Il tuo spirito devi mutare, non il cielo sotto cui vivi.
Seneca, Lettere morali a Lucilio
Con questo articolo proseguo la pubblicazione di alcuni stralci del mio libro storico-economico L'estinzione dei dinosauri di stato. Il libro racconta i primi sessant'anni della Repubblica soffermandosi sulla nascita, maturità e declino di quelle grandi istituzioni (partiti, enti economici, sindacati) che hanno caratterizzato questo periodo della nostra storia. La bibliografia sarà riportata nell'ultimo articolo di questa serie di stralci. Il libro può essere acquistato in libreria, in tutte le librerie on-line, oppure on line presso la casa editrice Mind.
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Il periodo successivo alle dimissioni di Dini viene vissuto tra atteggiamenti isterici e tentativi di riforma: chi vuole l’impeachment del Presidente della Repubblica (Pannella inizia l’ennesima raccolta di firme), chi parla di azioni incostituzionali, chi propende per il dialogo. Il mondo politico forse si rende conto che esiste nel Paese una condizione irripetibile, e cioè un equilibrio tra destra e sinistra, condizione appunto che potrebbe consentire di realizzare una riforma grazie a un accordo tra i due schieramenti, senza il rischio che a ogni cambio di Governo si debba assistere alla riforma dello schieramento avverso. Il mese di gennaio 1996 trascorre, quindi, rincorrendo un accordo su presidenzialismo e riforma elettorale. Questo attivismo porta, come già visto, alla designazione di Antonio Maccanico, il quale dovrebbe tentare di traghettare il Governo attraverso il mare procelloso delle riforme costituzionali, partendo da un’ipotesi di accordo sulla formula Sartori del semipresidenzialismo alla francese. La richiesta della Lega e di Mario Segni di affrontare le riforme nell’ambito di un’Assemblea costituente non viene accolta, Fini vuole andare alle elezioni e, nonostante gli sforzi per un accordo, il 14 febbraio 1996, Maccanico rinuncia all’incarico.
Il Corriere apre la campagna elettorale con un fuoco di fila contro la Lega e possibili accordi elettorali con il movimento di Bossi. Saverio Vertone, Giovanni Sartori, Ernesto Galli Della Loggia, Angelo Panebianco, Lucio Colletti si dànno il cambio in questo gioco al linciaggio politico, con i soliti temi dell’inaffidabilità e della zotichezza. Dopo qualche giorno sia Vertone sia Colletti si candidano alle elezioni con FI, mentre la Lega annuncia di presentarsi alle urne senza alcun patto di desistenza, dimostrando con ciò di non aver nessuna ambizione di posti, ma di puntare piuttosto sulla realizzazione dei propri programmi. Rifondazione Comunista e Ulivo annunciano invece un accordo di desistenza; Bertinotti e Cossutta giustificano il patto elettorale con la necessità di sconfiggere la destra. Dini annuncia di voler partecipare alla campagna elettorale, in appoggio al centro-sinistra con Rinnovamento Italiano. Il centro-sinistra si presenta come un contenitore dove c’è tutto e il contrario di tutto – da Cossutta a Dini – e porta, già alla nascita, gli agenti patogeni della sua morte. A capo della coalizione progressista, sotto il simbolo dell’Ulivo, viene posto Romano Prodi. Il professore di Bologna era quanto di meglio la sinistra potesse mettere in campo per fare breccia al centro. Un cattolico, un fautore del mercato, una persona gioviale, ma con una volontà di ferro e, all’occorrenza, una buona dose di cattiveria.
