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L'altra casta - L'inchiesta sul sindacato

Dopo La casta di Stella e Rizzo, che ha messo in luce l’enormità del costo della politica in Italia, caso unico al mondo,  e La deriva, sempre di Stella e Rizzo, che ha illustrato le disfunzioni del sistema paese, Stefano Livadiotti ha pubblicato, nel marzo 2008 con il governo Prodi in carica solo per l’ordinaria amministrazione, L’altra casta (Bompiani editore), una denuncia sullo strapotere del sindacato in Italia, terzo elemento di distorsione per il corretto funzionamento di una democrazia.
Sostiene Livadiotti «L’immagine del sindacato come di un soggetto responsabile, capace di farsi carico degli interessi generali del paese, agli occhi degli italiani si è dissolta oramai da tempo. Lasciando il posto a quella di un’arrogante casta iperburocratizzata e autoreferenziale che, sotto la guida di funzionari in carriera solleticati dalla voglia del grande salto nel mondo della politica, ha via via perso il contatto con il paese reale. Un apparato che, presentandosi come legittimo rappresentante di tutti i lavoratori, in nome di una concertazione generata in diritto di veto pretende di mettere becco in qualunque decisione di valenza generale. E che in realtà fa gli interessi dei soli suoi iscritti, sempre più marginali rispetto al sistema produttivo nazionale, per i quali sacrifica il bene collettivo, mettendosi ostinatamente di traverso a qualunque riforma rischi di intaccarne uno status quo fatto di privilegi. Una congrega troppo impegnata nelle beghe di palazzo per ricordarsi che il suo core business dovrebbe essere la difesa del potere d’acquisto e della sicurezza dei lavoratori. E che con una sorda chiusura verso ogni forma di meritocrazia ha finito per bloccare l’ascensore sociale, condannando i più deboli a restare tali. Insomma il sindacato dei fannulloni, dei pensionati e dei dipendenti pubblici come lo ha definito Luca Cordero di Montezemolo…I tre leader del sindacato italiano, i tre porcellini, come li chiama in privato Massimo D’Alema, sono onnipresenti. Parlano in media quattro volte al giorno. Di qualunque cosa. Approfittano di qualunque palco e di ogni gazzetta. Ma il risultato è devastante. Solo un italiano su venti si sente rappresentato da loro. E meno di uno su dieci dichiara di fidarsi».
Vorrei far notare che queste dure parole sul sindacato non sono state scritte dal solito giornalista di destra  o qualunquista ma da una delle firme più prestigiose del settimanale L’Espresso.

