesa. Nel Mezzogiorno, ad esempio, la spesa relativa agli interventi nell’ambito della protezione sociale registra negli ultimi undici anni una quota pro capite che non supera il 70% di quella del Centro-Nord, un livello che non consente a questo importante strumento della politica di welfare di supportare adeguatamente la fragile realtà socio-economica delle famiglie e dei lavoratori più deboli del Sud. Tra i servizi erogati dalla PA, una particolare sensibilità è accordata a quelli per la tutela e la salvaguardia della salute. L'efficienza dei servizi socio-assistenziali nel Mezzogiorno è valutata negativamente dagli utenti; infatti, poco meno di un quinto di essi si dichiara molto soddisfatto dei servizi offerti a fronte di quasi la metà nel Centro-Nord, un giudizio che nel Mezzogiorno è venuto peggiorando nel corso del decennio. La poca fiducia nei servizi ospedalieri nel Sud è posta in luce anche dal tasso di emigrazione ospedaliera del meridionali verso le strutture delle altre ripartizioni, riferito ai casi di ricovero per interventi chirurgici acuti, che mostra una chiara tendenza all’aumento. Il divario storico Nord-Sud tende ad affermarsi e consolidarsi anche in altri servizi che, oltre a rilevare per i diritti di cittadinanza, hanno anche una diretta attinenza con la vita delle imprese e l’attrattività di un territorio, quali la sicurezza e la giustizia, nonché i “nuovi” servizi che la Pubblica Amministrazione eroga sulla base delle innovazioni informatiche e tecnologiche intervenute nel corso dell’ultimo decennio. Il quadro della digitalizzazione del Paese mostra, sia per i tempi di attuazione che per le metodologie adottate, notevoli differenze tra regioni ed aree: a fine 2012 le regioni del Centro- Nord risultano decisamente in vantaggio rispetto al raggiungimento degli obiettivi europei, mentre le regioni del Sud si trovano in coda. Con riferimento allo Sportello Unico per le Attività Produttive (SUAP), un progetto fortemente ambizioso se riferito alla attuale potenzialità della nostra PA, esso ancora risente della scarsa integrazione funzionale con forti difformità nei processi di erogazione dei servizi, una debole integrazione verticale e una incompleta digitalizzazione delle attività; pertanto, non può fornire una risposta soddisfacente alle aspettative delle imprese, in generale per l’intero Paese ma in special modo per le regioni meridionali. D’altra parte, la minor presenza della PA nel Mezzogiorno non risulta compensata dal settore non profit, che – laddove è maggiormente presente – sempre più sta assumendo un ruolo sussidiario rispetto al sistema del welfare pubblico nell’erogazione di servizi sociali ai cittadini, contribuendo a soddisfare i diritti di cittadinanza costituzionalmente previsti. La presenza del terzo settore, infatti, è storicamente diffusa nelle aree del Centro-Nord, rispetto a quelle meridionali, e nel corso del decennio è aumentata sensibilmente (53,8% nel Centro-Nord contro il 22,1% nel Mezzogiorno), e ciò anche in virtù della “capacità finanziaria” che il settore del cosiddetto “privato sociale” trae dal sostegno decisivo delle risorse ad esso garantite da istituzioni private quali le fondazioni di matrice bancaria, che, come noto, in termini di capacità finanziaria sono quasi del tutto assenti e comunque marginali nel Sud del Paese. Basta analizzare il numero degli addetti per rendersi conto della solidità del fenomeno nel Centro-Nord rispetto al Mezzogiorno: circa 555 mila, contro circa 126 mila al Sud, appena il 18,5% del totale, largamente inferiore al peso della popolazione meridionale. I finanziamenti al Terzo Settore nel Sud sono poi oltre sei volte in meno rispetto a quelli dell’altra parte del Paese: se il raffronto lo si fa in termini di attribuzione pro capite delle risorse, se ne ricava che ciascuna istituzione meridionale impegnata nel settore riceve al massimo 97 mila euro, mentre una operante nel Centro-Nord può contare su ben 252 mila euro, due volte e mezzo in più. Ciò rappresenta un ulteriore elemento del divario tra le due aree del Paese, che si va ad aggiungere agli altri più strutturali, influenzando non poco la creazione di quella rete di capitale sociale che, laddove c’è ed è forte, contribuisce in modo significativo alla crescita economica e sociale. La forza del Terzo Settore al Nord gli consente di svolgere un importante ruolo di supplenza della Pubblica Amministrazione nell’erogazione di decisivi servizi alla persona. A differenza di quanto accade nelle regioni meridionali dove, spesso, questi servizi, quando non sono svolti dal pubblico, vengono di fatto a mancare totalmente, con grave danno per quanti ne potrebbero usufruire. Mentre, insomma, nel Centro-Nord il welfare privato-sociale già oggi è in grado di affiancare in misura significativa e innovativa il welfare pubblico, compensando la forte contrazione di addetti della PA verificatasi nell’ultimo decennio, nel Mezzogiorno la garanzia della parità dei diritti di cittadinanza non può che continuare ad essere assicurata soprattutto dal welfare pubblico.
6.3. L’importanza di una politica del lavoro, della formazione e del welfare per il Sud
6.3.1. Un nuovo investimento formativo a tutte le età e la garanzia dell’accesso al mercato del lavoro
Una questione di diritti di cittadinanza, seppure in senso lato, sta diventando quella del cittadino di fronte al livello di deterioramento del mercato del lavoro in tutto il territorio nazionale, ma con un’accentuazione tale nelle regioni del Mezzogiorno che, combinato con il rischio di depauperamento del capitale umano, potrebbe determinare un nuovo “equilibrio” strutturale di inoccupazione e dequalificazione del lavoro. Giovani e donne – spesso qualificati – che non accedono a un’occupazione, adulti che hanno perso il lavoro e hanno difficoltà a ricollocarsi, e individui meno qualificati ai limiti dell’emarginazione, sono le emergenze che la crisi ci restituisce e che corrispondono ad altrettanti diritti sociali frustati: diritto a un accesso trasparente al mercato del lavoro, diritto a una formazione pubblica di qualità. I “senza lavoro” sono una fascia sempre più ampia fascia della società italiana – circa 7 milioni nel 2014 (3,5 milioni di disoccupati e 3,4 milioni di inattivi ma disponibili a lavorare), di cui circa 3,7 nel Mezzogiorno – a cui bisogna guardare, con interventi che vadano ben oltre la modifica delle regole del mercato del lavoro, cercando di favorire il percorso di “ritorno” ad essere parte attiva nel mercato del lavoro, nonché ad accedere ad una formazione di qualità e a servizi adeguati e mirati alle loro esigenze. La priorità per il lavoro, e dunque per il Mezzogiorno, come emerge in generale nel Rapporto, resta una politica economica complessiva che favorisca l’aumento della domanda e il miglioramento del modello di specializzazione del nostro sistema produttivo, con un impegno specifico per le regioni del Mezzogiorno. Tuttavia, a fronte di questo enorme “bacino” di persone in ricerca attuale e potenziale di lavoro, e di un mercato del lavoro tutt’altro che statico, ma fluido e con irrisolti problemi di disallineamento tra domanda e offerta, una rinnovata strategia di politiche “attive” del lavoro e della formazione si rende necessaria. Per i giovani, che restano la prima e vera emergenza, è evidente che occorre mettere in campo un coerente insieme di politiche di istruzione e formazione, occupazione e sicurezza sociale, industriali e di sviluppo regionale per mitigare i costi sociali della problematica dell’inoccupazione giovanile. Non si può affrontare il problema soltanto con la flessibilità delle regole, che si è rivelata un rimedio non valido a ridurre strutturalmente la disoccupazione. In ogni caso, sarà essenziale accompagnare questo genere di interventi con l’offerta di un’istruzione di qualità e un sistema evoluto di formazione professionale, sottoposto a una continua valutazione di efficacia. In questo quadro, occorre rendere operative, sulla scorta delle migliori prassi europee, le misure per una efficace ed efficiente alternanza scuola-lavoro. Se, infatti, la principale causa della difficile situazione giovanile sui mercati del lavoro è costituita dalla mancanza di esperienza, il rimedio potrebbe essere quello di permettere loro di acquisire il più rapidamente possibile quelle esperienze lavorative in grado di chiudere il gap che li separa dagli adulti, specie ai più qualificati che possono apportare nel sistema quelle conoscenze di cui esso stesso ha bisogno per produrre innovazione. Cruciale, poi, resta il tema di fornire servizi pubblici e privati di intermediazione tra domanda e offerta di lavoro più adeguati, per configurare la garanzia di un vero e proprio diritto all’accesso al mercato del lavoro, in particolare per i giovani e le donne che ne sono fuori. L’impressione che i servizi per l'impiego (SPI) non abbiano in Italia l'attenzione che ricevono in altri paesi è confermata da una disamina dei dati OCSE: la spesa pubblica italiana (in percentuale del PIL) per le politiche del lavoro è sostanzialmente in linea con il resto dei paesi OCSE nel suo insieme (si nota comunque una sensibile preferenza per le spese passive relativamente a quelle attive); tuttavia, in materia di SPI, essa è sotto alla media OCSE, e molto al di sotto del valore di queste spese per alcuni importanti paesi (Francia, Germania, Regno Unito). Di conseguenza la spesa media per il collocamento di una persona in Italia è pari a 8.673 euro, cifra molto distante dai 21.593 della Francia e 15.833 della Germania. Parimenti, gli addetti dei centri per l’impiego non arrivano a 9.000 in Italia, contro gli 11.000 della Spagna, i 115.000 della Germania e i 49.000 della Francia. Il compito delle politiche del lavoro è quello di creare le migliori condizioni, non solo normative, ma anche funzionali, per favorire l'incontro domanda/offerta, così da cogliere tutte le opportunità per trasformare la (auspicata) ripresa economica in ripresa occupazionale. I dati allarmanti citati sopra, infatti, non devono far pensare ad un mercato del lavoro statico: anche in presenza di uno stock simile di anno in anno, o addirittura in sensibile declino, il mercato del lavoro si caratterizza per flussi in entrata e in uscita molto consistenti: in base ai dati degli ultimi anni, ogni trimestre mediamente avvengono 2,5 milioni di attivazioni e 2,5 milioni di cessazioni di rapporti di lavoro con saldi positivi o negativi a volte di poche migliaia (dati del Ministero del Lavoro). D’altro canto, come richiamato, si registrano problemi considerevoli di disallineamento tra domanda e offerta e il sistema produttivo denuncia una difficoltà di reperimento di figure adeguate alle proprie esigenze. L’indagine Excelsior, condotta dall’Unioncamere, evidenzia che, nonostante la crisi e l’eccesso di offerta, le difficoltà di reperimento hanno riguardano in complesso circa il 17% delle assunzioni previste per l’Italia nel 2013 (le difficoltà di reperimento sono più accentuate nell’industria dove arrivano al 18,5% del totale mentre nei servizi la quota scende al 17%; a livello territoriale, nel Nord sono più elevate, il 19% circa, mentre si riducono al 13,6% al Sud e nelle Isole). A rendere più problematica l’applicazione delle politiche attive, in verità, contribuisce la struttura del nostro sistema produttivo, caratterizzato generalmente da un livello dimensionale molto basso e, specialmente al Sud, da condizioni normative e retributive talvolta degradate che allontanano le piccole e piccolissime imprese dai luoghi “istituzionali” di incontro tra domanda e offerta e di formazione delle competenze e delle capacità. Luoghi e istituzioni che, a loro volta, presentano problemi di eccessiva burocratizzazione e di mancata corrispondenza alle esigenze del sistema produttivo. Diverse, dunque, sono le priorità per far fronte alla pluralità di problematiche evidenziate. Molto sommariamente, per quanto riguarda l’emergenza dell’occupazione giovanile, occorre intervenire sui seguenti fronti: a) migliorare e agevolare la transizione scuola-lavoro, favorendo una visione più integrata della promozione delle competenze dei giovani ampliando le opportunità di acquisire esperienze di lavoro durante la fase formativa; b) rilanciare l’istruzione tecnico-professionale, anche superiore, per ridurre l’attuale carenza, nell’offerta di lavoro giovanile, di profili tecnici e professionali intermedi e superiori; c) rilanciare i contratti di tirocinio formativo e di apprendistato, nell’ottica di una migliore integrazione fra sistema educativo/formativo e mercato del lavoro, puntando ad una vera alternanza tra formazione e lavoro (in Italia i giovani o studiano con la possibilità di seguire dei tirocini che si dimostrano essere quasi del tutto inefficaci, o intraprendono un percorso di apprendistato che non offre quasi nessuna opportunità di apprendimento in aula ed è il più delle volte segnato dall’obiettivo di ridurre i costi del lavoro piuttosto che di formare il capitale umano; d) completare e rendere effettivo il processo di riforma dei servizi pubblici per l'impiego (SPI) su tutto il territorio nazionale, e il tentativo di una loro conversione in un sistema orientato in linea di principio alla fornitura di politiche attive del lavoro (informazione, orientamento e riqualificazione delle persone in cerca di lavoro), favorendo la loro integrazione, venuta meno la condizione di monopolio, con i servizi privati di intermediazione. Questi obiettivi vanno perseguiti con uno sforzo attuativo e di coordinamento tra i diversi livelli di governo che hanno la competenza sul settore, rendendo il più possibile omogenei gli strumenti e più efficaci i momenti di coinvolgimento degli attori economici, provando a superare il consueto paradosso, che si verifica nel Mezzogiorno, di una maggiore debolezza delle politiche e delle istituzioni preposte ad implementarle in presenza di un maggiore bisogno sociale. A questa funzione potrebbe corrispondere la costituenda “Agenzia nazionale per l’occupazione”, prevista dalla “Delega Lavoro”: se, però, non si limiterà al monitoraggio e alla verifica della tutela dei livelli essenziali delle prestazioni, ma se davvero sarà lo strumento di diffusione delle migliori pratiche; e se saprà promuovere su tutto il territorio nazionale l’operatività degli strumenti normativi, la circolazione delle informazioni su competenze e fabbisogni, e il coinvolgimento delle parti sociali nell’implementazione delle politiche “attive” del lavoro. La mancanza o l’inefficacia delle politiche del lavoro, come spesso accade, ha avuto un riflesso specifico sulla componente femminile, per la carenza di politiche di conciliazione: l’unico strumento di conciliazione, infatti, è diventato il part-time che, non a caso, per il peggioramento delle condizioni occupazionali complessive, per l’aumento dei casi in cui è sulla donna che grava il mantenimento del nucleo familiare, è diventato sempre più involontario. Nel quadro di estrema penalizzazione delle donne, è ben nota la carenza, specie al Sud, dei servizi di asilo per l’infanzia e di cura degli anziani. Le attuali misure presenti in Italia a sostegno del lavoro femminile consistono in una corrispondenza di reddito in caso di assenza per maternità. C’è, tuttavia, poca attenzione al rientro graduale in azienda e soprattutto alla flessibilità oraria e alla possibilità del telelavoro per una serie di professioni che lo consentono. In questo senso, i principi e i criteri direttivi della “Delega lavoro” sono molto condivisibili, l’auspicio è che vengano attuati senza riserve e ritardi. Bisogna infine richiamare un ulteriore aspetto cruciale che nel dibattito pubblico viene spesso trascurato: la formazione degli adulti. Sebbene l’inoccupazione giovanile costituisca la priorità su cui concentrare maggiore attenzione, connotati altrettanto drammatici, pur in quadro complessivo relativamente meno preoccupante, assume il problema della disoccupazione adulta. Pur nel complessivo processo di riequilibrio, a vantaggio della popolazione adulta, della composizione occupazionale, non si deve infatti dimenticare il crescente numero di adulti che hanno perso il lavoro e i tempi sempre più lunghi di reinserimento nel mondo del lavoro: questioni che hanno una forte accentuazione territoriale. Questi andamenti aggravano una delle principali debolezze del capitale umano in Italia, e cioè skill orientati verso le professioni a bassa specializzazione. Diverse indagini internazionali, segnalano come il complesso di conoscenze e competenze acquisito dai lavoratori adulti sul posto di lavoro sia spesso inadeguato rispetto alle nuove esigenze tecnologiche e organizzative delle imprese italiane. È stato rilevato che i lavoratori italiani, di età superiore ai trent’anni, non solo presentano modesti livelli di istruzione, ma tendono ad essere portatori di un capitale di conoscenze e esperienze che è fortemente legato al posto di lavoro (tipo di lavoro svolto, luogo dove l’impresa opera, ecc.). Se questo ha determinato un vantaggio competitivo sui giovani, non ha certo contribuito al rafforzamento della performance complessiva della nostra economia, in termini di capacità di innovazione e competitività. Per questo motivo, diventano necessarie politiche che da un lato favoriscano la ripresa della partecipazione al lavoro degli adulti e, dall’altro, il rafforzamento della loro la capacità lavorativa, che potrebbero accrescersi in misura rilevante attraverso strumenti di formazione continua in grado di favorire un significativo innalzamento delle competenze.
