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L'instabilità del mediterraneo


Per incominciare, cosa su cui tutti gli stoici concordano, do il mio assenso alla natura: la saggeezza consiste proprio nel non allontanarsene e nell'attenersi alle sue leggi e al suo esempio
Seneca, De vita beata

Una riflessione sul destino del Mediterraneo, o, piuttosto, dei popoli e gli stati che si assiepano intorno alle sue rive, giunge particolarmente necessaria, sia oggettivamente, per gli avvenimenti gravi che stanno interessando questo mare, culla di (quasi) ogni civiltà, sia soggettivamente.
Ma ben più che le situazioni soggettive, conta l’oggettività della storia, anzi il “banco del macellaio della storia”, come direbbe Hegel, e, in questo caso, a ragione: una strage nei dintorni di Hammamet rivendicata dall’ISIS (stile palestinese: infatti in Israele si entra in spiaggia pubblica passando dal metal detector, e gommoni della sicurezza pattugliano di continuo la costa) e la Grecia in una situazione di crisi estremamente drammatica, che mette in dubbio tutto l’assetto dell’Unione Europea, entità in cui gli stati mediterranei non sono la maggioranza, ma sono tutti importantissimi sotto ogni rispetto.
Queste peraltro sono solo le punte di un universo variegato di instabilità politica che tocca le coste di un mare che “stabile” fu raramente, forse solo nei lunghi secoli di dominio romano, prima repubblicano poi imperiale, che trasformò questo grande lago in un “mare nostrum”, circostanza mai più replicata, nonostante i tentativi di Luigi XIV, di Napoleone, dell’Italia o della Francia imperiali tra Otto e Novecento, ma ancor prima di Filippo II o degli Arabi per tre secoli dopo Maometto. Forse l’unico impero che – con territori strategicamente fondamentali sotto la propria giurisdizione diretta o indiretta, da Gibilterra a Malta a Cipro all’Egitto – sia riuscito nell’impresa di ricostituire un dominio totale del Mediterraneo (ma in modi assai diversi dall’Impero romano che ne controllava tutte le coste) è stato quello inglese, almeno fino al 1945 (poi la decolonizzazione rese de facto indipendenti realtà come Malta, de iure tale solo nel 1964).
Il Mediterraneo è anche la Catalogna (e assai più timidamente e maldestramente) il Veneto che aspirano all’indipendenza, sono anche la Sardegna e la Sicilia sempre più radicalmente vicine l’una all’altra nel progressivo depauperamento della risorse e dell’economia produttiva,, sono la Corsica dove l’indipendentismo non è mai morto, ma non è mai veramente decollato, sono le realtà maghrebine tutte, forse a eccezione del Marocco, in una situazione di instabilità.
Perfino alcune industrie legate primariamente al mare, se ci trasferiamo al discorso economico, come quella crocieristica, stanno segnando il passo: proprio di questi giorni, a Venezia – dove tra l’altro si rappresenta con somma sorpresa di alcuni alla Fenice la Iuditha Triumphans di Vivaldi, un vero e proprio inno anti-ottomano, una sorta di Persiani di Eschilo di età illuministica, e in musica – si annunciano pesanti tagli e licenziamenti nel settore, che pareva fino a poco tempo fa il nuovo eldorado.
E questo per citare alcuni soli dei “problemi” che affliggono il bacino.
Metto tra virgolette “problemi”, sia perché non credo alla categoria storiografica del “problema” (la storia è tutta un problema, o tutta una soluzione, dipende dai punti di vista) sia perché si tratta di un rimando a un’opera del grande analista dei “problemi”, appunto, coloniali in età fascista E. W. Polson Newman, che pubblicò nel 1927 un’opera eccellente e fondamentale proprio con questo titolo: The Mediterranean and Its Problems, evidenziando le questioni aperte dopo Versailles e il grappolo di trattati successivi, da Rapallo a Sanremo, da Sèvres a Losanna, e la soluzione di “equilibrio” mai veramente raggiunta dal 1927, mentre si stava affermando, prepotentemente, la nuova Turchia, ad oggi.
Occorre dire che gli storici si stanno occupando intensamente, di nuovo, del Mediterraneo, inteso come “oggetto in sé” di ricerca (molto fluido, ovviamente), e non solo occorre citare i noti eredi di Fernand Braudel come David Abulafia, Lincoln Paine, Nick Purcell, ovvero gli autori di grandi opere di sintesi, tra gli altri (ma ci pare giusto citare anche sia le pregevoli opere manualistiche italiane, oltre al gigantesco lavoro portato avanti dai francesi, in particolare dalla Maison Méditerranéenne des Sciences de l’Homme di Aix-Marseilles (un eccezionale partenariato CNRS e università, che si dovrebbe prendere ad esempio in Italia), creata da Robert Ilbert nel 1997; e l’unico centro, forse, a tenere nella giusta considerazione quello che potremmo chiamare l’altra metà del cielo, o piuttosto, l’altra metà del mare, il mondo islamico.