A chi giova l’esistenza del sindacato in italia

A Palazzo Chigi, Epifani (Cgil), Bonanni (Cisl) e Angeletti (Uil) si presentano come i legittimi rappresentanti dei lavoratori italiani, ma le cose non stanno così. Le tre confederazioni, insieme, raccolgono 11 milioni, 731 mila, 269 tesserati (dati 2006); di questi, 5 milioni, 767 mila, 103, pari al 49,16% sono pensionati. E’ la prima anomalia italiana, in Francia e Germania i pensionati sono meno del 20% degli iscritti. Pertanto i tesserati in attività sono 5 milioni, 964 mila, 166, che, su un totale di 22 milioni, 988 mila lavoratori (Istat 2006) rappresentano un modesto 25,9%, poco più di un lavoratore su quattro. Inoltre, secondo calcoli di Giuliano Cazzola sulla Cgil, se non si calcolano i pensionati, i lavoratori dei trasporti, dell’energia e delle telecomunicazioni, il 70% dei iscritti alla Cgil è a libro paga dello stato. Ma il buco nero più grave della Cgil è tra i giovani: gli iscritti al sindacato hanno 4 anni di più rispetto alla media europea; tra i lavoratori dai 17 ai 24 anni gli iscritti al sindacato sono solo il 22,9%. D’altra parte l’età media dei delegati Cgil, Cisl e Uil oscilla tra i 45 e i 50 anni, la più alta d’Europa, dimostrazione che nel nostro paese fare il sindacalista è una professione e, come vedremo, lucrosa. Afferma Carrieri nel suo Sindacato e delegati «I delegati sono incentivati a rimanere nel ruolo. Più a lungo ci stanno, più tendono a restarci: quando crescono gli anni di permanenza nel ruolo cresce allo stesso tempo la disponibilità a ricandidarsi. Quindi l’attività di delegato tende ad assumere contorni di continuità e di professionalità».
Anche Bernardo Giorgio Mattarella, docente di diritto amministrativo afferma «I sindacati rappresentano solo alcuni cittadini, ma prendono decisioni che riguardano tutti … La base sindacale rispecchia sempre meno l’articolazione della società e coincide sempre meno con le categorie più deboli …Il potere sindacale è spesso utilizzato a vantaggio di alcuni poco meritevoli e a danno di tutti (vedi il caso Alitalia nda)».
Boeri, a proposito della legge finanziaria del governo Prodi, scriveva l’11 ottobre 2006 sulla Stampa: «Le scelte di fondo fatte in questa manovra sono iscritte al sindacato, corrispondono ai desideri dei due gruppi in cui si contano più di due terzi delle tessere sindacali: pensionati e pubblici dipendenti».
Francesco Giavazzi, a proposito della seconda manovra finanziaria del governo Prodi, scriveva il 26 settembre 2007, su Il Corriere della sera: «E’ sempre più evidente che la spesa pubblica concertata tra governo e sindacati non è il modo per difendere i deboli. La quota principale dell’aumento delle pensioni minime andrà alle famiglie dei lavoratori tipicamente iscritti ai sindacati, gli stessi che hanno beneficiato dell’abbassamento da 60 a 58 anni, dell’età minima pensionabile …. Nel prossimo decennio costerà 10 miliardi di euro; di questi, quasi la metà verranno da un aumento dei contributi dei parasubordinati, cioè dai lavoratori meno protetti.»

La politica del no

Il voto che l’Italia ha ricevuto da Business Europe, alla voce “riforme strutturali” è 0,32, un punteggio che la pone al ventisettesimo e ultimo posto in classifica, a notevole distanza dalla media europea di 0,49. Questo risultato dipende dall’incapacità della classe politica, ma in massima parte dall’atteggiamento ostruzionistico del sindacato. L’elenco dei veti posti dal sindacato a riforme strutturali tese a migliorare il funzionamento dello stato è lunghissimo: ricordiamo tra gli ultimi: il piano messo a punto dal ministro Nicolais per uno svecchiamento della pubblica amministrazione; la proposta di contratto unico, avanzata da Boeri e Treu (ex ministro e stretto collaboratore della Cisl): una mediazione per rendere più flessibile il mercato del lavoro ed eliminare il precariato; la proposta di Ichino (professore di diritto del lavoro ed ex dirigente dei metalmeccanici della Cgil) di snellire l’armata dei fannulloni pubblici, con l’istituzione di organismi esterni per la valutazione degli impiegati dello stato; il piano messo a punto dal governo Prodi di unificare tutti i carrozzoni previdenziali in un unico grande Inps; lo snellimento degli adempimenti sulla privacy per le imprese più piccole; l’idea di portare a tre anni la durata dei contratti nazionali di lavoro; il progetto di far quotare Fintecna (bisognosa di finanziamenti) in borsa; l’ostracismo all’asta per la vendita di Alitalia, ostracismo che ha portato al fallimento dell’asta stessa e infine il niet alla proposta di Air France.
Ha scritto Roberto Perotti, professore di economia politica alla Bocconi: «La strategia sindacale consiste nel dire no sempre a tutto. Da un lato, per mantenere un’immagine di forza di fronte a una platea sempre più esigua di iscritti. E dall’altro per alzare il prezzo di qualsiasi concessione in futuro. Tutto questo, sempre più spesso, in dispregio degli interessi stessi degli iscritti, e certamente dei non iscritti».

