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Seneca: De vita beata


Tutti vogliono vivere felici, caro Gallione, ma non vedono con chiarezza che cosa renda la vita felice
Seneca, De vita beata

Seneca parla della felicità nel dialogo “De vita beata“, dedicato al fratello Annèo Novato, detto Gallione. Secondo Seneca il segreto della felicità non risiede nel piacere, che è meschino, servile, debole e caduco, ma nella virtù, che invece è eccelsa, invincibile e duratura. La felicità è difficile da raggiungere sia perché non sappiamo esattamente cosa sia, sia perché ignoriamo la strada che a lei conduce e quanto più affannosamente ci sforziamo di conseguirla, tanto più ce ne allontaniamo. Vi sono poi, nel testo, alcune considerazioni, che tentano di conciliare la ricerca della felicità attraverso la virtù, con le ricchezze terrene e la vita agiata: a Seneca infatti i contemporanei rimproveravano una certa incongruenza fra i valori professati e la vita vissuta; Seneca era, infatti, ricchissimo. Riporto brevi sintesi del dialogo. Nella prima parte del dialogo egli polemizza con gli epicurei che identificano la felicità con il piacere; nella seconda è in polemica con la folla degli stolti che criticano i filosofi accusandoli di incoerenza tra il loro insegnamento e il loro comportamento.
– Dobbiamo avere innanzitutto ben chiaro quel che vogliamo, dopodiché cercheremo la via per arrivarci, e lungo il viaggio stesso, se sarà quello giusto, dovremo misurare giorno per giorno la strada che ci lasciamo indietro e quanto si fa più vicino quel traguardo a cui il nostro impulso naturale ci porta.
– Fissiamo dunque bene la mèta e scrutiamo attentamente il modo per poterla raggiungere, con l’aiuto di un esperto che abbia già intrapreso ed esplorato il cammino che stiamo per affrontare.
– Non c’è dunque nulla di peggio che seguire, come fanno le pecore, il gregge di coloro che ci precedono, perché essi ci portano non dove dobbiamo arrivare, ma dove vanno tutti. Questa è la prima cosa da evitare. Niente c’invischia di più in mali peggiori che l’adeguarci al costume del volgo, ritenendo ottimo ciò che approva la maggioranza, e il copiare l’esempio dei molti, vivendo non secondo ragione ma secondo la corrente.
– Il volgo, invece, a dispetto della ragione, s’irrigidisce in una ostinata difesa dei propri errori, per cui accade come nei comizi, nei quali, appena il favore popolare, volubile com’è, ha mutato direzione, quelle stesse persone che li ha.
– Intanto, come tutti gli stoici, io seguo la natura: è segno di saggezza non allontanarsene ma conformarsi alle sue leggi e al suo esempio. Felice è dunque quella vita che si accorda con la sua propria natura, il che è possibile solo se la mente, in primo luogo, è sana, ma sana sempre, in ogni momento, poi se è forte ed energica, decisamente paziente, capace di affrontare qualsiasi situazione, interessata al corpo e a quanto lo riguarda ma senza ansie e preoccupazioni, amante di tutto ciò che adorna la vita ma con distacco, disposta a servirsi dei doni della fortuna ma senza farsene schiava.
– Felice è colui per il quale non esistono il bene ed il male ma soltanto uomini buoni e uomini cattivi, che segue solo ciò che è onesto e si compiace unicamente della virtù, che non si accende né si avvilisce nelle alterne vicende della sorte, che non conosce bene maggiore di quello che può procurarsi da solo, e per il quale il vero piacere è il disprezzo del piacere stesso.
Quando uno è schiavo del piacere lo è anche del dolore, e non c’è schiavitù più dannosa e più trista che nel soggiacere ora all’uno ora all’altro di questi due tirannici e capricciosi padroni. Bisogna quindi liberarsene, e l’unica via sta nell’indifferenza di fronte alle mutevoli vicende della sorte: allora nascerà quell’inestimabile bene, la serenità di una mente sicura e decisa, l’elevatezza morale, e, una volta eliminato ogni timore, la gioia immensa e senza fine, proveniente dalla conoscenza del vero, l’affabilità e l’espansività; e tutti questi beni ci diletteranno non in quanto tali ma in quanto doti o qualità proprie dell’animo.