6.3.2. Sostenere i redditi dal rischio povertà ed esclusione sociale
Altro discorso meriterebbe la questione delle politiche “passive” del lavoro, alla luce dell’individuazione di nuove forme di sostegno al reddito, per garantire un maggiore livello di universalità e, dunque, un riequilibrio anche territoriale delle forme di tutela del reddito, a beneficio del Mezzogiorno che ne è sostanzialmente privo. Quasi tutti i paesi europei hanno adottato misure universali di protezione del reddito delle famiglie dal rischio di povertà ed esclusione sociale. In Italia il sistema di protezione sociale prevede solo interventi in favore di alcune categorie, manca, come del resto nella sola Grecia, uno strumento nazionale e universale di contrasto alla povertà. Il sistema di protezione sociale italiano è ancorato ad una logica “assicurativa”, gli ammortizzatori sociali, che non consente una protezione dal rischio di povertà ed esclusione sociale estesa alla generalità dei cittadini. Restano infatti escluse dal sistema di protezione i lavoratori parasubordinati, i disoccupati di lunga durata che hanno esaurito gli ammortizzatori sociali, i lavoratori "poveri" per i quali il reddito da lavoro non è sufficiente a garantire un minimo tenore di vita alla propria famiglia. A costoro si aggiungono tutti gli individui in cerca di prima occupazione, che non hanno mai avuto accesso al mercato del lavoro e i lavoratori autonomi. Le misure di contrasto alla povertà presenti in Italia, come l'integrazione al minimo pensionistico, la pensione sociale, la social card, sono limitate ai cittadini ultra 65-enni, mentre è del tutto trascurato il rischio di povertà per le fasce di popolazione attiva senza lavoro o in condizioni lavorative precarie. Un rischio questo che, negli anni della crisi, è sensibilmente aumentato. Sulla necessità di adottare strumenti di sostegno al reddito familiare è difficile trovare opinioni contrarie; forti perplessità sorgono tuttavia nella capacità del sistema nazionale di reperire le non trascurabili risorse finanziarie necessarie per l’avvio di un sistema universale di protezione. Del resto, il forte impatto negativo della recessione sull’economia e le politiche di bilancio necessarie per far fronte alla gestione del rilevante debito pubblico nazionale non rendono certamente agevole l’iniziativa. Nel 2013 il gruppo di lavoro costituito presso il Ministero del Lavoro ha proposto il Sostegno di Inclusione Attiva (SIA) come strumento universale di contrasto alla povertà. Il SIA dovrebbe integrare il reddito delle famiglie inferiore a quello della soglia di povertà con le risorse necessarie per raggiungere tale soglia. La SVIMEZ ha effettuato una valutazione del costo del SIA utilizzando il modello di microsimulazione fiscale dell’IRPET, MicroReg, costruito sull’indagine campionaria sul reddito e le condizioni di vita delle famiglie EU-SILC. I benefici previsti in questo caso sono determinati dalla differenza tra le risorse economiche a disposizione delle famiglie e la soglia di povertà. Le risorse economiche sono costituite dal reddito disponibile delle famiglie, al netto delle indennità di accompagnamento e, solo per le famiglie che risiedono in una casa di proprietà, maggiorato del fitto figurativo che dovrebbero pagare se fossero in affitto. Il SIA, secondo tale simulazione, interesserebbe 1,3 milioni di famiglie in Italia, il 5,6% del totale, con un costo complessivo, nell’ipotesi di coprire l'intera soglia di povertà, di circa 5,6 miliardi di euro all’anno. Le famiglie interessate risiedono in maggioranza nel Centro-Nord (52,4%) e assorbono oltre la metà della spesa totale stimata. Nel Mezzogiorno si avrebbe una maggiore frequenza di utilizzo, con l’8,3% di famiglie beneficiarie. Nelle regioni meridionali, le famiglie che beneficerebbero di più dell’intervento sono quelle con capofamiglia disoccupato: il 37% di queste otterrebbe un trasferimento medio di circa 5.400 euro annui e circa il 20% degli interventi totali ricadrebbe su di loro. Il SIA si farebbe pertanto carico di quel disagio sociale dovuto alla mancanza di lavoro, che in questi anni di crisi si è rafforzato. Ma anche le famiglie in cui il lavoro c’è sarebbero agevolate dall’intervento nell’integrazione del loro reddito fino alla soglia di povertà. Si tratta di quei nuclei familiari in cui la condizione di disagio economico è data da bassi redditi da lavoro e/o dalla presenza di carichi familiari, che abbiamo visto essere molto frequenti nel Sud.
6.4. Una politica sistemica dell’assetto infrastrutturale per cogliere le potenzialità del Sud nel nuovo contesto geopolitico
L’ambito in cui maggiormente si può verificare la dimensione del “crollo” degli investimenti pubblici nel nostro Paese e il disimpegno verso una politica di sviluppo che puntasse al superamento degli squilibri in un’ottica di sistema, è senz’altro quello delle infrastrutture. Negli ultimi 40 anni gli investimenti in opere pubbliche in Italia si sono dimezzati: in particolare, nel 2013 si è realizzato il più basso livello di investimenti nel nostro Paese mai avutosi dal 1970. Ma, in un contesto di generale compressione della spesa pubblica in conto capitale, mentre nel Centro-Nord la dinamica di crescita della spesa si è interrotta solo nella seconda metà degli anni Duemila, in conseguenza della crisi finanziaria ed economica che ha contribuito in modo significativo alla caduta di investimenti in opere pubbliche, nel Mezzogiorno risultano particolarmente preoccupanti i tagli effettuati agli investimenti in infrastrutture, che oggi al Sud valgono poco più di un quinto rispetto agli anni ’70. Per le politiche infrastrutturali, come per le politiche di coesione e sviluppo nel loro complesso, il 2013 avrebbe dovuto rappresentare un anno di consuntivo degli impegni programmatici e di accelerazione della spesa. Invece, ad appena 15 mesi dal 31 dicembre 2015, data entro la quale dovranno essere stati integralmente spesi i Fondi strutturali e della politica nazionale di coesione relativi al periodo 2007-2013, si continuano ad accumulare notevoli ritardi attuativi, dovuti in gran parte a irrisolti problemi di governance, soprattutto per quel che attiene agli interventi infrastrutturali previsti nelle regioni meridionali. E questo accade nonostante le riprogrammazioni di fondi fatte per evitare di perdere risorse significative di provenienza comunitaria e per impiegare la quota di cofinanziamento nazionale del Fondo Sviluppo Coesione. Il livello comunitario incide, e in misura non irrilevante, sulla politica infrastrutturale: a tal proposito è da rilevare che i nuovi progetti TEN disegnano una rete integrata europea nella quale larga parte del Mezzogiorno sembra destinata a giocare un ruolo del tutto secondario, nella migliore delle ipotesi solo da comprimario. Ciò perché i TEN assecondano ma non modificano la minore accessibilità territoriale delle regioni meridionali, che incide negativamente sulla complessiva competitività logistica del nostro Paese. Non meraviglia, pertanto, che l’armatura infrastrutturale meridionale si presenti ancora oggi come un “non sistema” periferico rispetto al centro economico dell’Europa, peraltro scarsamente accessibile al suo interno. Se si esamina lo stato di attuazione della Legge Obiettivo a fine ottobre 2013, si nota come gli investimenti nel Centro-Nord siano aumentati rispetto a un anno prima di quasi 7 miliardi, da oltre 225 miliardi a più di 232, con un incremento del 3%. Mentre nel Sud sono calati quasi della stessa entità, da 147 a 140 miliardi circa (-5%). Tale tendenza mostra come le relazioni infrastrutturali alla base delle scelte di investimento comunque poste in essere negli ultimi anni escano definitivamente da una logica che, comunque, faceva riferimento alla unificazione del Paese e alla tendenziale parificazione almeno delle opportunità di sviluppo a livello territoriale, per essere sostituite da un approccio fortemente orientato al mercato, alle aree già sviluppate (caratterizzate da non pochi problemi di congestione e obsolescenza), non a quelle con ancora amplissimi margini di sviluppo del Mezzogiorno, come dimostrano la densità e l’entità degli investimenti (ferroviari, autostradali, portali e aeroportuali) in corso e previsti nel Nord del Paese. Appare quanto mai necessario un nuovo orientamento nella pianificazione delle infrastrutture e dei trasporti, che aggiorni le esigenze della mobilità delle persone e delle merci e che sia strutturalmente operativo, superando così la cronica genericità dei piani varati ma mai completamente attuati. Ma, soprattutto, che riporti il Mezzogiorno al centro della strategia nazionale. Questa esigenza è posta con forza anche dalla Commissione Europea in vista dell’approvazione dei piani di intervento per il periodo 2014-2020. Sarebbe auspicabile che la risposta italiana sia adeguata alla gravità del problema e superi, per una volta, l’approccio formalistico a tale adempimento. Nel Mezzogiorno, dunque, nel corso degli anni, l’attività infrastrutturale si è limitata a interventi di dimensione modesta, che per loro natura non sono in grado né di infittire la rete infrastrutturale, né di consolidare i nodi logistici. La scarsa dimensione finanziaria della quota attribuita al Sud è soprattutto il frutto di una programmazione che, col passare del tempo, non è stata integrata e adeguata, oltre che di una pianificazione delle risorse che vede nelle aree meridionali una netta prevalenza di quelle pubbliche: infatti, su poco meno di 26 miliardi e mezzo di finanziamenti privati, circa l’87% è destinato a opere CIPE nel Centro-Nord, mentre nel Mezzogiorno è appena il 12,4%. I rilevanti fabbisogni di investimento infrastrutturale non possono però certamente essere soddisfatti interamente dalla finanza pubblica, tanto più in situazioni di ristrettezze di bilancio e di crisi economiche difficili e complesse come l’attuale. Orientarsi, perciò, al coinvolgimento dei privati, con i vari strumenti disponibili, come il Partenariato Pubblico Privato, il Project Financing e altre forme più o meno strutturate di compartecipazione, è determinante. La SVIMEZ valuta positivamente le misure assunte recentemente dal Governo, a partire dal decreto legge “Sblocca Italia” del 2014, in quanto sono orientate alla più rapida attivazione di strumenti che possono favorire l’apertura dei cantieri o l’avanzamento di grandi opere pubbliche. Lo “Sblocca Italia” prevede, infatti, di riallocare 840 milioni di revoche e di destinare oltre 3 miliardi del Fondo Sviluppo Coesione 2014-2020, per un totale di poco meno di 4 miliardi di euro, tutti immediatamente impegnabili, anche se la disponibilità effettiva nel breve periodo è di soli 300 milioni fino al 2015. Tali risorse potranno essere destinate a tre gruppi di opere del Programma Infrastrutturale Strategico, con diversi vincoli temporali di appaltabilità e di cantierabilità entro il prossimo anno: si tratta di 28 interventi specifici, di cui 18 nel Centro-Nord e 10 nel Mezzogiorno e di 3 piani di piccoli interventi. L’assegnazione delle risorse dovrebbe avvenire entro la fine del 2014, per cui solo allora sarà possibile capire la loro destinazione territoriale, ma già dalla numerosità degli interventi è presumibile che la maggior parte dei finanziamenti non sia destinata al Sud. In questo contesto, è comprensibile il commissariamento di due grandi infrastrutture ferroviarie del Mezzogiorno, la Napoli-Bari e la Messina-Catania-Palermo, che potrebbe accelerare l’impiego complessivo dei 3,8 miliardi di euro già disponibili. Infine, pur se appare coerente con la difficoltà di mantenere in equilibrio il traballante bilancio pubblico, la scelta di ridurre il cofinanziamento nazionale dei programmi comunitari, non solo quelli in essere e in ritardo di attuazione, ma anche dei nuovi, come ipotizzato per il PON Infrastrutture e Reti 2014-2020, è, come vedremo in seguito, piuttosto discutibile. Si tratta, infatti, di una sostanziale rinuncia anticipata a sviluppare una programmazione su nuove basi e su più rigorosi criteri di efficienza. Nel Rapporto di quest’anno vengono presentati i risultati di un esercizio, curato dall’UVER-DPS teso a valutare i tempi e l’andamento della spesa nella realizzazione delle opere pubbliche. Dall’analisi risulta che in media non vi sono differenze sostanziali nei tempi di attuazione delle opere finanziate con la politica di coesione guardando alle macro aree del Paese: la media nazionale è pari a quattro anni e mezzo ed esiste una differenza di pochi mesi tra le aree del Centro-Nord e del Sud. La fase di progettazione risulta la parte preponderante dell’attuazione di un’opera ed è omogenea in termini di durata per tutto il Paese. La fase di affidamento dei lavori è generalmente pari a 6 mesi (0,5 anni); solo nel Sud i tempi si allungano seppur di poco (poco più di 7 mesi). Maggiori differenze tra le aree si notano nella fase dei lavori, la più influenzata dalla composizione settoriale delle opere a livello territoriale. La minore durata della fase nel Sud deriva infatti dalla dimensione media più contenuta delle opere in termini di costo (2,5 milioni di euro) rispetto al Centro-Nord (3,5 milioni di euro circa). Si pone in evidenza che questi sono i tempi di attuazione in media degli interventi finanziati nell’ambito di una specifica politica, in questo caso quella di coesione; tempi medi che risentono in modo sensibile del mix di interventi ammissibili dalla stessa e quindi finanziati, ed in particolare modo della loro dimensione economica, che evidentemente è concentrata su valori bassi. Va inoltre sottolineato che dal semplice confronto tra valori medi non è possibile trarre conclusioni circa la diversa capacità dei territori di realizzare le opere pubbliche in tempi adeguati, laddove i comportamenti osservati dipendono esclusivamente dal mix di interventi operato da ciascun territorio. Con riferimento alle classi di costo e quindi alla dimensione presunta dell’opera si può notare invece come gli interventi localizzati nel Nord si caratterizzino per durate mediamente più brevi rispetto al Centro e al Sud, un fenomeno rilevato in quasi tutte le macrofasi (progettazione, affidamento e esecuzione dei lavori). Sebbene tali differenze siano generalmente comprese nell’ordine di pochi mesi, spiccano i più lunghi tempi di attuazione delle opere di importo superiore ai 100 milioni di euro osservabili nel Sud d’Italia: in questo caso la differenza con il Centro-Nord sale a circa un anno e mezzo: rispettivamente, 15,3 anni e 13,7 anni. Nel complesso, a parità di mix di interventi tra Centro-Nord e Sud Italia, quest’ultimo fa registrare una durata complessiva mediamente più lunga che nel resto d’Italia, indice di una minore efficienza nella progettazione e realizzazione delle opere pubbliche.
6.5. Il Mezzogiorno e le politiche di coesione a un passaggio cruciale
Mai come negli ultimi anni, le politiche di coesione sono diventate – per il venir meno delle politiche ordinarie e la forte compromissione delle aggiuntive nazionali – l’unico strumento di politica di sviluppo per il Mezzogiorno. E ora, l’insieme – o meglio, ciò che dovrebbe essere l’insieme – delle politiche di coesione, europee e nazionali, si trovano a un passaggio molto stretto, ma cruciale. Tra la fine del 2013, e in particolare nei primi mesi del 2014,si è giunti nella fase, caratteristica dei cicli di programmazione delle politiche di coesione comunitaria, in cui la conclusione del periodo in corso (2007-2013) si sovrappone con l'avvio effettivo del ciclo successivo, segnatamente il periodo 2014-2020. Il biennio 2014-2015, a fronte della crisi economica e sociale del Sud emersa in queste pagine, e del quadro previsionale assai poco confortante, avrebbe potuto rappresentare un’occasione preziosa. Potenzialmente, nel periodo si sarebbero potute attivare diverse leve per gli interventi di riequilibrio territoriale: la “coda”, assai sostanziosa, delle risorse europee contenute nei Programmi operativi; l’avvio del Piano di Azione Coesione (PAC) finanziato con le risorse “liberate” dalla riduzione del cofinanziamento nazionale; la “coda”, anche questa rilevante, del già falcidiato Fondo per lo sviluppo e la coesione (FSC); e l’avvio, che si auspicava più rapido rispetto al vecchio ciclo di programmazione delle risorse per il 2014-2020. Tuttavia, nella migliore delle ipotesi, questa condizione particolare si potrebbe realizzare solo per il 2015, perché nonostante gli sforzi di accelerazione della spesa a finalità strutturale, il quadro ad oggi è assai poco soddisfacente.