Il sindacato fai da te

Nella remota eventualità che riescano a mettersi d'accordo, le ultime quattro sigle delle 43 organizzazioni sindacali della scuola potrebbero convocare un tavolo di scopone scientifico, in virtù del loro solitario iscritto. Non c’è da stupirsi perché nel mondo delle confederazioni, le dimensioni non contano. Nel settore ippico ci sono il contratto di base e quello per i cavalli da corsa, anzi, quelli, al plurale perché le normative sono differenti per il trotto o il galoppo. Le imprese che producono ombrelli e ombrelloni godono di un'unica intesa, che però differisce da quella delle imprese che forniscono il manico.. Per stare sull'attualità: nel 2007, la più piccola delle 13 sigle dell'Enav, ente controllori di volo, con cinque tesserati, riuscì a far cancellare 320 voli in un solo giorno.
Sostiene Livadiotti «In Italia chiunque può inventarsi una sigla e proclamare uno sciopero. E infatti succede. Nel pubblico impiego vi sono decine di finte organizzazioni con un solo iscritto: il segretario. Tutta colpa della mancata attuazione dell’articolo 39 della Costituzione che non piace al sindacato.».  Il citato articolo, tra l’altro, afferma che i sindacati possono rappresentare i lavoratori in proporzione ai loro iscritti; se tale articolo fosse seguito non si avrebbe in Italia l’inflazione di sigle che invece abbiamo.
Molti si chiedono, pertanto, a fronte di una così vasta pletora di sigle sindacali quanti sono i contratti collettivi in vigore in Italia?. La banca dati “Unico lavoro” ne ha catalogati 1131, anche se per Epifani sarebbero “solo” 800. Il punto è che il sindacato punta tutto sui contratti collettivi in modo da limitare l’importanza degli accordi integrativi aziendali. Secondo Confindustria il risultato è che solo nel 30% delle imprese si adeguano le buste paga agli incrementi di produttività delle imprese stesse e che fatta 100 la retribuzione, l’80% deriva dal contratto nazionale ed è uguale per tutti da Pantelleria a Milano, indifferente alla produttività e al costo della vita; il 20% rimanente è dovuto per metà alla contrattazione aziendale e per metà agli avanzamenti di carriera. Nella media Ue solo il 50% della busta paga è concordato a livello centrale; l’Italia è fuori dai parametri di retribuzione europei perché così vuole il sindacato.

La carica dei 700.000

 Afferma Bruno Manghi, capo del centro studi fiorentino della Cisl, «Oggi in Italia ci sono 700.000 persone con un mandato sindacale, a tutti i livelli: delegati, dirigenti, membri di commissione. Nessuno nel mondo laico ha questo potere». A esempio i carabinieri sono 110 mila. Il problema è che ognuno dei 700.000 ha diritto a otto ore di permessi retribuiti al mese, in pratica si parla di 5 milioni, 600mila ore di lavoro al mese, che nei fatti sono molto di più. Secondo Cazzola il totale sarebbe di 8 milioni e 400 mila ore mensili; per il sistema Italia si tratta di un costo pari a 154 milioni, 560mila euro al mese, cifra, peraltro, irrisoria, come vedremo, rispetto alla montagna di soldi che il sindacato riesce a movimentare.