– Il piacere non dev’essere guida ma soltanto compagno del buono e del giusto volere. Il nostro maestro è la natura, è lei che la ragione guarda e consulta. Perciò vivere felici e vivere secondo natura sono la medesima cosa.
– (…) persino l’animo, spesso, suggerisce molti e depravati tipi di piaceri. In primo luogo l’arroganza, l’eccessiva stima di se stessi, la superbia, che ci gonfia e ci fa sentire al di sopra di tutti gli altri, l’amore cieco e smodato dei propri averi, i godimenti sfrenati e l’esultanza per i più piccoli e puerili motivi, e ancora la mordacità e l’insolenza che si compiace di offendere, l’accidia e la dissoluzione dì un animo fiacco che dorme su se stesso.
– Il fatto che la temperanza sia una diminuzione non intacca la felicità. Tu apri le braccia al piacere, io lo tengo a freno, tu del piacere godi, io me ne servo, tu lo consideri il più grande dei beni, io non lo stimo neppure un bene, tu fai tutto per il piacere, io, per lui, non faccio niente di niente.
– Nessuno può essere felice se non è sano di mente, e non è sano di mente colui che invece del meglio cerca ciò che gli nuocerà. In definitiva, è felice colui che giudica rettamente, è felice chi si accontenta della sua condizione, quale che essa sia, e gode di quello che ha, è felice colui che imposta e regola su basi razionali la condotta di tutta la sua vita.
– Non dobbiamo lasciarci corrompere né dominare dal mondo che ci circonda, dobbiamo fare assegnazione solo su noi stessi, affidarci alle nostre personali capacità, risoluti sia nella fortuna che nella malasorte; dobbiamo, insomma, essere noi gli artefici della nostra vita e della nostra condotta.
– Ma per me non è saggio chi si trova sotto il potere di qualcosa, e tanto meno del piacere, perché se ne è dominato come può resistere alle fatiche, ai pericoli, alla povertà e a tutte le minacce che si affollano e strepitano intorno alla vita umana? Come potrà sopportare costui la vista della morte, i dolori, la furia fragorosa degli elementi, la nutrita schiera di feroci nemici, se si lascia vincere da un avversario così debole?
– Chi si mette sulla via della virtù dà prova di un’indole nobile, chi invece va dietro al piacere è uno privo di nervi, un debosciato, un deviato, pronto a precipitare nei vizi più abominevoli, a meno che non abbia qualcuno che gli mostri la differenza fra i vari piaceri, sì ch’egli possa comprendere quali di essi rientrano nei limiti del desiderio naturale e quali invece corrono all’impazzata e senza fine, tanto più insaziabili quanto più si cerca di appagarli.
– Sia dunque la virtù la nostra guida: seguendo lei ogni passo sarà sicuro. Il piacere, inoltre, quando è eccessivo nuoce, nella virtù non c’è da temere che vi sia nulla di troppo, perché è intrinseca in lei la moderazione.
– La virtù faccia da guida e il piacere l’accompagni, limitandosi a corteggiarla, come l’ombra che procede accanto al corpo ma senza confondersi con lui. Asservire al piacere la virtù, che è il più nobile dei beni, è proprio di chi non sa concepire nulla di grande. La virtù vada dunque per prima e sia lei a portare le insegne; il piacere lo avremo egualmente ma come suoi padroni e moderatori; ci pregherà di fare qualche strappo, qualche eccezione, alla nostra temperanza, ma non potrà mai piegarci a sé.
– Invece quelli che hanno dato la prerogativa del comando al piacere restano privi dell’uno e dell’altra, giacché perdono la virtù e, quanto al piacere, non loro godono di lui ma lui gode di loro; e se è scarso si tormentano, se è eccessivo ne sono soffocati, infelici se li abbandona, più infelici se li travolge.
– Accettiamo quindi con animo forte tutto ciò che c’impone la legge stessa dell’universo: a questo impegno siamo chiamati, come da un giuramento: ad accettare il nostro stato mortale e a non lasciarci turbare da ciò che non ci è dato di evitare.
– La vera felicità, dunque, risiede nella virtù, la quale ci consiglia di giudicare come bene solo ciò che deriva da lei e come male ciò che proviene invece dal suo contrario, la malvagità. Poi, di essere imperturbabili, sia di fronte al male che di fronte al bene, in modo da riprodurre in noi, per quanto è possibile, Dio. Quale premio per questa impresa la virtù ci promette privilegi immensi, simili a quelli divini: nessuna costrizione, nessun bisogno, libertà totale, assoluta, sicurezza, inviolabilità; non tenteremo nulla che non sia realizzabile, niente ci sarà impedito, né potrà accaderci alcunché che non sia conforme al nostro pensiero, niente di avverso, niente d’imprevisto o contro la nostra volontà.
