Per la bramosia niente è abbastanza, per la natura è abbastanza il poco.
Seneca, Consolatio ad Helviam matrem
E’ una sentenza che pone molti problemi, quella adottata in materia previdenziale dalla Corte Costituzionale. Non solo problemi per i conti pubblici, reperire 4,8 miliardi di euro. Ma, soprattutto, problemi di equità, anche se apparentemente la decisione è proprio a favore della giustizia sociale. La Corte ha bocciato lo stop alla perequazione del costo della vita che nel 2012 e 2013, per effetto della riforma Fornero, toccò a circa 6 milioni di assegni previdenziali che erano superiori a poco più di 1500 euro mensili lordi, cioè pari ad almeno tre volte il trattamento minimo INPS. La misura fu adottata per ottenere effetti di cassa a breve, pari a 4,8 miliardi nei due anni, in attesa che la riforma strutturale dell’innalzamento dell’età previdenziale, facendo coincidere i requisiti dei trattamenti di vecchiaia e di anzianità, conferisse maggior stabilità negli anni al sistema previdenziale italiano. Ma la Corte la stabilito che l’interesse dei pensionati, in particolar modo i titolari di trattamenti previdenziali modesti, è teso alla conservazione del potere di acquisto delle somme percepite, da cui deriva in modo conseguenziale il diritto a una “prestazione previdenziale adeguata. Tale diritto, costituzionalmente fondato, risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio”.
E’ ovvio che il governo debba ora dimenticarsi il “tesoretto” che aveva promesso in vista delle elezioni regionali, perché con 5 miliardi di buco aggiuntivo non è proprio il caso di pensare a spenderne 1,6 coperti in deficit. Anche se, a ben vedere, un’alternativa ci sarebbe. Ma prima di esaminarla, soffermiamoci sui presupposti della sentenza. Perché le decisioni della Corte costituzionale hanno avuto un enorme impatto storico, sull’evoluzione del sistema previdenziale italiano. Ogni studente di diritto costituzionale impara che, negli anni ‘60 e ’70, la Corte produsse una lunga serie di sentenze cosiddette “additive”, in cui si estendevano benignamente verso l’alto i trattamenti previdenziali a categorie che avevano ereditato dalla storia trattamenti diversi. All’epoca, in un’Italia che cresceva tra il 2 e il 3% annuo, a bassa disoccupazione e bassa tassazione, la Corte non si poneva il problema di creare le basi per la crescita della spesa previdenziale sul PIL, quando quelle condizioni fossero mutate. Come sono mutate, eccome, nei decenni a seguire.
Poi, a partire dagli anni ’80 e ’90, subentrò una diversa consapevolezza. Con sentenze come la 180 del 1982 e la 220 del 1988, la Corte difese la discrezionalità del legislatore nel mutare le prestazioni sociali tenendo conto della disponibilità delle risorse finanziarie. Né mancarono sentenze(come la 349 del 1985, la 822 del 1998, la 416 del 1999) nelle quali, a differenza della decisione presa oggi, la Corte difese anche trattamenti peggiorativi decisi dal legislatore con effetto retroattivo. La Corte escluse un diritto costituzionalmente garantito alla cristallizzazione normativa, negando cioè proprio quei cosiddetti “diritti acquisiti” che vengono sempre impugnati da coloro che immaginano che il trattamento di un tempo debba sempre restare eguale, anche se non ci sono risorse per finanziarlo.
Certo, la Corte si è sempre riservata il diritto di bocciare comunque interventi del legislatore che fossero irrazionali o ingiustificati. La Corte ha così respinto come irrazionale, con la sentenza 116 del 2013, un’altra misura che era stata assunta nel terribile biennio 2011-2012 in cui l’Italia era sul ciglio del baratro, cioè il contributo di solidarietà sulle pensioni pari al 5% per gli importi da 90.000 a 150.000 euro lordi annui, del 10% per la parte eccedente i 150.000 euro e del 15% per la parte eccedente i 200.000 euro. Il prelievo aveva carattere tributario secondo la Corte, e come tale però introduceva aliquote sperequate rispetto a chi aveva le stesse soglie di reddito, ma non da pensione. Oggi invece la Corte respinge lo stop biennale al recupero dell’inflazione sopra i 1500 euro, sostenendo che quella misura fosse ingiustificata, cioè non correlata per esteso nella riforma Fornero all’indicazione di specifiche necessità di cassa non altrimenti perseguibili.