I bilanci delle organizzazioni sindacali

«Le tre confederazioni sono l’ottava impresa privata italiana. Hanno un apparato tentacolare, dove solo i dipendenti diretti sono ventimila, e un fatturato da multinazionale, alimentato da un sistema occulto di finanziamenti statali. Ecco perché si sono sempre rifiutati di rendere pubblici i loro bilanci. … Oggi essi sono una gigantesca macchina da soldi. Se dunque esiste un problema dei costi della politica, a maggior ragione il discorso vale per i sindacati. Anche perché i partiti almeno uno straccio di bilancio lo presentano».
Della stessa idiosincrasia fanno mostra Guglielmo Epifani, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti, quando si tratta di affrontare l'annosa questione dei conti dei sindacati, che continuano a promettere bilanci consolidati, tranne poi guardarsi bene dal metterli nero su bianco. Forse perché i numeri racconterebbero come le organizzazioni dei lavoratori, difendendo con le unghie e con i denti una serie di privilegi più o meno antichi, si siano trasformate in macchine da soldi, con il benestare di un sistema politico giunto ai minimi della popolarità e spaventato dalla loro capacità di mobilitazione. D’altra parte mettere a nudo l’entità e la fonte della loro ricchezza può essere pericoloso; infatti negli anni ottanta Margaret Thatcher regolò i conti con lo strapotere delle Trade Unions puntando dritto sul loro sistema di finanziamento.
Quasi dieci anni fa, alla fine del 1998, un ingenuo deputato di Forza Italia, ex magistrato del lavoro, convinse 160 colleghi a firmare un provvedimento che obbligava i sindacati a fare chiarezza sui loro conti. Probabilmente nessuno gli aveva ricordato come solo pochi anni prima, nel 1990, Cgil, Cisl e Uil fossero state capaci di ottenere dal parlamento una legge che concede loro addirittura la possibilità di licenziare i propri dipendenti senza rischiarne poi il reintegro, con buona pace dello Statuto dei lavoratori. Fatto sta che, puntuale, la controffensiva di Cgil, Cisl e Uil scattò dopo l'approvazione del primo articolo con soli quattro voti di scarto. "È antisindacale", tuonò l'ex capo della Cisl Sergio D'Antoni, quale vice ministro per lo Sviluppo economico. Lesti i deputati del centro-sinistra azzopparono la legge, mettendosi di traverso alle sanzioni (tra i 50 e i 100 milioni) previste in caso di violazioni. Alla fine la proposta di legge è rimasta tale, così come tutte quelle presentate in seguito..
Il risultato è che i bilanci dei sindacati, quelli veri, non sono mai usciti dai cassetti dei loro segretari. "Il giro d'affari di Cgil, Cisl e Uil ammonta a 3 mila e 500 miliardi di vecchie lire", sparò nell'ottobre del 2002 il radicale Daniele Capezzone, "e il nostro è un calcolo al ribasso". Non ci deve essere andato molto lontano, se è vero che oggi Lodovico Sgritta, amministratore della Cgil, si limita a non confermare che il fatturato consolidato di corso d'Italia abbia raggiunto il tetto del miliardo di euro. E ancora: se è vero che quello del sistema Uil, non paragonabile per dimensioni, metteva insieme 116 milioni già nel 2004, esclusi Caf, patronati e quant'altro. Fare i conti in tasca alle organizzazioni sindacali, che hanno ormai raggiunto un organico-monstre dell'ordine dei 20 mila dipendenti, è difficile, anche perché le loro fonti di guadagno sono le più disparate. Ma ecco quali sono i principali meccanismi di finanziamento. E le cifre in ballo.

Il sostituto d'incasso

La maggiore risorsa economica di Cgil, Cisl e Uil  sono le quote pagate ogni anno dagli iscritti: in media l'1 per cento della paga-base; di meno per i pensionati, che danno un contributo intorno ai 30-40 euro all'anno. Un esperto della materia come Giuliano Cazzola, già sindacalista di lungo corso della Cgil ed ex presidente dei sindaci dell'Inps, parla di almeno un miliardo l'anno. Secondo quanto risulta a L'Espresso, il solo sistema Cgil ha incassato nel 2006 qualcosa come 331 milioni. Una bella cifra, per la quale il sindacato non deve fare neanche la fatica dell'esattore: se ne incaricano altri; gratuitamente s'intende. Nel caso dei lavoratori in attività, a versargli i soldi ci pensano infatti le imprese, che li trattengono dalle buste paga dei dipendenti. Per i pensionati provvedono invece gli enti di previdenza: solo l'Inps, nel 2006, ha girato 110 milioni alla Cgil, 70 alla Cisl e 18 alla Uil. Nel 1995 Marco Pannella tentò di rompere le uova nel paniere al sindacato, promuovendo un referendum che aboliva la trattenuta automatica dalla busta paga (introdotta nel 1970 con lo Statuto dei lavoratori). Gli italiani votarono a favore. Ma il meccanismo è tuttora vivo e vegeto: salvato, in base a un accordo tra le parti, nei contratti collettivi. Le imprese, che pure subiscono dei costi, non sono volute arrivare allo scontro. E lo stesso ha fatto il governo di Romano Prodi quando, più di recente, Forza Italia ha presentato un emendamento al decreto Bersani che avrebbe messo in crisi le casse sindacali. In pratica, la delega con cui il pensionato autorizza l'ente previdenziale a effettuare la trattenuta sulla pensione, che oggi è di fatto a vita, avrebbe avuto bisogno di un periodico rinnovo. Apriti cielo: capi e capetti di Cgil, Cisl e Uil hanno fatto la faccia feroce. Il governo, a scanso di guai, ha dato parere contrario e l'emendamento è colato a picco.

