La sorte favorevole non esalta il saggio, né quella contraria lo abbatte.
Seneca, Consolatio ad Helviam matrem
Marco Tullio Cicerone inaugurò, a Roma, la stagione delle consolazioni, nel 45 con il De consolatione per la morte della figlia Tullia e nel 46 con l'Hortensius, per la morte del retore Ortensio Ortalo. Le opere ciceroniane invitano a superare il dolore avviandosi allo studio della filosofia, opere che colpirono positivamente sant'Agostino, che da esse trasse lo stimolo ad occuparsi di filosofia. Seneca seguì l'esempio di Cicerone lasciandoci ben tre Consolationes: Consolatio ad Helviam matrem, Consolatio ad Marciam e Consolatio ad Polybium, nelle quali si rifà, appunto, a Cicerone. Con questo arrticolo voglio analizzare la Consolatio ad Helviam matrem, opera splendida, piena di buon senso e umanità.
L'opera fu scritta nel 42-43 per consolare sua madre della sua assenza, essendo egli costretto in esilio in Corsica dall'imperatore Claudio. Seneca inizia la consolazione dicendo di aver a lungo meditato se scriverla o meno, perché teme di non ottenere il risultato sperato. Tuttavia afferma che, per poter avere successo, deve rinvigorire il dolore nel cuore della madre, per poterlo poi eliminare. Ammette che questo può sembrare un controsenso, ma è lo stesso metodo usato dai medici.
Dopo aver elencato quindi le sventure capitate alla madre, soprattutto i lutti, le fa presente che egli è in salute e non è infelice, e neanche può diventarlo, essendo seguace dello stoicismo. Seneca è sempre all’erta, non si affida alla buona sorte come non si affida all’opinione comune. Tutti giudicano male l’esilio, ma per Seneca non è altro che un cambiamento di luogo: moltissima gente, trasferendosi di città in città, è come se fosse sempre in esilio; inoltre anche le cose divine sono sempre in movimento e cambiano sempre dimora, tutte le migrazioni di popoli, le conquiste, sono un esilio collettivo. La stessa fondazione di Roma risale ad un esule. Tutto è stato stabilito dal Fato, e quindi nulla può essere male nell’universo.
Quanto alle difficoltà dell’esilio, le necessità per un uomo sono ben poche: per sopravvivere sono sufficienti un riparo dal freddo e degli alimenti; tutto il resto è superfluo, ed anzi, per i più raffinati l’esilio sarebbe la cura ideale per guarire il corpo dagli eccessi.
La condotta di vita sfrenata porta l’uomo a impazzire, perché il desiderio non viene mai appagato, mentre alla ragione e alla natura basta poco. Nessun esilio quindi ha così poche risorse da poter essere considerato un male. Anche in esilio la sua anima è libera e vaga per l’universo. Se si è ben temprati, si è pronti ad affrontare tutto quello che verrà, e un uomo saggio resta tale anche se cade.
Appurato dunque che Seneca sta bene, perché piange Elvia? Non per lui, evidentemente, ma per se stessa; quindi la causa del dolore è in lei, è egoistica.
La causa principale del suo dolore è il fatto di aver perduto un sostegno: Seneca rievoca vari e toccanti episodi di vita quotidiana vissuti con la madre e aggiunge che la sorte l’ha punita ancor di più perché al momento della notizia dell’esilio la madre né era presente, né era preparata all'evento, ma il filosofo la incoraggia: non è certo questo il primo dei mali che lei ha affrontato e sconfitto.
Egli afferma poi che sentire il dolore è giusto e normale, ma esagerare no: occorre dominarlo. Elvia, donna colta e forte, che ha sempre condotto una vita nel rispetto di una moralità di stampo virile, non può rinnegarla ora giustificando il suo dolore come "tipico comportamento femminile"; Seneca cita alcuni esempi di madri famose che hanno sopportato stoicamente il dolore ed esorta la madre a fare altrettanto.
Tuttavia non è aggirando il dolore che si può guarirlo: l’unica via sono gli studi, che fortunatamente Elvia ha già coltivato in gioventù. Non le resterà che rivolgersi nuovamente ad essi.
Non le mancano del resto i sostegni cui aggrapparsi, come i fratelli di Seneca stesso, che onorano la madre e si prenderanno cura di lei, i nipoti, che la fanno divertire con la loro allegria, il padre di Elvia, che sarà sempre un punto di riferimento per lei, e soprattutto la sorella, che è in grado di aiutarla perché è una donna eccezionale. Seneca esorta la madre ad accostarsi a lei ogni qual volta ne sentirà il bisogno e a seguire il suo esempio. Infine conclude rassicurandola sul suo affetto e sul fatto che il suo pensiero è spesso rivolto a lei: è normale pensarsi a vicenda, ma Elvia non deve pensarlo triste, bensì sereno e in buona salute. Questo dev'essere sufficiente ad una madre per stare di buon animo.
Elvia e Seneca
Il rapporto tra Elvia e Seneca è, come sappiamo, particolarmente stretto: la figura materna ha avuto per il filosofo un'importanza eccezionale, superiore a quella della figura paterna, e l'affetto e la stima del figlio nei confronti di una madre per tanti versi fuori del comune si avverte in ogni pagina della Consolatio.
Tuttavia si esprime in quest'opera la visione forte ed equilibrata dei rapporti umani tipica dello stoicismo, che assume come regola di tutti i comportamenti la razionalità (Lògos); e il rapporto madre-figlio non fa eccezione. Seneca aborre gli eccessi scomposti dell'amore cieco e del dolore sfrenato: quando uno mette al mondo un figlio deve sapere di aver generato un essere mortale, secondo il detto attribuito ad Anassagora; inoltre innamorarsi del proprio dolore è un comportamento tipicamente umano e assolutamente morboso, come fa notare Seneca a Marzia nella Consolatio ad Marciam del 39-40, l'opera che più di ogni altra, più ancora della Consolatio ad Helviam matrem, mette in luce la debolezza del carattere femminile rispetto alla maternità e al dolore.
In tal senso il peggiore esempio che venga in mente a Seneca è quello di Ottavia, sorella di Ottaviano Augusto, la quale, dopo la morte dell'adorato figlio Marcello, si rinchiuse in un cupo dolore e non abbandonò mai le vesti da lutto, concependo un vero e proprio odio per la felicità altrui.
Eugenio Caruso - 21-04-2015