Il tuo spirito devi mutare, non il cielo sotto cui vivi.
Seneca, Lettere morali a Lucilio
Con questo articolo proseguo la pubblicazione di alcuni stralci del mio libro storico-economico L'estinzione dei dinosauri di stato. Il libro racconta i primi sessant'anni della Repubblica soffermandosi sulla nascita, maturità e declino di quelle grandi istituzioni (partiti, enti economici, sindacati) che hanno caratterizzato questo periodo della nostra storia. La bibliografia sarà riportata nell'ultimo articolo di questa serie di stralci. Il libro può essere acquistato in libreria, in tutte le librerie on-line, oppure on line presso la casa editrice Mind.
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Fini, il 27 gennaio 1995, a Fiuggi, porta l’Msi allo scioglimento per presentarsi con il nuovo look di Alleanza Nazionale; viene raccolto un vecchio progetto di Domenico Fisichella, che nel 1992 aveva lanciato l’idea di un’alleanza nazionale per uscire dal guscio dell’Msi e cercare l’accordo politico con la DC, coniando lo slogan «Collegarsi per vincere». Allora Fini non aveva preso in considerazione la proposta, ma il crollo del muro di Berlino, che ha portato all’annullamento del partito di Gramsci, Togliatti e Berlinguer, inevitabilmente avrebbe condotto all’annullamento del movimento di De Marsanich, Romualdi e Almirante. La fiamma si spegne per far nascere AN, il cui statuto condanna le leggi razziali e prevede un articolo che cita: «L’antifascismo fu il momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici, che il fascismo aveva conculcato». Solo qualche anno prima, nel 1990, al congresso di Rimini, Fini, riconosceva un ruolo ancora importante all’Msi, perché l’anticomunismo del movimento era la conseguenza dell’essere idealmente fascisti, e nel 1992 veniva organizzata una grande manifestazione a Roma, per i festeggiamenti del 70° anniversario della marcia su Roma. Con l’Msi, Fini ha sepolto il saluto romano, le camicie nere, le anticaglie e gli orpelli del Ventennio e della sua appendice di Salò. Alleanza Nazionale deve scontare una scissione, quella del gruppo di Rauti, che fonda il partito della Fiamma. La scissione si rivela utile ad AN, che può accelerare la propria legittimazione a governare, essendosi liberata dell’ala ideologica e nostalgica. Il comportamento politico di Fini, che peraltro riscuote un notevole successo personale presso i media, sarà per anni caratterizzato da comportamenti mirati più a una completa legittimazione di AN che a strategie politiche coerenti o innovative rispetto al coro della politica. Fini sarà, di volta in volta, in funzione dell’opportunità politica: contrario e poi favorevole alla Bicamerale per le riforme istituzionali presieduta da D’Alema; contrario e poi favorevole al sistema maggioritario; contrario e poi favorevole al federalismo; contrario e poi favorevole alla saldatura tra Forza Italia e il Partito Popolare Europeo; favorevole e poi contrario al Popolo della Libertà.
Il 30 gennaio 1995, pochi giorni dopo la frugale cena in casa di Bossi durante la quale era stato deciso il siluramento del Governo Berlusconi, Rocco Buttiglione effettua una capriola politica degna della più nobile tradizione trasformistica. Il segretario del Ppi, che per settimane è andato affermando che avrebbe aspettato al centro la convergenza di FI, considerando ora rischioso difendere una posizione centrista in una dialettica bipolare, annuncia di voler prendere in considerazione l’ipotesi che il Ppi si allei con Forza Italia e che «i popolari potrebbero valutare il ragionevole rischio» di allearsi anche con Fini; la sinistra del partito insorge e annuncia battaglia.
Il 3 febbraio 1995 Romano Prodi annuncia la decisione di mettersi, sotto il simbolo dell’Ulivo, alla testa di uno schieramento di centro-sinistra che si rifaccia alla tradizione dossettiana. Buttiglione è furioso per la decisione di Prodi: «È un’iniziativa inaccettabile», afferma, «il segretario non è stato neanche informato». I preannunciati venti di guerra stanno portando verso la scissione. Il 10 febbraio il consiglio nazionale del Ppi approva di non schierarsi con Prodi; la sinistra si astiene accontentandosi della dichiarazione di Buttiglione di non presentare liste comuni con AN. L’8 marzo Buttiglione, con la benedizione dei suoi cardinali e di Comunione e Liberazione, si accorda per presentare alle elezioni regionali liste comuni con FI e l’apparentamento con AN nei ballottaggi.