Strapotere dei Caf

I Centri di assistenza fiscale rappresentano per i sindacati un formidabile business. Per le dichiarazioni dei redditi dei pensionati essi vengono pagati dagli enti previdenziali. Solo l'Inps per il 2006 verserà ai 74 caf convenzionati 120 milioni. A fare la parte del leone saranno le strutture di Cgil, Cisl e Uil, che insieme totalizzeranno circa 90 milioni. Non basta. Per i lavoratori in attività i Caf incasseranno dal Fisco 15,7 euro per ognuna delle 12.261.701 dichiarazioni inviate agli uffici nel 2006. Il ministero sborserà dunque 186 milioni. Anche in questo caso, secondo i conti che Livadiotti ha potuto esaminare, la fetta più grande della torta andrà a Cgil (38 milioni, 195 e 177 euro), Cisl (30 milioni, 763 mila e 485) e Uil (12 milioni, 78 mila e 793 euro). Un piatto ricco, considerando che i Caf ricevono inoltre, come contribuzione volontaria, una media di 25 euro dalle tasche dei contribuenti aiutati nella compilazione del 730 (per un totale di 175 milioni, secondo Cazzola) e mettono insieme un'altra cinquantina di milioni per il calcolo di Ise e Isee (i redditometri per le famiglie che chiedono prestazioni sociali). Considerando le cifre in ballo, i sindacati hanno fatto fuoco e fiamme pur di tenersi ben stretto il giocattolo. Nel 2005, sotto l'incalzare della Corte di Giustizia europea, convinta che il monopolio dei Caf rappresentasse una violazione ai trattati comunitari, il governo di Silvio Berlusconi aveva aperto la porta a commercialisti, ragionieri e consulenti del lavoro. Una manovra talmente timida che la Commissione europea ha inviato all'Italia una seconda lettera di messa in mora. Sull'argomento gli uomini di Bruxelles hanno preteso e ottenuto, ancora nel gennaio scorso, un vertice a palazzo Chigi. Concluso, naturalmente, con un niente di fatto.