6.5.1. La chiusura del ciclo 2007-2013: la spinta all’accelerazione si è esaurita?
La riduzione del cofinanziamento nazionale ai Programmi operativi (e dunque della loro dotazione finanziaria complessiva), insieme a nuovi meccanismi di sorveglianza sulle amministrazioni più deficitarie, hanno comportato negli ultimi due anni una accelerazione del ritmo di spesa delle risorse comunitarie. In larga misura, però, si è trattato di un effetto statistico. Svanito il quale, l’avanzamento della spesa è proceduto nuovamente a rilento. La situazione più critica riguarda i Programmi dell'Obiettivo Convergenza, dal momento che la spesa certificata nel complesso ammonta al 51% del contributo assegnato (una percentuale che non trova riscontri in Europa se non in Malta, Bulgaria e Romania). Nel complesso, nel 2014-2015, nella macroarea Convergenza dovranno essere ancora spesi circa 16 miliardi di euro. Questo dato, alla luce della performance storica di alcune Regioni (in particolare Campania e Sicilia), evidenzia il rischio di perdita di risorse nella fase conclusiva del ciclo di programmazione. Per evitare di correre questo rischio, alcune Regioni stanno chiedendo alle proprie amministrazioni locali una sorta di “lista della spesa” per provare a impegnare la maggior parte della dotazione finanziaria dei programmi operativi. Tutto ciò contraddice le finalità dei processi di riprogrammazione e accelerazione che dovevano puntare alla “concentrazione delle attività su tematiche di interesse strategico”. Invece, stiamo assistendo in chiusura del ciclo a una sostanziale dispersione degli interventi, che verosimilmente produrrà uno scarso impatto macroeconomico sullo sviluppo dei territori e sulla crescita occupazionale. D’altra parte, anche l’attuazione del Piano di Azione Coesione (il PAC, la “programmazione parallela” finanziata con le risorse “liberate” in seguito alla riduzione del cofinanziamento nazionale) prosegue molto a rilento. Al 2013, siamo soltanto all’8% dell’attuazione dei programmi di spesa, una cifra di 728 milioni di euro a fronte degli oltre 9 miliardi (la parte monitorata al 31 dicembre 2013, su un totale ormai di quasi di oltre 15 miliardi, comprese le rimodulazioni interne ai Programmi Operativi). Se pure le risorse confluite nel PAC mantengono la destinazione territoriale e non sono sottoposte ai vincoli temporali stringenti della programmazione europea, l’effetto di un’attuazione così lenta è comunque quello di una minore intensità dell’intervento pubblico per lo sviluppo del Mezzogiorno.
6.5.2. Il nuovo ciclo di programmazione 2014-2020: un avvio lento e problematico
È ancora in corso di approvazione, in significativo ritardo sui tempi previsti, a causa di un negoziato con la Commissione che si è rivelato meno semplice del previsto, l’Accordo di Partenariato, il documento strategico fondamentale che segnerà per il prossimo ciclo le linee della programmazione europea e nazionale per lo sviluppo e la coesione. Questo ritardo si riflette in primo luogo sulla fase di perfezionamento dei Programmi operativi. Per la parte nazionale, d’altronde, il Fondo di Sviluppo e Coesione (FSC) 2014-2020 è ancora privo di una programmazione, e le scarse risorse previste nel bilancio dello Stato 2014-2016 sono state “preallocate” con provvedimenti normativi, al di fuori da un quadro strategico ben definito. In relazione ai contenuti dell'Accordo è evidente come il documento rifletta la preoccupazione per gli effetti della profonda crisi socio-economica sulla società, con la previsione espressa di utilizzare risorse per investimento per il finanziamento di azioni di natura anticiclica, in particolare sulla struttura produttiva, e come strumento di contrasto al crescente disagio sociale e alla povertà. Continuano a destare fortissime perplessità, in questo contesto, l’operatività delle condizionalità macroeconomiche stabilite nei regolamenti per il nuovo ciclo di programmazione, in quanto finirebbero per sanzionare proprio le aree che, a causa del ritardo di sviluppo per la riduzione del quale le politiche di coesione sarebbero orientate, possono far registrare performances economiche più problematiche. L’impianto strategico dell’Accordo di Partenariato prevede di indirizzare il più possibile le risorse della programmazione comunitaria 2014-2020 verso interventi che contribuiscano al rafforzamento della capacità dei territori di esprimere attività economica di mercato, contribuendo alla creazione di occupazione. Risultano ridimensionati, per espressa scelta programmatica europea, gli investimenti infrastrutturali di varia natura (reti infrastrutturali, trasporti, opere pubbliche di taglia medio grande), in considerazione dei tempi lunghi necessari alla loro progettazione e realizzazione, incompatibili con la durata del ciclo di programmazione comunitaria. La realizzazione degli interventi in campo infrastrutturale è, infatti, demandata al Fondo di Sviluppo e Coesione. Questa scelta può avere risvolti preoccupanti. Nel permanere delle difficoltà di bilancio, se il FSC, analogamente a quanto accaduto in passato per il FAS, si trasformasse da strumento per le politiche di sviluppo in un bacino di risorse cui attingere per emergenze o esigenze contingenti, la rinuncia alla realizzazione di opere infrastrutturali – che non disporrebbero di altre fondi di finanziamento almeno nell'ambito della politica di coesione – sarebbe una grave sconfitta, soprattutto alla luce degli effetti che queste opere più di altre possono dispiegare sullo sviluppo dei territori in un orizzonte di medio-lungo termine. Ancora nel merito delle scelte dell’Accordo, da una prospettiva meridionalistica risulta incomprensibile che non sia previsto un Programma nazionale né multiregionale per l’Energia, nonostante l'importanza del tema che riveste nella prospettiva comunitaria e la prospettiva della ricentralizzazione delle competenze prevista dalla riforma costituzionale. Combinato con quello dell’ambiente, a cui gli orientamenti comunitari riservano una straordinaria enfasi, il tema dell’energia avrebbe potuto persino tradursi in un programma specifico finalizzato alla transizione verso la green economy; invece, soltanto una quota ridotta di risorse ed un numero limitato di azioni destinate all'efficientamento energetico sono inserite nel PON Imprese e competitività. Nelle more della definizione del quadro programmatico definitivo e della conclusione del negoziato, si può dire che l'attuale stesura dell'Accordo di Partenariato non sembra raggiungere l'iniziale obiettivo di concentrazione degli interventi enunciato nei documenti metodologici alla base del nuovo ciclo di programmazione. Sebbene rivisto rispetto alla versione di dicembre 2013 su impulso delle osservazioni della Commissione europea per assicurare una maggiore concentrazione delle scelte di intervento su un numero limitato di grandi obiettivi e per la definizione della strategia a livello di categorie di regioni, l'Accordo di Partenariato articola gli 11 obiettivi tematici in circa 70 risultati attesi, che saranno realizzati attraverso una gamma ampia e diversificata di oltre 300 azioni, che potrebbe prefigurare, anche in questo caso, una sorta di "lista della spesa". Al momento, il processo di programmazione 2014-2020 ha accumulato un ritardo analogo a quello dell'analoga fase del ciclo 2007-2013, con elementi di debolezza anche superiori. Alla domanda se dall'Accordo di Partenariato emerga chiaramente la strategia di sviluppo che l’Italia intende darsi nei prossimi sette anni è difficile dare risposta positiva. Inoltre, dopo così tanti cicli di programmazione (siamo alla conclusione del 4° ciclo di programmazione comunitaria), in una fase di così profonda crisi economica, è avvilente che la discussione su quale futuro di sviluppo disegnare per il nostro Paese con una dotazione di decine di miliardi di euro venga considerata dal Governo, dalla stampa e dai cittadini una questione per addetti ai lavori, e che la formulazione di tale strategia sia caratterizzata da un sistema burocratico e autoreferenziale in relazione alle responsabilità e alle scelte di programmazione. D'altro canto, la "svolta" di concretezza annunciata a fine 2012 con l'organizzazione della programmazione in risultati attesi e quantificati rimane fortemente influenzata da un approccio astratto e metodologico, legato alla stesura di documenti e piani più che all'avvio di cantieri di progetto. Ciò è ancora più evidente per le proposte di Programmi operativi, specie quelli regionali che abbiamo avuto modo di visionare, in quanto pubblicate sui siti internet ai fini della pubblicità necessaria al percorso partenariale. Anche in questo caso, pur ad una veloce analisi (le bozze dei documenti sono state rese pubbliche a fine luglio), i testi appaiono redatti secondo un approccio burocratico e compilativo, il che solleva molti dubbi sul sistema delle assistenze tecniche nelle Regioni. Il tentativo è quello di adattarsi agli schemi, peraltro un po’ astratti, dell’Accordo di Partenariato più a livello “formale”, senza un’individuazione compiuta dei piani di intervento concreti che dessero “sostanza” all’articolazione in obiettivi e risultati attesi. Per una maggiore efficienza ed efficacia nell’attuazione del nuovo ciclo 2014-2020, sarebbe cruciale un impegno straordinario per la costruzione, da subito, di un parco di progetti efficace rispetto agli obiettivi strategici ed ai risultati che si intendono perseguire. Queste attività tuttavia richiedono tempi lunghi, pragmatismo, capacità progettuale, spirito manageriale, e reale innovazione da parte di chi ha responsabilità di programmazione e di gestione (e forse passa anche dal rinnovare i gruppi dirigenti che, in sostanziale continuità, da anni gestiscono queste politiche). Per venire agli aspetti più “quantitativi”, la “dote” finanziaria per le politiche di sviluppo dei prossimi sette anni in Italia nel complesso appare ricca. A fronte dell'importo complessivo di 32,2 miliardi di euro stanziati in favore dell'Italia, per le 5 regioni meno sviluppate (Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia) sono disponibili complessivamente 22,3 miliardi di euro (69,3% del totale), un importo pressoché pari a quello disponibile nel precedente ciclo di programmazione; le cosiddette regioni in transizione (Abruzzo, Molise e Sardegna) possono contare su circa 1,1 miliardi di euro (3,4% del totale); un sostanzioso incremento della dotazione finanziaria rispetto al 2007-2013 si registra in favore delle risorse destinate alle regioni più sviluppate del Centro-Nord che possono beneficiare di circa 7,7 miliardi di euro (a fronte dei 5,3 del ciclo precedente). Infine alla quota non territorializzata dell'obiettivo Cooperazione territoriale sono destinati 1,1 miliardi di euro. Tuttavia gli importi stanziati sulla carta per i prossimi sette anni potrebbero essere rivisti a breve in relazione alle più recenti notizie della stampa. Sul nuovo ciclo, infatti, al di là delle riserve di merito sulla natura strategica sull’Accordo di Partenariato e sulla traduzione di esso nei Programmi operativi sia nazionale che regionali, in particolare per le aree meno sviluppate, c’è un elemento “quantitativo” che desta grande preoccupazione. Nelle ultime settimane è stata avanzata da parte del Governo l’ipotesi di una riduzione del cofinanziamento nazionale dei Programmi operativi (in particolare di Campania, Sicilia e Calabria), per consentire la costituzione e il finanziamento di una programmazione parallela, in analogia a quanto effettuato con il PAC. Questa operazione, che anche per questo ciclo dovrebbe valere circa 12 miliardi, corrispondeva negli anni scorsi ad una logica emergenziale. È preoccupante che si discuta di questa ipotesi prima dell’avvio del ciclo di programmazione, trasformando un meccanismo da emergenziale in strutturale, testimoniando nei fatti la rinuncia a riformare la governance delle politiche superando i vincoli, i limiti e le inefficienze che rendono debole l’avanzamento della spesa. La preoccupazione maggiore, tuttavia, sta proprio nell’analogia con il PAC, la cui attuazione sta procedendo troppo a rilento, comportando, dunque, un ulteriore indebolimento della politica di coesione per il Sud. Una riduzione del cofinanziamento sarebbe accettabile soltanto qualora vi fosse una previa programmazione, non astratta ma in grado di identificare, invece, un insieme di progetti immediatamente cantierabili, che possano anche porsi obiettivi di “più lungo periodo”, come è stato detto dal Governo, ma che partano immediatamente per esplicare da subito i loro effetti sull’economia e il lavoro. Non lascia ben sperare, da questo punto di vista, non solo quanto avvenuto con il PAC, ma quanto sta avvenendo con il FSC 2014-2020. È davvero “magra” l’eredità del passato di questo Fondo, che ha subito nel 2011 una profonda trasformazione nella governance e nelle regole di utilizzo ma non ha smesso di essere utilizzato, se non per scopi gravemente impropri, come dal 2008, comunque come strumento di consolidamento dei conti in quasi tutte le manovre di finanza pubblica. Complessivamente, il servizio studi della Camera dei Deputati ha segnalato che le riduzioni del Fondo intervenute negli anni dal 2008 al 2012, sulle risorse stanziate per gli esercizi finanziari 2008-2013, ammontano a 31,8 miliardi. Si tratta di un dimezzamento rispetto alla dotazione iniziale, che mostra quanto poco di questo fondo è stato speso per lo sviluppo. Basti considerare, infatti, che le risorse ancora disponibili del vecchio ciclo sarebbero di circa 5 miliardi per il 2014 e di 7 miliardi per il 2015. Insomma, per le finalità di riequilibrio e convergenza proprie del Fondo nazionale per lo sviluppo e la coesione, nel 2007-2013, sono state utilizzate solo poco più di un quarto delle risorse, e non tutte nel Mezzogiorno. Il FSC 2014-2020 doveva essere improntato pertanto alla massima discontinuità nella gestione rispetto alle famigerate vicende del ciclo precedente. Un’esigenza tanto più vitale per le precipue finalità strategiche attribuite al FSC nel nuovo ciclo, in cui diventerà lo strumento elettivo se non l’unico per il finanziamento delle infrastrutture prioritarie, come le grandi reti di trasporto stradale, ferroviario, marittimo ed aereo, la banda larga e ultra larga, le emergenze ambientali, inopinatamente uscite dal novero delle priorità strategiche della politica di coesione europea e su cui le regioni meridionali fanno registrare deficit ancora marcati. Va detto che la dotazione del Fondo è alquanto ridotta rispetto a quella, via via falcidiata, del ciclo precedente. La stessa Legge di Stabilità 2014 l’ha determinata nella misura complessiva di 54,8 miliardi e tuttavia ne è stata iscritta in bilancio soltanto una quota dell’80%, per un totale di circa 43,8 miliardi. Per il triennio, comunque, ne è stata resa disponibile una quota molto limitata: 50 milioni per l'anno 2014, 500 milioni per l'anno 2015, 1.000 milioni per l'anno 2016. La nuova chiave di riparto territoriale, poi, è alquanto discutibile: in precedenza l’85% veniva destinato al Sud e il 15% al Centro-Nord; nel nuovo ciclo le risorse FSC per il Mezzogiorno saranno soltanto l’80% del totale. Più che questi dati, non certo secondari, qui si vorrebbe stigmatizzare il fatto che il FSC 2014-2020 sia ancora privo, come accennato, di un quadro programmatorio certo e definito, in mancanza del quale è assai difficile scongiurare il rischio che le risorse vengano distratte dagli obiettivi e dalle finalità proprie, secondo le pessime prassi delle “preallocazione” e della “rimodulazioni” che abbiamo conosciuto nel recente passato.
