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IL CASO POMPEI


Delle volte ci capita di sperimentare che un bene si rivela per noi un male e, per converso, che un male si rivela un bene.
Epicuro, Lettera a Meneceo

La notizia sarebbe di ordinaria amministrazione in un paese civile, ma in Italia no. E’ anzi un’eccezione assoluta. Sull’assemblea sindacale che il 24 luglio scorso ha lasciato agli scavi di Pompei per l’ennesima volta migliaia di turisti chiusi fuori sotto il sole, prima che il soprintendente Osanna si precipitasse da Roma ad aprire i cancelli con le sue chiavi, la notizia è che la Procura di Torre Annunziata ha aperto un fascicolo penale. Si indaga per il reato di interruzione di pubblico servizio ex articolo 340 del codice penale. La notizia aggiuntiva, ma questa è solo un’indiscrezione ufficiosa, è che i pm valutano anche l’ipotesi di reati diversi, che configurino il danno erariale a seguito di pratiche illecite estorsive ai danni dello Stato, cioè di noi contribuenti.
E’ rarissimo in Italia che l’iniziativa penale venga valutata e intrapresa su materie come quelle sindacali, e la giurisprudenza cumulata è in ogni caso molto a favore dei sindacati. Basti pensare che nel nostro codice penale l’articolo 340 prevede pene di reclusione da 6 mesi a 1 anno per chi partecipa all’interruzione e da 1 a 3 anni per chi la organizza e ne è capo – classicamente, un sindacalista – ma se l’interruzione di pubblico servizio avviene a opera di un’impresa e non di lavoratori sindacalizzati, ecco che l’articolo 331 del codice penale alza le pene per gli organizzatori da 3 a 7 anni. Tale difformità della pena a fronte di un medesimo reato dà perfettamente l’idea, di quanto le nostre leggi siano corrive agli eccessi sindacali: ma tant’è, siamo in Italia.
A maggior ragione, viva la Procura di Torre Annunziata, che ora deve valutare i fatti, ma che ha compreso al volo – la procedibilità è d’ufficio – che vale la pena accertarsi dell’eventualità di reati penali posti in essere di chi confondesse l’improprio esercizio dei propri diritti con l’indifferenza alla lesione di quelli di coloro, i visitatori degli scavi, che hanno altrettanto diritto a godere del patrimonio pubblico quel giorno loro negato.
La delicatezza della vicenda di Pompei è che essa non ha a che fare con il diritto di sciopero, le cui fattispecie sono regolate dalle legge 146 del 1990, ma con i diritti di libertà sindacale, visto che si trattava di un’assemblea di lavoratori. Materia dunque ancor più scivolosa, perché per esempio lo sciopero bianco dell’ATAC a Roma per 24 giorni è chiaramente in violazione della legge 146 – eppure in quel caso la Procura romana non ha ritenuto di procedere d’ufficio, e anche davanti a un esposto ha svogliatamente aperto un fascicolo senza ipotesi di reato – mentre i diritti sindacali in quanto tali sono pressoché sacri nella nostra giurisprudenza. Ma il fatto è che l’assemblea del 24 a Pompei era stata sì obbligatoriamente autorizzata dal soprintendente –è tenuto a farlo, entro il monte-ore annuale previsto – ma con l’accordo che essa non avrebbe impedito l’apertura regolare degli scavi. Poiché la materia dell’assemblea era relativa al no all’utilizzo da parte del soprintendente del personale dell’ALES, società in house del MIBAC a cui si può regolarmente attingere per garantire l’offerta del servizio, un no opposto in modo che fossero solo i custodi in organico a spartirsi gli straordinari – le assunzioni sono bloccate – ecco allora il verificarsi di due conseguenze. La prima è che a partecipare all’assemblea sono stati indotti molti custodi, e dunque gli scavi sono rimasti chiusi, e di qui la meritoria reazione del soprintendente. La seconda è che la Procura si riserva – finalmente, è il caso di dire – anche di valutare se il fine di tale eventuale improprio esercizio del diritto di assemblea possa configurare non solo l’interruzione di pubblico servizio, ma anche un vero e proprio comportamento estorsivo, volto a rimpinguare il solo portafoglio dei custodi attuali attraverso i turni di lavoro straordinario.
E’ una circostanza del tutto analoga al motivo vero dello sciopero bianco attuato per oltre 3 settimane all’ATAC di Roma. In quel caso a protestare sono sigle sindacai che non hanno firmato il nuovo piano industriale che alza gli orari di servizio di conduttori e macchinisti verso medie simili a quelle di altre città, perché nel frattempo il servizio restava offerto dai conduttori attuali attraverso turni di straordinario che portavano le buste paga mensili fino a 2500 o 3mila euro. Ma a Roma, ripetiamo, la Procura tace. E anzi il neo assessore alla mobilità Esposito ha pensato bene di solidarizzare con un dipendente ATAC colpito da sanzioni, per aver sostenuto che lo sciopero bianco è colpa dell’azienda.
I pm di Torre Annunziata sanno che la loro iniziativa dovrà affrontare molti ostacoli. Bisognerà provare che gli organizzatori dell’assemblea mirassero dolosamente all’interruzione del servizio, e che i singoli partecipanti ne fossero consapevoli. Bisognerà provare che non incorrano gli estremi dell’articolo 51 del codice penale, anteposto alle norme prescrittive e che fa parte delle circostanze esimenti, per cui un fatto anche illecito non è punibile se posto in essere – in questo caso – in esercizio delle libertà sindacali e dell’articolo 40 della Costituzione.
In ogni caso, lasciatecelo dire: viva la procura di Torre Annunziata. Le leggi non tultelano solo la protesta, ma anche i diritti dei cittadini, dei contribuenti, dei turisti e dei visitatori. E tutelano anche il diritto-dovere del soprintendente Osanna, che autorizza un’assemblea non certo per infliggere un danno a coloro il cui biglietto pagato egli rispetta come il denaro di ogni contribuente. Vedremo come andrà la vicenda giudiziaria, ma c’è un’Italia che batte le mani ai magistrati che – ogni tanto – indagano anche sui comportamenti sindacali abnormi, e che si aspetta da loro nient’altro che facciano rispettare le leggi.

Oscar Giannino da www.brunoleoni.it - 31-07-2015

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www.impresaoggi.com