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LO SCONTRO RENZI JUNCKER


Chi non vive per qualcuno non vive nemmeno per sé
Seneca. Lettere morali a Lucilio

Ci si può sbizzarrire a iosa, sui retroscena dello scontro al calor bianco che da ieri è messo a verbale tra l’Italia e la Commissione europea. Davvero senza precedenti. Il segnale dalla stampa, è che sia pur con toni diversi praticamente tutti i grandi giornali hanno dato ragione al premier. Del resto, questa è l’aria che tira sempre più in Italia (e non solo da noi): è un facile sport, dare la colpa ad altri dei propri guai. Lo stesso Juncker ha detto di esitare a comprendere le ragioni profonde degli attacchi di Renzi, “forse perché da tempo ho lasciato il teatro della politica nazionale”. Renzi ha risposto duramente. Ma prima di lui aveva replicato il ministro Padoan, molto più morbido. “Non avevamo alcuna intenzione di offendere”, erano state le sue parole. Un modo gentile che non esclude affatto che parole e toni usati da parte dell’Italia siano stati eccessivi.
Se andiamo ai fatti, prima di interpretarli, ci sono almeno 4 dossier rilevanti sui quali, da dicembre in poi, l’Italia ha oggettivamente “cambiato marcia” nei confronti dell’Europa: i conti pubblici, l’immigrazione, le banche, gli aiuti di Stato. I toni non li ha cambiati solo Renzi, a essere precisi. Anche la Banca d’Italia, fatto ancor più senza precedenti nella storia italiana, ha iniziato a usare toni durissimi contro Bruxelles. Sui quattro temi, a mio giudizio l’Italia ha ragione solo su uno di essi: ma in quel caso la polemica dovrebbe essere contro il Consiglio Europeo, non contro la Commissione.
CONTI PUBBLICI. E’ un dato di fatto che le interpretazioni più flessibili del fiscal compact, su come attenuare la riduzione del deficit e del debito pubblico, calcolando non solo gli effetti del ciclo ma anche clausole meno restrittive che “abbuonano” quote di deficit aggiuntivo valutando le riforme varate e maggiori cofinanziamenti agli investimenti europei da parte dei paesi non in equilibrio, siano state emanate dalla Commissione europea. Non certo per un preminente ruolo italiano. Perché è la Commissione, nell’architettura dei poteri comunitari, a essere la guardiana dei Trattati, della lettera e dello spirito che li informa, della necessità che le regole siano scritte non facendole dettare dalla politica nel Consiglio Europeo, ma in maniera “terza”. E’ proprio questo, a irritare i governi, che considerano la Commisisone composta da “funzionari”: il che è come disconoscere i Trattati.
E’ altrettanto vero però che alla nomina di Juncker si giunse sulla base di un accordo politico pro-flessibilità. come rivendicato da Renzi. Ma è anche altrettanto vero che è un’oggettiva forzatura, la pretesa del governo italiano di aver “già varato” tutte le riforme necessarie e concordate. Il dato di fatto è che la crescita stimata al 2016 dell’Italia – in un ranking comparato aggiornato da Bloomberg all’inizio di questa settimana – resta all’85° posto su 95 paesi. La ripresa dell’occupazione resta lenta, ed è addirittura scesa nella coorte giovanile tra i 15 e i 24 anni. Si risale al 2,2 e anzi al 2,4% di deficit dall’1,6% concordato, abbandonando del tutto la spending review annunciata a inizio-governo, e varando invece – parole di Renzi nella conferenza stampa di fine anno – una “spending lorda” con cui palazzo Chigi rivendica di poter spostare da una voce all’altra la spesa più necessaria, senza ridurla ma a saldi finali peggiorati. In più, il governo ha fatto scrivere per tre mesi alla stampa italiana che lo sforamento era già concordato con Bruxelles. Mentre non era e non è così, visto che la Commissione si è riservata il giudizio finale sulla finanziaria 2016 alla prossima primavera.
