Diceva Attalo "Una cattiva coscienza beve essa stessa la maggior parte del suo veleno".
Seneca, Lettere a Lucilio
LOS ANGELES. Il momento della verità scocca alle otto e mezzo. Cosa mangerà l’ideologo del digiuno? Valter Longo, quarantasette anni, un metro e ottantacinque per settantacinque chili, tanti capelli lunghi e non uno bianco, lascia la Nissan elettrica al parcheggiatore e fa strada verso il diciottesimo piano del Penthouse di Santa Monica. Il cronista osserva in religioso silenzio prima di ordinare. Dopo un’attenta rassegna del menu il direttore del Longevity Institute della University of Southern California delibera: insalata di polpo, una ciotola di songino con mandorle, acqua gasata. Intorno rumoreggiano le nipotine di Baywatch.
Non c’è niente di penitenziale né dentro né fuori dai piatti. Questa è la forza di una dieta ragionevole, che anche la fallimentare disciplina di un essere umano standard può permettersi. Compresi occasionali strappi alle regole, peraltro facilissime da riassumere: poche proteine, pochissimi zuccheri, pesce sì, ma altra carne al minimo, intermittenti astensioni dal cibo. Un regime che promette di dimezzare i tumori, abolire le malattie cardiovascolari e il diabete e ridurre sensibilmente il rischio di Alzheimer. Per un extended play della vita di 12-15 anni che, aggiunti agli 83 medi italiani, ci porterebbero (praticamente sani) alle soglie dei cento. Nella peggiore delle ipotesi, a dar retta a Time. Che qualche mese fa ha schiaffato un rubicondo neonato in copertina avvertendo che potrebbe viverne 142. Tra i guru intervistati c’era anche Longo, che però ci tiene a non fare il passo più lungo della gamba. Tace di ciò di cui non può parlare, con trial clinici effettuati e altre pezze d’appoggio. Ne ha già molti. Altri sono in corso. Di altri ancora conosce i risultati, ma non può violare l’embargo prima della pubblicazione in riviste scientifiche. Tutto sembra convergere verso la sua intuizione. L’elisir di lunga vita esiste e assomiglia terribilmente a ciò che sapevamo e abbiamo dimenticato. Ovvero: mettere nel piatto quel che avrebbero mangiato i nostri nonni per vivere quanto potranno legittimamente aspettarsi i nostri nipoti (anche grazie anche ai progressi della medicina).
L’indomani lo seguo a un convegno alla Davis School of Gerontology («la più antica del mondo») della Usc, meno popolare della Ucla, ma primatista assoluta nell’arte di raccogliere fondi, come dimostrano le decine di cantieri nello sterminato campus o l'edificio donato dall’ex allievo George Lucas. Apre il promettentissimo Sean Curran che sdrammatizza confutando Woody Allen («Puoi vivere fino a cento anni, se rinunci a tutte le cose per cui vale la pena vivere») e ricordando che gli antiossidanti funzionano anche da adulti. Evvai! Poi è la volta di Longo che cita il suo maestro Roy Walford che si era ritirato un anno nel deserto dell’Arizona con altri otto volontari praticando una forma estrema di restrizione calorica e finendo pelle e ossa («Una cattiva idea. Morì poco dopo, a 77 anni»). Ma rammenta anche Jeanne Calment, una francese spirata a centoventidue anni, fumando fino a cento. Poi si dilunga su meccanismi cellulari che vedremo meglio tra poco. Quindi arriva il decano Caleb Finch, con barba bianca e pizza-tie, quelle cravatte assurde che si perdonano solo ai prof americani, a ricordare come la longevità dipenda al 35 per cento dall’ereditarietà (che può essere una cattiva notizia se in famiglia se ne sono andati presto), ma per il resto dallo stile di vita (buona notizia per tutti quelli con volontà). Per due terzi, almeno, non siamo condannati. Longo è quello che riceve più domande. Dice cavallerescamente dell’ex-capo di Curran a Harvard che potrebbe vincere il Nobel. Lo stesso vale per lui, ma è un genovese riottoso che non si autoincenserebbe neppure sotto tortura. Riesco a estorcergli un po’ di biografia durante un tragitto in auto, prima di iniziare due giorni di intervista. Figlio di un poliziotto e di una casalinga calabresi trasferitesi in Liguria per lavoro, da ragazzo suona la chitarra e a 16 anni convince il padre, in cambio di ottimi voti a scuola, di mandarlo un’estate dai parenti a Chicago per studiare in una celeberrima scuola di jazz. Gli piace così tanto che chiama a casa e avverte: «Non torno» (l’unico mistero riguarda la rassegnata resa dei suoi). Finisce lì le superiori, vincendo delle borse di studio, ma poi gli chiedono di dirigere la banda dell’università, si rifiuta e archivia la carriera alla Pat Metheny. Al college farà biochimica, un prestito studentesco via l’altro. Si arruola nell’esercito part-time per guadagnare («Nel 1991 un giornale locale pubblica la mia foto con il battaglione che doveva partire per l’Iraq» e che all’ultimo sarà lasciato a casa). Quindi il dottorato, poi il postdottorato in neuroscienze e l’insegnamento universitario. Finanziamenti raccolti per oltre venti milioni di dollari. La creazione di un’azienda nutraceutica tra le nove più influenti del mondo nel campo dell’invecchiamento («Io non prendo nulla: va tutto a sostenere le ricerche»). E siamo a oggi.