Uno tra i maggiori storici contemporaneisti italiani, inoltre, Nicola Labanca, ha dedicato di recente un importante, ma problematico intervento al Mediterraneo, disponibile in rete: “La decolonizzazione del Mediterraneo. Una chiave per capire il presente” (ringrazio la collega Prof. Paola Villani per avermelo segnalato), ove mette in guardia da soluzioni troppo ottimistiche, come quelle di Danilo Zolo e Franco Cassano, esposto ne L’alternativa mediterranea, seguendo un filone che definirei lirico-buonistico-crepuscolare di posizioni sul Mediterraneo (la lirica finisce sempre nei cimiteri, come quello, appunto, “marino” di un grande amante del Mediterraneo, Paul Valéry, il quale era non solo di Séte, ma anche mezzo genovese da parte di madre, o si pensi al “pescatore” del pessimista mediterraneo de André) da Biamonti a Predrag Matvejevic; e dove giustamente sostiene non solo l’idea di un Mediterraneo “frammentato” più che “unito” (per quello che possono valere tali categorie), ma anche il fatto che senza la comprensione dell’evoluzione degli “stati di terraferma”, dei grandi imperi di terra come quello asburgico, russo, ma anche ottomano, non si comprende nulla di quello che avviene ai loro margini, ovvero nel bacino mediterraneo. Si tratta di un filone molto ancorato a una visione idilliaca, dalla prospettiva di uno yacht, appunto, del Mediterraneo, propria di una lunga tradizione, da Guy de Maupassant a Emil Ludwig (senza contare gli innumerevoli inglesi come il maggiore Gambier-Parry, di una importantissima famiglia), le cui pagine di Am Mittelmeer, ad esempio, del 1923, racchiudono tutta una serie di mitologie e lirismi mediterranei che si aprono con Genova e i suoi Van Dyck, e si chiudono con Venezia, circolarmente, quasi, e le sue meraviglie.
Naturalmente, io guardo molto criticamente a quella posizione radicale e foriera di tante sciagure che è propria di Samuel Huntington, ovvero la teoria dello “scontro di civiltà”, teoria che non ho mai personalmente condiviso, per ovvi motivi, essendo le distinzioni sociali ed economiche, per me, molto più forti di quelle religiose. Ed essendo una teoria che giustifica un interventismo americano che si sta dimostrando mostruosamente cieco o quantomeno unilaterale: se è vero che nel giorno del Ramadan 2015 un attacco a spirale del Califfato in tutto il Medio Oriente e la Tunisia si è svolto mentre tutta l’attenzione strategica NATO, ovvero americana, era concentrata sui confini ucraini.
Da un lato dunque consiglio, come alternativa a Huntington, l’altrettanto provocatorio libro di Richard W. Bulliet, La civiltà islamico-cristiana, una proposta (Laterza, 2005); dall’altro, rifiutando l’idea di un Cassano e di uno Zolo di un “Mediterraneo progressista”, ma anche ponendomi criticamente verso Labanca, proverò, qui e ora, a dare qualche soluzione alternativa di lettura del Mediterraneo di oggi. La Libia, per cominciare, e correggere Labanca, non è ricca, è potenzialmente ricca, per le risorse naturali di una parte sola di un paese “inventato” dall’Italia nel 1911, e composto da tre realtà veramente distinte, di una, il Fezzan (dalla storia veramente inquietante ricostruita perfettamente da Paolo Soave in Il Fezzan. Il deserto conteso 1842-1921, Giuffrè 2001), del tutto distinta dal Mediterraneo eppure capace, a riprova della bontà, in questo, delle tesi di Labanca, di condizionarne potentemente il destino.
Dal punto di vista di uno storico liberale, il Mediterraneo degli anni Duemila appare esattamente il contrario rispetto alla visione rosea di Zolo-Cassano e compagnia, è ben poco progressista, e appare invece progressivamente diviso sia nella sua tradizionale sezione “latitudinale” (Nord-Sud) sia in quella “longitudinale” (Ovest-Est). Della divisone “longitudinale” parlerò meno, ma esiste eccome, si pensi al divario economico tra Liguria e Veneto, per rimanere nella sola Italia settentrionale, ed ha importantissime radici storiche, legate ad esempio all’insana, ma ovvia idea, di privilegiare il Tirreno rispetto all’Adriatico dopo l’unificazione italiana.
