La sorte favorevole non esalta il saggio, né quella contraria lo abbatte.
Seneca, Consolatio ad Helviam matrem
Che cosa induce da oltre vent’anni l’Italia a vivere rispetto agli altri paesi avanzati i flussi di immigrazione in perenne affanno e inseguendo le tragedie di migliaia di annegati? No, la risposta non è geografica, ovviamente per il fatto che al centro del Mediterraneo a poche miglia di mare dalla Libia ci siamo noi, e non altri. La risposta è politico-culturale. Abbiamo vissuto l’esplosione del fenomeno migratorio come una patologia di volta in volta da arginare come fosse emotiva questione di ordine pubblico, dalla legge Martelli alla Turco-Napolitano alla Bossi-Fini. Non abbiamo capito che dovevamo far tesoro dalle esperienze altrui, cumulate prima di noi innanzi a fenomeni analoghi per decenni, e in alcuni casi per secoli, nel caso di Paesi che hanno avuto Imperi come il Regno Unito o la Francia. Il ritardo resta, purtroppo, anche oggi. Ed e’ un ritardo a tre dimensioni.
La prima e’ purtroppo quella consegnataci dagli ultimi svilupppi. Per evitare che primavera ed estate del 2015 siano una strage mediterranea continuata, a fronte di una Libia a-statualizzata e della realtà rappresentata da ISIS e dalle sigle islamiste associate e contrapposte, occorre un complesso dispositivo politico-militare. Da costruire sommando Onu, Ue e una coalizione di Stati africani e musulmani.
Spostare la vigilanza sul traffico di carne umana “per impedire che gli scafi partono dalla Libia”, come ha detto Renzi. E che in realtà equivale a quel che ha detto Salvini, invocando il blocco navale. Significa per l’Italia mostrare di avere un coalition power transmediterraneo e transatlantico. Cio’ che la politica estera e militare italiana non ha nelle sue corde, abituata com’e’ a oscillare tra decisioni prese dagli altri – vedi l’intervento in Libia nel 2011, voluto dai franco-britannici – e querimonie verso la Ue che ci trascura, vedi l’evoluzione da Mare Nostrum all’attuale inadeguata missione Triton. Occcorre un vero “gabinetto di guerra” perché l’italia possa, in un paio di mesi, ottenere la cornice internazionale senza la quale “impedire agli scafisti di partire” dalle coste libiche della Sirte sarà un miraggio. La somma complessa di mezzi aero-navali, droni e satelliti necessari a controllare le coste libiche, e a organizzare aree umanitarie di raccolta in Libia, è ipotizzabile solo se l’Italia convince molti paesi che in gioco è la sicurezza comune. Non è cosa agevole se s’immagina di risparmiare uno strumento militare italiano che a malapena raccoglie lo 0,9% del PIL tutto compreso, levando carabinieri e funzioni accessorie dagli stanziamenti della Difesa. Non nutro illusioni, sulla capacità di dar vita a un complesso strumento internazionale di questo tipo. Vedremo Renzi di che cosa sarà capace, e quale sarà la vera disponibilità a impegnarsi all’ONU del summit straordinario europeo domani. Di sicuro la Francia è molto interessata, presente com’è militarmente in Mali e Niger, al confine meridionale della Libia. Sarebbe già molto mettere insieme in un’intelligence unica quanto sanno i servizi francesi e USA, egiziani e tunisini, e – purtroppo – turchi, i quali ultimi tengono rapporti di pelosa prossimità con i trafficanti di schiavi e petrolio islamisti.
Il secondo e il terzo aspetto riguardano invece l’immigrazione ordinaria: la sua pianificazione e la sua gestione. Mentre la dimensione politico-militare del guaio libico è relativamente recente, su questi due aspetti il ritardo italiano è patologico e inescusabile. Sono passati vent’anni da quando avevamo un numero di immigrati di poco superiore a 500mila unità, mentre oggi sono quasi 5 milioni e mezzo, un milione e trecentomila famiglie di soli immigrati, e un milione di minori. Un milione di romeni, mezzo milione di marocchini, mezzo di albanesi (i più rapidamente integratisi). Mentre la popolazione straniera è cresciuta in media ogni anno del 103,3 per mille, quella italiana si è invece ridotta progressivamente dello 0,7 mille.