6.5.3. La previsione di impatto: un’occasione sprecata
La sovrapposizione tra i due cicli nel biennio 2014-2015, che poteva essere per molti aspetti virtuosa, rischia di non essere più tale, se alla dispersione delle risorse in chiusura del 2007-2013 si somma il lento avvio del nuovo ciclo di programmazione. L’occasione sprecata è evidente se si considerano le previsioni di impatto effettuate con il modello econometrico SVIMEZ-IRPET. Se si fossero spese tutte le risorse teoricamente disponibili per la coesione (non solo FS, ma anche FSC e PAC) nel biennio 2014-2015, si sarebbero prodotti effetti significativi sulla crescita e l’occupazione non solo del Mezzogiorno, ma dell’intero Paese. Il contributo di crescita sarebbe stato pari a oltre l’1,3% di PIL dell’area nel 2014 e dello 0,8% nel 2015 (per l’Italia, rispettivamente, lo 0,4% e lo 0,2%), mentre le unità di lavoro attivate avrebbero superato nel 2014 le 34 mila unità nel Mezzogiorno (oltre 82 mila nel 2015, considerando in termini cumulati) e le 43 mila unità in tutta Italia. Tuttavia, come anticipato, questo scenario, ormai, per i ritardi accumulati e per una serie di altri problemi, è alquanto irrealistico, in entrambi gli anni, per diverse ragioni, ma senza dubbio ormai irrealizzabile per il 2014, in cui la spesa strutturale è sostanzialmente allineata con la spesa storica per investimenti, e pertanto il suo effetto macroeconomico è pressoché nullo rispetto al quadro previsionale tratteggiato nelle previsioni riportate nel par. 2.2. A fronte della drammaticità della crisi nell’area, aver sprecato l’occasione di spendere il massimo volume di risorse potenzialmente attivabile è stato un gravissimo danno. Tuttavia, va evidenziato che anche lo scenario più ottimistico di impatto delle risorse attivabili, che stavolta non si è verificato e che difficilmente mai si verificherà se non risolvendo tutti i vincoli, i limiti e le inefficienze nell’attuazione degli interventi della coesione, è comunque del tutto insufficiente a fronteggiare i drammatici effetti che, sul piano sociale ed economico, si sono scaricati nel Mezzogiorno dal 2008 a oggi. Anche un esercizio di ottimistica simulazione dimostra dunque che una politica per il Mezzogiorno, che voglia affrontare nel profondo la situazione per riprendere un processo di sviluppo e fronteggiare la sofferenza sociale, non può essere delegata esclusivamente alle risorse per la coesione, che possono rappresentare un tassello – utilissimo e fondamentale, ma comunque soltanto aggiuntivo – di una necessariamente più ampia e importante strategia di sviluppo per l’area.
6.5.4. L’Agenzia e l’esigenza di un rinnovato impegno nazionale
Su uno scenario tanto insoddisfacente, nonostante gli sforzi compiuti, avrebbe dovuto intervenire l’Agenzia per Coesione territoriale, la cui istituzione nel 2013 abbiamo accolto con grandissimo favore. Tuttavia, l’Agenzia per la Coesione, di cui finalmente (nell’agosto di quest’anno, in ritardo di diversi mesi rispetto a quanto previsto) è stato pubblicato lo Statuto e nominato il Direttore, non sarà operativa prima della nomina degli altri organi e della definizione della pianta organica. La nuova governance delle politiche, su cui tanto si è puntato – anche in fase di negoziato con Bruxelles – per imprimere quella discontinuità con il passato che avrebbe dovuto operare anche per la cruciale chiusura del ciclo 2007-2013 e l’implementazione del PAC, non entrerà a regime prima del 2015. Si auspicava che a chiarire il complesso delle competenze attribuite, definendo meglio i confini di azione rispetto alle eventuali sovrapposizioni, e specificando meglio la portata – che, a nostro avviso, sarebbe dovuta essere assai più ampia – delle previsione delle funzioni di autorità di gestione, intervenisse lo Statuto. Quest’ultimo, invece, si limita a riportare, di fatto senza specificazioni, le competenze attribuite dalla legge istitutiva, non sciogliendo i nodi via via emersi. E, in qualche misura, rispondendo “al minimo” alle aspettative suscitate dall’istituzione dell’Agenzia, che sono a un tempo troppo ampie (per evitare la sovrapposizione con altri soggetti istituzionali incaricati di compiti simili, si pensi al monitoraggio) e troppo limitate, perché sarebbe stato opportuno affidare all’Agenzia la gestione di programmi su assi cruciali che, nell’attuale ciclo, non hanno funzionato. L’esigenza di maggiore definizione dei compiti e dei limiti di azione è ancora più forte alla luce del fatto che essa dovrà operare in una prospettiva multi-livello. Da questo punto di vista, assai interessante sarà capire se davvero e in che misura l’Agenzia possa diventare lo strumento per l’attivazione non solo di provvedimenti di accelerazione nell’attuazione dei programmi e nell’avanzamento della spesa, ma soprattutto di esercizio dei poteri sostitutivi. Una recentissima novità normativa contenuta nel cosiddetto decreto “Sblocca Italia” interviene a disciplinare il potere sostitutivo nell’utilizzo dei fondi europei; tuttavia essa non menziona l’Agenzia bensì le modalità consuete di utilizzo di un potere che è in capo al Presidente del Consiglio. Ciò non significa, ovviamente, che l’Agenzia non possa essere chiamata in causa, ma specie in questo caso, forse, sarebbe stato opportuno specificare una delle mission fondamentali del nuovo ente. L’altro grande tema attiene alla compatibilità tra gli obiettivi che si pone l’Agenzia e le risorse strumentali all’espletamento delle funzioni che è chiamata a svolgere. Obiettivi e funzioni che peraltro, a nostro avviso, sono “minimali” rispetto alla mission che servirebbe per imprimere una reale discontinuità nell’utilizzo dei fondi di coesione. Va detto senza infingimenti che, anche solo per svolgere al meglio quelle funzioni previste dalla normativa e richiamate dallo Statuto, un contingente di 200 unità è assolutamente insufficiente e incomparabile con le altre esperienze di successo di Agenzie di sviluppo. A questo proposito, un nodo rilevante da sciogliere riguarda il rapporto tra la nascente Agenzia per la Coesione e INVITALIA, l’Agenzia nazionale per l'attrazione degli investimenti e lo sviluppo d'impresa, nata con la mission specifica di attrarre investimenti esteri ma che nel corso degli anni, con esiti non sempre soddisfacenti, ha assunto sempre più le caratteristiche di un’agenzia di sviluppo tout court. La sovrapposizione di funzioni e, nei fatti, anche di obiettivi, con la nascente Agenzia per la Coesione è evidente. Francamente, una visione più strategica della nuova governance dello sviluppo avrebbe potuto risolvere, in maniera più chiara e semplificata, il nodo dei rapporti tra le due Agenzie, a cominciare dal fatto di capire se fosse davvero necessario la presenza di due Agenzie con funzioni così sovrapponibili, in mancanza di una più precisa definizione della mission della nuova Agenzia. Infine, al di là delle questioni relative alla mission e alla sua organizzazione, si vuole qui richiamare il Governo a superare il problema della ritardata operatività dell’Agenzia, che rende i tempi previsti davvero incompatibili con la missione fondamentale di orientare, con un presidio centrale molto forte, l’avvio del nuovo ciclo di programmazione 2014-2020. Sia l’Accordo di Partenariato, infatti, ma soprattutto i Programmi operativi verranno approvati entro il 2014. L’avvio dell’attuazione, dunque, salvo che anche qui si accumulino ritardi ancora più gravi, dovrebbe partire prima che l’Agenzia diventi operativa, contravvenendo in questo modo anche alle ultime osservazioni della Commissione sull’Accordo di Partenariato che chiedevano, appunto, di rendere operativa l’Agenzia prima dell’adozione dei Programmi operativi, al fine di svolgere a pieno quel ruolo di forte coordinamento già in fase di programmazione per cui era stata pensata. Sono ritardi, con ogni evidenza, ancora più gravi di fronte all’urgenza economica e sociale rappresentata dal Mezzogiorno. L’insieme di queste ultime notazioni richiama direttamente la responsabilità delle autorità centrali, nel dare quell’impulso necessario a marcare la più netta discontinuità con la largamente deficitaria gestione delle politiche di coesione nel passato, di cui ovviamente anche la “periferia” porta la responsabilità. Va certamente ribadito che, da un lato, senza la revisione degli assetti macroeconomico europei, senza ad esempio l’ottenimento della golden rule che “liberi” gli investimenti dalla camicia di forza del Fiscal compact, e dall’altro, senza la considerazione delle asimmetrie (ad esempio, far parte o meno dell’Eurozona) tra le varie aree meno sviluppate, ogni sforzo nazionale non rappresenterebbe comunque una garanzia sufficiente per il riavvio di una politica efficace di sviluppo nel nostro Paese, tanto più necessaria se si vuole far fronte al perdurare della recessione. Inoltre, in casi come quello dell’Agenzia o del FSC non si può non richiamare lo Stato a svolgere con coerenza il ruolo di responsabile ultimo delle politiche e degli interventi per il riequilibrio territoriale. La questione delle inefficienze locali non va certo taciuta, ma non può nemmeno diventare un alibi. E anzi, nell’affrontarla, serve un “forte presidio centrale” che sia capace anche di corrispondere a un dovere di sostitutività (piuttosto che nuove riduzioni di cofinanziamento), per non far ricadere sulle popolazioni meridionali, già colpite sul piano economico e sociale dalla crisi peggiore della nostra storia, gli effetti nefasti delle deficienze delle rispettive Amministrazioni locali.

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7 aprile 2015

Eugenio Caruso



Sopportiamo, dunque, copn animo generoso tutto ciò che per legge dell'Universo ci tocca patire.
Seneca, Lettere a Lucilio



7. POLITICA INDUSTRIALE E ACCESSO AL CREDITO: CONDIZIONI PER TORNARE A CRESCERE
7.1. Le ragioni di una politica industriale attiva per il Sud
In tutti i principali paesi avanzati l’intensità e la durata della crisi hanno portato alla riscoperta del ruolo fondamentale dell’industria come elemento catalizzatore per la crescita e per la diffusione dell’innovazione, del progresso tecnologico e della conoscenza. E va da sé che insieme all’industria si è rivalutato anche il ruolo della politica industriale in funzione correttiva e integrativa delle dinamiche spontanee del mercato. In Europa, il riconoscimento dell’importanza dell’industria, quale settore centrale su cui puntare per favorire l’uscita dalla crisi e la ripresa dello sviluppo, è avvenuto con l’adozione, nel 2012, da parte della Commissione della nuova strategia europea di politica industriale, che si è posta l’obiettivo di portare, entro il 2020, il peso relativo dell'industria manifatturiera europea sul PIL dal 15,6% del 2011 al 20%. A gennaio di quest’anno, con il cosiddetto industrial compact, oltre a ribadire l’obiettivo, si sono invitati gli Stati membri a irrobustire le politiche per il settore industriale. Un’ulteriore conferma del nuovo orientamento della Commissione sulla centralità della politica industriale è rappresentato dall’introduzione della Smart Specialisation Strategy (RIS3) nel nuovo ciclo di programmazione dei Fondi strutturali 2014-2020. La Strategia – la cui elaborazione costituisce uno dei requisiti per l’accesso alle risorse comunitarie – prevede che le Regioni e gli Stati identifichino le aree tecnologiche del proprio possibile futuro vantaggio competitivo, concentrando le risorse disponibili su di esse e individuando un numero limitato di priorità, quelle con il potenziale di sviluppo più elevato. L’obiettivo di lungo periodo è evidentemente quello di favorire una trasformazione delle strutture produttive verso attività più competitive e a maggior valore aggiunto. Si riconosce, dunque, che la politica industriale non può fondarsi solamente su interventi di tipo “orizzontale” – quali quelli che per molti anni hanno largamente prevalso – ma anche su interventi “attivi” e selettivi, volti ad imprimere una correzione ai modelli di specializzazione. La rivalutazione del ruolo dell’industria e della politica industriale ha avuto importanti conseguenze sul piano concreto delle misure messe in campo negli ultimi anni dai singoli Stati. Tra vecchi e nuovi strumenti, i principali paesi europei dispongono di uno spettro di interventi ben più ampio che in Italia, con misure di sostegno ai grandi gruppi industriali (i cosiddetti “campioni nazionali”), ma soprattutto con misure volte al rafforzamento delle PMI, alla promozione della ricerca, l’innovazione e allo sviluppo di tecnologie chiave nei settori medium e high-tech, nonché per favorire l’accesso al credito e sostenere l’internazionalizzazione. L’Italia, purtroppo, sembra muoversi in direzione contraria. L’impegno dell’intervento pubblico a favore dell’industria, in concomitanza con la grave crisi economica, è andato riducendosi nel nostro Paese, molto più intensamente che negli altri paesi europei. Nell’intero periodo 2007-2012, il peso degli aiuti di Stato sul PIL è stato in Italia pari allo 0,27%, non solo nettamente inferiore alla media europea dell’UE a 27 (0,47%), ma anche uno dei più bassi tra i nostri principali partner europei (basti, a tal fine, ricordare i valori di Germania e Francia, pari rispettivamente allo 0,53% e allo 0,61%) e superiore solamente a quello del Regno Unito (0,24%) e ai valori di economie di taglia ampiamente inferiore, quali Romania, Estonia e Bulgaria. Nel richiamare, in questa sede, alcuni esempi, si possono ricordare gli interventi più significativi di Germania e Francia. In Germania operano gli istituti Fraunhofer-Gesellschaft, dotati di budget annuali consistenti (nell’ordine dei 2 miliardi di euro), diffusi in modo capillare sul territorio nazionale in modo tale da mantenere un contatto continuo e diretto con i piccoli imprenditori, i quali sviluppano tecnologie e prodotti specifici per le PMI. Inoltre, sono operative la KFW, maggiore banca pubblica, punto di riferimento per l’accesso al credito delle PMI, e la IPEX, la export bank tedesca, anch’essa a controllo pubblico, che nel 2011 ha raggiunto un volume complessivo di prestiti all'export pari ad oltre 60 miliardi di euro (con un flusso di nuovi crediti di oltre 13 miliardi). In Francia, l’intervento pubblico è fortemente caratterizzato da: interventi a favore della ricerca e dell’innovazione, che vengono convogliati soprattutto in centri di eccellenza regionali, i “Poli di competitività”; misure per favorire l’accesso al credito delle PMI; interventi per l’internazionalizzazione gestiti da un’Agenzia ad hoc, UBIFRANCE (che offre servizi di consulenza alle imprese, mette in contatto aziende francesi ed estere, assiste le imprese francesi per fare promozione all’estero). Dai dati del MISE emerge, peraltro, come la riduzione degli aiuti alle imprese abbia colpito essenzialmente il Mezzogiorno, dove si è concentrato gran parte del taglio dell’intervento pubblico. Confrontando il periodo 2007-2009 con il triennio più recente, 2010-2012, la media annua delle agevolazioni complessivamente concesse alle imprese meridionali è passata da 2,6 a 1,2 miliardi, risultando, dunque, più che dimezzata (-52%). Nel Centro-Nord la diminuzione (da 3 a 2,8 miliardi) è stata di appena il -5,2%. Occorre dunque rimettere rapidamente l’industria al centro di una nuova strategia di sviluppo. Con una consapevolezza di fondo: nel Centro-Nord la politica industriale deve mirare principalmente a favorire una ristrutturazione del sistema produttivo esistente, finalizzata principalmente alla sostituzione delle capacità produttive messe fuori mercato dai cambiamenti strutturali intervenuti nella geografia degli assetti produttivi a livello mondiale. Nel Sud, invece, essa deve avere come obiettivo non solo l’adeguamento ma soprattutto l’ispessimento dell’apparato produttivo, ovvero un allargamento della base industriale, ancora largamente sottodimensionata. Nel Mezzogiorno, infatti, come già ricordato, il tasso di industrializzazione è risultato, nel 2013, di 37,4 addetti per 1.000 abitanti, contro il 93,9 del Centro-Nord. Considerando che nel Sud resta, dunque, più che mai prioritaria la necessità di un rilancio del processo di industrializzazione, nei prossimi anni occorre già porre in campo una forte e continuativa azione di sostegno diretto e di promozione dell’industria, dotata di rilevanti risorse finanziarie. A tal fine è necessario che la politica industriale nazionale – per la quale è urgente un vigoroso rafforzamento – sia adeguatamente articolata a livello territoriale, in modo da tenere già essa conto degli specifici deficit strutturali del Mezzogiorno. E che ad essa torni ad affiancarsi anche una specifica politica nazionale regionale, avente per obiettivo diretto lo sviluppo del sistema industriale meridionale. In altre parole, la politica di sostegno diretto e di promozione del processo di industrializzazione deve tornare ad essere una componente centrale della “politica di sviluppo e coesione”. Gli interventi di contesto, che negli ultimi anni hanno finito con l’assumere ruolo centrale e pressoché esclusivo nella politica di sviluppo e coesione, sono certamente di grande importanza ma non possono essere sostitutivi di una politica industriale di medio e lungo termine, volta, attraverso interventi di largo respiro, a promuovere l’innovazione e la crescita