La divisione Nord-Sud risale a fattori storici importanti, ad esempio la mancata industrializzazione dell’Impero Ottomano (in Italia fu tardiva, ma ci fu, in Spagna recentissima, ma c’è stata) che rimase troppo a lungo un impero fondato sull’agricoltura, e solo parzialmente sui commerci, come Sevket Pamuk, e numerosi altri storici economici turchi, hanno messo in luce, per il Settecento, secolo peraltro di consolidamento economico e ripresa dell’Impero nonostante le sconfitte inflittegli dai russi, ma anche e soprattutto per l’Ottocento.
La mancata industrializzazione, o la tardiva industrializzazione della sola Turchia ormai sciolta da obblighi e pretese imperiali, ha fatto mancare il passaggio fondamentale al terziario. Può esistere un terziario avanzato senza un retroterra industriale: forse sì, ma solo in peculiari situazioni di ricchezze provenienti da altre fonti (naturali, come negli Emirati), di privilegi storici e di posizione (Montecarlo), o, per rimanere nel Mediterraneo, di compresenza di settore industriale e settore terziario avanzato come in Israele. L’illusione, inoltre, che intere economie si possano reggere sul turismo, è quella che sta condannando alla miseria la Sardegna, per fare un solo esempio.
Se si guardano ai dati macroeconomici, non solo il divario nella sezione latitudinale del Mediterraneo è immenso, ma vi sono ampie porzioni di paesi come l’Italia (tutto il Meridione, industrializzato e molto ma solo prima dell’Unità) ma anche come la Spagna (l’Andalusia, 17 comunità autonome, occorre ricordare), che stanno seguendo il corso della storia al rovescio e che sono sempre più tragicamente attratte nella miseria del Mediterraneo del Sud, verso quel mondo arabo che senz’altro ha conosciuto momenti migliori, in particolare quando l’Andalusia, e la Sicilia, ne facevano in tutto e per tutto parte.
Il reddito pro-capite della Sicilia e della Sardegna sta avvicinandosi paurosamente a quello del Marocco, Tunisia, Libia (la Libia ha circa 11.000 USD pro-capite, la Sicilia si aggira intorno ai 16.000), ben al di sotto di quello francese, catalano, veneto, e meno della metà di quello lombardo. “Alternativa mediterranea, Mediterraneo progressista?”. Non è così. Nella Tunisia esaltata fino a pochi mesi fa come paese tranquillo, ricco, “avanzato”, ove gli italiani negli anni Ottanta (si pensi al caso Craxi) costruivano le proprio sontuose dimore estive, le due stragi di questi ultimi mesi segnalano una situazione contraria, il fondamentalismo islamico sta mettendo inquietanti radici, in un paese, sconvolto da una rivolta estesa, che (come del resto nessun paese al mondo) non può certo prosperare fondando tutta la propria economia sul turismo, ma neanche sulla pesca, con realtà atlantiche tipo Pescanova (Vigo) e multinazionali, che stanno ormai monopolizzando il mercato (globale).
Se poi continuiamo nella disamina dei fattori geopolitici che destabilizzano questo “mare nostrum” che ora è propriamente un “mare nullius”, con flotte sospette che vi si aggirano, abbiamo la denatalità italiana, spagnola, parzialmente anche francese, compensata da una spropositata natalità in paesi come l’Egitto (e anche la Siria). L’Egitto, che all’inizio dell’Ottocento aveva circa 4 milioni di abitanti, e ne contava circa 15 milioni nel 1936, anno in cui venne dichiarata l’indipendenza (molto parziale per Nasser, e aveva ragione), ne ha ora circa 80 milioni, che le proiezioni indicano in 90 milioni nel 2030 (tra quindici anni). Si tratta di una crescita sostenibile? Il liberalismo ha troppo spesso ignorato Malthus, ma si può essere a favore di una crescita limitata della popolazione senza essere maltusiani.
La Siria, che è paese mediterraneo, almeno parzialmente, e storicamente legato ai traffici che portarono ricchezza e peste in Europa (Damasco e Aleppo sono come Fez in Marocco o Firenze e Pisa in Italia o Exeter in Inghilterra: non direttamente sul mare, ma legate al mare e ai commerci in modo vitale), ne conta 25 milioni. Quando, nel 1946, nel “giorno dell’Evacuazione” i francesi lasciarono il paese consegnato loro in mandato, per la precisione il 17 aprile, ne aveva circa 3 milioni. Si tratta, ce lo domandiamo di nuovo, di una crescita sostenibile?
Ma i fattori destabilizzanti sono anche altri, che è bene ricordare. La Turchia, paese in crescita problematica, con una capitale che è una Città del Messico sul Bosforo, in continua, disordinata crescita, con una potente flotta aerea mercantile, le Turkish Airlines, sta riconquistando terreno in tutti i vecchi domini ottomani, compreso il Kazakhstan, ma anche nella vecchia “Turchia d’Europa” balcanica, dal Cossovo alla Bosnia, fino alla Slovenia, esclusa quest’ultima essendo sempre stata nell’orbita asburgica. Si tratta di una penetrazione anche culturale, si pensi a realtà per ora piccole, come la International University di Sarajevo (IUS), di cultura e management turco.
