Sapiente è solo Dio.
Platone, Apologia di Socrate
E’ arduo poter esprimere opinioni su una legge di stabilità senza averne i testi e nemmeno le principali tabelle. Ci si può limitare solo ad alcune considerazioni generali. Che provo a organizzare in tre blocchi.
Il primo è sulle scommesse da cui parte il governo. Il secondo è su alcune delle tante misure annunciate. Il terzo è un giudizio politico.
LE SCOMMESSE. Si tratta di tre assunzioni più apodittiche, e cioè opinabile materia di fede, che ragionevolmente molto probabili.
La prima è che la grande frenata in corso nelle attese di crescita e dell’export mondiale – somma dell’effetto Cina, più crisi dei paesi ex emergenti, più difficoltà tedesche in Ue – abbia effetti in realtà molto contenuti sull’Italia, anche se in realtà dovrebbe trasmettersi proprio attraverso il canale dell’export che sin qui è stato quello più trainante del tossicchiante PIl italiano.
La seconda è che, se per caso non fosse così, a maggior ragione occorre una manovra fortissimamente pro-ciclica, dove il ciclo da assecondare diventa quello domestico, della ripresa di fiducia di famiglie e imprese, e dei primi segni di ripresa dei consumi in corso dall’estate.
La terza è che l’inflazione italiana nel 2016 sia almeno dell’1%, mentre tutti i segnali che provengono dall’euroarea attestano – vedi i dati di settembre – un ritorno nell’area negativa, e comunque un trend così lontano dagli obiettivi del QE BCE da aver obbligato Draghi reiteratamente a dichiarare che Francoforte è pronto ad allungarlo e ispessirlo.
Dalla prima e seconda premessa discende la scelta di una manovra per oltre il 60% coperta in deficit, percentuale che potrebbe ulteriormente salire se dal 2,2% di deficit 2016 verremo autorizzati dalla Ue a raggiungere il 2,4% grazie alla cosiddetta “clausola 99” relativa all’emergenza profughi ( 3 miliardi che però, con un classico escamotage italiano, verrebbero utilizzare non per i profughi ma per anticiopare i tagli IRES). Dalla terza premessa dipende l’intera scommessa di invertire l’andamento crescente del debito pubblico nel 2016 malgrado un aumento del deficit prima contrattato in Europa: senza una netta crescita della componente nominale del PIL nel 2016, il debito infatti non scende ma sale.
Da queste premesse dipendono alcune scelte di fondo.
La prima è una sconfitta bruciante per chi, come noi, è convito da anni che occorra una ridefinizione e generale del perimetro della spesa pubblica e delle sue priorità, che ne consenta un sostanziale alleggerimento per tagli delle tasse strutturali e sostenibili, e faciliti l’efficientamento di una PA ancora disastrosa. Muore infatti definitivamente, almeno in questa legislatura, l’idea della spending review che i governi sempre più stancamente dichiaravano solo a parole. Anche i pochi “tagli” annunciati ieri dal governo per il 2016 in realtà non lo sono affatto: i 5,8 miliardi provenienti da sanità, acquisti e ministeri sono infatti inferiori alla crescita tendenziale a legislazione vigente dei relativi capitoli di spesa prevista per il 2016. Ergo in tutti e tre i casi le minori risorse previste per il 2016 consentiranno a tutti e tre i capitoli di spesa di continuare a crescere, sia pur più lentamente del previsto, e senza incidere in nulla la “spesa storica”. Per favore evitiamo di parlare di “costi standard” per 1,5 miliardi nel 2016 di minori acquisti dovuti al troppo graduale passettino in avanti della quota CONSIP: quella è una blanda misura di efficientamento delle gare, i costi standard c’entrano zero. I tagli “reali” alla spesa vengono evitati perché contrari alla natura “domesticamente prociclica” della manovra. Non sono né necessari né tanto meno auspicabili, spiega oggi il consigliere economico del governo Marco Fortis. Addio interventi radicali sulle partecipate pubbliche locali: tra partita IMU-TASI da coprire e riaccentramento delle competenze a livello nazionale disposta dalla riforma della Costituzione, il governo sospende ogni ipotesi di serie dismissioni. Al netto delle convinzioni del governo, pesa drammaticamente su questo capitolo l’assenza da molti anni di una destra in grado di contrapporre strategie credibili. E tutto ciò proietta un’ombra ninacciosa: le clausole di salvaguardia fiscale vengono evitate così solo per il 2016, ma restano per decine di miliardi nel biennio successivo.
