I sogni non hanno né origine divina né hanno il potere di predire il futuro.
Dal gnomologio vaticano epicureo
Da quando sono state diffuse alcune anticipazioni del rapporto Svimez 2015, il parallelo fra Grecia e Mezzogiorno d’Italia ha conquistato le prime pagine dei giornali.
Molta attenzione, in particolare, ha attirato l’affermazione secondo cui “dal 2000 il Mezzogiorno d’Italia è cresciuto la metà della Grecia” (una frase che tutti attribuiscono alla Svimez, ma che in questa forma non sono riuscito a ritrovare in alcun documento ufficiale). Su questo presunto dramma – un Mezzogiorno che starebbe peggio della Grecia – si è poi innestato il consueto repertorio di interventi più o meno sdegnati che da decenni accompagna le analisi del Sud, con la altrettanto consueta richiesta di una “svolta” da parte del governo nazionale, reo di aver abbandonato il Sud ad un destino di marginalità e miseria. L’idea è sempre quella: descrivere in termini drammatici la situazione economica e sociale del Sud, per concludere che il Sud stesso è vittima della prepotenza e dell’indifferenza altrui, e che occorre un piano per salvare il Sud da un declino apparentemente irreversibile.
E allora cominciamo dai dati. Intanto occorre dire subito che, rispetto al 2000, non è il Sud ad essere andato peggio della Grecia, ma è l'Italia nel suo insieme, Nord compreso. Fatto 100 il Pil pro capite del 2000, la Grecia è sotto di 3 punti, mentre l'Italia lo è di circa 8, ma – attenzione – lo è sia nel Sud sia nel Centro-Nord. E' vero che durante la crisi il Sud è andato peggio del Centro-Nord, ma è altrettanto vero che negli anni pre-crisi, dal 2000 al 2007, il reddito pro capite del Sud era cresciuto a un ritmo quasi doppio di quello del Nord. Il risultato è che, fra il 2000 e il 2013, nulla di sostanziale è cambiato nei redditi pro capite delle due metà del paese. Il Pil pro capite del Sud resta, oggi come ieri, poco di più della metà di quello del Nord, ma le distanze attuali sono più o meno le medesime di 15 anni fa. Fatto 100 il reddito pro capite del 2000, nel 2013 il Sud è sceso a livello 91.3, il Centro-Nord a livello 91.9: due gocce d'acqua, sotto questo profilo. Quanto alla Grecia, il suo reddito era esploso fra il 2000 e il 2007, grazie alla droga del debito pubblico e privato, ed altrettanto rapidamente è imploso dopo il 2007, sotto i colpi della crisi.
Con questo non voglio certo dire che l’analogia fra Mezzogiorno e Grecia sia del tutto campata per aria. Tutt’altro. Ma la dinamica del reddito pro capite è l’elemento meno significativo. Le analogie importanti fra Grecia e Mezzogiorno, quelle che incidono davvero, a me paiono altre. Per esempio il peso dell’economia sommersa, che nel Sud è ancora maggiore che in Grecia. L’evasione fiscale, spettacolare in entrambe le realtà. Il clientelismo e la corruzione. L’incapacità di modernizzare il funzionamento della giustizia civile, della burocrazia, dei mercati. La concentrazione del lavoro produttivo su una piccola minoranza di occupati. E, non da ultimo, se analizziamo l’andamento dei conti pubblici dopo il 2007, la comune strategia di rinunciare agli investimenti per sostenere la spesa pubblica corrente e i consumi.
Ma l’elemento comune più importante, fra Grecia e Mezzogiorno d’Italia, a me pare un tratto di tipo culturale. Robert Hughes lo avrebbe forse chiamato la “cultura del piagnisteo”, titolo del suo fortunato libro sulla abnorme proliferazione dei diritti delle minoranze (Adelphi 2003). A me pare invece che il tratto profondo, l’elemento che più caratterizza soprattutto le classi dirigenti di entrambe le realtà, sia un altro: la tendenza a imputare ciò che accade alla situazione o all’azione di forze esterne, piuttosto che alle proprie scelte e decisioni. La psicologia sociale ha addirittura costruito un test (si chiama scala di Rotter) per misurare la tendenza ad attribuire all’esterno o all’interno i nostri successi e insuccessi.
Ebbene, se potessimo misurare sulla scala di Rotter le attitudini delle classi dirigenti meridionali, ma anche degli innumerevoli studiosi, artisti, cantanti, giornalisti e scrittori che ne amplificano le lamentele, penso che troveremmo entrambi su valori estremi di “attribuzione esterna”. Se le cose vanno male, è sempre colpa di qualcun altro, preferibilmente di qualcuno che sta altrove e non ci ama: l’Europa e le sue regole brutali nel caso della Grecia, il Nord e il governo centrale nel caso del Mezzogiorno.
E invece no, forse dovremmo avere il coraggio di capovolgere lo schema. La politica nazionale ha ovviamente le sue responsabilità, prima fra tutte quella di non aver dotato il Sud di una rete infrastrutturale decente, ma nessuna analisi della questione meridionale è credibile se dimentica le gravissime responsabilità delle classi dirigenti locali, o sorvola sull’eccessiva tolleranza, assuefazione, e talora persino connivenza, che la gente del Sud ha nei confronti delle proprie classi dirigenti. Se il resto del paese è più ordinato (o meno disordinato) del Mezzogiorno, se gli sprechi della Pubblica amministrazione sono più contenuti, se le infrastrutture non impiegano decenni per essere terminate, è anche perché diverso è il rapporto fra l’opinione pubblica e la politica, fra la gente e gli amministratori locali.
Lo ha detto bene Giuseppe De Rita, uno dei pochi che in questi giorni non hanno ceduto alla retorica del vittimismo. Parlando della “droga dei piani europei” ha ricordato l’uso clientelare ed elettorale dei fondi, la loro dispersione in una miriade di micro-interventi: «Idee piccole affidate a piccoli imprenditori per fare rotonde, marciapiedi, lungomari. Soltanto opere di poco conto. Pura decadenza». Con la conseguenza di bloccare ogni vera modernizzazione del Sud: «ad esportare in Vietnam come gli imprenditori veneti non sarà l’aziendina che a Campobasso rifà il manto stradale. Quando ci si riduce ai progettini della ditta locale è la fine. L’abitudine al piccolo uccide l’economia».
27 agosto 2015
Luca Ricolfi - www.ilsole24ore.com
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