– «Cosa?», mi dirai. «La virtù basta per vivere felici?» E come potrebbe non bastare, quand’è perfetta e divina? Anzi, è più che sufficiente. Che può mancare, infatti, a chi si trova fuori da ogni desiderio? Non può venirgli nulla dall’esterno, quando ha già tutto dentro di sé.
– Non pretendete, dunque, che io sia uguale ai migliori, chiedetemi solo di essere migliore dei cattivi: è già un passo avanti se riesco a togliere ogni giorno qualcosa ai miei difetti e a biasimare i miei errori.
– Se siamo uomini non possiamo non ammirare coloro che han posto mano a degne imprese, anche se poi cadono senza toccare la mèta. E' di un animo nobile tentare, guardando non alle sue forze personali ma ai poteri della propria natura, mirare in alto e concepire azioni superiori anche a quelle che possono compiere delle persone eccezionalmente dotate. Ci sono uomini che si sono proposti questi obiettivi: «Guarderò la morte con lo stesso volto con cui ne sento parlare. Mi assoggetterò a qualunque fatica, sostenendo il corpo con l’animo. Disprezzerò le ricchezze, ch’io le possieda o no, né mi dorrò per il fatto che le abbiano altri o monterò in suberbia se mai mi splendessero intorno. Non darò peso alla fortuna, sia che m’assista, sia che m’abbandoni. Guarderò tutte le terre del mondo come se fossero mie e le mie come se appartenessero all’intera umanità. Vivrò con la convinzione di essere nato per gli altri, ricambiando così la natura per avermi generato: quale dono più grande, infatti, avrebbe potuto farmi? Ha donato me solo a tutti gli altri, e tutti gli altri a me solo. Non sarò né avaro né uno spendaccione, farò conto di non possedere niente di più di quanto avrò opportunamente donato, e i beni che dispenserò non li giudicherò dal numero o dal peso ma in base alla mia stima per chi li riceverà; non riterrò mai troppo grande il dono che farò a una persona degna. In ogni mia azione non seguirò l’opinione degli altri ma soltanto la mia coscienza, e anche se ne sarò consapevole io solo mi comporterò come se agissi al cospetto del mondo. Nel mangiare e nel bere perseguirò l’unico scopo di soddisfare i miei bisogni naturali, non quello di riempirmi e di svuotarmi lo stomaco; sarò amabile con gli amici, mite e indulgente con i nemici, e quando qualcuno starà per chiedermi qualcosa di onesto lo preverrò, per non metterlo nelle condizioni di dovermi pregare. Conoscerò come mia patria il mondo, gli dèi come mia guida, sempre al di sopra e intorno a me, censori d’ogni mio gesto e d’ogni mia parola, e quando la natura vorrà riprendersi il mio soffio vitale, anche armando la mano alla ragione, me ne andrò via di qui, testimoniando di avere sempre amato la retta coscienza e i nobili propositi, di non avere mai diminuito la libertà di alcuno, e tanto meno la mia». Chi si prefiggerà tutto questo, e si sforzerà di metterlo in atto con viva determinazione, salirà verso il regno degli dèi, e, quand’anche fallisse la meta, si potrà dire di lui: è tuttavia caduto nell’osare una nobile impresa.
Il saggio, infatti, non si reputa indegno dei doni della fortuna e quanto alle ricchezze accetta di averle ma non le ama, esse non entrano nel suo animo, gli stanno solo intorno: le tiene, sì, ma per dominarle, e perché possano fornire una più ricca materia ed un più vasto campo alla sua virtù.