IMMIGRAZIONE. L’oggetto della polemica italiana – fattualmente, la più giustificata, compresa l’indisponibilità ai 300 milioni come quota parte dei 3 miliardi da destinare su questo tema alla Turchia di Erdogan – dovrebbe essere il Consiglio Europeo, non la Commissione. E’ il concerto politico tra governi europei a esser saltato in aria, da agosto a oggi, dopo l’apertura non contrattata della Merkel ai profughi, e a seguito di un’ininterrotta serie di frizioni a catena dei paesi nord e centro europei, che di fatto rischia di far saltare il principio di libero transito delle frontiere interne dell’Unione, senza per altro aver rafforzato quelle esterne. Eventi che hanno messo in scacco la stessa cancelliera tedesca a casa sua, per altro. E che fanno da sfondo all’assoluta assenza di una politica estera e di difesa davvero comuni, dalla lotta all’ISIS alla Libia alla Siria passando per le sanzioni alla Russia.
BANCHE. Su questo, i fatti restano per nulla chiari. La Banca d’Italia, all’esplosione delle polemiche in Italia dopo il decreto legge di risoluzione delle 4 banche dell’Italia centrale, ha sferrato in un’audizione parlamentare un attacco durissimo alla Commissione. Ci avrebbe imposto lei di colpire gli obbligazionisti subordinati, lei avrebbe detto no all’intervento del fondo a tutela dei depositanti, dopo esser rimasta sorda a due richieste che fino a quel momento tutti abbiamo ignorato esser state avanzate da via Nazionale. E cioè o il rinvio dell’applicazione della direttiva europea sul bail in fino al 2018 invece che da gennaio 2016, o per lo meno che si applicasse solo ai titoli di emissione successiva e non a quelli in essere. E’ stato fatto capire che le autorità italiane avevano carte ufficiali di Bruxelles contenenti questi diktat. Ma queste carte non sono mai state prodotte, e la Commissione ha invece duramente replicato che tutte le decisioni sono state italiane, a cominciare da quella di intervenire non a caso prima che il bail in entrasse in vigore. Aggiungiamoci che, di fatto, tutti in Italia siamo tenuti all’oscuro dei particolari concreti sui quali si articolerebbe da un anno e mezzo il confronto tra Roma e Bruxelles sulla presunta e ormai ipotetica bad bank con garanzie pubbliche, volta a sgravare il sistema bancario nazionale di almeno una parte dei ben 360 miliardi di euro tra sofferenze e incagli che pesano come un macigno sulla solidità e propensione al credito delle nostre banche.
AIUTI DI STATO. A cominciare dall’ILVA, abbiamo tutti scritto per mesi che l’Italia, regole alla mano, stava andando a sbattere contro una motivata contestazione. Dispiace dirlo, ma le polemiche alimentate dall’Italia per interventi di Stato altrove a sostegno di banche, come recentemente avvenuto in Germania nel caso HSH Nordbank o in Portogallo per Banif e Banco Espirito Santo, sono tecnicamente infondati perché relativi a dossier aperti anni fa, quando le regole europee erano diverse rispetto alla direttiva oggi in vigore e nata – col pieno consenso italiano- proprio al fine di evitare nuove esposizioni pubbliche a favore delle banche.
Questi sono i fatti. Restano poi le libere interpretazioni. La tentazione di palazzo Chigi di cavalcare l’antieuropeismo che gonfia i sondaggi grillini e leghisti. Le difficoltà elettorali in vista per le amministrative. O, peggio, la valutazione in fieri di non potere e voler rispettare gli impegni della prossima legge finanziaria. Visto che a ottobre si dovrebbe votare il referendum confermativo sul nuovo testo della Costituzione. Proprio mentre si dovrebbero trovare 22-23 miliardi solo per far saltare le nuove clausole di stabilità e per adempiere agli impegni già presi, quando si sbandiera ogni giorno che il 2017 sarà anche l’anno di tagli sostanziali a IRAP e IRES per le imprese. Si capirà meglio il 29 gennaio, quando Renzi incontra la Merkel a Berlino.

Oscar Giannino da www.leoniblog.it

18 gennaio 2016

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www.impresaoggi.com