Lo “Index of Economic Freedom”, l’indice della libertà economica messo insieme e pubblicato con aggiornamenti ogni anno dalla Heritage Foundation, dal Wall Street Journal, e dall’Istituto Bruno Leoni per quel che riguarda l’Italia, ci consegna un’immagine pessima del Mediterraneo, altro che progressista o progressivo o modello di sviluppo, integrazione, “dialogo”. Profondamente indietro nell’evoluzione del mondo. Si tratta del materiale che ho utilizzato per il mio corso insubre di “States, Economy, and Global Markets” cui ho fatto cenno all’inizio di questo paper.
Tanto per cominciare, tra gli otto paesi non classificati per grave instabilità politica e dunque mancanza di dati, lista da cui va escluso il ricchissimo Liechtenstein che fa storia a sé e non rilascia dati sul suo grandissimo benessere perché non vuole, due, Siria e Libia, sono mediterranei, l’altro, il Cossovo, non lo è tecnicamente per pochi chilometri ma la sua storia è sempre stata legata all’evoluzione mediterranea, mentre Afghanistan, Iraq, Somalia e Sudan sono stati legati a doppio filo alle potenze mediterranee e alle loro politiche, in grandi e piccoli “giochi”.
La libertà economica si riflette anche sul reddito pro-capite, vero indicatore di ricchezza? Sì, dal momento che Israele ha un reddito pro-capite inferiore, nell’area mediterranea, solo, e lievemente, alla Francia. Italia e Spagna sono intorno ai 30.000 USD pro-capite, ma i divari interni sono tra i maggiori al mondo, tra Sud e Nord in Italia, tra Catalogna, Paesi Baschi da una parte e Andalusia (e numerose altre realtà) dall’altra, in Spagna.
Il Mediterraneo appare tragicamente diviso, arretrato nel contesto dell’economia mondiale (nonostante il 30% del traffico mercantile mondiale ancora passi per le sue sponde), e le sue differenze possono ammantarsi di coloriture religiose, ma queste coloriture nascondono la drammatica realtà di un divario socio-economico, e di conseguenza culturale, straordinario. Un divario persino maggiore di quello di altri mari che dividono realtà politiche per sezioni latitudinali. Ad esempio il Golfo del Messico, il “Mediterraneo americano” secondo il giornalista del secolo scorso Vico Mantegazza, gran esperto di questioni, appunto, mediterranee (da notare poi che l’American Mediterranean è divenuto nozione geopolitica e geografica ben assestata, includendo poi il mar dei Caraibi). Il reddito pro-capite del Messico è un terzo di quello degli USA, ma è in continua crescita, e si assesta, a PPP, sui 15.000 USD, molto dignitoso. Il reddito pro-capite egiziano, uno stato che avrà presto la popolazione messicana, ovvero oltre 100 milioni di cittadini, è di 6500 USD pro-capite, che è un quinto di quello del tradizionale referente e confinante, ora amico ora più spesso nemico, Israele. O della Francia, legata storicamente a doppio filo con l’Egitto, o ancora dell’Inghilterra, di cui l’Egitto fu colonia, e non per breve tempo, bensì de iure dal 1882 fino al 1936. La situazione mediterranea viene replicata, piuttosto, nei Mar Caraibico, dove abbiamo al nord gli USA, al centro Cuba e Haiti e la Giamaica in situazioni molto problematiche, e al Sud un Venezuela allo sbando.
Proprio per questo, con notevolissima intensità, crescono gli studi dedicati a questo mare, poiché si intuisce che l’instabilità che lo caratterizza potrà avere conseguenze a lungo termine per gli equilibri, o piuttosto, la crescita mondiale.
In un tale contesto azzardare prospettive per il futuro è veramente difficile. E tuttavia proprio la storia fornisce la chiave per interpretare il futuro nel modo migliore. Al momento, sono pochissimi i paesi che si affacciano su di esso in crescita economica, forse il solo Israele – paese per altri versi estremamente problematico – è in una tendenza crescente. La recessione, anche grave, tocca quasi tutti gli altri. Per non parlare degli “altri” mediterranei, il Mar Nero, il Mar Caspio, il Mar Rosso, e il Golfo persico. Sembra che la Storia, che è iniziata qui, qui torni potentemente ad agitarsi, con conseguenze difficilmente prevedibili.

Paolo L. Bernardini è docente di Storia moderna presso l’Università degli Studi dell’Insubria a Como.
da www. brunoleoni.it - 23 agosto 2015



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