Smettila, dunque, di proibire il denaro ai filosofi: nessuno ha mai condannato il saggio a essere povero
Seneca, De vita beata
Le tre serie di dati rilasciati dall’Istat significano in sostanza quattro cose. Primo: la ripresa italiana inizia a prendere corpo, con tanti “ma..”. Secondo: oltre ai “ma..”, dal mondo vengono segnali di rallentamento. Terzo: sulle due premesse, il governo deve imperniare la legge di stabilità. Quarto: le priorità devono essere chiare.
Che la ripresa assuma qualche decimale di punto in più e non in meno è ovviamente solo positivo. Non c’è niente di più sciocco di una divisione politica sui miglioramenti del Pil stimato nel primo e secondo trimestre del 2015. Se c’è qualcosa di intollerabile e malsano, è l’eccesso di propagande opposte fiorite sotto questo governo nell’interpretazione dei dati congiunturali, alimentata e aggravata dal caos ingenerato pubblicamente dalla stessa proliferazione di dati (vedi le comunicazioni obbligatorie sui contratti da parte del ministero del Lavoro). L’occupazione aumenta di 180 mila unità a fine giugno 2015 sull’anno precedente, e di 235 mila unità a fine luglio. E’ ancora presto per stimare quanto si debba alla decontribuzione per tutti i nuovi contratti, e quanto al Jobs Act. Piuttosto, il fatto è che gli occupati nei primi due trimestri dell’anno diminuiscono sul 2014 tra i 15 e i 34 anni di oltre il 2%, e di oltre l’1% tra i 25 e i 49 anni, mentre aumentano quasi del 6% sopra i 50 anni. Molti useranno questo dato a sostegno della necessità di abbassare l’età pensionabile, innalzata dalla legge Fornero, per far spazio ai giovani. Il ministro Poletti, vaste aree della maggioranza e dell’opposizione, la pensano tutti così. Al contrario, è un bene che l’occupabilità salga sopra i 50 anni, e il punto è attivare il Jobs Act anche per le politiche attive del lavoro – la parte sinora mancante, completamente dimenticata – per i giovani. I rapporti di lavoro a tempo salgono in percentuale più di quelli a tempo pieno: segno che le imprese ancora non ci credono troppo, alla ripresa. In sintesi: bene i più occupati, ma i dati stessi disaggregati dicono che ancora non ci siamo. Quanto al PIL, è un bene che vi sia una ripresa della domanda interna e un buon andamento dei servizi, cioè delle componenti che più soffrivano nel 2013 e 2014. Ma di qui a inneggiare alla stasi della manifattura come segno di riequilibrio delle componenti interne del PIL, ce ne corre. Gli investimenti dell’industria tra metà 2015 e metà 2014 – al netto di quelli dell’auto, in crescita a doppia cifra – continuano a languire.
Secondo: tuttavia, non bisogna illudersi. Non solo al pensiero dell’abisso da recuperare di prodotto, reddito e occupati persi dal 2008. Basti pensare che la disoccupazione italiana, scesa a poco più del 12% a luglio, va comparata al 4,7% della Germania, al 5,8% dell’Austria, al 6,8% Olanda, o 7,4% della Svezia. Ma perché i dati stessi di luglio ci dicono che dal mondo si riverberano sull’Italia segni di frenata. Nel mercato del lavoro, solo a luglio gli inattivi sono aumentati di oltre 90 mila unità, cioè di un terzo di tutti quelli che erano diminuiti a fine giugno 2015 rispetto a un anno prima. L’indice degli acquisti del manifatturiero italiano a luglio è il secondo europeo dopo quello olandese a quota 53,8 (sopra 50 è crescita, sotto contrazione), ma è il più basso in 4 mesi, e l’indice è al ribasso praticamente in tutte le economie dell’euroarea, tranne che per la Germania. Vanno aggiunto gli effetti – oggi ancora imperscrutabili – delle conseguenze sul Pil italiano della frenata e dell’instabilità cinese, delle ripercussioni sul commercio mondiale e della crisi dei paesi emergenti, tutti fattori che colpiscono componenti del nostro export. E le attese al rialzo dei tassi d’interesse americani da parte della Fed. L’instabilità resta sovrana, e bisogna tenerne conto soprattutto quando è al ribasso.