dell’industria. Quanto alle caratteristiche e alle finalità della politica industriale da mettere in campo, sono da privilegiare misure “attive” e fortemente selettive, in grado di operare una seria programmazione di settori e filiere, individuando le maggiori opportunità di sviluppo e le tecnologie chiave sulle quali orientare gli investimenti. Per quanto riguarda le grandi imprese, appaiono quanto mai necessari interventi volti a mantenere una significativa presenza del nostro Paese nei comparti produttivi nei quali esso presenta importanti vantaggi competitivi, quelli a maggior valore aggiunto e per i quali più dinamica è la domanda mondiale; interventi che assumono particolare importanza proprio per il Sud, perché è nell’area che è localizzata una quota significativa della capacità produttiva di questi settori, strategici per l’economia italiana. Quanto alle piccole e medie imprese, esse hanno innanzitutto un problema di tenuta in questa lunga fase di crisi. Le politiche a loro favore dovrebbero puntare quindi, a livello macro, sul sostegno sia dei consumi che, soprattutto, degli investimenti, in particolare nel Mezzogiorno dove le PMI sono poco aperte all’export e fortemente dipendenti dalla domanda interna. Va peraltro sottolineato, al riguardo, come un sostegno alla domanda del Sud avrebbe importanti effetti espansivi anche per le imprese del Centro-Nord, che esportano nelle regioni meridionali quote rilevanti delle loro produzioni. Dal lato delle politiche di offerta, è necessario rafforzare l’accesso al credito e ai mercati dei capitali; favorire la crescita dimensionale e la formazione di aggregazioni; sostenere l’attività di internazionalizzazione; incentivare i processi di upgrading e di trasferimento tecnologico; promuovere la creazione di nuove imprese, in particolare di quelle innovative e ad alta intensità di capitale umano qualificato. Sotto il profilo degli strumenti, il generale basso accesso del Sud agli interventi della politica industriale nazionale – ulteriore riprova dell’esistenza di ritardi strutturali delle imprese meridionali – interessa quasi tutti gli ambiti della politica industriale. Si tratta, dunque, di individuare quali misure sia possibile mettere in campo per attuare una strategia di coinvolgimento delle imprese del Mezzogiorno. A tal fine bisognerebbe fortemente calibrare gli strumenti in relazione alle peculiarità riscontrabili nelle due diverse macro aree del Paese, in modo da tenere in considerazione i maggiori ritardi delle imprese meridionali. Agli strumenti della politica industriale nazionale, come detto, si dovrebbero, inoltre, affiancare quelli di una politica regionale, specifici per l’area. Nel caso, in particolare, degli interventi volti a favorire l’aumento delle dimensioni di impresa – che può essere considerato l’obiettivo cruciale della politica industriale per le PMI meridionali, in quanto il loro grado di frammentazione costituisce uno dei principali fattori che frenano gli investimenti in ricerca e innovazione e i processi di internazionalizzazione – andrebbero apportati alcuni correttivi agli interventi esistenti, finalizzati a tale obiettivo. Si fa riferimento, in particolare, alla necessità di rafforzare e potenziare gli interventi del Fondo Italiano di Investimenti per le PMI e dei Contratti di rete, con una specifica attenzione al Mezzogiorno. Nel primo caso, nel raggio d’azione del Fondo – che come noto è un fondo nazionale di private equity pubblico-privato, che effettua investimenti in società di piccole e medie dimensioni – si dovrebbero, in particolare, attivare canali di accesso privilegiato per il Sud, riservando alle imprese meridionali una quota prefissata delle risorse disponibili a livello nazionale. Andrebbero, inoltre, istituiti fondi di private equity specifici per il Mezzogiorno, finalizzati a sostenere non solo l’avvio di nuove imprese, ma anche il consolidamento e lo sviluppo di quelle esistenti. Per quanto riguarda i Contratti di rete – forma di aggregazione che può più facilmente radicarsi anche in presenza di dispersione e discontinuità del tessuto produttivo, caratteristiche tipiche di quello del Sud –, è auspicabile un loro rafforzamento in più direzioni: prolungando le agevolazioni fiscali che si sono interrotte nel 2013; inserendo misure aggiuntive a favore delle “reti d’imprese” tra gli interventi finanziati dai Programmi operativi delle Regioni meridionali nell’attuale ciclo di programmazione 2014-2020, come già qualche Regione ha iniziato a sperimentare in coda al ciclo 2007-2013. Nel campo della ricerca, dell’innovazione e del trasferimento tecnologico, va rilevato come siano stati sviluppati gli strumenti più interessanti della politica industriale di questi ultimi anni, di tipo selettivo e a forte carattere “verticale”, con l’individuazione di ambiti produttivi prioritari su cui concentrare gli interventi. Nel Sud questi strumenti sono stati essenzialmente finanziati con le risorse dei Fondi strutturali 2007-2013, ormai in corso di esaurimento. In prospettiva, poiché si continuerà molto verosimilmente a fare affidamento su queste risorse, è necessario accelerare l’avvio del nuovo ciclo 2014-2020 per garantire il prolungamento e consolidamento delle suddette misure. A questo proposito, la linea maggiormente da perseguire, potrebbe essere quella di sviluppare e potenziare i “Cluster tecnologici”, che più dei distretti tecnologici si contraddistinguono per la concentrazione a scala regionale e sovra regionale degli investimenti su pochi grandi progetti, la focalizzazione su specifici ambiti tecnologici innovativi e la centralità dei processi di trasferimento tecnologico. L’intento è quello di fare massa critica, superando la frammentazione rimproverata ai distretti tecnologici. Il grado di apertura sui mercati esteri è un altro fronte su cui il Mezzogiorno presenta forti ritardi rispetto al resto del Paese. Tuttavia, come già richiamato, a partire dal 2008 si è rilevato un incremento del numero degli esportatori più intenso che a livello nazionale, probabilmente per effetto del crollo della domanda interna, maggiore che nel resto del Paese, e che ha spinto molte piccole imprese del Sud a cercare nuovi sbocchi a livello internazionale. Dovrebbe essere compito della politica industriale sostenere anche questo gruppo di imprese che si affacciano per la prima volta sui mercati esteri, al fine di rafforzare la loro competitività e consolidare progressivamente la loro proiezione esterna. Più in generale, considerata anche l’assoluta irrilevanza dell’accesso del Sud alle agevolazioni per l’internazionalizzazione, potrebbe essere utile introdurre nei canali di finanziamento per il credito all’export – che rappresenta la principale forma di agevolazione per le attività in oggetto – delle corsie preferenziali, per modalità di accesso e risorse, da riservare alle PMI meridionali. Il Piano per il Sud, operativo nel triennio 2013-2015 (dotato di risorse pari a 50 milioni di euro), gestito dall’ICE, potrebbe rappresentare un primo passo per sostenere con maggiore incisività la propensione all’export delle imprese localizzate nelle quattro regioni della Convergenza; andrebbe però prolungato, esteso anche alle restanti regioni del Mezzogiorno e quindi dotato di maggiori risorse. In realtà, nel Mezzogiorno, è necessario innanzitutto favorire l’insediamento di nuovi impianti, anche attraverso l’attrazione di investimenti esterni, nazionali ed esteri. Per compensare gli innumerevoli svantaggi competitivi che penalizzano il Mezzogiorno, non solo rispetto al Centro-Nord ma anche in ambito europeo, sarebbe fondamentale poter contare su forme di fiscalità di vantaggio per gli investimenti, soprattutto esteri, specialmente dove esistono potenzialità non utilizzate. Lo svantaggio competitivo del Mezzogiorno – come precedentemente illustrato – si commisura infatti non solo in rapporto al resto del Paese, ma anche nei confronti dei paesi europei della ex-area sovietica, che oltre ad essere avvantaggiati da un più basso costo del lavoro, possono utilizzare liberamente i maggiori margini di libertà delle leve fiscale e monetaria. A livello europeo, gli interventi a favore del Mezzogiorno dovrebbero tenere esplicitamente conto degli squilibri derivanti dalla non ottimalità dell’Area Euro e dalla assenza di meccanismi atti a compensare i divari di crescita e di competitività tra le diverse regioni europee, ancora fortemente eterogenee. In tale ottica, quello della fiscalità di vantaggio è un tema che deve essere riproposto e discusso a livello europeo, superando vecchi veti che hanno ormai completamente perso la loro ragione d’essere.
7.2. Andare oltre il blocco del credito per la ripresa degli investimenti
L’Eurozona continua ad essere caratterizzata, per il sesto anno consecutivo, da bassi livelli di attività e da elevati tassi di disoccupazione; fenomeni che assumono dimensioni drammatiche nei paesi periferici. Il processo di divaricazione dei mercati creditizi tra Europa del Nord ed Europa mediterranea ha ormai assunto ampiezze ragguardevoli per ciò che concerne la dinamica degli impieghi, i tassi di interesse, l’irrigidimento dei criteri per la valutazione del merito creditizio e la percezione del rischio sull’andamento dell’economia da parte delle banche. In questo scenario si colloca l’economia italiana: la severa flessione dei livelli di attività che il sistema produttivo ha sperimentato nel corso degli ultimi anni, soprattutto a seguito del crollo della domanda interna provocata dalle politiche fiscali restrittive, ha condotto a una parziale riduzione della domanda di credito, recando con sé un progressivo peggioramento della sua qualità e un aumento delle sofferenze. Ciò ha avuto immediate ripercussioni sulla condotta del sistema bancario che è sempre più vincolato, da un lato, da un deterioramento progressivo del quadro macroeconomico e degli impieghi, e, dall’altro, dai vincoli sempre più stringenti imposti dalla vigilanza che assume ora un carattere sovranazionale con il passaggio all’Unione Bancaria che spinge, a sua volta, le banche verso politiche creditizie troppo prudenziali con il risultato di ridurre ulteriormente il potenziale di crescita del sistema economico. Non va sottaciuto che le prospettive di rafforzamento patrimoniale del sistema bancario italiano, secondo quanto prescritto dalle nuove regole sul capitale delle banche di Basilea 3, presentano ancora delle criticità: basti pensare che, sulla base dei dati di fine 2013 riferiti a un campione di 13 gruppi bancari italiani che partecipano al monitoraggio internazionale degli standard di Basilea, il fabbisogno aggiuntivo di capitale di qualità primaria necessario, a regime, per il raggiungimento dei requisiti minimi, sarebbe ancora di 5,3 miliardi. Il deterioramento del quadro macroeconomico assume tratti drammatici per le imprese operanti in contesti territoriali ed istituzionali più fragili, esposte pertanto a rischi sistemici maggiori, come nel caso del Mezzogiorno. In quest’area la crisi ha inciso pesantemente su tutto il sistema produttivo coinvolgendo anche le imprese che operavano in settori protetti come le costruzioni e i servizi, pesantemente penalizzati per il calo prolungato della domanda interna. Si segnala a tale riguardo che i tassi di ingresso in sofferenza sono significativamente più alti per le imprese meridionali, differenziale che si autoalimenta proprio in funzione della sistematica restrizione del credito operata; questo andamento pro-ciclico, in una situazione di depressione strutturale, rischia di provocare danni permanenti e difficilmente riparabili. Infatti, la difficoltà, se non impossibilità, di accedere al credito, unica fonte di finanziamento per le imprese minori, ne compromette la possibilità di espansione della scala produttiva e la stessa capacità di conseguire superiori livelli di efficienza tali da assicurare una maggiore competitività su mercati ormai globalizzati. Risulta quindi cruciale affrontare il problema della riattivazione dei meccanismi del credito alle imprese al fine di riagganciare le evanescenti prospettive di ripresa dell’economia che si stanno profilando all’orizzonte. La riattivazione del canale creditizio passa necessariamente per interventi che riguardano sia le imprese che le banche. Va osservato che allo stato attuale una quota significativa delle imprese meridionali non risulta bancabile sulla base dei restrittivi criteri regolatori imposti dalla BCE alle banche, in particolare a quelle poche banche di territorio ancora rimaste che erano maggiormente coinvolte nel finanziamento del sistema produttivo locale. Risulta quindi cruciale mettere questa platea di imprese in condizioni di accedere al credito e questo può verificarsi nella misura in cui si procede ad una loro significativa ricapitalizzazione. In questo senso si rende necessaria una politica industriale che individui i settori e le imprese che presentano quelle potenzialità tali da consentirle, una volta ricapitalizzate, di accedere anche in misura significativa al credito, di espandersi e competere. Gli interventi di ricapitalizzazione potrebbero prevedere tanto il concorso privato di imprenditori disposti a investire risorse in imprese con potenzialità di successo quanto quello pubblico. Per quanto concerne le banche e la loro disponibilità ad espandere il credito al sistema produttivo, questa può avvenire se i loro bilanci sono ripuliti dai crediti di bassa qualità che sono il diretto effetto della crisi in corso. La possibilità di procedere ad uno smobilizzo dei crediti in sofferenza al fine di ridare elasticità ai bilanci bancari rappresenta una condizione irrinunciabile per le banche se queste devono riprendere a finanziare il sistema produttivo. La questione degli smobilizzi riguarda quindi la possibilità di creare un organismo, riconducibile ad un modello di Bad Bank, che possa rilevare le partite in sofferenza convertendole in liquidità per gli istituti di credito. Questa istituzione potrebbe a sua volta finanziarsi ricorrendo in parte all’apporto della Cassa Depositi e Prestiti, in parte ai realizzi conseguiti dalla riscossione dei crediti rilevati dalle banche e, infine, all’emissione di obbligazioni sul mercato finanziario. Intervenendo su questi due versanti sarebbe possibile arrestare il peggioramento della struttura dei rating per banche e imprese e riattivare il canale creditizio che, di fatto, in questi ultimi due anni, nonostante le politiche espansive condotte dalle BCE, fino ai recenti interventi di questi giorni, non è stato operativo proprio a causa del vincolo posto dal “canale patrimoniale” delle banche.
8. I MOTORI DELLO SVILUPPO
Ben consapevole del rischio di essere monotonamente ripetitivi, la SVIMEZ insiste da tempo su come e perché il Mezzogiorno resti la grande opportunità per avviare un percorso durevole di ripresa e di trasformazione dell’intera economia italiana. Il fallimento delle politiche di austerità e l’aumento delle disparità tra aree forti ed aree deboli dell’UE, impongono di mettere in campo una strategia di sviluppo nazionale, che ponga al centro il Sud. In questo spirito anche il Rapporto di quest’anno ribadisce con forza alcune direttrici di intervento prioritarie, che non sono parti separate di un’azione di sviluppo bensì ambiti fortemente interconnessi tra loro. Questi motori dello sviluppo sono stati identificati nelle città, nelle aree interne, nelle energie rinnovabili, nella logistica in un’ottica euro mediterranea, nel piano delle acque, nella filiera agro-industriale ed agro alimentare. A nostro avviso, il motore dal quale prendere le mosse è costituito dalla rigenerazione urbana, che ha come elementi portanti la riqualificazione edilizia, la ristrutturazione urbanistica, l’efficientamento energetico, il recupero e la valorizzazione del patrimonio archeologico, architettonico e artistico, importante occasione di rilancio per l’industria culturale. Si tratta, infatti, del più rilevante catalizzatore di un processo di sviluppo, che punti sulla valorizzazione della città già costruita senza, per questo, trascurare le aree interne che nel Sud occupano il 40% dell’intero territorio. La proposta è quella di coniugare un’azione strutturale di medio-lungo periodo, fondata sui sopracitati drivers tra loro strettamente interconnessi, con un “piano di primo intervento” da avviare con urgenza, e coerente con la più complessiva strategia di sviluppo. Un piano di primo intervento che assuma come obiettivo quello di realizzare in tempi credibili quanto è possibile fare con le risorse disponibili o immediatamente attivabili, partendo dagli interventi a redditività ravvicinata che abbiano il maggiore impatto economico e sociale. Tale Piano può svolgere un prezioso ruolo iniziale di volano, funzionale alla complessiva strategia di sviluppo. I piani di azione dovranno essere gestiti secondo una “logica industriale”, cioè con un approccio di sistema sia dal punto di vista dei soggetti che dei territori, in quanto sono richiesti investimenti strategici anche a redditività differita e una progettazione a lungo termine. Su questi temi la SVIMEZ intende mettere a punto, fin dalle prossime settimane, un documento organico di proposte, con specifici indirizzi di intervento, da sottoporre al Governo, al Parlamento, alle Regioni e ai Comuni.
