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Il contributo italiano alla robotica


Gli dei rivedo dei miei padri. Se mai esistono gli dei
Seneca, Tieste

Editoriale
Uomini oppure robot? Posta in questi termini, la domanda sembra descrivere un’alternativa secca o perfino uno scontro epocale. In effetti, il filo conduttore di questo numero di Aspenia non è realmente la battaglia tra esseri umani e macchine, ma piuttosto la loro interazione e i quesiti che emergono dallo sviluppo accelerato della robotica. Siamo infatti entrati in una fase storica in cui diamo per scontata la presenza pervasiva di macchine complesse che lavorano per noi e con noi, quasi senza accorgerci di quanto questo abbia già cambiato la vita quotidiana. Anche a prescindere dalle scelte individuali su quanta tecnologia utilizzare e in quali dosi, c’è comunque una fortissima motivazione competitiva a livello collettivo per l’adozione delle tecnologie più avanzate: quasi nessuna azienda, e soprattutto nessun sistema economico, può prosperare a lungo senza sfruttare al meglio il potenziale tecnologico. Non si tratta dunque di vagliare se spingersi oppure no verso la prossima frontiera tecnologica – ci si arriverà comunque, magari in ritardo rispetto ad altri – ma piuttosto come meglio gestire le conseguenze, a volte indesiderate, di quella frontiera mobile.
Le più rivoluzionarie tra le tecnologie emergenti sono quelle che possono rivelarsi “disruptive technologies”, alterando il settore nel quale vengono introdotte e rendendo obsolete intere catene produttive. Tali innovazioni si intrecciano in modi spesso imprevedibili con il business, gli equilibri sociali, e poi la politica e l’etica. Non a caso, altri termini usati per descrivere le innovazioni più radicali nei loro effetti hanno connotazioni minacciose, come “tecnologie killer”. L’intento sembra essere di esorcizzare le paure perfino con una certa ironia: scarichiamo insomma l’ultima “killer app”, uccidiamo continuamente le abitudini, prendiamone altre e accettiamo la sfida dell’aggiornamento senza sosta.
Rimane il fatto che sono soprattutto le innovazioni più di avanguardia a catturare l’immaginazione, e giustamente. Uomini o robot – dunque come confronto o perfino vera alternativa – è allora un quesito realistico soprattutto nel campo dell’intelligenza artificiale, un campo che ha vissuto un’accelerazione con la creazione della super-rete di memoria e capacità di calcolo che chiamiamo, quasi banalmente, internet.
Recentemente si sono levate alcune voci molto autorevoli a manifestare serie preoccupazioni per il futuro dell’intelligenza artificiale, tra le quali quelle del fisico Stephen Hawking e di Bill Gates. D’altro canto la grande innovazione della robotica sta proprio nella sintesi di due filoni che inizialmente potevano sembrare separati: lo sviluppo di macchine capaci di muoversi e interagire, e la creazione di software in grado di “viaggiare” nella rete (dunque online) evolvendo verso forme più complesse grazie alla disponibilità immediata di un’immensa massa di dati. Mentre siamo stati a lungo abituati a concepire i robot come macchine dedicate soltanto a lavori ripetitivi e dunque per definizione non intelligenti, la situazione sta rapidamente cambiando: il grande potenziale delle robotica, al di là degli evidenti vantaggi di avere macchine che sostituiscano gli esseri umani per attività che in effetti non richiedono “vera” intelligenza, sta nel fatto che i sistemi artificiali siano in grado di imparare, e dunque possano essere dotati di una qualche forma di intelligenza. E sottoposte alle leggi universali dell’evoluzione. Il che significa avvicinarsi molto alla definizione di nuove forme di vita, cioè entità senzienti di cui in effetti non possiamo prevedere – tantomeno guidare – lo sviluppo.
È qui che il discorso si fa assai più interessante ma anche assai più delicato, con esiti del tutto aperti. La discussione sui rischi insiti nelle nuove tecnologie non è affatto recente, e in realtà si lega alla conoscenza in sé prima ancora che alla tecnologia: si pensi alla vicenda di Adamo ed Eva o a quella di Prometeo. Quando si è passati dall’ambito del soprannaturale a quello della scienza, il problema si è riproposto con il cosiddetto “complesso di Frankenstein”.