Quasi tutti i commentatori politici riconoscono nella mossa di Buttiglione un atto di chiarezza per il dibattito politico. Buttiglione spiega che l’elettorato della DC si è spostato a destra, cosicché il serbatoio vuoto del suo partito, spostato anch’esso a destra, si dovrebbe riempire a spese di FI, movimento destinato a sgonfiarsi. Il ragionamento è elementare, ma non tiene conto di alcuni fatti, anch’essi elementari: primo, l’elettorato di destra ha abbandonato il Ppi e al momento, se dovesse lasciare FI, lo farebbe per spostarsi in An; secondo, dopo il “tradimento” della Lega, Berlusconi sarà molto avaro nel lasciare facilmente seggi agli alleati; terzo, la grandissima maggioranza dell’elettorato Ppi preferisce il centro-sinistra e ciò rende Buttiglione un generale con pochi soldati.
L’11 marzo Rocco Buttiglione presenta al consiglio nazionale del Ppi la sua proposta di alleanza con il Polo, dichiarando che in caso di sconfitta darebbe le dimissioni; al termine della votazione esce sconfitto per tre voti. Al posto delle dimissioni del segretario si assiste alla reazione dei suoi che, con Roberto Formigoni in testa, contestano la votazione. Buttiglione, dopo tre giorni di silenzio, licenzia Luca Borgomeo, Franco Marini e Giuseppe Gargani, rispettivamente direttore del Popolo, responsabile organizzativo del partito e responsabile dei problemi della giustizia.
La sinistra parla di golpe e non riconosce più Buttiglione come segretario. Quando i cattolici non vanno d’accordo, lo scontro è però spesso sopraffattorio; i probiviri del Ppi dichiarano nulla la seduta dell’11 marzo, la sinistra convoca ancora il consiglio e nomina segretario Gerardo Bianco, la destra non riconosce la nomina. Moderni papa e antipapa, il partito ha ora due segretari.
Il 23 marzo il giudice civile di Roma stabilisce che Buttiglione è legittimamente segretario del Ppi, ma che la votazione del consiglio nazionale, che ne respinge la linea politica, è anch’essa legittimamente valida; l’ordinanza del giudice, di fatto, conferma l’esistenza di due partiti. Inizia, pertanto, la corsa all’occupazione fisica delle sedi periferiche da parte dei sostenitori di Buttiglione e di Bianco. Buttiglione costituisce una nuova formazione, quella dei Cristiani democratici uniti (Cdu), che si schiera nel polo a fianco del Ccd di Casini e Mastella. Al partito di Bianco resta la denominazione di Ppi, al Cdu il vecchio simbolo della DC.
A sorpresa, sovvertendo i risultati degli exit poll, alle elezioni regionali del 23 aprile 1995 il Polo subisce una mezza sconfitta e il centro-sinistra ottiene una mezza vittoria, guadagnando nove Regioni su quindici. I candidati di FI denunciano brogli elettorali, anche in ragione dell’alta percentuale di schede nulle (7-8%), e Berlusconi afferma: «Io sono convinto che il vero risultato sia quello degli exit poll [...] Il 90% delle schede nulle recava un’intenzione di voto per il Polo [...] Vi sembrano elezioni veramente democratiche queste?».
Gli alleati non sono del tutto d’accordo con il Cavaliere. Casini, sulla Repubblica, afferma che nel Polo «c’è un deficit di moderazione, di cultura di Governo, di sensibilità istituzionale, di rispetto delle regole». È chiaro a tutti che Casini sta preparandosi la strada per un incarico istituzionale. È anche vero che Casini è affetto dalla “sindrome del Delfino”, situazione psicologica nella quale la gratitudine diventa risentimento e l’amicizia si trasforma in avversione nei confronti di colui cui si deve la propria posizione.