Veniamo ai problemi giuridici che la sentenza solleva. Sta davvero alla Corte costituzionale, stabilire quale sia la soglia della “prestazione previdenziale adeguata”? Se così fosse, in base a quali criteri di calcolo e di comparazione col resto dei redditi medi italiani è fissata quella soglia, visto che si interveniva su una media superiore e non inferiore al reddito medio di quell’anno? E perché a questo punto adottare una decisione simile sullo stop a tempo alla perequazione degli assegni previdenziali, quando da anni e ancor oggi tutti i dipendenti pubblici subiscono il blocco degli scatti contrattuali? E soprattutto: è possibile alla Corte adottare decisioni simili, senza assumere un giusto criterio di equità?
Direte voi: è tutto il contrario, è proprio in nome dell’equità che la Corte interviene. E invece no, se pensate a come funziona in concreto il nostro attuale sistema previdenziale. Pur passando gradualmente nel tempo da retributivo a contributivo, cioè un sistema in cui l’assegno è parametrato non agli ultimi anni di retribuzione conseguita ma ai contributi versati, moltiplicati per coefficienti che comprendono l’andamento del Pil e l’attesa di vita, il nostro resta comunque come prima un sistema a ripartizione. Cioè le pensioni in essere vengono pagate da chi lavora oggi. Vengono pagate da chi non solo non avrà pensioni retributive, in molti casi multiple di 5 o 6 e persino 8 volte rispetto ai contributi versati, ma in molti casi non avrà neanche i requisiti minimi delle minori pensioni contributive, vista l’età molto più avanzata in cui si riesce oggi a ottenere un lavoro, e la assai più frequente discontinuità dei versamenti contributivi, tra periodi di disoccupazione e occupazione a tempo.
Una vera equità, nell’assumere decisioni in materia previdenziale, dovrebbe essere quella che guarda alla reale ripartizione degli oneri: cioè l’equità intergenerazionale. E la domanda vera diventa: è giusto addossare a chi oggi ha assai meno di un tempo, l’onore di pagare i 5 miliardi aggiuntivi per il recupero di due anni di inflazione deciso allora? L’equilibrio intertemporale dovrebbe essere il criterio di ogni intervento che ha effetti di lungo periodo, fiscali e contributivi, sulla finanza pubblica. Basta assumere decisioni solo nell’interesse di chi è vissuto in un’Italia più felice. Ora occorre pensare a chi non lavora e non avrà pensione in un’Italia disastrata dalla crisi, e al fatto che se non pagheranno loro i contributi per finanziare le pensioni in essere, si aggraverà ulteriormente l’esborso che dalla fiscalità generale serve ogni anno per tenere in piedi i conti dell’INPS, e che nel 2014 è stato di quasi 90 miliardi di euro. Ci ha pensato, la Corte a tutto questo? O è un diritto cieco alle sue conseguenze, quello che incarna la giustizia sociale nel nostro paese? Date voi la risposta, a noi tocca però porre seriamente la domanda.
Quanto all’alternativa seria per trovare rimedio ai 5 miliardi di buco, c’è eccome. Invece di porre mano al rimborso, il governo sfrutti l’occasione per un ricalcolo contributivo ragionato di tutte le pensioni retributive eccessivamente generose. Sarebbe un modo ancor più concreto per pensare ai diritti dei giovani, sulle cui spalle ammassiamo sempre maggiori oneri.
Oscar Giannino da Leoniblog.it - 01-05-2015