Come osservò lucidamente il più noto scrittore di fantascienza legata ai robot, Isaac Asimov (in “Visioni di robot”): “la creazione dei robot venne considerata l’esempio più evidente dell’arroganza degli uomini che volevano avvolgersi, usando la scienza in modo scorretto, nel manto della divinità”.
Naturalmente, chi (come Asimov) ha in ultima analisi fiducia nella capacità umana di gestire il progresso, ricorda che ogni invenzione o scoperta è uno strumento suscettibile di usi buoni e cattivi: il linguaggio porta con sé le bugie, il fuoco gli incendi dolosi, le automobili gli incidenti, e perfino i progressi della medicina hanno come effetto indiretto l’esplosione demografica. Insomma, la cautela è d’obbligo ma è la volontà umana a determinare gli usi di qualsiasi strumento tecnologico – almeno fintanto che una nostra creazione non acquisisca una volontà propria.
E la realtà – sostiene Luca De Biase nel suo ultimo libro “Homo pluralis” – è che il primo fenomeno da osservare è lo sviluppo dell’intelligenza collettiva, prima che dell’intelligenza artificiale. Ciò che conta, insomma, è la forza sommata dello “essere umani” nell’era di internet. Mentre i robot – Watson incluso – sono ancora lontani (per quanto, per sempre?) dalla capacità di far prevalere l’avvento dell’intelligenza artificiale.
Mentre è opportuno riflettere seriamente sulle frontiere dell’intelligenza artificiale e dei robot super-connessi, non sempre i cambiamenti più rapidi o profondi vengono direttamente dal più avanzato settore “hi-tech”: spesso le grandi innovazioni in termini di fruizione di massa sono causate dalla ricombinazione di tecnologie esistenti e relativamente mature. È il caso del “medium-tech”, in particolare nel campo manifatturiero e del capitale umano che è un fattore decisivo se combinato ad un contesto economico propizio all’innovazione. Ci sono dunque molte forme di cambiamento, spesso di tipo organizzativo e dunque meno visibile all’utente finale, che comunque hanno un notevole impatto sul mondo della produzione e del lavoro.
Qui assistiamo – come dimostrano i diversi contributi a questo numero di Aspenia – a tendenze contraddittorie. C’è anzitutto la ben nota tesi della “distruzione creativa” per cui in una prima fase l’introduzione di un nuovo strumento mette fuori mercato i lavoratori meno aggiornati e meno “skilled”, ma poi arrivano gli effetti benefici per (quasi) tutti in termini di produttività e nuova occupazione. Di fatto, l’elemento creativo consiste nell’ampliamento dello spazio dei prodotti, o addirittura nella formazione di nuovi desideri nei consumatori: la distruzione è temporanea perché il mercato si allarga, e con la crescita (e gli investimenti) prosegue anche la corsa dell’innovazione in una sorta di ciclo senza fine. La digitalizzazione sta probabilmente facendo da moltiplicatore per un fenomeno di per sé non nuovo.
Le economie del XXI secolo puntano moltissimo su questa dinamica, e non a caso sempre più spesso il concetto di “flessibilità” del lavoro viene accettato come un imperativo: in questa fase storica non sembra affatto una scelta ideologica (ci sono peraltro buone ragioni per discutere criticamente sulla flessibilità in quanto tale) ma un’esigenza funzionale. A fronte del continuo adattamento a nuove tecnologie e metodi organizzativi, non sembra esservi altro modo per consentire alle aziende di cogliere le opportunità; l’alternativa è restare indietro e finire esse stesse vittime del processo distruttivo. In poche parole, si potrebbe dire che chi non crea (in forme sempre nuove) viene distrutto. Come si vede, siamo in un ambiente molto selettivo, che offre comunque grandi opportunità: dunque un ambiente meritocratico, volendone vedere il lato positivo.
C’è però una tesi ben più pessimistica: al contrario delle precedenti rivoluzioni industriali, la rivoluzione digitale sarebbe destinata a produrre diseguaglianze e fratture sociali profonde e forse permanenti. La ragione sta nella caratteristica centrale dell’economia digitale: la conoscenza. Questo fattore della produzione e della competitività è tra i più difficili da acquisire e agisce come una specie di acceleratore delle differenze, per cui gli analfabeti digitali non riescono neppure a orientarsi nel mondo di oggi. Non soltanto per loro la strada è in salita; a volte non sanno neppure dove andare.