Il 9 marzo 1996, al Palapartenope di Napoli, il Polo tiene una convention polarizzata dall’intervento di Berlusconi, che offre una miscela di sgangherata demagogia, di improvvisazione, di ingiurie personali e promesse impossibili. Il leader di Forza Italia trascina la platea entusiasta, cadenzando domande retoriche, per ricevere dalla folla dei supporter l’immancabile: “Nooo!”. «Quello sfoderato a Napoli è un populismo da suburra, ha un che di granguignolesco», ha dovuto ammettere lo stesso Giuliano Ferrara. La convention conferma che il populismo di destra ha trovato un protagonista, Berlusconi, che fa appello agli istinti della gente e che promette più posti di lavoro, meno tasse, meno criminalità, la difesa degli interessi di commercianti e lavoratori autonomi.
La campagna elettorale, vista in televisione attraverso le varie rubriche del confronto diretto, indica una mediocrità dei personaggi politici raramente riscontrata. La regola della campagna politica è la rissa, che raggiunge toni estremi con Berlusconi, il quale afferma: «Se il 21 aprile vince l’Ulivo, siamo sicuri che avremo ancora la possibilità di elezioni veramente libere?»; o con gli isterismi dell’ex ministro Filippo Mancuso, che fa rimpiangere gli insulti nevrotici di Vittorio Sgarbi; o con Prodi, quando sostiene che «le reti Fininvest sono anticristiane». La novità, rispetto alle elezioni del 1994 è che entrambi gli schieramenti si presentano con un candidato premier, Prodi per il centro-sinistra, Berlusconi per il Polo.
Dalle urne del 21 aprile 1996 esce la vittoria dell’Ulivo di Prodi, che al Senato, grazie ai senatori a vita, ha la maggioranza assoluta. Per la quota proporzionale i maggiori partiti risultano essere il Pds con il 21,1%, FI 20,6%, AN 15,7%, Lega 10,1%, Prc 8,6%, Popolari 6,8%, Ccd-Cdu 5,8%, Dini 4,3%. Oltre a quello dell’Ulivo vanno registrati altri successi. Il Pds diventa il primo partito italiano; la Lega si afferma come il primo partito del Nord e, con i suoi 59 deputati e 27 senatori, toglie al Polo la vittoria, nonostante il vantaggio nella percentuale dei voti; Rifondazione, grazie al patto di desistenza con l’Ulivo, è un elemento fondamentale della vittoria della sinistra; la Lista Dini porta alla coalizione quel 4% di moderati che concorrono al successo.
Il Polo subisce una sconfitta. Sconfitta innanzitutto di Berlusconi che, con i suoi istrionismi, ha costretto un gran numero di elettori, potenzialmente della destra liberale, a votare Ulivo. Ma anche sconfitta per Fini, che ha preferito le elezioni e lo scontro alla possibilità di avviare una politica di riforme istituzionali.
Tra i commenti sulla sconfitta del Polo interessante è l’analisi che Panebianco sviluppa per il Corriere; l’editorialista sostiene infatti che la discussione, più che sul binomio moderatismo-estremismo, va
condotta sul binomio nordismo-sudismo. Nel 1994 il Polo vinse alleandosi con la Lega e il “vento del Nord” si trascinò dietro anche il Sud; nel 1996 l’appiattimento di Forza Italia su Alleanza Nazionale ha condotto il Polo su posizioni meridionaliste, rendendo poco credibile il messaggio liberista. Vince l’Ulivo e il pensiero non può non correre alla vittoria del “partitone” di Giolitti, che all’inizio del Novecento – inglobando destra e sinistra, liberisti e statalisti, cattolici e massoni, legati solo da interessi d’affari – ha la meglio sul programma riformatore di Sonnino.
La scelta delle autorità istituzionali cade su Mancino al Senato e Luciano Violante alla Camera. Violante, molto contestato dalla destra, nel suo discorso di insediamento, in polemica con la Lega, afferma la legittimità dell’uso della forza per la tutela dell’unità nazionale e, alla ricerca del consenso della destra, lancia un appello per chiarire le ragioni dei giovani che dopo l’8 settembre 1943 si schierarono dalla parte della Repubblica di Salò, appello forse un po’ datato ed estraneo alla realtà e ai problemi del Paese.