– Nessuno ha condannato la saggezza alla povertà, anche il filosofo può avere grandi ricchezze, quando queste non siano state rubate, non grondino di sangue altrui e il loro acquisto non abbia fatto torto ad alcuno, non provengano da ignobili speculazioni e le uscite siano tanto oneste quanto lo sono state le entrate, sì che nessuno, tranne gl’invidiosi, abbia motivo di criticare. Ammassane perciò quante ne vuoi: sono pulite. Sono pulite perché, per quante ognuno voglia averne per sé, non c’è fra esse un solo granello che possa dirsi suo. E perché poi il filosofo dovrebbe allontanare da sé la benevolenza della fortuna? Né egli si farà vanto o arrossirà di un patrimonio acquisito onestamente; avrà un solo motivo per gloriarsene, se, spalancata la sua casa e chiamata a raccolta tutta la città davanti alle sue ricchezze, potrà dire senza timore: «Se qualcuno vi riconosce qualcosa di suo, lo prenda pure». O uomo degno e giustamente ricco chi, dopo tale invito, manterrà intatti i suoi averi! Intendo dire: se il saggio potrà sottoporsi ad un simile esame da parte di tutto il popolo con la coscienza tranquilla e sicura, se nessuno troverà presso di lui un solo spillo su cui mettere le mani, allora egli sarà ricco, orgogliosamente e davanti agli occhi di tutti.
– Io non sostengo che le ricchezze siano un bene, per il semplice motivo che se lo fossero renderebbero buoni gli uomini, e perché mi rifiuto di definire bene ciò che si trova anche in mano di persone cattive. Dico però che il possesso delle ricchezze è legittimo, perché esse sono utili e apportano alla vita grandi vantaggi.
– «Ma allora», mi obietterete, «che differenza c’è fra uno stolto ed un sapiente, se sia l’uno che l’altro aspirano al possesso di beni materiali?» Una differenza enorme: il sapiente, infatti, tiene le ricchezze presso di sé come sue schiave, lo stolto, invece, come sue padrone; al saggio esse non dànno praticamente nulla, mentre a voi permettono tutto; voi vi ci attaccate e vi ci abituate come se qualcuno ve ne avesse assicurato il possesso in eterno, il saggio soprattutto allora pensa alla povertà, quando si trova in mezzo alla ricchezza.
– Donare non è facile, e chi pensa che lo sia sbaglia di grosso: quel gesto, infatti, presenta molte difficoltà, almeno quando lo si compia non a casaccio o impulsivamente, bensì a proposito e col dovuto discernimento. A uno doneremo per farcelo amico, a un altro per restituirgli, un favore, a un altro ancora per soccorrerlo; a questo per compassione, a quello perché merita di non perdersi tra i morsi della fame; ad alcuni invece non daremo nulla, anche se si trovano in ristrettezze, per il semplice fatto che se li aiutassimo non muoverebbero un dito per tirarsene fuori da sé; a certuni ci limiteremo ad offrire, ad altri, addirittura, imporremo di accettare. Non si può agire con disinvoltura in questa faccenda, perché quello di donare è il nostro migliore investimento. «Tu, allora, doni per ricevere?», mi obietterà qualcuno. No, dono per non perdere.
– Disprezzerò l’intero regno della fortuna, ma da lì, se mi sarà dato di scegliere, prenderò il meglio. Qualunque cosa mi toccherà sarà benvenuta per me, ma preferisco trovarmi in situazioni favorevoli e più liete, o che meno possano molestarmi nell’affrontarle. Non ci sono virtù che non comportino uno sforzo, ma alcune hanno bisogno di sprone, altre di freno. Come il corpo se va lungo un pendio dev’essere trattenuto e lungo un’erta, invece, sollecitato, così è delle virtù, alcune vanno in discesa, altre in salita.
– Stando così le cose, preferisco avere quelle virtù che si possono praticare con maggiore tranquillità, che non quelle il cui esercizio costa sudore e sangue. In definitiva – conclude il saggio – non è ch’io viva diversamente da come parlo, è che voi fraintendete quello che dico, perché alle vostre orecchie arriva solo il suono delle parole, ma quanto al loro significato non vi date neppure la pena di cercarlo.
– Il saggio, invece, potrà perdere tutte le ricchezze, ma i beni suoi gli rimarranno: egli sa vivere, infatti, solo di ciò che possiede al momento, con animo lieto e senza alcuna preoccupazione del suo futuro. «Non c’è in me volontà più decisa», direbbe il grande Socrate (e con lui chiunque abbia un tale privilegio e un tale potere di fronte alle cose umane), «che quella di non piegare alle vostre opinioni alcun atto della mia vita. Assediatemi pure da ogni parte con le solite punzecchiature: per me non sono che vagiti di poveri neonati»

Eugenio Caruso -08-08-2015

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www.impresaoggi.com