L’ufficio di Longo, in un laboratorio che impiega una ventina di persone (più altre cinque all’Ifom di Milano) che gestisce in totale autonomia, ha i mattoncini a vista, un grosso Mac da tavolo e una macchinetta per il caffè che si rivelerà non marginale nel proseguo della storia. Cala le carte. In uno studio su 6000 persone pubblicato l’anno scorso su Cell Metabolism Longo ha dimostrato come chi consumasse più proteine (oltre il 20% delle calorie giornaliere) aveva un rischio di mortalità del 75% superiore di chi ne consumava meno del 10% (sugli over 65 l’aumento di rischio scompare). Facendola semplicissima: l’americano medio, a forza di strafogarsi di hamburger, rischia di morire quasi il doppio di chi si dà una regolata. L’avevano intuito in tanti, ma lui l’ha dimostrato. La scoperta era coerente con un’altra pubblicata su Science Translational Medicine nel 2011. Sulle tracce dei centenari, dopo il sud d’Italia, Okinawa e certe remote aree colombiane, era finito in Ecuador e si era accorto della peculiarità di un gruppo che tendeva a non sviluppare diabete né cancro: avevano una deficienza nel ricettore dell’ormone di crescita, ovvero la principale via di segnalazione delle proteine. Detta altrimenti: o ne mangi poche o ne mangi tante senza che riescano a far danno perché il sentiero cellulare è ostruito, il risultato non cambia. Ovvero sei protetto contro il cancro e contro le altre principali malattie dell’invecchiamento. È la prima gamba del Longo-pensiero.
La seconda riguarda il digiuno. Quello prolungato, diciamo 4-5 giorni, che provocherebbe una formidabile rigenerazione del sistema immunitario («Circa un terzo viene distrutto, e viene ricostituito durante il refeeding, quando ricominci a mangiare»). Immaginate di aver pigiato un grande tasto reset, immensamente benefico per l’organismo. Dei sani e dei malati, dal momento che gli esperimenti pubblicati l’anno scorso su Cell Stem Cell mostrano come chi lo faceva durante la chemioterapia era difeso dalla sua tossicità («Le cellule tumorali sono tali perché si dividono in maniera anomala. Se tu le affami, invece di dar loro una benzina super, non capiscono, cercano di mangiare tutto e muoiono. Sui topi l’effetto è chiarissimo, ora testiamo sugli uomini»). In verità almeno su un uomo l’esperimento ha già funzionato. Parliamo del vostro cronista che, tempo fa, l’aveva provato per abbassare un colesterolo in orbita. Quattro giorni a circa 100 calorie, ovvero un tè a colazione e un brodino vegetale a pranzo e cena (in alternativa una centrifuga). Mi sembrava una prova sovrumana e invece, al netto del mal di testa della prima sera (preventivato: «Il cervello, abituato a cibarsi di zuccheri, va per la prima volta in vita sua a cercare altrove il cibo e lo trova nei corpi chetonici che sintetizza dal grasso in eccesso»), tutto era andato sorprendentemente bene. Avevo perso quattro chili, di lì a poco fatto scendere il colesterolo da critico ad alto e soprattutto avevo ristabilito proporzioni assai più sane tra quello buono e quello cattivo. Fine del coming out.