La seconda è nella parte più rilevante delle misure di sgravio fiscale annunciate, quelle alle quali il governo annette il più della forza propulsiva a breve per tornare a una crescita più vicina al 2% che all’1,5%. A partire dalla conferma del taglio integrale di IMU-TASI su prima casa, si dice fieramente questa volta senza far rientrare analogo o maggior gettito dalla finestra a Comuni e Regioni come puntualmente avvenuto in passato. Non è una misura dagli elevati effetti sul PIL potenziale e sull’ouput gap, serve ad accrescere fiducia e propensione al consumo, riconosce lo stesso governo (ergo non cambio idea, era meglio devolvere i 5 mld all’abbattimento dell’IRAP). Continuando con l’energico rafforzamento degli incentivi fiscali agli investimenti lordi delle imprese attraverso il maxi ammortamento al 140% ai beni strumentali d’impresa tranne gli immobili (tra le migliori misure a mio giudizio della legge di stabilità). E con le misure dedicate al lavoro autonomo la cui bontà potremo giudicare solo quando le vedremo scritte: la correzione del pasticcio fatto dal governo l’anno scorso sul regime dei minimi IVA estendendone l’applicazione a soglie di ricavi più alte, il cosiddetto Jobs Act per il lavoro autonomo (tutto da capire). Nonché la decisione di tenere comunque elevata la decontribuzione a tutti i nuovi contratti di lavoro, non più 8mila euro biennali ma comunque oltre 3mila biennali per poi scendere ulteriormente ed estinguerli al 2018. Il governo purtroppo non si fa nemmeno sfiorare dal dubbio che 10 miliardi triennali per aver ottenuto solo 91 mila contratti a tutele crescenti “netti” aggiuntivi in 8 mesi sia un vero falò di risorse. Il mix discende dalla tre scommesse iniziali: se fosse stato adottato un criterio di priorità per maggior apporto al PIL potenziale, come io preferirei, concentrando le risorse equivalenti al mancato intervento su IMU-TASI, al riservare gli incentivi fiscali solo a investimenti e contratti “aggiuntivi” e non più lordi, avrebbe significato poter disporre di 8-9 miliardi di ulteriore meno IRAP nel solo 2016. Cioè una spallata vigorosa nella direzione della sua totale cancellazione. Invece, niente. Ma alle grandi imprese va bene così, non illudetevi.
Il MIX politico. A queste celte di fondo se ne aggiunge poi una miriade che porta il marchio peculiare della politica renziana: misure alcune delle quali piacciono a destra e altre a sinistra, per imbastire una complessa strategia di consenso. Contemporaneamente dunque l’abolizione IMU-TASI e l’innalzamento del tetto al contante, che piacciono a destra. Insieme al canone Rai in bolletta e al potenziamento del fondo per la lotta alla povertà, che piacciono a sinistra. Uno schiaffo al sindacato sui contratti pubblici, solo 300milioni previsti per il rinnovo contrattuale, aspettando i decreti attuativi della riforma Madia. Ma insieme un occhietto strizzato a sinistra cosa il parlamento deciderà sui pre pensionamenti, al di là delle misure su opzione donna e prepensionati a part time annunciati in legge stabilità. E ancora una sterzata a destra, con le misure per le partite IVA.
Conclusione. Con la morte strutturale dei tagli di spesa e misure fiscali concentrate su effetti lordi a breve, ecco tornato tra noi, aggiornato ai tempi e alla funambolica capacità comunicativa di Renzi, un grande classico: il ciclo elettorale della finanza pubblica italiana. Il conto a chi verrà dopo.
Oscar Giannino da www.brunoleoni.it - 19 ottobre 2015
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