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Internet delle cose. Parte 1


Terribili travolgono gli eventi la vita degli uomini
Seneca, Fedra

Quanti di voi conoscono il significato di “Internet delle cose” o, in lingua madre, “Internet of things” (IoT)? Seppur se ne parli spesso negli ultimi tempi, pare che la nozione non sia molto familiare all’utente medio, colui che ha una discreta dimestichezza con gli strumenti tecnologici ma non può essere considerato un esperto. A evidenziare una certa ignoranza in materia, normalissima vista la tematica in ascesa ma ancora di nicchia, è una ricerca di Acquity Group (che si scarica qui ), agenzia parte di Accenture, da cui risulta come circa l’87% dei duemila intervistati non abbia mai sentito parlare di “Internet degli oggetti”.
Il report “The Internet of Things: The Future of Consumer Adoption ” contiene degli evidenti paradossi, soprattutto a livello etimologico. Ad esempio si legge come il 30% dei consumatori possegga già un dispositivo che rientra nella categoria “Internet delle cose”, tra cui un termostato, un orologio o un braccialetto connesso, ma non sanno di potersi vantare di avere un “IoT” tra le mani. Insomma quello che manca sembra essere una corretta campagna di comunicazione e promozione dei nuovi gadget che si apprestano a invadere negozi e catene specializzate. Giusto per essere ancora più precisi, orologi e bracciali, grazie alla possibilità di essere indossati, rientrano nella categoria chiamata “wearable”, ovvero di oggetti che ognuno può mettere al polso o (nel caso dei Google Glass) sugli occhi, per interagire in modo innovativo con il web.
Ma come spiegare cosa si intende per IoT? Lo abbiamo chiesto a Davide Bennato, professore di Sociologia dei processi culturali e comunicativi e Sociologia dei media digitali all’Università di Catania: “L’espressione “Internet delle cose” indica una famiglia di tecnologie il cui scopo è rendere qualunque tipo di oggetto, anche senza una vocazione digitale, un dispositivo collegato a internet, in grado di godere di tutte le caratteristiche che hanno gli oggetti nati per utilizzare la rete”. Attualmente le proprietà degli oggetti connessi sono essenzialmente due: il monitoraggio e il controllo. Monitoraggio vuol dire che l'oggetto può comportarsi come sensore, ovvero essere in grado di produrre informazioni su di sé o sull'ambiente circostante.
Ad esempio: un lampione IoT non solo può rivelare se la propria lampada è funzionante oppure no, ma potrebbe anche analizzare il livello di inquinamento dell'aria. Controllo vuol dire che gli oggetti possono essere comandati a distanza senza tecnologie particolari ma attraverso internet”. I campi di applicazione sono innumerevoli, il limite è solo la fantasia. “Attualmente i settori più interessati sono la domotica, in cui gli oggetti IoT invadono le tecnologie casalinghe, compresi gli elettrodomestici, e le smart cities, dove le città diventano produttrici di dati e sono controllabili a distanza”. È il caso dei totem digitali presenti nelle principali capitali in tutto il mondo, che possono indicare il numero di pedoni presenti a una fermata del tram, gli smartphone connessi a un hotspot pubblico e tanto altro.
Nonostante le principali aziende abbiano lavorato molto per far conoscere al mondo le nuove possibilità dell’Internet of Things, il report di Acquity Group ha rilevato una certa mancanza di interesse verso i dispositivi connessi. La principale barriera all’acquisto pare essere la convinzione che l’utilizzo degli IoT non dia un valore aggiunto alle persone e che il costo sia ancora elevato rispetto allo stesso oggetto “non connesso” (semplici orologi, bracciali, occhiali), con le ovvie differenze. Sembra poi esservi un certo timore su come viene gestita la privacy sugli indossabili, con la paura che sia i dati conservati sul dispositivo che quelli raccolti con l’esperienza quotidiana possano essere facilmente trasmessi all’esterno.
Ed è proprio quest’ultima problematica quella che potrebbe avere le conseguenze maggiori nello sviluppo di nuovi indossabili o, più generalmente, di IoT. Come ci spiega Bennato: “Gli scenari problematici sono due: la privacy e la sicurezza. Il primo punto è una conseguenza del monitoraggio. Se un oggetto IoT produce dati, questi potrebbero essere relativi a persone e al loro utilizzo. La manipolazione di queste informazioni ricadrebbe nel discusso campo della trasparenza e trattamento dei dati personali. La sicurezza è invece una conseguenza del controllo: se qualunque oggetto può essere comandato a distanza, potrebbe anche essere attaccato da criminali informatici.
Ed è per questo che quando si parla di IoT entrano in gioco altre tecnologie, come l’IPv6 (il nuovo protocollo internet che permetterà di aumentare il numero di indirizzi IP a disposizione), Big Data (la raccolta di informazioni dettagliate su uno specifico individuo) e cloud computing, in riferimento alla sicurezza e stabilità delle infrastrutture che conservano le informazioni inviate e scambiate tra dispositivi IoT e tradizionali, smartphone, tablet e computer ma anche i data center delle aziende.”

Per la parte 1 clicca qui.


Antonino Caffo da www.la stampa.it

25-05- 2015

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Tratto da

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www.impresaoggi.com