Non mangiando accadono molte cose. La più importante delle quali, oggetto di uno studio in corso, è il ringiovanimento degli organi: «Da alcune prime indicazioni l’organismo torna a non essere resistente all’insulina, principale causa del diabete. Come a 18 anni. E la cosa migliore è che i benefici durano per almeno tre mesi». A quel punto si può ripetere il digiuno, ma per i molto sani uno all’anno può bastare. Lui lo fa. I suoi ricercatori lo fanno. L’ha fatto Jenni Russell, giornalista del Times di Londra, che poi ne ha scritto sul giornale: «Avevo una malattia autoimmune: dormivo 12 ore al giorno, ero esausta. Quando poi mi hanno curato con la chemio per un cancro è andata anche peggio. Sino a quando ho provato il digiuno che ha costretto il mio midollo spinale a produrre nuove cellule staminali. E dopo quattro giorni mi sono sentita meglio di quanto non mi succedesse da anni». L’articolo si chiude con un appello al ministro della salute britannico a finanziare subito grossi studi, considerato anche che il cortisone costa caro e il digiuno quasi niente. Longo intanto ha creato L-nutra, un’azienda che ha testato e prodotto un kit di cibi giusti per i cinque giorni della Fasting Mimicking Diet. Si tratta di uno scatolone con dentro cinque zuppe liofilizzate, con tutti i nutrienti, altrettante barrette di cereali e noci, bustine di tè e tutto quello che serve a sopravvivere con 750-1000 calorie per diem. Il pacco costa 199 dollari, ovvero meno di 40 dollari al giorno. Ma lui punta ad abbassare ulteriormente i prezzi e poi questa è l’opzione per i pigri, per chi non vuole star troppo a calcolare e preferisce la comodità di aggiungere acqua a una sbobba sanissima. Perché tutti gli altri possono fare da sé. «L’importante è che ci sia sempre la supervisione di un medico» insiste Longo, «che sia in grado di interpretare le reazioni dell’organismo al nuovo regime» che lui consiglia solo agli over 25 anni di peso normale, persone già completamente formate, perché i ragazzi hanno bisogno anche delle bistecche.
Facciamo che una-due volte all’anno ci si astiene, ma per il resto del tempo cosa si mette in tavola? Nella forma più sintetica: la dieta mediterranea. Con alcune correzioni. Longo va a memoria: «Una persona di 75 chili dovrebbe assumere 60 grammi di proteine al giorno (0,8 grammi per kg di peso corporeo). Sostituire ingredienti di origine animale (latte, formaggi, carne) con ingredienti di origine vegetale (legumi, verdure). Il pesce un paio di volte a settimana va bene, ma occhio al mercurio in tonno e pesce spada (1-2 volte al mese). Ridurre al minimo gli zuccheri semplici, senza accanirsi su quello che si mette nel tè o nel caffe. Bene pane e pasta, meglio se integrali, ma con misura: invece di 150 di spaghetti e 50 di pomodoro fatene 40 grammi e 300 di ceci, lenticchie, fagioli, piselli. Olio di oliva in quantità. Un pugno di noci, o mandorle, o nocciole al giorno. Un multivitaminico alla settimana, per compensare il resto». Ora non dite «lo sapevo già». Primo, perché sapevate cose simili, però inframezzate dalle tante leggende che fioriscono intorno alle diete. Secondo, perché la forza di questo approccio è che non vi costringe a vivere con una bilancia da cucina in mano. È super-pragmatico. Per misurare i ceci potete fare anche col barattolo, «perché con acqua e sale non perdono granché qualità». Anche le verifiche sono facili. Spiega: «Per capire come state andando basta un metro, tipo quelli da sarta. Misurate la circonferenza intorno all’addome. Per le donne, ottimo stare sotto ai 71 centimetri (sopra i 90 triplica il rischio di malattie cardiache). Per gli uomini l’ideale sarebbe sotto i 93 centimetri, ma il rischio alto inizia dopo i 100». Perché il peso, come sfugge drammaticamente ai forzati della Dukan o della Zona, è solo l’epifenomeno. Se mangi bene stai bene, ergo non ingrassi. Se tendete a metter su chilli meglio ridurre i pasti: due al giorno bastano, come confermano gli studi di Satchin Panda dell’università della California. Longo come si comporta? «A colazione un misto di tè verde e nero con due fettine di pane abbrustolito e marmellata. A pranzo quasi niente, ovvero un bicchierone di latte di mandorla con una tazzina di caffè, preparato con la macchinetta in ufficio. A cena poca pasta con tanta verdura, pesce e le altre cose già spiegate». I dolci se li è praticamente dimenticati, tranne un po’ di cioccolata fondente («ma se mi invitano a un compleanno posso prenderlo per non fare l’asociale. L’importante è rigar dritto la maggior parte del tempo»). Al più un altro caffè e una barretta con noci in giornata. Non ha la faccia di uno che soffre, a differenza di altri pasdaran del nutrizionismo. Ha la faccia sazia di chi sa di stare facendo la cosa giusta. Ma perché, essendo così facile, non lo fanno tutti?