L’8 maggio 1995 Dini concorda con i sindacati una riforma del sistema pensionistico che è stata definita “storica” dal Financial Times. Da quando si è iniziato ad avere sentore dell’accordo, la lira ha recuperato cento punti sul marco, che era arrivato a essere trattato a ben 1.270 lire. I risultati della battaglia referendaria dell’11 giugno 1995 hanno dato alcune indicazioni: è emersa una notevole stanchezza da referendum, specie se questi devono essere vissuti sempre come ordalie. È stato dato un notevole colpo a uno dei dinosauri della Prima Repubblica, il sindacato confederato con i suoi riti e il suo potere, non è stata accettata la deregulation nel commercio e sono stati bocciati i referendum anti-Fininvest. Nel complesso l’insieme dei risultati rappresenta una vittoria di Berlusconi, che ha messo in campo tutta l’armata Fininvest.
Da questa battaglia referendaria la sinistra esce sconfitta perché i suoi falchi hanno voluto affrontare la Fininvest con i referendum sottovalutando, o valutando in ritardo, che esso avrebbe condotto a una campagna di demonizzazione di Berlusconi con effetti psicologici negativi sull’elettorato moderato. È stata sconfitta per aver aperto una battaglia non avendo le armi per combatterla. È stata sconfitta nel sindacato, colpito da destra per la sua arroganza di ieri, e da sinistra per la sospettata moderazione di oggi.
Gli italiani sono divisi in due schieramenti contrapposti, a favore o contro Berlusconi. Questo antagonismo – più della necessità di approvare la legge finanziaria, la legge antitrust, la par condicio – sembra essere il problema dal quale deriva il futuro del Paese. I due schieramenti si fronteggiano per una sfida senza quartiere, ma da nessuno dei due escono programmi di lavoro e strategie. Il giornalismo, piuttosto che battere il tasto dei programmi e dei progetti di rinnovamento dello Stato, propina ogni giorno i personalismi, i piccoli o grandi livori, la vuota verbosità, l’arroganza, il sarcasmo sulla classe politica. La stampa, che dovrebbe organizzare l’informazione insistendo sui problemi di fondo e sulla formazione di una coscienza civile, si sofferma invece sui comportamenti del potere (e quindi sui pettegolezzi, sull’aneddotica, sulle rivalità spicciole), insegue il titolo a effetto o lo scoop per soddisfare i capricci di un lettore “drogato” o smarrito e, infine, imposta i propri editoriali sulla base dei sondaggi di opinione. La gente capisce sempre meno. I giornalisti si difendono dall’accusa di voyeurismo asserendo che è la notizia che fa il giornalismo e la notizia è quello che la gente vuole; è vero, ma il vero giornalista sa distinguere tra gossip e notizia.
Giova ricordare che ancora nel 2002 durante un’intervista a Bruno Vespa, Berlusconi, (divenuto presidente del Berlusconi II l’11 giugno 2001) osserverà che in Italia si è creata una sorta di Grande Muraglia: da una parte c’è l’Italia che vuole essere governata da lui, dall’altra c’è quella che non lo sopporta, che non si rassegna all’idea che Berlusconi possa restare a Palazzo Chigi fino alla scadenza del mandato, che si oppone a qualunque ipotesi di accordo con il Governo (Vespa, 2002 bis). D’altra parte Alberto Asor Rosa sostiene, sempre nel 2002: «Inizio a pensare che la questione urgente non sia come vincere le elezioni del 2006 ma come rovesciare il Governo Berlusconi prima di quella data; la situazione che si è creata in Italia con il Governo Berlusconi è gravissima. È un’emergenza; la prospettiva di arrivare al 2006 con il Governo Berlusconi in sella è una prospettiva catastrofica». Non è da meno Gianni Vattimo: «Ciò che la sinistra deve fare, adesso, non può essere altro che cercare di accelerare, anche con una democratica ma decisa “gestione” dei conflitti sociali che si stanno intensificando, la caduta di questo Governo». Va dato atto che l’obbligo morale di odiare Berlusconi che si scatena nel 2002 lambirà soltanto D’Alema, Fassino e Rutelli che, pur dicendo del Governo Berlusconi tutto il male possibile, cercheranno di riportare il dibattito sulla critica dei programmi, evitando i toni, o meglio i ringhi, dei girotondini, dei grillini, dell’Italia dei Valori, dei Pardi, dei Flores D’Arcais e dei Moretti, di tutti coloro che hanno fatto di blog e social network il paradiso della verità, senza accorgersi che essi sono invece la patria del settarismo, delle leggende metropolitane, del pettegolezzo.
