Chi non vuole morire si rifiuta di vivere.
Seneca. Lettere morali a Lucilio
La riforma della Rai è legge. L’azienda è nata nel 1954, è sempre stata la concessionaria in esclusiva del servizio pubblico radiotelevisivo italiano. In seguito al referendum popolare del 1995 è stata abrogata la legge che riservava esclusivamente alla mano pubblica il possesso delle azioni Rai, ma non si è mai proceduto alla privatizzazione. Resta al 99,5% del MEF, e il resto è della SIAE. Ha 23 pletoriche sedi regionali, 4 centro di produzione, oltre 11mila dipendenti.
Per valutarne la riforma, partiamo da quanto si affermava sulla RAI alla Leopolda del 2011. Il sedicesimo dei 100 punti programmatici lanciati allora dalla kermesse renziana affermava: «Oggi la Rai ha 15 canali, dei quali solo 8 hanno una valenza “pubblica”. Questi vanno finanziati esclusivamente attraverso il canone. Gli altri, inclusi Rai1 e Rai2, devono essere da subito finanziati esclusivamente con la pubblicità, con affollamenti pari a quelli delle reti private, e successivamente privatizzati>>. Il punto successivo delineava la nuova governance del dimagrito servizio pubblico: «Dev’essere riformulata sul modello Bbc (Comitato strategico nominato dal presidente della Repubblica che nomina i membri del Comitato esecutivo, composto da manager, e l’amministratore delegato). L’obiettivo è tenere i partiti politici fuori dalla gestione della televisione pubblica».
Di quelle ottime intenzioni, non è rimasto NIENTE. Il punto forte della riforma è un amministratore delegato che, a differenza del vecchio direttore generale ingessato da presidente e cda di nomina politica, ha molti più poteri. E’ però espressione diretta del governo, visto che è nominato su proposta del Tesoro. Può nominare i dirigenti, ma per le nomine editoriali deve avere il parere del cda. Assume, nomina, promuove e stabilisce la collocazione anche dei giornalisti, su proposta dei direttori di testata. Il consiglio di amministrazione resta politico: su 7 membri 4 sono eletti da Camera e Senato, 2 nominati dal governo, uno scelto dai dipendenti. Anche nel cda, il potere del governo risulta molto rafforzato. Ci sarà un presidente di garanzia, eletto dal cda tra i suoi membri ma solo se confermato a maggioranza dei due terzi dalla commissione parlamentare di vigilanza. Un altro incarico iperpolitico. Altro che tenere i partiti fuori dalla gestione della Rai: a dare l’indirizzo sarà di volta in volta il governo che avrà vinto le elezioni. Si torna indietro persino rispetto alla riforma del 1975.
Viene protratto da 3 a 5 anni il contratto di servizio pubblico, che dovrebbe scandire le finalità attuative della concessione: in Rai vale così poco che l’ultimo è scaduto dal 2012 e non è stato rinnovato. Tanto si sa già che la concessione a fine 2016 sempre alla Rai verrà rinnovata, mica per gara pubblica. L’unica novità vera potrebbe essere la consultazione pubblica che viene indicata in legge prima del rinnovo della concessione, dunque entro fine 2016. Ma il rischio è che sia di pura facciata, come finora quelle preventive alle riforme introdotte dall’attuale governo. Nella legge di riforma andava ridefinito il perimetro, le risorse e le finalità del servizio pubblico. Ma nella riforma non si è fatto.
La Rai potrà contare su molte più risorse, questo sì. E' un calcio della politica ai concorrenti privati della RAI. Il budget 2016 approvato la settimana scorsa prevede una chiusura a sostanziale pareggio (rosso di 3 milioni dopo le imposte), grazie al massiccio aumento di ricavi da canone in bolletta elettrica (Rai stima prudenzialmente fino a 180mln, c’è chi pensa fino a 420); pubblicità in crescita di 40 milioni a quota 700 milioni; ricavi totali attorno ai 2,7 miliardi, di cui poco meno di due terzi dal canone. Nel 2016 si prevede appunto un’importante recupero sul canone grazie alla sua inclusione in bolletta elettrica: il tasso di evasione è previsto dalla RAI scendere fino all’8%, contro una media attuale stimata almeno al 27% delle famiglie e con punte oltre il 40% in alcune regioni. Ma l’evasione contenuta fino all’8% è prudenziale, visto che il mancato pagamento delle bollette elettriche non supera il 4-5%. Il pagamento del canone in bolletta darà vita a un’inevitabile contenzioso, visto che le banche dati non si parlano. Ed è a carico dei gestori elettrici.
A ritroso, la Rai ha registrato perdite di 62 milioni nel 2009, 98 nel 1010, 4 milioni di utile nel 2011, 244 milioni di perdite nel 2012, 5 milioni di utile nel 2013, e 57 ancora di utile nel 2014, grazie all’incasso di 280 milioni dal collocamento in Borsa del 35% delle torri di trasmissione Raiway. La gestione Gubitosi ha fatto i salti mortali per contenere le perdite, almeno in questo è riuscita. Nel periodo considerato, la diminuzione del patrimonio netto (capitale e riserve) è stato però di oltre la metà di quello a fine 2008. Adottando parametri economici di mercato, la Rai com’è oggi tende ad avere un valore economico netto negativo. Ha più dipendenti di Mediaset, Sky e La 7 messe assieme, cui si aggiungono alcune decine di migliaia di collaboratori. Il costo del lavoro incide per il 35%, contro il 13,4% di Mediaset e il 7,3% di Sky. I giornalisti sono oltre 1700: Bbc News, il più grande network mondiale di informazione, ne ha poco meno di 2000.
Visto che non si privatizzerà, sarebbe stato utile almeno ridefinire il servizio pubblico. Non esiste in Europa un modello unico. C’è un modello “liberale”, come in Gran Bretagna, dove il servizio pubblico è molto indipendente dalla politica del governo. C’è un modello “pluralista polarizzato”, con livelli considerevoli di lottizzazione e clientelismo politici, con l’Italia al peggio, insieme alla Spagna e alla Grecia del pre-default. C’è poi un modello di “stakeholder sociali”, a cavallo tra politica, fondazioni, consumatori, enti locali: tipico dei paesi scandinavi, e di Olanda, Austria, Svizzera, Belgio e Germania. Il modello “mediterraneo” è quello più inefficiente, per conti economici e ascolti. Se la BBC ha ancora il 50% dello share radio-televisivo, l’Italia vede la Rai combattere per quote molto più basse. Ci sono paesi che hanno abolito il canone come Spagna, Olanda e Polonia, sostituendolo spesso con fiscalità generale. Altri che concentrano il canone solo sulle reti di servizio pubblico come la BBC, ma a quel punto zero spot, riservati alla reti non legate al contratto di servizio pubblico come BBC World.
Verso quale di questi modelli andare anche in Italia, nella discussione della riforma non si è parlato. La Rai leverà gli spot dalla reti per l’infanzia, ma per il resto si parla solo di multimedialità digitale. Vedremo il futuro che cosa ci riserva. Al momento, la riforma è un’enorme occasione mancata. Che invece aveva ottime premesse. E che rivela la distanza tra quanto renzi promette, e quanto fa in concreto.
24 dicembre 2015
Oscar Giannino da www.leoniblog.it
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