I patronati

Se il monopolio dei Caf è sotto assedio, resiste saldo quello dei patronati, le strutture (quelle convenzionate con l'Inps sono 25) che assistono i cittadini nelle pratiche previdenziali (ma anche, per esempio, per la cassa integrazione e i sussidi di disoccupazione): una rete capillare, dall'Africa al Nordamerica passando per l'Australia, che alcuni sospettano abbia un ruolo non indifferente anche nell'indirizzare il voto degli italiani all'estero. Nel 2000 i radicali hanno lanciato l'ennesimo referendum abrogativo, ma si sono visti chiudere la porta in faccia dalla Consulta. Più di recente Forza Italia ha cercato, con un emendamento al decreto Bersani, di liberalizzare il settore. Se l'emendamento berlusconiano non fosse stata respinto, per il sindacato sarebbe stato un colpo mortale. I patronati, infatti, sono fondamentali per il reclutamento di nuovi iscritti tra i pensionati, che quando vanno a ritirare i moduli si vedono sottoporre la delega per le trattenute: "Con i patronati e gli altri servizi nel 2005 la Cgil ha raggranellato 450 mila nuove iscrizioni", sostiene Cazzola. Non bastasse, i patronati assicurano un gettito che non è proprio da buttare via: in pratica si dividono (in base al lavoro svolto) lo 0,226 del totale dei contributi sociali riscossi dagli enti previdenziali. A lungo questa cifra è stata calcolata solo sui contributi dei pensionati privati, per l'ottimo motivo che a quelli pubblici le scartoffie per l'assegno le ha sempre curate l'amministrazione. Poi, però, nel 2000, per gentile concessione del parlamento (con un voto a larghissima maggioranza) nel monte-contributi sono stati fatti confluire anche quelli dei lavoratori statali. E la cifra ha iniziato a lievitare: 314 milioni nel 2004, 341 nel 2005, 349 nel 2006. Solo l'Inps nel 2006 ha speso per i patronati (che ora, per arrotondare, si occupano anche del rinnovo dei permessi per gli immigrati) 248 milioni, 914 mila e 211 euro. Alla fine, secondo quanto risulta, l'Inca-Cgil ha incassato 82 milioni e 250 mila euro, l'Inas-Cisl 66 milioni e 150 mila euro e l'Ital-Uil 26 milioni e 600 mila euro.

Forza lavoro gratuita

È quella distaccata presso il sindacato dalla pubblica amministrazione, che continua graziosamente a pagarle lo stipendio. Compresi, e vai a capire perché, i premi di produttività e i buoni pasto. Oggi i dipendenti statali dati in omaggio al sindacato sono 3.077 e costano al contribuente (Irap e oneri sociali compresi) 116 milioni di euro. Ai quali vanno sommati 9,2 milioni per 420 mila ore di permessi retribuiti. Di regalo in regalo, per i dipendenti in aspettativa, ai quali deve invece pagare lo stipendio, il sindacato usufruisce comunque di uno sconto: non paga i contributi sociali, che sono considerati figurativi e quindi a carico dell'intera collettività. Un privilegio che hanno perduto perfino le assemblee elettive (a partire dal parlamento). Ma i sindacati no.

Il business della formazione

Dall'Europa piove ogni anno sull'Italia circa un miliardo e mezzo di euro per il finanziamento della formazione professionale. In più ci sono i circa 700 milioni dell'ex fondo di rotazione, alimentato dallo 0,30 per cento del monte-contributi che le imprese versano agli enti previdenziali. Un tempo, non meno del 40-50 per cento di queste somme passava attraverso enti di emanazione sindacale, che non incassavano direttamente un euro ma gestivano comunque le assunzioni e la distribuzione degli incarichi. Oggi la concorrenza s'è fatta più dura. Ma i sindacati non mollano l'osso. Dieci dei 14 enti che si distribuiscono ogni anno circa la metà dei finanziamenti nazionali sono partecipati da Cgil, Cisl e Uil.

Casa mia, casa mia

L'assenza di bilanci consolidati non consente di far luce sull'immenso patrimonio immobiliare accumulato negli anni dai tre sindacati confederali, cui lo Stato a un certo punto ha pure regalato i beni delle corporazioni dell'epoca fascista. Fino a pochi anni fa i sindacati non potevano possedere direttamente gli immobili: li intestavano a società controllate. La legge che ha consentito loro il controllo diretto ha garantito anche un passaggio di proprietà al riparo dalle pretese del fisco. Oggi la Cgil dichiara di avere, sparse per tutto il Paese, qualcosa come 3 mila sedi, tutte di proprietà delle strutture territoriali o di categoria. "Non so stimare il valore di mercato di un patrimonio che non conosco ma", afferma l'amministratore della Cgil, "deve trattarsi di una cifra davvero impressionante". La Cisl dichiara addirittura 5 mila sedi, tra confederazione, federazioni nazionali e diramazioni territoriali (pensionati compresi), quasi tutte di proprietà. La Uil è l'unica che ha concentrato il grosso degli investimenti sul mattone in una società per azioni controllata al 100 per cento. Si chiama Labour Uil e ha in bilancio immobili per 35 milioni e 75 mila euro (a valore storico; quello di mercato è tre volte superiore), ma non, per esempio, la sede romana di via Lucullo, che lo stesso tesoriere nazionale Rocco Carannante stima tra i 70 e gli 80 milioni di euro.