Il 29 giugno 2002 Sergio Romano scrive sul Corriere della Sera: «[…] la Cgil è una delle gravi patologie italiane […] in tutta Europa il sindacato va depoliticizzandosi per adattarsi alla nuova economia e per poter trattare con chiunque vada al potere. Solo in Italia Cofferati ha imboccato il sentiero opposto. Ha deciso di fare una battaglia (quella sulle modeste modifiche all’articolo 18) che riuscirebbe incomprensibile persino ai suoi compagni svedesi. Definisce “scellerati” i patti sottoscritti dalle altre organizzazioni sindacali. Dichiara che occorre “fermare il Governo”, come se il Paese non avesse votato un anno prima […] Porta il suo saluto ai magistrati scioperanti [per la legge Cirami, N.d.A.] e dichiara che lui e loro stanno facendo la stessa battaglia “civile”».
La battaglia sarebbe stata solo a parole, se il 19 marzo 2002 le Brigate Rosse non avessero ammazzato Marco Biagi, un riformista cattolico e socialista, che aveva la colpa di aver dato forma a quelle modeste modifiche dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che Cofferati aveva chiamato “patto scellerato”, parole che avevano isolato il professore a livello accademico e sindacale. Pochi sanno che il Cgilsauro sta anch’esso per morire.
Ritornando al 1995, il 26 ottobre la Camera rinnova la fiducia al Governo Dini, dopo che Bertinotti è stato costretto dall’onda della contestazione popolare a recedere dall’idea di votare la sfiducia al fianco di Fini e Berlusconi. In dicembre inizia l’iter per l’approvazione della Finanziaria. L’atteggiamento del Polo, negli ultimi due mesi, è passato alternativamente da ipotesi di accordo, “per senso di responsabilità”, a intransigente opposizione e viceversa. La legge finanziaria passa grazie alle assenze in aula di alcuni parlamentari di Forza Italia. Completato il proprio programma e dopo l’approvazione della legge finanziaria, Dini, come previsto, il 30 dicembre presenta le dimissioni. Il rinvio alle Camere dimostra che il Governo tecnico non ha più una maggioranza, e pertanto, l’11 gennaio 1996, Dini conferma le dimissioni e Scalfaro le accetta. Scalfaro suggerisce la strada di un Governo a larga base parlamentare che affronti la questione delle riforme istituzionali. D’Alema e Berlusconi si mettono d’accordo per tentare un Governo di unità nazionale che possa garantire il rinnovo della Costituzione e pensano a Giuliano Amato, ma da Hammamet incombe l’ostilità di Craxi. Scalfaro, il 1° febbraio, affida l’incarico ad Antonio Maccanico che, come già visto, gode di una meritata reputazione di mediatore. Berlusconi avvia un giro di consultazioni per verificare la possibilità di un Governo di ampie intese. Si apre un dialogo tra destra e sinistra, che interrompe un anno perso, politicamente, in una vacua contrapposizione “elezioni sì/elezioni no”. Il tentativo di accordo tra Berlusconi e D’Alema per un Governo blindato, che si impegni sul fronte delle riforme istituzionali, viene giudicato un “inciucio”, incontra diffidenze e ostilità, tanto che Maccanico deve arrendersi. Dini, rimasto in carica per l’ordinaria amministrazione, poco prima delle elezioni costituisce un nuovo partito, Rinnovamento Italiano, entrando nell’alleanza dell’Ulivo. A Gianni Letta, che gli partecipa la sua esternazione, Dini risponde: «Mi avete lasciato solo» (Vespa, 1999).
17 dicembre 2015
Eugenio Caruso da L'estinzione dei dinosauri di stato.
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