8.1. La rigenerazione urbana ed energetica
Le caratteristiche della filiera della riqualificazione edilizia e urbana, l’avere un fattore moltiplicatore dell’investimento tra i più elevati, l’avere un’alta intensità di utilizzo della manodopera, e quindi un effetto di immediato sollievo rispetto alla crisi occupazionale in atto, l’avere una rilevante capacità di attivazione di settori collegati che hanno, al netto del fattore energia, una ricaduta prevalente sulla struttura economica interna, che non favoriscono, cioè, settori industriali per cui dipendiamo dall’estero, indicano senza alcun dubbio il settore della rigenerazione e infrastrutturazione urbana come uno dei driver decisivi per riprendere il cammino della crescita. Per far ripartire il volano economico, stimolato dalla crescente domanda di una nuova politica pubblica dedicata alla filiera delle costruzioni, proveniente dal mondo delle imprese, ma anche ormai da molte associazioni ambientaliste che vedono nella frontiera della rigenerazione urbana un approdo coerente con un nuovo modello di sviluppo ambientalmente più sostenibile e a minor consumo di suolo, il Governo Centrale ha prima promosso il Piano Città (2012-2013), sta curando il rifinanziamento e la stabilizzazione delle detrazioni fiscali per le riqualificazioni edilizie ed energetiche, ed è impegnato a spendere in opere immediatamente cantierabili i residui della programmazione 2007-2013. Si intravede in queste misure – come anche nel recente decreto legge “Sblocca Italia” del Governo Renzi, che si è preoccupato di snellire le procedure autorizzative degli interventi edilizi – l’esito di questa consapevolezza. La direzione è giusta, ma occorre prestare attenzione, da un lato, alla filiera dell’attuazione di una politica per le città, dall’altro, a potenziare la capacità di coordinamento delle misure e di intelligenza delle politiche territoriali. Sotto il primo profilo, si deve considerare come un investimento essenziale il rafforzamento delle strutture tecniche nazionali: ma non possono bastare pochi esperti di programmazione, occorrono tecnici esperti nel campo della rigenerazione e valorizzazione urbana. Il tema della strutturazione di un soggetto per la definizione e l’attuazione di una politica urbana nazionale, tornato in varie forme, a partire dall’istituzione nel 2012 del Comitato Interministeriale per le Politiche Urbane (CIPU), al centro dell’attenzione, senza trovare ancora un approdo convincente, va declinato in un’ottica più operativa e di supporto al livello locale, investendo quel che è necessario. Se l’effetto sarà una maggiore capacità di spesa dei fondi europei e una maggiore capacità di selezionare ed attuare progetti di importanza strategica, capaci di mobilitare capitali privati italiani e attrarre investimenti esteri, si tratterà di un investimento assai prezioso e utile. Sotto il profilo della capacità di fare della programmazione per le città un elemento di vera politica economica e industriale, e non di spesa improduttiva a solo scopo anticongiunturale, occorre avere un’idea precisa dello sviluppo che si vuole perseguire. Il “Piano Città” del 2012, ad esempio, non è stato un piano, non c’è stata cioè un’idea di politica economica per le città coinvolte; il “Piano Città” è stato un bando, che ha stimolato le amministrazioni locali a tirar fuori dal cassetto o formulare progetti di intervento più o meno cantierabili. Occorre, invece, un vero “Programma Nazionale per le Città”, che coniughi gli investimenti infrastrutturali, con gli interventi di rigenerazione urbana e di recupero e bonifica di aree dismesse o sottoutilizzate. E che sia capace di coordinare gli interventi di riqualificazione edilizia e di miglioramento dei servizi e delle infrastrutture urbane, con interventi di natura fiscale e amministrativa (zone franche, zone economiche speciali, “zone a burocrazia zero”, ecc.), che inducano la nascita di nuove imprese, che attraggano capitali, che creino cioè le “condizioni ambientali” per uno sviluppo urbano duraturo. Un Programma che, con specifico riferimento al Mezzogiorno non sia una mera raccolta di proposte dei Comuni, ma un insieme coordinato di politiche urbane – dagli interventi edilizi, agli incentivi fiscali e contributivi, al sostegno all’internazionalizzazione – e che possa incidere sulla capacità di un’area urbana di tornare luogo di opportunità e motore di sviluppo economico e civile. Si tratta di un passaggio necessario per affrontare le sfide che la recente iniziativa (luglio 2014) della Commissione europea per la formulazione di un’Agenda Urbana ha nuovamente posto all’attenzione dell’Unione. Il contesto del Mezzogiorno urbano costituisce uno dei luoghi critici della sfida urbana europea: dalle città ci si aspetta non solo una spinta per rilanciare la crescita, ma anche la realizzazione di un modello di sviluppo che promuova un uso efficiente delle risorse ambientali e che migliori la sua capacità di combattere la diffusione di povertà ed emarginazione, realizzando complessivamente un modello sociale più “inclusivo”. Nelle città del Mezzogiorno si riscontrano in forma particolarmente acuta i tre aspetti critici della condizione urbana dell’Unione: tassi di disoccupazione più elevati; i progressi in termini di efficienza ambientale “sono messi a repentaglio da un’espansione urbana incontrollata che mette sotto pressione i servizi pubblici e riduce la coesione territoriale”; aumenta la tendenza, anche in conseguenza dell’espansione incontrollata, all’aggravarsi della “vulnerabilità delle città ai disastri naturali e provocati dall’uomo”. Per affrontare queste sfide occorre quindi formulare politiche di sviluppo urbano, nel colloquio e nella sussidiarietà dei ruoli e dei compiti, ma affrontando anche, ove necessario e utile, la strada di leggi nazionali e interventi straordinari. E’ il caso, in primo luogo, di Napoli: stretta tra ridimensionamento demografico, crisi ambientali e il dilagare di zone opache della società, favorito dalla crisi economica e amministrativa che la attanaglia, la città non sembra poter trovare al suo interno, senza una robusta e decisa politica nazionale, le forze per rialzarsi e ripartire. La sfida per Napoli ha una dimensione di scala vasta, che va ben oltre i destini del comune centrale e si lega anche al tema della istituzione delle Città Metropolitane e alla definizione di strategie di sviluppo per i loro territori. Le Città Metropolitane del Mezzogiorno, Napoli, Bari, Palermo, Catania, Messina e Reggio Calabria, Cagliari sono anche città costiere e portuali con un retroterra ricco di valori ambientali e culturali da mettere in gioco per migliorare l’attrattività turistica e la qualità della vita: si pensi ad esempio a Bari, alle filiere agroalimentari metropolitane dell’entroterra in connessione con la Fiera del Levante e il vicino porto commerciale e crocieristico, e alle relazioni ambientali costituite dalle “lame”, valli fluviali che originano nel vicino Parco Nazionale dell’Alta Murgia e convergono nella città, da mettere in sicurezza sotto il profilo idraulico, come premessa per una piena valorizzazione in chiave paesaggistica e fruitiva. Ma la sfida non può essere vinta per naturale evoluzione. Ce lo mostrano i dati relativi ai Sistemi Locali del Lavoro (SLL) delle grandi città. Fino al Censimento 1981, i SLL delle aree urbane più grandi del Mezzogiorno, come Napoli, Palermo, Bari, Catania e Messina, registravano una crescita demografica forte, segnale di un’offerta di opportunità che attraeva popolazione. La crescita da allora ad oggi è rallentata o in molti casi è divenuta decrescita. Le grandi città del Centro-Nord, invece, dopo una parziale flessione alla fine del XIX secolo, con il nuovo millennio sono ripartite sia sotto il profilo demografico, sia sotto il profilo economico. Il declino dei grandi sistemi urbani del Sud è particolarmente evidente se consideriamo solo il comune principale del SLL e più lieve se consideriamo anche i comuni di cintura. Il nuovo millennio per le grandi città del Mezzogiorno fa segnare ancora una fase di declino: nonostante nel periodo 2002-2013 vi sia stato un aumento medio annuo della popolazione del Mezzogiorno del 1,7‰, i comuni metropolitani con oltre 250.000 abitanti mostrano una flessione dell0 0,7‰. Solo nei centri medi, compresi tra le 50.000 e le 100.000 unità, vi è una significativa crescita demografica annua, pari al 2,5‰. Nei comuni e nei SLL più popolosi del Mezzogiorno, come nelle altre classi dimensionali del Mezzogiorno, si rileva, inoltre, una più modesta presenza di cittadini stranieri rispetto al Centro-Nord. I valori attuali del Sud sono sostanzialmente pari a quelli rilevati nel Centro-Nord 10 anni fa. Del resto sono ancora pochi, con l’eccezione dei servizi alle famiglie e agli anziani, i settori economici nelle aree urbane del Mezzogiorno in condizioni di offrire un impiego ai lavoratori stranieri. La presenza e la dinamica migratoria degli stranieri è uno degli aspetti chiave della dinamica demografica dell’Italia e in primo luogo del Centro-Nord. Il Mezzogiorno e le sue aree urbane restano ai margini di questo fenomeno, a causa, principalmente, della mancanza di opportunità di lavoro. Il tasso di occupazione testimonia delle difficoltà del Mezzogiorno. Mentre il tasso di occupazione della popolazione italiana di 15 anni e più si attesta a un pur modesto 45%, il valore corrispondente scende nel Mezzogiorno al 36,8%. Dei 5 maggiori centri urbani del Mezzogiorno, solo Bari e il corrispondente SLL hanno un tasso di occupazione più elevato. Gli altri centri mostrano un livello di occupazione molto basso: a Napoli, in particolare, meno di un terzo della popolazione in età lavorativa, il 31,8%, ha un’occupazione. Includendo la popolazione disoccupata in cerca di occupazione (tasso di attività) il valore sale al 44,0%, facendo registrare uno scarto in negativo di 1,8 punti percentuali rispetto alla media del “Mezzogiorno urbano” e di quasi 10 punti percentuali rispetto al “Centro- Nord urbano”. Un recente studio di Banca d’Italia sulla distribuzione del valore aggiunto su base territoriale consente di disporre di indicatori di disuguaglianza a livello provinciale dal 2000 al 2011 attraverso la misurazione dell’indice di Gini (un indicatore che rappresenta la misura globale della diseguaglianza nella distribuzione, tra le n unità di una collettività, di un carattere trasferibile, quale il reddito). A valori più alti dell’indicatore corrisponde una maggiore diseguaglianza nella distribuzione del reddito. I risultati di tale ricerca confermano che le città metropolitane del Mezzogiorno stanno perdendo le sfide poste alla base dell’Agenda Urbana Europea: non solo rallenta o assume un andamento negativo la loro capacità complessiva di creare valore aggiunto, ma aumentano le disuguaglianze di reddito, e con esse rischia di indebolirsi, su base economica, la capacità di inclusione sociale. L’aumento delle disuguaglianze del reddito colpisce negli anni della crisi il complesso delle province metropolitane italiane, non risparmiando le aree più dinamiche ma colpendo più pesantemente le province metropolitane del Sud. Roma registra il valore più elevato dell’area Centro-Nord con un indice di Gini pari a 43. Le province metropolitane del Sud – Napoli con il 43,0; Bari con il 43,4; Palermo con il 43,6 – fanno registrare un livello di disuguaglianza di redditi equivalente o superiore al dato peggiore del Centro-Nord. Le grandi aree urbane meridionali devono, dunque, ritrovare la via dello sviluppo nella rivitalizzazione del loro tessuto produttivo e del loro ambiente urbano e devono contrastare l’ampliarsi della diseguaglianza e delle aree di povertà. Devono favorire interventi di bonifica e riqualificazione di aree dismesse, e azioni per valorizzare la loro vocazione commerciale e turistica, quali città di mare. Devono contrastare l’aggravarsi di fenomeni di esclusione sociale, recuperando in quartieri rinnovati, la partecipazione utile e creativa dei giovani, delle donne, dei molti over 50 che non trovano lavoro o di coloro che la crisi ha spinto a rientrare nella città di origine per una sconsolata emigrazione di ritorno a causa della contrazione dell’industria manifatturiera settentrionale e del suo indotto. Anche il settore dell’energia, che per le aziende italiane costituisce un ostacolo competitivo a causa degli elevati prezzi delle forniture nel nostro Paese, ha nelle città un luogo chiave per il raggiungimento degli obiettivi di riduzione della CO2 attraverso il contenimento dei consumi energetici urbani. Anch’esso, al pari della riqualificazione urbana, è un importante driver di sviluppo che apporta benefici intersettoriali per le imprese e benefici diffusi per le famiglie. L’efficientamento energetico degli involucri e dei complessi edilizi e lo sviluppo di tecnologie di produzione energetica che possono integrarsi negli edifici e nei quartieri, consentono ormai di promuovere “azioni pervasive”. Da un lato, le città del Mezzogiorno, per la loro stratificazione e il valore culturale dei loro centri storici possono essere luogo di sperimentazione e diffusione di tecniche di intervento specifiche per la riqualificazione dell’edilizia esistente, messe a punto da istituzioni pubbliche di eccellenza, quali l’ENEA e il CNR, senza trascurare i centri di ricerca delle Università e delle imprese, dall’altro le stesse città, per le caratteristiche dei contesti ambientali e climatici in cui si inseriscono, possono essere luogo di produzione diffusa di energie rinnovabili. Nelle regioni del Mezzogiorno è però necessaria un’attenzione specifica alle caratteristiche del contesto del tessuto produttivo e sociale. Ci vogliono, ad esempio, provvedimenti mirati e azioni di supporto perché non si verifichi quanto è successo per le detrazioni fiscali per le ristrutturazioni edilizie, che, fin dal loro avvio nel 2007, hanno, per paradosso, premiato le regioni con un’economia più ricca e organizzata, rispetto alle aree più arretrate, dove prevale un tessuto economico informale e polverizzato. Anche per il Fondo Nazionale per l'efficienza energetica istituito dal 4 luglio 2014 per l’attuazione della direttiva 2012/27/UE, così come per le linee di stimolo e finanziamento di politiche per l’energia sostenibile, occorre considerare subito le specifiche difficoltà di attuazione nelle aree meno sviluppate del Mezzogiorno. I bilanci pregressi delle iniziative degli ultimi anni nel Mezzogiorno e la non felice esperienza del PON Energia 2007-2013 non consentono infingimenti in proposito. Un “piano di pronto intervento” incentrato sulla rigenerazione urbana, promosso dal Centro d’intesa con le Regioni, deve essere capace di attivare un insieme di effetti interrelati: realizzare azioni e programmi di miglioramento del contesto urbano che possono riattivare il ciclo economico della riqualificazione edilizia e dare un immediato contributo alla ripresa della crescita e dell’occupazione; promuovere innovazione tecnologica, nell’intervenire su un tessuto edilizio non di rado di valore storico o nello sviluppare tecniche di intervento su edifici e strutture moderne da consolidare e riqualificare; generare innovazione sociale, nello stimolare il rapporto delle giovani generazioni o di fasce marginali della popolazione con la gestione della città; stimolare la nascita di nuove imprese per la riqualificazione e gestione sostenibile di quartieri, singoli edifici, aree verdi. Il “piano di pronto intervento” per le città, già invocato nel Rapporto SVIMEZ 2013 per un efficace utilizzo dei residui dei fondi europei 2007-2013 e dei fondi del nuovo ciclo 2014- 2020, deve perciò essere il primo capitolo di quei cambiamenti strutturali necessari a fare delle aree urbane quei motori dello sviluppo economico e dell’innovazione tecnica, culturale e sociale in grado di generare sempre nuove risposte alle continue sfide dell’economia e della società nel quadro degli attuali processi di globalizzazione e competizione tra territori. Il rischio per il Mezzogiorno, in particolare, è che in assenza di una strategia di intervento chiara e di una capacità di azione veloce, le grandi aree urbane siano abbandonate al loro destino. Ma non si tratterebbe, allora, di lasciarle così come sono. In una fase di acuta crisi economica, il destino delle aree urbane – e le grandi città sono i territori dove le dinamiche si sviluppano con particolare intensità e velocità – può essere quello di scivolare verso un’implosione economica e sociale di gravi proporzioni, tale da contraddire tutta l’impostazione egualitaria e solidaristica dei nostri principi costituzionali e tale da gettare discredito, oltreché accelerare il crollo del mercato interno in atto dal 2008, sull’intero Paese. Per tutto questo non occorrono solo risorse economiche pubbliche, europee e nazionali: occorrono anche, in primo luogo, investimenti in termini di competenze e capacità di coordinamento in grado di superare i limiti mostrati finora dalle Regioni e dalle istituzioni locali (con più di qualche responsabilità anche a livello nazionale); e, inoltre, la capacità di offrire a potenziali investitori privati, nazionali e internazionali, gli elementi base necessari per avviare un investimento rilevante e duraturo, e cioè qualità dei servizi di accoglienza di nuove imprese e capitali, stabilità dei programmi pubblici, certezza del diritto ed efficienza ed efficacia delle procedure autorizzative. Sotto questo profilo, la rafforzata consapevolezza dell’importanza delle politiche nazionali per lo sviluppo, testimoniata anche dal processo di costruzione di un’Agenzia per le politiche di coesione, appare una precondizione necessaria, purché i passi da compiere non rimangano allo stadio iniziale, ma avviino, mutatis mutandis, ricercando cioè modelli coerenti con la contemporaneità, e certamente non ripetendo gli esiti degenerativi del passato, una rapida ricostruzione delle capacità di attuare una politica nazionale per il Mezzogiorno e per le sue aree urbane. Per questo occorre intervenire in modo mirato, in coordinamento con i livelli intermedi di governo, nelle diverse realtà urbane del Mezzogiorno: dalla grande conurbazione napoletana, per riportare Napoli al rango di città europea che storicamente le compete, a città medio-grandi, come Bari, poste in condizioni potenzialmente favorevoli in relazione alle reti internazionali e nazionali dello sviluppo e al centro di un contesto metropolitano di particolare interesse, ai centri urbani intermedi che, da “paesoni” isolati in vasti contesti rurali o deindustrializzati, devono sviluppare economie di scala nel rafforzamento di reti policentriche di servizi e infrastrutture per le famiglie e per le imprese. Riguardo alle specificità territoriali e ambientali delle città del Mezzogiorno, un caso, insieme particolare e paradigmatico, è costituito dall’area metropolitana di Napoli. Per Napoli la realizzazione di un Grande Progetto che miri alla valorizzazione del giacimento di energia geotermica, al miglioramento energetico degli edifici, all’abbattimento dei consumi sia pubblici che privati, potrebbe assumere un valore non solo economico, ma anche di contrasto all’immagine di città degradata e in declino che si è riproposta prepotentemente negli ultimi anni. L’impatto sarebbe di grande rilievo sia per gli investimenti correlati che per la riduzione della spesa corrente in costi energetici. Il Progetto sarebbe perfettamente in linea con l’aquis urbano europeo, fortemente orientato ai temi della sostenibilità ambientale ed energetica e interverrebbe a colmare il grave deficit di energie rinnovabili che caratterizza l’intera Campania e la sua principale conurbazione. Secondo i dati dell’ENEA, nella regione Campania nel 2008 a fronte di un consumo di 7,5 milioni di Tonnellate Equivalenti di Petrolio (TEP), la produzione da Fonti di Energia Rinnovabile (FER) è stata di appena 0,5 milioni (circa il 15%). Una percentuale largamente insoddisfacente per una regione con condizioni ambientali e climatiche così favorevoli. Napoli e tutti i Campi Flegrei hanno il più alto potenziale geotermico d’Italia ed uno dei principali del Mondo. Questo potenziale offre un’importantissima opportunità di sviluppo industriale, sociale e ambientale. Un progetto per Napoli può avere una dimensione metropolitana, considerato che le maggiori potenzialità geotermiche interessano ampi tratti della fascia costiera del Golfo. Le sorgenti geotermiche sono localizzate a profondità variabile ma comunque superficiale e con la produzione diffusa si azzererebbero anche i costi di trasporto e i relativi impatti sull’ambiente urbano. Moltissime delle eccellenze napoletane e campane potrebbero trarre grande vantaggio dall’uso della risorsa geotermica (allevamento, serricoltura, florovivaismo, acquacoltura, ecc.). Un’intera filiera industriale potrebbe costruirsi su questo scenario per la produzione, installazione e gestione degli impianti. Molte attività turistiche e sportive potrebbero diventare più competitive. La stessa Pubblica Amministrazione beneficerebbe di minori costi gestionali a tutto vantaggio per la collettività. In definitiva un progetto integrato di riqualificazione urbanistica ed energetica avrebbe quelle caratteristiche di leva anticongiunturale e di importanza strategica che in passato è stato difficile riscontrare sia nella miriade di interventi a pioggia finanziati con i Fondi strutturali, sia nei grandi progetti per infrastrutture che, pur se definite strategiche, esaurita la fase di cantiere sono rapidamente entrate in una condizione di sottoutilizzazione, o addirittura di abbandono.