In sostanza, mentre l’accesso a tecnologie a basso costo sta riducendo le barriere d’ingresso per alcuni tipi di business, il “digital divide” sta innalzando nuove barriere per i lavoratori, rischiando alla fine di impoverire larghe fasce di consumatori potenziali e dunque innescando un circolo vizioso “depressivo”. Ciò avrebbe, a sua volta, un effetto distruttivo anche sul ruolo dello Stato come strumento di compensazione dei difetti del mercato, visto che a lungo andare calerebbe fatalmente il gettito fiscale, e con esso l’efficacia di qualunque intervento pubblico a tutela dei cittadini più svantaggiati.
Un’ipotesi simile, avanzata tra gli altri dall’Economist, guarda a un altro aspetto rilevante: la diffusione capillare di tecnologie (relativamente) nuove starebbe creando prodotti migliori ma posti di lavoro peggiori, aumentando dunque la qualità di alcuni beni e servizi ma danneggiando la qualità della vita per un altro verso – quello appunto del mondo del lavoro, anche in termini di sicurezza e garanzie. È perciò che diventa decisivo porre al centro della discussione il fattore umano – in altre parole, uomini prima che robot – alla ricerca di un “nuovo Rinascimento”, come lo chiama Antonio Calabrò.
La responsabilità della politica è comunque quella di gestire processi del genere, se non orientarli preventivamente – compito assai arduo, se si accetta l’assunto che la prossima innovazione è per definizione ignota, altrimenti sarebbe già stata adottata. Il problema è che tutte queste tendenze generali vanno poi inserite nel contesto dei mercati globalizzati, per cui la competizione è fortissima e pone vincoli severi alla libertà di azione dei governi. È ben noto che il rischio principale è quello del “dumping sociale” mediante la corsa verso il basso dei salari (per la grande disponibilità di mano d’opera in paesi dove la produzione può essere delocalizzata), a cui ora contribuisce anche l’automazione. Tutte queste pressioni si scaricano, inevitabilmente, sulla politica, con richieste crescenti di protezione da parte dei cittadini/elettori e i vari fenomeni di rigetto della globalizzazione.
Proprio la vastissima letteratura sulla globalizzazione ci spiega da anni che sono stati rimessi in discussione i rapporti tra autorità statuali, territorio, individui. Le comunicazioni digitali hanno portato intanto un cambiamento profondo nell’equilibrio tra accesso all’informazione, privacy, sicurezza, dunque, perfino nell’identità collettiva e personale. Perfino il “Leviatano”, cioè lo Stato di marca hobbesiana/weberiana (composto di governo con esercizio della sovranità, popolazione e territorio ben definiti), deve allora adattarsi a queste realtà. Anche qui è in atto una rivoluzione; una rivoluzione che potrebbe portare con successo a una forma di Stato più efficiente e più giusta, come sostengono John Micklethwait e Adrian Wooldridge. La loro tesi, condivisibile, è che non dovremmo gettare il bambino con l’acqua sporca, perché lo Stato conserva un ruolo cruciale e insostituibile: libertà, democrazia e giustizia sociale sono ancora compatibili. Anche la geopolitica è ovviamente influenzata dalle nuove tecnologie e dal modo in cui gli attori governativi cercano di sfruttarle. La rapidità e imprevedibilità dei cambiamenti è tale da rendere quasi impossibile una pianificazione tradizionale da parte dei governi. Si pensi alle politiche industriali: le grandi innovazioni scaturiscono sempre più spesso dalla sperimentazione di piccole start-up che crescono in tempi brevissimi fino a diventare degli attori di prima grandezza, o che vengono acquisite dai colossi del loro settore. In tale contesto, gli effetti geopolitici delle innovazioni tecnologiche sono inevitabili ma anche molto difficili da controllare e volgere a proprio vantaggio. La competizione tra Stati non si ferma certo – basti guardare al campo della “cyber war” o al fatto che solo i governi possono garantire gli investimenti massicci e a lungo termine per la ricerca scientifica di base – ma assume caratteri più aleatori che in passato. In un certo senso, la volatilità dei mercati (che stiamo ad esempio sperimentando in campo energetico) si estende a una forma di volatilità strategica internazionale. Proprio la questione dei prezzi energetici ci ricorda inoltre quanto l’intero sistema produttivo (a tutti i livelli tecnologici) continui per ora a dipendere da pochissime fonti di energia, in gran parte fossili e non rinnovabili. C’è un dato importante che emerge da tale constatazione quasi elementare: una fonte assai tradizionale, il petrolio, ha tuttora un peso sproporzionato sulla determinazione dei prezzi; finisce così per condizionare i settori più disparati, da quello alimentare a quello delle infrastrutture, oltre alla sopravvivenza stessa di alcuni regimi che dipendono quasi totalmente dalle rendite energetiche.