Nel maggio 1996 Scalfaro affida l’incarico a Prodi (17 maggio 1996-21 ottobre 1998), che presenta la squadra dei 20 ministri: nove esponenti del Pds, tre del Ppi, tre della lista Dini, un esponente dei Verdi, il democratico Maccanico e tre tecnici (Ciampi, Di Pietro e Giovanni Maria Flick). Walter Veltroni è vicepresidente, Giorgio Napolitano va agli Interni, Dini agli Esteri, Giovanni Maria Flick alla Giustizia, Ciampi è super-ministro dell’Economia (accorpando Tesoro e Bilancio), con poteri commissariali per l’ingresso dell’Italia nell’euro, Vincenzo Visco va alle Finanze, Antonio Di Pietro ai Lavori pubblici (incarico che lascia nel novembre 1996 per il riacutizzarsi di alcuni guai giudiziari), Antonio Maccanico alle Poste, Beniamino Andreatta alla Difesa. Il 22 maggio viene presentata la lista dei 49 sottosegretari e inizia il cammino del Governo Prodi, minoritario ma con l’appoggio esterno di RC, che diventa l’arbitro della stabilità dell’Esecutivo.
Cirino Pomicino affermerà che la vittoria del centro-sinistra nasce dall’attivismo dei circoli economici d’ispirazione azionista e massonica, che vedono con favore un primo ministro democristiano come Prodi: «[…] cresciuto nel ventre vorace del potere economico». Registi di questa operazione sarebbero stati, tra gli altri, Andrea Manzella, Andreatta, Maccanico e Ciampi (Geronimo, 2002).
L’ipotesi di Cirino Pomicino, che sembrerebbe a prima vista fantasiosa, è d’altra parte supportata dalla reazione del mondo economico. La vittoria del centro-sinistra è accolta, infatti, con euforia dai mercati finanziari, con la lira che si porta a quota 1.020 rispetto al marco e la Borsa di Milano che guadagna il 5%. Ma se da una parte Prodi è confortato dal mercato, dall’altra non può trascurare le nubi che avanzano all’orizzonte. In Germania è in atto una recessione che sta propagandosi ai Paesi vicini, in particolare alla Francia. Questo può essere un duro colpo per il made in Italy, non più sorretto dalla lira, che, negli ultimi dodici mesi, è andata rafforzandosi. Il sistema produttivo italiano ha vissuto una congiuntura favorevole nel triennio 1993-1995, favorita dalla crescita nei Paesi europei e dalla debolezza della lira. Nel 1995 il Pil è cresciuto del 3%, il più
alto d’Europa, eppure non si sono avuti vantaggi per l’occupazione.
Nel momento in cui il Paese deve convergere verso i parametri di Maastricht le previsioni economiche volgono al brutto; il documento di programmazione economica e finanziaria prevede, a luglio, una manovra da 32mila miliardi, ma è già abbastanza chiaro che è fatta per avvicinarsi alla fatidica quota del 3% nel rapporto tra deficit e Pil. La battaglia dell’ingresso nell’euro sarà vinta non dalla faciloneria di Prodi, ma dall’impegno e dallo spirito di sacrificio degli italiani, che non si tireranno indietro davanti alla necessità di una politica economica rigorosa. Il Governo Prodi – dopo aver seguito il criterio del quieta non movere, riconfermando ai vertici della Stet il presidente Biagio Agnes e l’amministratore delegato Ernesto Pascale – ha nominato ai vertici dell’Enel come amministratore delegato Franco Tatò, chiamato Kaiser Franz per il piglio prussiano con cui persegue la quadratura dei conti aziendali, e alla presidenza Chicco Testa. Il 22 luglio 1996, per la prima volta dal 1968, l’inflazione è scesa al 3,7 % su base annua.
4 marzo 2016
Eugenio Caruso da L'estinzione dei dinosauri di stato.
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