8.2. Il rilancio delle aree interne
Le aree interne sono state individuate dal DPS nel 2012 esaminando le condizioni di marginalità dei territori rispetto a un insieme di servizi che conferiscono ai comuni un carattere di centralità. Ma le aree interne costituiscono nel loro insieme un patrimonio territoriale di grandissima rilevanza sotto il profilo ambientale e culturale. Una politica per il loro sviluppo rappresenta dunque un’azione necessaria a garantire la conservazione e gestione di tale patrimonio di interesse nazionale ed europeo oltre che un intervento doveroso per assicurare condizioni di vita civile ad un’ampia porzione della popolazione italiana, in gran parte situata nel Mezzogiorno. Del totale di 13,5 milioni di residenti nelle aree interne italiane, infatti, oltre la metà, il 52%, vive nel Mezzogiorno, rispetto alla cui popolazione totale rappresenta una componente numericamente assai rilevante, sia in assoluto, sia in termini relativi, rispetto al Centro-Nord. L’insieme delle aree interne versione DPS del Centro-Nord ospita il 16,8% della popolazione dell’intera ripartizione e il 44,3% del numero dei comuni. Nelle regioni del Mezzogiorno le aree interne DPS ospitano il 34,1% della popolazione totale o il 70,7% dei comuni. Il dato è particolarmente marcato in alcune regioni: in Basilicata si collocano nelle aree interne DPS il 74,7% della popolazione e il 96,2% dei comuni; in Sardegna, rispettivamente il 52,3% della popolazione e l’84,4% dei comuni. Nelle regioni dello Stretto abbiamo, rispettivamente, in Sicilia il 52,3% della popolazione e l’84,4% dei comuni e in Calabria il 50,8% e il 77,8%. I dati confermano che la “Questione aree interne” è una parte non secondaria della “Questione meridionale”, come Rossi Doria aveva a suo tempo evidenziato. Le aree interne del Mezzogiorno sono però, al contempo, anche uno scrigno di biodiversità e beni culturali. La presenza dei parchi raggiunge la percentuale del 67,1% del territorio, con oltre un milione di ettari, rispetto al 31,9% delle aree interne del Nord-Ovest (116 mila ha), il 62,5% del Nord-Est (311 mila ha), il 35,3% del Centro (203 mila ha). In molti ambiti territoriali gli edifici ante 1945 presenti nelle aree interne rappresentano una quota rilevantissima, spesso prevalente, degli edifici esistenti. Le architetture storiche e gli antichi borghi delle aree interne rappresentano, dunque, un capitale fisso sociale e un patrimonio culturale di valore sovranazionale su cui deve essere sviluppata una politica pubblica specifica di messa in sicurezza antisismica e di rigenerazione edilizia ed energetica. Le aree interne sono anche un ingentissimo serbatoio di aree agricole e forestali e di risorse idriche significative. Il documento tecnico Strategia nazionale per le Aree interne: definizioni, obiettivi, strumenti e governante del 2013, collegato alla sottoscrizione dell’Accordo di Partenariato con la Commissione Europea, costituisce il riferimento guida di livello nazionale per il perseguimento degli obiettivi di mantenimento del presidio umano e di promozione dello sviluppo locale per le aree interne. La Strategia nazionale intende rispettare una giusta distinzione tra intervento pubblico e mercato, ma rischia, però, di certificare una rinuncia a una vera politica industriale per le aree interne. Nel Documento guida si afferma, infatti, che la politica di supporto alla competitività e alla capacità adattativa delle realtà produttive esistenti nei propri mercati di riferimento “esula dalla missione della Strategia per le Aree interne, che invece guarda a questi presidi per la forza modernizzatrice che essi rappresentano a livello locale”. Ma la fiducia nella forza modernizzatrice delle realtà produttive esistenti e nello sviluppo endogeno non tiene conto delle difficoltà di far leva su territori già molto indeboliti! Per la SVIMEZ un progetto strategico per le aree interne non può prescindere da un intervento pubblico organico di sviluppo economico nei settori industriali decisivi (driver), che costruisca, ad esempio, le condizioni per la rigenerazione dei borghi attraverso idonei investimenti e attraverso una sistematica azione di attrazione di persone e capitali che faccia leva anche su agevolazioni fiscali e contributive. Occorre anche una politica industriale per assicurare economicità e stabilità delle forniture energetiche e per promuovere la creazione di filiere energetiche locali che offrano, insieme alla qualità del servizio, anche opportunità di lavoro. La politica energetica per le aree interne può rappresentare un punta avanzata di applicazione della Strategia Energetica Nazionale, contribuendo al raggiungimento degli obiettivi 2020: la riduzione delle emissioni di CO2, la diminuzione dei costi dell’energia, il rilancio della crescita, la sicurezza degli approvvigionamenti. Per i borghi in più avanzato stato di abbandono, o completamente abbandonati, occorre integrare la strategia energetica con un progetto complessivo di rigenerazione con il coinvolgimento di capitali privati, da reperire anche a livello internazionale e fornendo pertanto idonee garanzie di affidabilità e stabilità delle prospettive di investimento. La Strategia nazionale indica inoltre il settore della valorizzazione energetica delle biomasse vegetali e forestali quale una delle vocazioni specifiche delle aree interne. Su questo fronte si sconta un forte ritardo: molte aree boschive dell’Appennino, ad esempio, anche a causa dell’inefficacia delle politiche regionali, versano in uno stato di abbandono o di gestione impropria e irrazionale. Tale ritardo si auspica possa essere superato anche con il varo del Programma operativo nazionale per il settore boschivo. E’ anche da promuovere il rinnovamento tecnologico della rete energetica delle aree interne, secondo il paradigma delle reti intelligenti (smart grid) e dell’immagazzinaggio decentrato di energia (decentralized Energy storage). Qui siamo nel pieno di politiche di investimento che difficilmente possono essere affidate allo sviluppo endogeno, ma richiedono la presenza di imprese strutturate che operano in campo energetico in modo più ampio e siano in grado di gestire sistemi energetici integrati. Analogo richiamo può essere fatto nel settore della gestione idrica. A questo proposito, il contesto di riferimento per pianificare un corretto utilizzo delle risorse idriche può essere rappresentato dallo strumento del “Piano di Gestione Acque” relativo al Distretto Idrografico dell’Appennino Meridionale. Il Distretto include i territori delle regioni Abruzzo in parte, Basilicata, Calabria, Campania, Lazio in parte, Molise in parte e Puglia. Il Piano, redatto e approvato nel 2013, in attuazione della Direttiva 2000/60/CEE, che ha istituito un quadro generale per l’azione comunitaria in materia di acque, è finalizzato a preservare il capitale naturale delle risorse idriche per le generazioni future (sostenibilità ecologica), allocare in termini efficienti una risorsa scarsa come l’acqua (sostenibilità economica), garantire l’equa condivisione e accessibilità per tutti ad una risorsa fondamentale per la vita e la qualità dello sviluppo economico (sostenibilità etico-sociale). D’intesa con le Regioni del Distretto e in considerazione delle risorse finanziarie disponibili, sono stati individuati gli interventi prioritari raggruppati in tre tipologie, preservando comunque sistematicità e organicità degli stessi a scala di distretto:
- interventi finalizzati alla manutenzione e al potenziamento delle infrastrutture esistenti, quali ad esempio il completamento di opere di accumulo, il potenziamento degli impianti di trattamento reflui comprensoriali;
- interventi per la realizzazione di nuove infrastrutture, quali ad esempio l’interconnessione degli schemi acquedottistici, l’individuazione di nuove fonti di approvvigionamento, la realizzazione di impianti di trattamento comprensoriali e di reti duali;
- interventi per l’attuazione del programma di monitoraggio, al fine di definire lo stato qualiquantitativo dei corpi idrici, nonché la disponibilità di risorsa idrica, anche al fine di fronteggiare situazioni di emergenza e criticità derivanti da crisi idriche.
Il tema delle acque, particolarmente per le aree interne del Mezzogiorno, rappresenta un settore rilevante nell’ambito di una più generale strategia volta a favorire lo sviluppo della green economy, sia per garantire in modo efficiente e qualitativo un servizio essenziale, sia per migliorare la qualità dell’ambiente attraverso il mantenimento in buono stato di conservazione degli ecosistemi fluviali. Per il turismo, come per l’attrazione di capitali, manca un’azione coordinata a livello sovraregionale, per la quale occorrono servizi, infrastrutture immateriali e materiali, politiche fiscali e contributive pensate su misura per la condizione specifica dei territori marginali, cioè, in definitiva un’organica politica industriale. Anche l’agricoltura, intesa nella sua funzione ampia di produttrice di beni e servizi, può svolgere un ruolo ancora importante per uno sviluppo più ampio e diffuso della green economy delle aree interne: puntando sulla diversificazione delle attività aziendali, sulla produzione di servizi ambientali, sull’integrazione delle fasi di trasformazione e sulla produzione di energia. Resta, tuttavia, il fatto che qualunque strategia di diversificazione o valorizzazione rischia di non avere successo in assenza di opportuni interventi che mirino a superare alcune difficoltà strutturali che si incontrano nelle aree interne: l’invecchiamento della popolazione e dei conduttori delle aziende, la patologica dimensione aziendale che non consente di raggiungere risultati economici minimi, la frammentazione della produzione e la scarsa capacità/volontà di organizzazione in forme associate, relazioni di mercato tradizionali, difficoltà di collegamento con i mercati nazionali. Se è vero, infatti, che nelle aree interne sono presenti prodotti di eccellenza o paesaggi di alto pregio, è pur vero che quelle condizioni di base impediscono che essi diventino leve di sviluppo: molto spesso le eccellenze non superano i confini locali o regionali e non vanno al di là di un mercato di nicchia. Né, d’altra parte, si può pensare che la valorizzazione di produzioni eccellenti, ma con una dimensione economica modesta, o la diversificazione delle attività possano essere da sole, senza una forte funzione produttiva dell’azienda, motore di sviluppo per le aree interne. Per l'agricoltura e la promozione di filiere agroalimentari di qualità nelle aree interne del Mezzogiorno occorre una politica organica che affronti i temi dell’integrazione organizzativa di filiera attraverso idonei investimenti in tecnologie, processi, e in generale la logistica come infrastruttura per le filiere territoriali. Fondamentale è anche lo stimolo all’imprenditoria giovanile, da ottenere valorizzando e incentivando le start-up di giovani imprenditori agricoli e della filiera agro-alimentare. Per lo sviluppo c’è, dunque, bisogno di un più ampio disegno strategico che si basi sull’integrazione degli interventi che rientrano nell’ambito della politica di sviluppo rurale, da un lato, e sull’integrazione tra politiche per il settore agricolo e politiche strutturali, in un’ottica di sviluppo complessivo dei territori, dall’altro lato. Il ruolo delle istituzioni in questo processo è fondamentale. L’integrazione delle politiche richiede capacità di dialogo interistituzionale, ma forse soprattutto intraistituzionale (si pensi alla proliferazione delle autorità di gestione dei programmi anche in contesti territoriali uniformi e di piccole dimensioni), così come ai vari livelli di governo è necessaria una capacità di programmazione non frammentata e di coerente attuazione che, in un contesto di risorse decrescenti, siano in grado di finalizzare gli investimenti e di ottimizzare l’efficacia della spesa. Con riferimento alle aree interne non può non essere notata l’assenza di un’azione di sistema di adeguata portata per la principale catena montuosa italiana: l’Appennino sconta come fattore negativo, proprio per la debolezza delle politiche nazionali, la sua dimensione geografica sovraregionale. Le Alpi, invece, grazie anche a un marcato carattere internazionale, sostenuto dalla Convenzione per le Alpi e da specifici programmi di finanziamento per l’Alpine Space, hanno potuto aggirare la debolezza delle politiche nazionali. Una dimensione programmatica sovraregionale appare, dunque, necessaria per l’Appennino. Per quanto riguarda la più estesa catena montuosa italiana, lo sviluppo del turismo, anche per valorizzare la straordinarie dotazioni di borghi storici e di aree naturali protette, ad esempio, non può prescindere da un’azione di sistema ad essa dedicata, che comprenda, sotto il profilo dell’offerta, una robusta azione di promozione della qualità dell’accoglienza e dei prodotti offerti, e sotto il profilo della domanda una politica sistematica e sovralocale di incoming. Occorre, in definitiva, un’azione di sistema di livello nazionale e interregionale dedicata alla più grande catena montuosa italiana, nella quale possa riconoscersi anche un’azione sistematica per lo sviluppo delle aree interne del Mezzogiorno. La Strategia nazionale per le aree interne rappresenta, in conclusione, un passo significativo e importante che si deve inquadrare nel processo di superamento dei gravi limiti evidenziati dal sistema Italia nell’ultimo ventennio. Vi è stata spesso, infatti (questo vale per le aree interne, come per le aree urbane), una vera rinuncia delle politiche pubbliche nazionali a fronte di un pervasivo aumento delle competenze e dell’autoreferenzialità delle Regioni, anche in settori – ad esempio per la montagna italiana il turismo, la politica energetica, la difesa del suolo – dove è invece necessario un forte presidio nazionale: per assicurare la necessaria visione di larga scala, per garantire il necessario coordinamento intersettoriale e con le politiche fiscali, per una politica di sostegno alle regioni meno avanzate, e al Mezzogiorno nel suo complesso. Ma si tratta di un primo passo. A molte indicazioni strategiche, che appaiono corrette, coerenti con la visione europea dello sviluppo sostenibile, occorre affiancare una più solida visione economica che sappia fare i conti con i temi specifici di politica industriale dei vari settori, affrontando il tema degli investimenti: in dotazioni e infrastrutture, materiali e immateriali, per le filiere logistiche per le aree interne, per gli impianti e le reti energetiche, per il turismo, per la valorizzazione immobiliare del patrimonio esistente, per le grandi operazioni di rigenerazione dei borghi; per le infrastrutture e le tecnologie per una gestione idrica efficiente.