I motivi sono molti. Hanno a che fare con l’industria e con la psicologia. «Quando la notizia dello studio sulla dieta a basse proteine uscì sul portale di Yahoo! venne assaltato da quasi cinquemila commenti. A guardarli bene si capiva che i mandanti erano le pr di imprese molto preoccupate dalle implicazioni sul loro business. Voglio dire: se questa cultura passa significa la totale riscrittura della dieta americana!». Ogni Paese ha le sue sensibilità. Dice: «In Italia se togli i formaggi ti saltano alla giugulare. Eppure guardate le curve Istat sull’andamento dei consumi di formaggi e carne e confrontatele con l’aumento dei tumori. È spaventoso...». Dunque c’è una disinformatija organizzata. Alla quale si aggiunge il più classico dei meccanismi di difesa freudiani: la negazione. «Che male potrà fare una bella Chianina?». Senza considerare il fattore delega a esterni: se hai il colesterolo alto e puoi buttarlo giù comodamente con una pasticchina, chi te lo fa fare di rivoluzionare tutta la dieta? Che è un po’ l’attitudine di chi minimizza i rischi del riscaldamento globale e propone di continuare a bruciare petrolio e spostarsi in formazioni un Suv-una persona, tanto poi ci sono le tecniche di geoengineering per provare a rimediare ex post ai guasti.
Longo è un fiume in piena. Si inabissa nei meccanismi di processamento dei cibi, dallo stomaco all’intestino, i cui villi separano e assorbono gli amminoacidi, il glucosio e i grassi, sino al filtraggio del sistema immunitario e alle decisioni del cervello su come allocare quelle energie, ritornando al ruolo chiave dell’ormone della crescita come interruttore della proliferazione cellulare. Mi spiega una quantità di cose che meriterebbero un libro. Porto a casa e vi riconsegno tre principi semplici da mandare a memoria. Se cercate un modello, tra le diete già codificate, il migliore è la pescetariana, ovvero no carne tranne il pesce, oltre alle cose già dette. Non innamoratevi di cose strane, orientali, improbabili olii di San Lorenzo alimentari: mangiate cose della vostra terra, le stesse che avrebbero mangiato i vostri avi, perché se anche voi non lo sapete il vostro organismo lo sa, ed è stato allenato dall’evoluzione a rispondere bene a cibi che conosce. In ultimo, non vi fissate su elementi singoli, tipo modaiole bacche vermiglie, presentati come miracolosi: la brutta notizia è che i miracoli non esistono. Rileggetevi Paracelso: «È la dose che fa il veleno». Niente da solo vi salverà né vi condannerà. L’organismo è una macchina complessa che richiede un approccio complesso. Ma se vi impegnate in questa manutenzione ci sono ottime probabilità che arriverete lontano. Poi ci sono i frontali con un camionista stordito dal sonno, autostrade che collassano per incuria criminale e mille altri rischi fuori dal nostro controllo. Almeno prendiamoci cura della nostra parte. Ricordate il prof con la cravatta sbagliata: due terzi della longevità dipende dallo stile di vita. È il momento di prendere la sua lezione, e quella del suo brillante collega italiano, terribilmente sul serio.
Riccardo Staglianò da stagliano.blogautore.repubblica.it
Impresa Oggi - 15 marzo 2016
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