Il 5 per mille

L’ultima grande frontiera del business sindacale è il 5 per mille delle dichiarazioni Irpef. Sostiene Stefano Zamagni, presidente dell’Agenzia per le Onlus: «I sindacati hanno dato vita a una serie di soggetti che, rispondendo alle caratteristiche fissate dalla legge sulle organizzazioni non lucrative di utilità sociale sono state a loro equiparate». «A quel punto – afferma Livadiotti - sono entrati in gioco i soliti Caf … i quali non fanno mancare il loro consiglio sul destinatario da indicare. Spesso giocando ai limiti del lecito». «Le associazioni che fanno in qualche modo riferimento al sindacato sono state ovviamente avvantaggiate dai Caf», conferma anche Zamagni.
 Il fatto certo, alla fine, è che Cgil, Cisl e Uil sono ricchi. Quanto, però, nessuno lo sa davvero.

La caccia alle poltrone

Dove la lotta tra le sigle sindacali è veramente cruenta è il campo di battaglia per assicurarsi le poltrone. Già nel 1980 lo studioso Sabino Cassese affermava che nel 50% degli organi collegiali amministrativi sedessero rappresentanti dei lavoratori, per un totale non inferiore a ottanta o centomila persone e che nell’amministrazione statale i collegi caratterizzati dalla presenza di sindacalisti fossero alcune migliaia. Sempre secondo Cassese, si poteva ritenere che il 7% degli amministratori di enti pubblici fosse di provenienza sindacale e che nei soli consigli di amministrazione degli enti pubblici avessero trovato spazio circa 26 mila membri di designazione sindacale.
Con il governo Prodi ex sindacalisti occupano la seconda e terza carica dello stato con Marini e Bertinotti. Tra deputati e senatori l’8,46% ha ricoperto un incarico sindacale, a Montecitorio sono 53, al Senato sono 27, una decina tra ministri sottosegretari, un’armata pronta a saldarsi quando qualche sprovveduto propone un progetto indigesto alle tre grandi confederazioni.
Mi fermo qui perché l’elenco degli enti previdenziali, dei Crel, delle Commissioni regionali, provinciali e comunali ecc., dove pullulano i sindacalisti è ampio e invito il lettore di leggersi il saggio di Livadiotti.

Nella seconda parte del saggio Livadiotti affronta il problema dell’influenza del sindacato nel pubblico impiego. Questo settore nel quale l’intreccio tra interessi corporativi, politica e sindacato, ha prodotto inefficienza e costi impressionanti, è sicuramente l’ambito più vergognoso di tutto il sistema Italia e richiederebbe un approfondimento troppo ampio per essere trattato in questo articolo. Vengono approfonditi i casi Alitalia, Ferrovie, Poste, Inps, Enav, Bankitalia e ritengo, che in questa sezione, il trattato più che un saggio sembrerebbe una raccolta di barzellette, tanto inverosimili, incomprensibili e ingiustificate sono le pretese di questi lavoratori del pubblico impiego e tanto risibili le richieste e le posizioni del sindacato.

Eugenio Caruso
15 agosto 2008


AGGIORNAMENTO del 10 settembre 2008

Una conferma di come sia stata gestita male la scuola, a esempio, arriva da un rapporto dell'OCSE

Molti insegnanti, ma con stipendi bassi. Molti iscritti all'Università, ma pochi laureati. Il rapporto annuale Ocse mette a nudo i noti problemi di scuola e università in Italia e non lascia scampo: i soldi investiti sono molti, ma spesi male.