8.3. La creazione di una rete logistica in un’ottica euro-mediterranea
L’Italia, per posizione geografica, numero di porti e tradizione armatoriale, è nelle condizioni di ambire ad un ruolo preminente nel sistema economico delle relazioni euromediterranee per attività logistiche strettamente legate agli scambi internazionali. E il Mezzogiorno si candida a svolgere una funzione centrale, come snodo dal punto di vista logistico tra traffici marittimi asiatici, nord-africani ed europei. Attualmente, infatti, un terzo del commercio mondiale transita nel Mediterraneo; le esportazioni asiatiche, soprattutto cinesi, raggiungono i mercati europei e americani in prevalenza attraverso le rotte che passano da Suez e poi da Gibilterra. L’area euro-mediterranea si va configurando come una zona di libero scambio, e al tempo stesso come uno “spazio unico di produzione” per le imprese orientate all’esportazione, nel quale ottimizzare i punti di complementarità e ridurre i margini di concorrenza interna e quindi attivare accordi di filiera per la destinazione internazionale. Gli obiettivi da raggiungere sono di acquisire una posizione migliore sui mercati internazionali e competere con le grandi produzioni delle aree emergenti, anche facilitando il rientro di filiere produttive a più elevato contenuto tecnologico in precedenza delocalizzate o attraendo nuovi investimenti da parte di imprese globalizzate e di connesse catene del valore. L’Italia in generale e con particolare forza il Mezzogiorno presentano caratteristiche tali da offrire agli operatori di logistica globale ottimali condizioni di localizzazione. In una fase come l’attuale, nella quale l’economia italiana stenta a uscire da una lunga fase di recessione anche a causa della riduzione dello sbocco sul mercato interno delle produzioni manifatturiere e dei servizi, è necessario dar vita a una vera e propria rivoluzione logistica del sistema produttivo, basata sull’incentivazione dei fattori di sviluppo sui mercati internazionali, assumendo come linea di azione strategica l’opzione euromediterranea. In quest’ottica la Filiera Territoriale rappresenta un fattore di radicamento e al contempo di fluidificazione delle potenzialità di accedere al mercato di specifici territori. In particolare, la Filiera Territoriale Logistica (FTL), uno strumento ampiamente illustrato nei precedenti Rapporti, rappresenta una configurazione delineata dalla SVIMEZ nel quadro delle analisi che essa ha condotto sui possibili sviluppi della logistica nel Mezzogiorno a supporto del Piano Nazionale della Logistica e delle Linee Guida del Piano Generale Mobilità del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Essa è identificabile in: “una rete di imprese, soggetti ed attività economiche appartenenti ad una determinata area vasta, verticalmente legate e connesse da funzioni logistiche avanzate materiali ed immateriali, avente come obiettivo prioritario l’esportazione, prevalentemente via mare, di produzioni di eccellenza e la importazione e lavorazione a valore di parti e beni intermedi per la successiva riesportazione di prodotti finiti” . A livello delle “Aree Vaste” in cui sono presenti specializzazioni produttive, l’innovazione di processo nelle filiere del Mezzogiorno, in particolare quelle agroalimentari, unita alla consapevolezza di quanto sia necessario conservare e tutelare le conoscenze “tradizionali”, gli aspetti socio-culturali e la valorizzazione delle produzioni tipiche dei diversi territori, costituiscono un elemento fondamentale per consolidare e rafforzare la posizione di leadership a livello internazionale in campo agroalimentare. Le prospettive di crescita del sistema agroalimentare italiano, infatti, dipendono anche da un continuo processo di aggiustamento dell’allocazione dei fattori produttivi e delle produzioni ai fini del mantenimento di adeguati livelli di produttività e competitività sui mercati internazionali. L'export di prodotti agroalimentari italiani continua a crescere e nel 2013 ha raggiunto il massimo di sempre, arrivando a quota 33 miliardi di euro (+6% rispetto al 2012). Con riferimento al settore agroalimentare si può citare l’esperienza di Eataly, attività di distribuzione e ristorazione agroalimentare, basata principalmente sulla logistica che coinvolge diversi attori delle filiere agroalimentari che è un buon caso di presenza compatibile del made in Italy nel mondo. Secondo una ricognizione delle funzioni e delle caratteristiche economico-territoriali effettuata nei suoi studi, la SVIMEZ ha individuato alcune Aree Vaste del Mezzogiorno che mostrano notevoli potenziali di sviluppo attraverso la loro trasformazione in Filiere Territoriali Logistiche con funzione prevalente di valorizzazione di produzioni di eccellenza: l’Area Vasta Torrese-Stabiese-Nocerina, l’Area Vasta Catanese (Sicilia orientale), l’Abruzzo meridionale, il Basso Lazio Alto Casertano, l’Area pugliese, la Piana di Sibari e del Metapontino, la Sardegna settentrionale e la Sardegna meridionale. Tali Aree Vaste sono accumunate dalla presenza di alcuni importanti potenziali di sviluppo, che possono essere oggetto di specifiche politiche di intervento, al fine di migliorare le prestazioni logistiche complessive del territorio. Molteplici sono i potenziali punti di forza, da coordinare e mettere a regime: la presenza di porti commerciali (anche minori ma non congestionati), di aree retroportuali industriali dismesse e di terminali all’interno del territorio; la sufficiente dotazione infrastrutturale di trasporto multimodale terrestre; la buona accessibilità interna e possibilità di inserimento in reti di trasporto internazionale, principalmente marittime; la presenza di filiere produttive di eccellenza orientate all’esportazione; la possibilità di fruire di agevolazioni speciali ed incentivi per l’insediamento di attività logistiche (Zone Franche, Fondi strutturali europei, Contratti di Sviluppo e di Rete, Progetti di filiera, ecc.); l’esistenza di contesti deindustrializzati da riqualificare (aree dismesse) in senso produttivo per incrementare l’occupazione. In particolare, il riuso delle aree produttive dismesse consentirebbe non solo di restituire agli usi urbani porzioni significative del territorio urbanizzato, ma di farle concorrere alla realizzazione di nodi ambientali e corridoi “verdi” urbani di interscambio che concorrono alla realizzazione del più articolato sistema logistico-trasportistico. Più in generale, un ruolo centrale può essere svolto dalle Zone Economiche Speciali (ZES), aree prevalentemente caratterizzate dalla presenza di un porto e di un’area retroportuale all'interno di una nazione in cui sono adottate specifiche leggi finanziarie ed economiche costruite con l'obiettivo di attrarre investitori stranieri con un trattamento di favore. Nel Mezzogiorno, esistono le condizioni ideali per l’istituzione di Zone Economiche Speciali in diverse aree ma in particolare in regioni in cui sono situati porti di transhipment, come la Calabria (Gioia Tauro) o la Puglia (Taranto) e la Sicilia (Catania). Gioia Tauro, porto dotato di grande disponibilità di aree retro portuali, ha avviato le procedure per l’istituzione di una Zona Economica Speciale. A sua volta Taranto ha di recente ricevuto l’autorizzazione alla costituzione di una ZES, la seconda in Italia dopo quella di Trieste. Mentre, però, nelle regioni del Nord le carenze funzionali e infrastrutturali del sistema logistico territoriale sono state, almeno parzialmente, colmate da un sistema interportuale fortemente variegato per volumi movimentati, dimensione degli spazi e tipologia dei servizi offerti, in quelle meridionali è mancato del tutto un disegno di policy dei trasporti e della logistica, orientato specificamente all’incentivazione degli investimenti in poli logistici retro portuali aderenti ai porti. Nel Mezzogiorno mancano strategie di sviluppo basate su piattaforme logistiche di filiera nelle quali offrire servizi completi di cui necessitano le attività produttive e distributive per incrementare l’export sul mercato globale. Laddove, tali filiere di attività manifatturiere e dei servizi, integrate in un processo logistico che conferisce valore alle produzioni locali, sarebbero in grado di “produttivizzare” i territori dell’Italia meridionale che già dispongono di porti commerciali, spazi retroportuali ed attività economiche ma che sono caratterizzati dal debole orientamento all’export. E’ perciò quanto mai opportuno, con riferimento all’assetto normativo, che la logica d’impostazione sistemica territoriale sia recepita anche a livello di regolamentazione, specialmente alla vigilia della riforma delle leggi per i porti (legge 84/1994) e interporti (legge 240/1990): la SVIMEZ auspica, a tal proposito, una riforma di legge sinergica delle due, in grado di mettere a sistema e valorizzare queste due componenti del sistema logistico nazionale nel suo insieme, prevedendone uno sviluppo tarato sulle esigenze specifiche del territorio e del contesto internazionale di riferimento. La valorizzazione dei porti e degli interporti rappresenta, infatti, una scelta strategica inevitabile per il rilancio del Mezzogiorno, un vero e proprio driver per lo sviluppo del Sud e un concreto apporto alla realizzazione di una efficace valorizzazione dell’opzione euromediterranea (Southern range) da sviluppare rispetto all’alternativa dell’attuale dominio logistico del Northern range. E’ del tutto evidente (e altrettanto carente) l’opportunità di avviare una “azione mediterranea” che coordini le molteplici presenze dell’Unione Europea interessate a questo sviluppo, ponendo in tutta evidenza come per una quota rilevante dei traffici che oggi approdano al Northern range sia del tutto più razionale un accesso all’UE da Sud, in particolare se si considera il problema in termini di costi e di sostenibilità energetica e ambientale.
8.4. La valorizzazione del patrimonio culturale
Una prospettiva di sviluppo innovativa, durevole e sostenibile – per “invertire” il declino dell’intero sistema produttivo nazionale e procedere a sostanziali modifiche del modello di specializzazione – non può che puntare sul capitale umano delle nuove generazioni. La massa di giovani laureati e formati rappresenta la principale risorsa – oggi largamente sottoutilizzata o sprecata – per il rilancio dell’economia nazionale, e specialmente del Mezzogiorno che, per questa via può tornare in gioco da protagonista attivo di un disegno strategico complessivo. Il mancato superamento dei vincoli costituiti da un apparato produttivo debole e da un sistema sociale bloccato, nonostante i progressi nella formazione scolastica universitaria, condanna il Mezzogiorno al ruolo di fornitore di risorse umane qualificate al resto del Paese (e, sempre più spesso, all’estero) e i suoi migliori giovani a cercare altrove le modalità per mettere a frutto le proprie competenze e realizzare i propri sogni. La prospettiva di un’economia sostenibile e competitiva, secondo le direttrici appena illustrate, rappresenta un fondamentale ingrediente per la valorizzazione del patrimonio storicopaesaggistico meridionale, fornendo specifici elementi catalizzatori della catena di connessione ricerca-innovazione-produzione, e per dare così piena espressione alle potenzialità del sistema universitario e di ricerca e all’enorme potenziale del patrimonio territoriale e culturale del Mezzogiorno. In questo contesto, il settore culturale può rappresentare una delle componenti chiave nello sviluppo di un territorio quando, accanto alla presenza di attrattori quali musei e beni storico-culturali, si predisponga un’adeguata offerta di strutture e di servizi destinati all’accoglienza e la possibilità di integrare il soggiorno culturale con altre attività che spaziano dall’enogastronomia al folklore. E’ un’opzione strategica che deve in tempi relativamente contenuti trasformarsi in indicazioni progettuali concrete per entrare a pieno titolo nel quadro della politica europea per la cultura che fa perno sul programma Europa creativa varato alla fine del 2013 e che potrà contare su circa 1,5 miliardi di euro. Altri benefici concreti per i progetti e le imprese culturali verranno anche dall'avvio di un importante strumento finanziario: un Fondo di garanzia europea che affiancherà i contributi europei ai progetti e che assisterà i prestiti nazionali alle micro, piccole e medie imprese culturali e creative, che potranno finalmente vedere agevolate le loro possibilità di accesso al credito. E’, tuttavia, necessario riorientare la spesa pubblica nel settore della cultura e dei servizi ricreativi, contrattasi negli ultimi anni a livello nazionale e, soprattutto nel Mezzogiorno, dove tra il 2000 e il 2011, ha subito una riduzione di oltre il 30%. Consistenza e dinamica del settore culturale, come definito dalla SVIMEZ, in linea con uno studio dell’Eurostat, evidenziano un sottodimensionamento dell’Italia e, soprattutto, delle regioni del Mezzogiorno rispetto alla media dell’Unione europea. In Italia il settore culturale “in senso stretto” contava nella media del 2013 circa 269 mila unità lavorative, pari all’1,2% dell’occupazione totale, a fronte dell’1,7% della UE, un divario sorprendente se si considera l’ineguagliabile dotazione di capitale culturale accumulato nei secoli di storia. Divario che incide pesantemente su alcuni nodi critici del mercato del lavoro nazionale, l’occupazione femminile e l’occupazione ad alta qualificazione, se si considera che tale settore si caratterizza per una quota più ampia di occupazione femminile (43,1% a fronte del 41,6% del totale dell’economia) e per un’incidenza dei laureati occupati nel settore più che doppia rispetto al sistema economico nel suo complesso, raggiungendo il 42% a fronte del quasi 20% degli altri settori. Il dato medio nazionale sottende marcate differenziazioni a livello territoriale. L’occupazione del settore è al Centro-Nord – dove si contano circa 224 mila unità – pari all’1,4% dell’occupazione totale e di appena 45 mila occupati, pari allo 0,8%, nel Mezzogiorno. Appare evidente la sottoutilizzazione nelle regioni meridionali di uno straordinario potenziale di crescita derivante dal patrimonio di beni culturali presenti sul territorio. La disponibilità di capitale umano ad elevata scolarizzazione, potrebbe rappresentare, soprattutto in questo settore, un asset dello sviluppo assai importante. Non va inoltre trascurato che anche nella crisi, si è registrata una crescita della popolazione occupata in questi settori, in conseguenza di una crescita della domanda culturale delle famiglie. Tale crescita potrebbe essere particolarmente ampia proprio nelle regioni meridionali, dove si parte da livelli inferiori e, al tempo stesso, i progressi di scolarizzazione nell’ultimo decennio sono stati più intensi. Un tendenziale allineamento del Mezzogiorno al resto del Paese in termini di incidenza dell’occupazione nel settore consentirebbe di creare nel Mezzogiorno circa 40 mila posti di lavoro aggiuntivi nel settore dell’industria culturale, di cui circa 15 mila unità interesserebbero figure professionali con elevati livelli di istruzione. Opportunità ancora maggiori emergono dalla considerazione del settore “culturale allargato” in ottica di filiera, comprendente, cioè, sia i settori industriali e terziari che contribuiscono alla realizzazione dei prodotti culturali, sia i settori che comprendono figure professionali ad alto contenuto di conoscenza e creatività. Nel 2013 in Italia il settore culturale “allargato” conta circa 1,6 milioni di unità pari al 7,1% dell’occupazione totale. Il dato medio nazionale, sostanzialmente in linea con la media europea, nasconde anche in questo caso una forte differenziazione territoriale: più concentrata al Centro-Nord, con circa un milione 300 mila unità pari al 7,8% dell’occupazione totale, a fronte del 4,9% del Mezzogiorno. Al Sud, peraltro, si conferma una più elevata quota di occupazione con alti livelli di istruzione, che si attesta intorno al 43%, rispetto al 39% circa del Centro-Nord. Il sottodimensionamento del settore nel Sud appare nel caso dell’accezione allargata del settore culturale ancora più ampio. Indicazioni positive per le regioni meridionali emergono comunque dall’andamento recente del settore decisamente positivo, a fronte di una contrazione nel resto d’Italia. Dato confortante perché evidenzia buone performances in settori ad alto contenuto di conoscenza nelle regioni meridionali che, pur incidendo solo in piccola parte sull’andamento complessivo dell’economia, individuano potenzialità di crescita significative per accogliere un’offerta di manodopera con elevati livelli di istruzione. Alla politica regionale volta alla valorizzazione del patrimonio artistico-culturale dovrebbero affiancarsi quegli interventi di politica industriale orientati ad attivare comparti di produzioni di beni e servizi ad essa connessi.

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7 aprile 2015

Eugenio Caruso



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