Avremmo dovuto capire, azzerando ogni polemica politica, che l’attuale andamento demografico non rende sostenibile il futuro del nostro Paese: nel 2014 siamo giunti al minor numero di nati dall’Unità d’Italia, solo 508 mila, i morti sono stati 80mila in più, le donne italiane hanno un numero medio di figlli pari a 1,3 mentre il tasso di equilibrio demografico dovrebbe essere di 2,1, e tutto questo a lungo andare abbasserà sempre più il numero di persone al lavoro rispetto ai pensionati. Vent’anni sono abbastanza per comprendere che o rimediamo come abbiamo fatto nel quindicennio alle nostre spalle, con in media 300mila immigrati nuovi ogni anno (scesi a 150 mila nel 2014, per la crisi). Oppure, se non vogliamo immigrati, dobbiamo cambiare radicalmente la politica fiscale e il welfare per sostenere le famiglie e la fecondità delle residenti attuali, per portarla oltre il 2,1 al più presto possibile. E dovremmo piantarla di ripetere “quanto ci costano”, visto che l’8% del PIL italiano viene dagli immigrati, e che nel saldo tra imposte e contributi che pagano e le spese a loro rivolte il saldo è positivo per 4 miliardi.
Questo arido ma essenziale “conto economico delle convenienze dell’immigrazione” è stato fatto nel tempo da altri paesi avanzati. Negli anni Cinquanta la Germania aveva bisogno di manodopera e spalancò le porte ai Gastarbeiter, i “lavoratori ospiti” prima italiani, poi turchi, poi africani e asiatici. Per poi, nella crisi occupazionale degli anni Duemila, stringere il freno e passare alla pianificazione delle quote nazionali, scelte per specializzazione del capitale umano (e ancor oggi, non dimentichiamolo, le richieste pendenti di asilo in Germania sono 3 volte superiori alle 67mila italiane…). La stessa cosa è avvenuta nel tempo in Australia e negli USA, e in tanti paesi OCSE che senza tanti patemi “scelgono” le qualifiche, basse e alte o altissime, a cui tenere discrezionalmente e diversamente aperte le quote di regolarizzazione degli immigrati. E’ questo l’esempio a cui dobbiamo guardare, a maggior ragione ora che stenteremo per anni a riassorbire tre milioni e mezzo di disoccupati italiani. Ma per fare tutto questo servono politici capaci di vincere l’impopolarità delle “cifre vere”, capaci di studiare e citare ricerche come questa, sull’effetto positivo che i migranti sortiscono sulle basse qualifiche dei lavoratori “nostrani”.
Il terzo aspetto riguarda le politiche sociali e d’integrazione. Prima ancora che ridiscutere se la cittadinanza italiana si dia ancora per solo ius sanguinis invece che aprendo allo ius soli (personalmente sono favorevole a una forma di ius soli “temperata”), l’Italia dovrebbe uscire dal disastroso modello adottato sin qui. Quello per il quale dietro la prima linea dei Cie oggi CARA e cioè delle sistemazioni d’urgenza temporanee, modificatesi nel tempo tra polemiche feroci, abbandona però integralmente agli Enti Locali la competenza delle politiche d’integrazione, abitative e scolastiche, dell’impiego e della formazione del capitale umano. E’ da questa scelta scaricabarile, che deriva il concentrarsi di guai quando in aree delimitate di territorio l’immigrazione, dal 9% scarso oggi media sul totale della popolazione italiana, diventa tre, quattro e cinque volte maggiore rispetto al totale degli italiani, in un quartiere o in un piccolo centro. Molto spesso in aree in cui il reddito degli italiani è a propria volta molto basso e alto è il disagio sociale, e dove ogni intervento pro-immigrati a quel punto alimenta come benzina sul fuoco intolleranze e populismi di ogni tipo. Come avvenne l’anno scorso a Tor Sapienza a Roma, come accade in molte città e province italiane.
Prima che sia troppo tardi, la politica deve decidere di attribuire competenze (e risorse) agli unici che possono affrontare organicamente il problema dell’integrazione di milioni di stranieri: non lo Stato centrale, ma gli Enti Locali. In Germania, le competenze sugli immigrati non fanno capo allo Stato federale, ma ai Laender. E sono le grandi città metropolitane, che nei decenni sin dagli anni Cinquanta hanno elaborato modelli diversi di housing sociale e integrazione scolastica per gli, immigrati.
Sono le 10 nuove Città Metropolitane italiane più Roma capitale – non le Regioni, per carità – e cioè il nuovo macroreticolo amministrativo italiano in cui si addensano popolazione e problemi sociali, a dover avere competenze e risorse per gestire un fenomeno che non può essere affrontato con centri temporanei, magari per di più fonte di appetiti e affari illeciti come abbiamo appreso dalle indagini delle Procure. Ma le nascenti Città Metropolitane nascono invece attualmente senza risorse.
E’ giusto credere che l’Italia debba modificare gli accordi di Dublino sul dovere di asilo del primo paese che registra gli immigrati. Ma cio’ non toglie che il malessere italiano che si legge nei sondaggi sull’immigrazione nasce dal credere di mettere la polvere sotto il tappeto chiudendo per un po’ migliaia di immigrati in spogli palazzoni di degradate periferie. Non è una soluzione. E’ la miccia su una bomba. E alla politica dovrebbe spettare disinnescarla, invece di soffiarci sopra per meschini tornaconti elettorali.
Oscar Giannino da www.leoniblog.it - 22-04-2015