Terzo: di queste lezioni, il governo deve tenere conto nella sua prossima legge di stabilità e manovra pluriennale. Gli incentivi agli investimenti e alla ricerca delle imprese vanno potenziati. Nel primo semestre 2015 l’aumento della domanda interna viene soddisfatto più da aumento dell’import che dall’accresciuta offerta delle imprese italiane, perché hanno perso competitività in questi anni non pareggiata certo dal deprezzamento dell’euro dell’ultimo anno. Ciò significa che occorre incentivare i contratti aziendali di produttività, sempre che non si voglia pensare a una vera legge di attuazione dell’articolo 39 della Costituzione sui diritti ma anche finalmente sui doveri del sindacato. La decontribuzione ai nuovi contratti di lavoro – che nel 2016 e 2017 varrebbe 5 miliardi di euro l’anno – va concentrata sull’occupazione aggiuntiva rispetto agli organici 2015, non a tutti i nuovi contratti. Il tutto andrebbe inquadrato in una manovra triennale organica, in cui le diminuzioni di pressione fiscale sui diversi cespiti – valutati per rispettivo maggior apporto all’aumento dell’output potenziale italiano – trovassero una quadra rispetto ai tagli di spesa necessari a un saldo di bilancio capace di ottenere l’ok europeo, perché appunto coerente a un quadro di riforme volte a credibili aumenti della crescita.
Quarto: con l’Europa, la partita è aperta. Il governo sicuramente presenterà la nota di aggiornamento al DEF – base per la prossima legge di stabilità – prima che siano noti i dati del terzo trimestre 2015. E dunque alzerà le stime di crescita 2015 e 2016, magari per l’anno prossimo prevedendo anche un più 1,6-1,7%, con entrate fiscali e miglior saldo conseguente. Ma c’è un rischio, a comportarsi così sull’onda dell’ottimismo. Nessuno può sapere davvero quanto, nel prossimo futuro, dalle debolezze mondiali potrebbe aggiungersi a quelle italiane. Meglio restare prudenti sulle stime – come, gli va dato atto a questo punto, è stato il governo sul 2015 – e presentare in parlamento e in Europa una manovra triennale con tre caratteristiche. Veri e rilevanti tagli di spesa (su questo: enorme delusione sin qui dall’attuale governo). Poi, se del caso, dichiarati e CREDIBILI aumenti del deficit rispetto a quanto l’anno scorso concessoci nel 2016 e 2017, e cioè l’1,8% del PIL: sinora si capisce solo che Renzi punterebbe addirittura al 2,9% di deficit, e a quel punto è scontato lo scontro con l’Europa. Ma ferrea credibilità nel programma triennale della diminuzione complessiva della pressione fiscale per più crescita. Che è quel che più conta, per accelerare la crescita, e che ha effetti maggiori quanto più non è finanziato in deficit.
A questo proposito, ieri le agenzie hanno rilanciato fonti ufficiose di Bruxelles contrarie all’abbattimento di IMU-TASI annunciata da Renzi. La Commissione ha già più volte dato indirizzi chiari, sulla priorità della detassazione a capitale e lavoro. Ma la manovra non è ancora scritta. L’aumento della tassazione sulla casa ha prodotto aumenti della propensione al risparmio invece che ai consumi, deflazione dei valori immobiliari, crollo dell’edilizia, strage di imprese e occupati del settore. Il governo ha detto di avere un piano complessivo che parte dalla tassazione sulla casa, per investire e comprendere triennalmente IRES, IRAP e IRPEF. Prima di dire no – io per primo che partirei da meno tasse su imprese e lavoro, e convinto come sono che il più degli effetti devastanti sull’economia reale sia stato dovuto all’aumento verticale della tassazione su doppie e terze case, più che sulla prima – aspettiamo di vedere che cosa davvero il governo italiano propone. Gli immobili A1 già paiono esclusi dalla detassazione prima casa annunciata da Renzi. Ma è molto più importante che il governo non faccia recuperare con altre tasse ai Comuni la sbandierata detassazione immobiliare anunciata, che dire no di principio prima di aver letto che cosa il governo davvero propone.
Oscar Giannino - da www.leoniblog.it - 3 settembre 2015
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