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Tra profughi e migranti economici all'Italia resteranno i secondi.


Il saggio messo a confronto con le necessità della vita sa piuttosto dare che ricevere.
Dal gnomologio vaticano epicureo


Su profughi e migranti può essere, speriamolo davvero, che in Europa sia in corso una vera accelerazione storica, da tardiva presa di consapevolezza. Gli antitedeschi per pregiudizio masticano amaro, perché è la Merkel ad aver svoltato. Il punto ora è cercare di ragionare, senza farsi travolgere dall’entusiasmo. Dopo anni, come Italia, trascorsi a misurare la testarda sottovalutazione altrui di un fenomeno che sembrava colpire solo noi. Domani al parlamento europeo il presidente della Commissione, Juncker, terrà il suo discorso sullo Stato dell’Unione. Si dovrebbero finalmente capire i dettagli delle proposte su cui sta lavorando Bruxelles. Si capirà davvero come funionerebbe il piano di ripartizione comune dei profughi passato da 32mila a 160mila richiedenti asilo. E in che cosa consista l’eventuale opting out a pagamento, per chi rifiuta le quote. Già sapendo che Madrid ieri ha detto no ai 15 mila che gli spetterebbero. Che i paesi centro europei del blocco di Visegrad mantengono le loro obiezioni (e muri). E che i bavaresi della Csu obiettano alla Cdu della Merkel sui 31 mila che spetterebbero alla Germania, in aggiunta alle centinaia di migliaia di siriani che la Germania a questo punto si attende, avendo dichiarato la politica della porta aperta a chi è in fuga da quel paese.
Come italiani, è il caso di fare due riflessioni fuori dai denti. Prima che sia troppo tardi, e cioè che il precipitato europeo assuma la conclusione di regole nuove formalizzate, al posto di quelle di Dublino. C’è un primo aspetto, che riguarda i soggetti destinati al meccanismo delle quote. E ce n’è un secondo, che investe le iniziative che – anch’esse sul tamburo – si annunciano da parte di capitali europee nei confronti di paesi da cui originano i flussi.
La Germania sotto la guida della Merkel ha compiuto una scelta che cambia l’atmosfera in Europa. E lo ha fatto con assoluta fedeltà allo spirito tedesco. Cioè tutelando in maniera rigorosa i propri interessi nazionali economici. Le porte spalancate ai profughi dalla Siria identificano la comunità nazionale – tra tutte quelle impegnate nell’esodo biblico in corso – meglio formata come capitale umano e più dotata di proprie risorse, anche finanziarie. La Siria è stata per decenni una tirannia, ma laica e ben scolarizzata. Di conseguenza non è solo un atto di grande generosità, fronteggiare il declino demografico in presenza della bassa disoccupazione tedesca con centinaia di migliaia di nuovi potenziali lavoratori, dotati di una formazione tra le meno lontane dai nostri standard europei. E’ una mossa economicamente intelligente e vantaggiosa. Si tratta di manodopera pronta a consumi crescenti, e di integrazione assai meno ardua di praticamente tutti gli altri profughi e migranti che si orientano verso l’Europa. Marine Le Pen ha usato un linguaggio becero, parlando di Germania che recluta nuovi schiavi. Ma che il governo tedesco abbia tenuto ben presente anche la propria convenienza economica, è un fatto. I 6 miliardi stanziati avranno un ritorno incomparabilmente superiore negli anni a quelli spesi in altri paesi, alle prese con flussi di ben altro tipo.
Che cosa implica per noi, la decisione tedesca di scegliersi i profughi, e di dare per questo una spallata alle ipocrite norme europee precedenti? Inutile girarci intorno. Se l’Italia non agisce, si profila un rischio evidente. Verranno riallocate verso altri paesi europei alcune decine di migliaia di richiedenti asilo, oggi in Italia. Ma resteremo noi a fronteggiare centinaia di migliaia di migranti economici, non provenienti da Siria o Afghanistan, cioè Stati falliti e in preda a devastanti guerre etnico-religiose, ma da paesi che non ricadono nella categoria che origina lo status di profugo, ma in cui miseria e violenza spingono comunque verso i nostri lidi. Migranti che non appartengono alla bassa e media ex borghesia siriana, ma che nella generalità sono poco scolarizzati, privi di ogni risorsa, di più difficile integrazione. Anche per l’Economist, anche adottando i più estesi criteri di concessione dello status di profughi, oltre la metà degli sbarchi in Italia non può essere compresa in tale categoria (Nigeria, Gambia, BanglaDesh etc..).
Di fronte a tale rischio, delle due l’una. O l’Italia si impegna perché al tavolo delle nuove norme europee non ci siano solo regole nuove e condivise sul diritto d’asilo ma anche sulla materia dei migranti economici: lasciando aperta la possibilità a chi ne voglia ospitare di più perché crede che le frontiere aperte siano economicamente un bene – ma a pensarlo a in termini così liberal-liberisti siamo in pochissimi, inutile illudersi – ma anche prevedendo l’ipotesi di quote estese anche ai migranti economici, in relazione per esempio al reddito medio pro capite dei diversi paesi, e non più lasciandoli dunque per indifferenza preferenziale a chi ha più frontiere esterne alla Ue e a Schengen, siano esse marittime o terrestri. Oppure, molto semplicemente, è venuto il momento per l’Italia di darsi un criterio sui migranti economici del tutto diverso da quelli delle quote della Bossi-Fini, e cioè “scegliendo” anche noi capitale umano e qualifiche, come da tempo hanno fatto altre grandi nazioni occidentali come l’Australia. Non sono affatto scelte in controtendenza rispetto alla “svolta umanitaria” tedesco-europea. Si tratta di rendere l’integrazione economicamente sostenibile: in un paese come l’Italia, che da una parte ha perso un quarto della produzione industriale e dei suoi investimenti in 7 anni e ha una bassissima partecipazione al mercato del lavoro, e dall’altra ha un rilevante problema demografico, è comunque fisiologico ragionare così.
La seconda considerazione riguarda i tamburi di guerra che Francia e Gran Bretagna hanno improvvisamente preso a suonare sulla Siria. Anche su questo, parliamo chiaro. Anni di indifferenza e idee confuse americane e occidentali sulla tragedia siriana hanno prodotto un genocidio e l’Isis. Ma guardiamoci da un rischio. Cioè che avvenga un bis dell’improvvisazione franco-britannica che condusse alla fine di Gheddafi. Se potenze europee hanno deciso d’impegnarsi sui cieli e sul terreno siriano, auguri, nel senso che c’è da sperare abbiano chiaro in mente “dopo” che Siria costruire. Ma oltre il 90% dei flussi che si scaricano sull’Italia provengono dalla Libia. Abbiamo bisogno che al più presto la Ue si decida a impegnarsi all’ONU per autorizzare la terza fase del dispositivo aero-navale EurNavForMed, cioè per poter colpire scafisti e trafficanti anche nelle acque e sulle coste libiche, e non solo nelle acque internazionali mediterranee. Dobbiamo ottenerlo perché il nostro primo problema si chiama Libia. Non è alternativo alla Siria. Ma se non leviamo una voce forte la nostra ferita resta aperta, e non è affatto detto che in Siria i franco-britannici-americani facciano meglio del disastro al quale hanno spalancato le porte in Libia.


Oscar Giannino - da www.leoniblog.it - 8 settembre 2015

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www.impresaoggi.com