Il rapporto presentato il 9 settembre 2008 dall'Ocse a Parigi conferma uno spaccato non esaltante del sistema educazionale nazionale: pochi investimenti pubblici e privati, limitato accesso all'istruzione superiore, poca specializzazione, alto numero e bassi stipendi degli insegnanti.

Cifre alla mano in Italia solo il 17% della popolazione tra i 24 e i 34 anni ha conseguito una laurea, percentuale che scende al 9% se si prende in considerazione la fascia di età tra i 55 e i 64 anni. Nell'Ocse invece l'educazione terziaria riguarda il 33% dei giovani tra i 25 e i 34 anni e il 19% dei più anziani. In cima alla classifica dell'OCSE, relativamente alla popolazione che ha conseguito un livello di educazione universitaria (dati 2006), eccellono paesi come la Federazione russa e il Canada, con oltre il 55% di laureati.

L'Ocse ammette che in Italia un miglioramento c'è stato grazie soprattutto alle 'lauree brevi' introdotte con la riforma del 2002. "L'Italia - si legge nel rapporto - ha raddoppiato il numero dei suoi laureati di fascia 'A' tra il 2000 e il 2006 portandoli dal 19 al 39%. Il Paese resta ancora lontano però dai programmi di formazione più avanzati, quelli di 'fascia B' che, scrivono gli esperti, "non fanno neanche parte del sistema educativo superiore".

L'Italia, inoltre, resta uno dei paesi con il tasso più basso di studenti che completano il ciclo di studi terziario, pari al 45% degli iscritti contro il 69% dell'area Ocse e resta anche, visto da fuori, uno dei Paesi dal sistema educativo meno 'attraente': la quota di studenti stranieri è del solo 2% contro il 20% degli Usa, l'11% della Gran Bretagna, il 9% della Germania, l'8% della Francia e, addirittura, il 4% del Giappone. 

L'istruzione terziaria rappresenta ancora per l'Italia un settore di scarsi investimenti rispetto agli altri paesi industrializzati. A fronte di una spesa superiore alla media per quanto riguarda gli asili nido e le scuole materne, infatti, l'ago della bilancia si sposta vorticosamente verso il basso quando si parla di investimenti in università e ricerca. A livello terziario l'Italia spende mediamente per studente 8.026 dollari l'anno contro una media Ocse di 11.512 dollari.

Il confronto si ribalta se si parla di spesa per i bambini in età prescolare per cui la cifra, pari a 6139 dollari a bambino, supera quella media dell'area, pari 4888 dollari.

Sotto la spinta del sindacato, la politica delle assunzioni di masse di insegnanti e di precari nelle scuole elementari e medie ha portato ad avere tre maestri per classe, nelle elementari, a uno scadimento di livello (1), nelle medie inferiori e superiori, e a un grave sbilanciamento tra le risorse riversate nelle scuole elementari e medie rispetto a quelle per le università (ndr).

"Nel settore dell’istruzione secondaria, l’Italia spende molto denaro, paga, però, troppi professori, rispetto alla media Ocse, dando loro uno stipendio molto basso", ha detto Andreas Schleicher, responsabile delle ricerche sull’istruzione dell’Ocse. "La spesa - ha aggiunto - non è il difetto principale dell’Italia, anzi, per la scuola primaria investe più risorse della media Ocse, 6.835$ per alunno contro 6.252, mentre per la scuola secondaria è in linea con la spesa Ocse, 7.648$ contro 7.804. Il vero problema è, invece, come vengono spesi i fondi elargiti dallo Stato. A esempio, la situazione è ben diversa all’università, dove in media i paesi Ocse spendono 11.512 dollari per ogni studente mentre l’Italia investe solo 8.026 dollari".

(1) La stragrande maggioranza dei docenti universitari si lamenta dello stato di "ignoranza" con il quale gli studenti arrivano all'università.


Per un approfondimento sulla storia del sindacato si rimanda al seguente successo editoriale.
E. Caruso, L'estinzione dei dinosauri di stato.

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