Del resto, è così in tutti gli ambiti: il vecchio e il nuovo si intrecciano, anche nella battaglia in corso con il “Califfato” in molti paesi del Medio Oriente, combattuta con le scimitarre, le citazioni dal Corano, i siti web, gli smart-phone e i droni.
Roberto Menotti e Marta Dassù

Il contributo italiano alla robotica
Lo studio e lo sviluppo dell’intelligenza artificiale hanno adottato recentemente un approccio nel quale la robotica ha assunto una grande rilevanza. La rivoluzione nanotecnologica, che prevede un cambiamento culturale e tecnologico, e il miglioramento della qualità della vita e della qualità dell’ambiente, si manifesta anche in nanorobot programmabili e capaci di compiere operazioni complesse – per esempio dentro il corpo umano – sfruttando nanocomponenti della dimensione di qualche centinaio di nanometri (cioè, un miliardesimo di metro, pari a un milionesimo di millimetro). Obiettivo di fondo dell’Istituto italiano di Tecnologia (IIT) è la ricerca di soluzioni tecnologiche bioispirate che, imitando la natura, possano migliorare in modo sostenibile la qualità della vita dell’uomo.
In particolare, gli studi sulla robotica hanno aperto la strada allo sviluppo di componenti e applicazioni d’avanguardia, utilizzabili anche nel campo della riabilitazione. Due dispositivi IIT in fase di sperimentazione clinica sono: ARBOT, per la riabilitazione della caviglia, un progetto tutt’ora in corso presso il Centro di Riabilitazione Motoria INAIL di Volterra; e WRISTBOT, per la riabilitazione del polso, attualmente utilizzato presso il Laboratorio di Robotica del Centro Riabilitativo, inaugurato all’Ospedale Gaslini di Genova. La riabilitazione robotica, sia in ambito ortopedico sia in quello neurologico, ha grandi prospettive di sviluppo nelle strutture ospedaliere e cliniche pubbliche e private. In parallelo, la diffusione della telemedicina potrà anche consentire al paziente di utilizzare i robot a casa con la supervisione via rete di personale specializzato, ottimizzando i percorsi riabilitativi e i costi dell’assistenza. Ma la ricerca robotica di IIT punta più in là: alle protesi intelligenti, per esempio, arti con caratteristiche molto simili a quelle umane, dotati di capacità di presa, movimento e manipolazione, equilibrio e flessibilità. CoMan, per esempio, è un robot compliant, ovvero con “muscoli” che si distinguono per la propria “cedevolezza” intrinseca, una caratteristica dei sistemi meccanici opposta alla “rigidezza”. Possiede un sistema vestibolare simile a quello umano che gli consente un equilibrio unico per un robot: muove gambe e piedi proprio come un uomo anche a seguito di sollecitazioni o spostamenti laterali e mantiene l’equilibrio senza cadere. Soft Hand, invece, è una mano robotica collegata all’avambraccio tramite elettrodi che registrano l’attività elettrica di superficie del muscolo (sEMG). Questo dispositivo (pensato per gli amputati) permette di variare il grado di intensità della contrazione della mano e quindi la forza della presa. IIT sta lavorando anche allo sviluppo di esoscheletri e a forme di alimentazione energetica per massimizzarne l’autonomia.
