Non interessa tanto la vastità dell'incendio, quanto sapere chi colpirà.
Seneca, Lettere morali a Lucilio
Come possiamo misurare se questa volta si sta davvero dando vita ad una coalizione capace di combattere il terrorismo islamico? Dall’impegno a dirci coraggiosamente alcune verità connesse a tale scelta. E a farlo nei modi più diretti, espliciti. Iniziando dalla prima (che non è nemmeno detto sia la più terribile): se è vero che Stati Uniti e Russia - e noi con loro - hanno deciso di rinviare a un «secondo tempo» la deposizione di Assad, dovremo imparare ad obbedire in materia siriana ad una sorta di «legge dell’oblio». Quantomeno di un oblio momentaneo.
La legge di cui stiamo parlando è quella che si autoimposero gli antifascisti italiani che tra il 1943 e l’inizio del 1944 avrebbero voluto liberarsi di Vittorio Emanuele III e del maresciallo Pietro Badoglio, ma dovettero cambiare proposito. Sbarcò in Italia Palmiro Togliatti che, su un saggio impulso di Stalin, suggerì il rinvio della questione istituzionale a un tempo successivo alla fine della guerra. Fu così che le due resistenze, quella vera e propria e quella sabauda, dimenticarono i motivi di ostilità e poterono
combattere gomito a gomito.
I conti li avrebbero fatti, ordinatamente, un anno dopo la conclusione del conflitto.
La situazione di adesso è ovviamente diversa ma c’è qualcosa di simile. Veniamo, perciò, alle conseguenze sgradevoli della decisione di posticipare la questione Assad. La prima comporta l’abbandono al loro destino dei ribelli anti-Assad, quei «fantasmi» (la definizione è del ministro degli Esteri russo) sui quali Barack Obama aveva investito cinquecento milioni di dollari, ricevendone una delusione tale che già un mese fa era stata sospesa la generosa politica di aiuti. Dobbiamo poi iniziare a dimenticare (temporaneamente) come tutto ha avuto inizio: le manifestazioni di Damasco del marzo 2011, allorché gli uomini di Assad chiusero i manifestanti dentro le moschee per poi lasciarli uscire a piccoli gruppi, farli prendere a sassate e legnate da militanti baathisti e provocare in questo modo 180 morti nel giro di una decina di giorni. Dovremmo dimenticare (temporaneamente) che a novembre di quello stesso anno la Lega araba votò al Cairo una dura reprimenda contro la Siria anche in conseguenza del fatto che proprio in quei giorni, secondo un rapporto della Commissione di inchiesta indipendente dell’Onu, le forze di Assad avevano ucciso una quantità impressionante di oppositori tra i quali «almeno 256 bambini».
Nel febbraio successivo, più di ottanta persone furono trucidate a Homs. Persero successivamente la vita, per mano di uomini di Assad, un fotografo francese e l’americana (inglese d’adozione) Marie Colvin del Sunday Times. Da quel momento iniziò una vera e propria mattanza. Dobbiamo poi (temporaneamente) dimenticare la nuova strage di bambini che si consumò il 25 maggio del 2012 a Hula, definita «una tragedia brutale» dall’inviato Onu Robert Mood. E premere sulla Turchia perché affidi (momentaneamente) al dimenticatoio l’abbattimento, un mese dopo, del suo caccia F-4. Dobbiamo non pensare più alla diserzione, in luglio, del generale Manaf Tlass figlio di quel Mustafa Tlass che era stato braccio destro del padre di Assad, Hafez, nonché organizzatore del massacro di Hama del 1982. Ci sembrò che l’abbandono dell’ultimo erede di quella dinastia di sterminatori segnasse l’inizio della fine per l’autocrate siriano. Bene: quella sensazione di sollievo possiamo dimenticarcela definitivamente.
Temporaneo dovrebbe essere invece l’oblio per quel che l’aviazione di Damasco iniziò a fare il 15 dicembre del 2012, bombardando il campo profughi palestinesi di Yarmuk; un missile centrò la moschea Abdel Qader Husseini provocando una strage nell’indifferenza di opinioni pubbliche occidentali in altre circostanze ben più vigili sulle sorti di quello stesso popolo. Dobbiamo (temporaneamente) dimenticare che l’anno successivo Assad cominciò a usare armi chimiche e che gli Stati Uniti, pur avendo annunciato che quella sarebbe stata l’invalicabile «linea rossa» prima di un loro intervento, non ritennero di reagire. Eravamo nell’estate del 2013 e a metà settembre Ban Ki-moon sostenne che Assad aveva commesso «crimini contro l’umanità» annunciando che ci sarebbe stato «un processo per accertare le sue responsabilità» quando tutto fosse finito. Di questo, magari, ricordiamocene al momento opportuno. Evitiamo invece (temporaneamente) di andare con la memoria alla vicenda di quel chirurgo trentaduenne, Abbas Khan, cittadino inglese, che fu fatto prigioniero dalla polizia siriana, tenuto in carcere tredici mesi finché quando, su pressione del Foreign Office, il regime ne annunciò la liberazione, i secondini comunicarono che si era suicidato in cella.
Certo, sarà dura dover abbassare lo sguardo ogni volta che qualcuno ci rinfaccerà le due o trecentomila uccisioni volute da Assad. Ma, se vogliamo che la guerra contro l’Isis sia efficace, è giunto il momento di accantonare (temporaneamente) questi ricordi. E di farlo a testa alta, senza infingimenti, ammettendolo apertamente. Tanto più che, probabilmente, questo non sarà neanche il peggiore dei compromessi che ci verranno chiesti. Del resto sarebbe da sciocchi pensare che si possa partecipare a un’impresa così ambiziosa senza essere costretti a pagare un prezzo. Limitiamoci, per il momento, a evitare gli eccessi indotti dal realismo politico, a non inoltrarci per sentieri che potrebbero condurci alla beatificazione del despota di Damasco. Il poeta ottantacinquenne Ali Ahmad Said, in arte Adonis, in un’intervista al quotidiano di Beirut As-Safir ha testé sostenuto che Assad non è affatto un dittatore sanguinario, che è stato democraticamente eletto, che i profughi sono semplici migranti e che la Siria è minacciata da un complotto internazionale di forze oscure che vogliono distruggerla. Non sappiamo se sia anche in omaggio a queste sue dichiarazioni che tra qualche giorno la città tedesca di Osnabrueck gli assegnerà il premio per la pace intitolato a Erich-Maria Remarque. Ma, con tutto il rispetto per quel poeta, forse sarebbe saggio non dare eccessiva enfasi a quella cerimonia.
Paolo Mieli da www.corriere.it - 19 novembre 2015
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