Un altro progetto riguarda iCub, la comunità di umanoidi più diffusi al mondo, sviluppata in modalità open source. iCub è un robot umanoide dalle dimensioni di un bambino di quattro anni. Possiede 53 “snodi” (gradi di libertà) di movimento, la maggior parte dei quali sono nelle braccia e nelle mani per consentire azioni di presa e di manipolazione fine degli oggetti; ha telecamere che riproducono la vista, microfoni per la ricezione dei suoni; il busto, le braccia e i palmi delle mani sono rivestiti da una pelle artificiale, una superficie sensorizzata che permette di riprodurre il senso del tatto, registrando e rispondendo al contatto fisico con le persone e gli oggetti. iCub è dotato di un’intelligenza artificiale che gli consente di imparare e, in futuro, di capire le situazioni e scegliere l’azione da compiere. L’Istituto italiano della Tecnologia ha all’attivo anche progetti di ricerca su robot che potranno completamente sostituire l’uomo in situazioni di pericolo come i terremoti e la fuga di materiali tossici o pericolosi (pensiamo agli incidenti nelle centrali nucleari).
Nei prossimi 10 anni si attualizzerà la prima generazione di robot umanoidi, compagni in grado di aiutarci in casa, negli ospedali, di fare baby sitting e assistenza gli anziani, e ancora di parlare e comprendere ordini vocali e gestuali, di interagire con noi nell’ambiente domestico e di lavoro. Già nell’immediato futuro avremo la possibilità di interconnettere al corpo umano protesi ed esoscheletri, per aiutare chi ha perso la mobilità. In questa sfida, l’Europa e l’Italia – con iCub – sono all’avanguardia in questo settore. Una tecnologia che ci vede competere alla pari con USA e Giappone per definire i prossimi standard a livello globale, nello stesso modo in cui lo hanno fatto negli ultimi decenni i colossi della Silicon Valley.
Nel 2060, un terzo degli europei sarà più che sessantacinquenne, contro l’attuale 18%. Il rapporto fra cittadini lavoratori (fra i 19 e i 65 anni) e i cittadini non attivi e pensionati (oltre i 65 anni) salirà dall’attuale 26% a oltre il 50% nel 2060. In questo scenario la robotica sarà una tecnologia indispensabile. Si tratta di una sfida tecnologica senza precedenti. Una straordinaria opportunità sociale che richiede un eccezionale sforzo scientifico interdisciplinare. Se questo è il futuro, il presente ha ben altri limiti: oggi il robot è anzitutto un concentrato meccatronico di ingranaggi, motori, elettronica e sensori che imita alcune capacità dell’uomo. Per muoversi come noi richiede potenze elettriche molto elevate e complessità meccaniche enormi. Per avere capacità cognitive come le nostre richiede supercomputer grandi come una casa e potenze elettriche paragonabili a quelle di una città. Troppo in confronto all’uomo che con qualche centinaio di calorie – un pezzo di cioccolata – alimenta un sofisticatissimo organismo, capace di correre i 100 metri in meno di 10 secondi, di saltare oltre la quota di 2.40 metri, di parare un pallone che arriva in porta a 120 km/h da 15 metri di distanza. O anche di parlare più lingue, di pensare, decidere e fare con un cervello che dopo 3 miliardi di anni di evoluzione è arrivato a fare tutto con meno di 40 watt – circa la metà di un PC portatile.
Le tecnologie che stiamo sviluppando in IIT ci permetteranno di superare queste difficoltà e creare il futuro che abbiamo descritto. I robot saranno i nostri compagni e aiutanti; l’intelligenza artificiale porterà ricchezza e in seconda battuta ci permetterà di ridurre i consumi e riportare la produzione – spesso delocalizzata – nel nostro paese. Le nanotecnologie saranno poi presenti in questo scenario nella forma di nuovi materiali “intelligenti” che renderanno il corpo del robot flessibile ed energicamente efficiente come quello umano. Materiali biodegradabili saranno usati in tutta la catena produttiva, sostituendo quelli derivati dal petrolio. La tecnologia sarà un vero patrimonio dell’umanità consentendo anche ai paesi emergenti o sottosviluppati di accedere a un benessere veramente sostenibile. .


Roberto Cingolani, Direttore Scientifico dell’Istituto italiano di Tecnologia, a Genova da www.aspeninstitute.it

08-06-2015

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Tratto da

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www.impresaoggi.com